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Gino sgranò gli occhi, scioccato dal mio commento ed anche Lorella mi guardava con gli occhioni sgranati, incredula.
L’uomo si schiarì la gola e poi, rassegnato, affrontò un altro aspetto della faccenda: «Beh, comunque, in tutto, Lorella stasera… quanto ha guadagnato?»
Feci un sorriso crudele: «Allora non hai capito! Lei nulla! Ciò che Mamoud ha raccolto è solo per il suo disturbo di aver trovato dei maschi arrapati per farvi sollazzare!»

Passati i primi istanti, accettarono il mercimonio unicamente per quello che davvero era stato, per me: un gioco squisitamente erotico e null’altro.
Tanto che, quando Mamoud si propose di… salutare Lorella, allungandosi tra le dune, nessuno sollevò obiezioni, nonostante i buchetti di lei fossero gonfi ed arrossati e lei, almeno all’inizio, si lamentasse un pochino.
Mamoud era carico dallo spettacolo a cui aveva assistito e quindi in pochi minuti scaricò una copiosa sborrata nel culo di lei, dopo di che, ci salutammo.

Camminando nel deserto per tornare al villaggio, sentii sciaguattare ad ogni passo di lei, tanto che ci fermammo e verificai: lo sperma di Mamoud, non trattenuto dallo sfintere allentato e dolente di Lorella, le fuoriusciva e le colava lungo le cosce.
Sia io che Gino trovammo la cosa tremendamente erotica, nonostante le sue deboli proteste.
Alla fine, un po’ ansanti, tornammo al villaggio, ormai silenzioso e ci ritirammo nelle nostre camere per la notte.
Mentre li lasciavo, riflettei che un ‘buon’ bull avrebbe preteso di dormire insieme a lei, magari facendo dormire Gino in bagno, ma francamente la cosa che più desideravo era una sana dormita, in pace ed in piena privacy, senza sfacchinate scoperecce appena svegli o prima di dormire…

La mattina, mi svegliai appena in tempo per farmi la barba a tutta velocità e fiondarmi al ristorante, prima che scadesse il tempo di apertura per la colazione.
Passai il tempo di mangiare qualcosa e bere il mio the salutando il mondo o ‘alla voce’ (come si dice in Marina), oppure con cortesi cenni di mano e sorrisi.
Vidi Lorella ed il marito e, in verità, non me ne dolsi.
Poi, andai a godermi l’ultimo giorno di sole africano e mi incaponii per rosolarmi al meglio, nell’angolo più sperso della spiaggia del resort: all’ora di pranzo, invece di andare al ristorante, mangiai un panino al bar e tornai subito in spiaggia, a leggere e fare qualche bracciata nella laguna.
Avevo quasi finito il mio libro -il secondo, da quando ero partito- quando una bava d’aria gelida mi distolse dalla lettura: un’occhiata all’orologio mi informò che erano da poco passate le cinque ed il sole, basso sull’orizzonte, mi fece dichiarare, a mezza voce: “Ok: fine vacanza!”
Mi rivestii, raccolsi le mie carabattole, gettai un’ultima occhiata alla spiaggia e mi incamminai; presi l’ultimo caffè e poi andai in camera, per farmi una doccia, vestirmi per il viaggio e chiudere i bagagli.
Ripassai mentalmente la tabella-di-marcia per quella sera: lasciare la valigia fuori dalla camera entro le 19, camera libera entro le 19,30, partenza del pullman per l’aeroporto dalla reception alle 20,30 e trasferimento all’aeroporto con il volo schedulato per le 23,10.
Mi perplimeva il fatto che per arrivare all’aeroporto ci vuole un’ora e il check-in va fatto due ore prima del decollo: i tempi non tornavano… finchè non mi ricordai che il villaggio usava una sua ora-legale: in realtà, il pullman sarebbe partito alle 19,30 egiziane e quindi i tempi erano logici.
Lasciai fuori la mia valigia rigida ed andai a cena giusto all’apertura del ristorante, in modo da poter essere puntuale alla reception.
Mentre cenavo, mi divertiva capire chi, dall’abbronzatura, fosse sul piede di partenza e chi, invece, fosse arrivato al villaggio quello stesso pomeriggio dal gennaio italiano.
Lorella e Gino vennero a sedersi con me e mi chiesero come avessi trascorso l’ultima giornata egiziana: sintetizzai le già scarne informazioni ed alla fine chiesi, cortesemente, come l’avessero trascorso loro.
Gino, con aria mogia, mi disse dopo essere stato in spiaggia al mattino, era restato chiuso in camera tutto il pomeriggio, davanti alla tv.
Guardai Lorella, che invece si aprì in un ampio sorriso: «Beh… a pranzo abbiamo incontrato Patrizia e Margherita, che sembravano molto contente di vedermi…
Mi hanno detto di stare con loro (non chiesto o pregato: quasi ordinato!) e quindi ho lasciato Gino e le ho accompagnate in spiaggia, dove ho dovuto spalmarle l’olio solare ed essere pronta per andarle a prendere da bere al bar.
Verso le quattroemmezzo, hanno deciso di ritirarsi ed ho dovuto raccogliere e portare in camera tutta la loro roba.
Appena posato il tutto sul tavolo, mi hanno ordinato di fare la doccia con loro, per lavarle ed ho, ovviamente!, obbedito.
Ci siamo spogliate e siamo entrate nel vano-doccia ed ho dovuto insaponarle e spugnarle delicatamente, mentre loro si baciavano, si toccavano o mi insultavano.
Finita la doccia, ho dovuto tamponarle con gli asciugatoi, senza strofinarle!, ed asciugarle i capelli, sempre con l’asciugamano.
Poi mi hanno ordinato di stendermi sul fondo del vano doccia, mi son venute sopra, mettendo i piedi di qua e di là, si sono mezze accosciate e poi… si sono alleggerite la vescica, insieme: Patty sul viso -e ne aveva un fiume!- e Marghe invece spruzzandomi dal seno alle cosce.
Come Patty ha finito, si è accosciata sul mio viso e mi ha ordinato di asciugarla e pulirla… cosa che ho fatto, ovviamente.
Come è venuta, si è rialzata ed ha lasciato il posto all’amica…»
Ero stimolato ed incuriosito: «E poi?»
Lei fece il faccino triste: «mi hanno ordinato d preparare le valigie, le loro!
Me le hanno fatte e disfare quattro volte… stava venendo tardi, per fare le nostre, mia e di Gino!
Poi Patty ha riso ed ha detto: «Ma che sciocca! Noi non dobbiamo partire!! Stiamo qui ancora una settimana!!!
Dai, stupida troietta: rimetti tutto a posto, per bene!»
Avrei pianto dalla rabbia! Così, di furia -anche se mi dicevano di farlo con calma, sennò me lo facevano rifare!-, ho rimesso tutta la loro roba nell’armadio, tutta per bene e poi sono corsa in camera, a fare i nostri bagagli»
Risi divertito, immaginando la sequenza degli eventi: la ‘mia’ Lorellina si dimostrava davvero insuperabile!
Verso le otto e un quarto, andammo alla reception e salimmo sul pullman.
Mentre viaggiavamo verso l’aeroporto, l’accompagnatore ci ricordò che la legge egiziana è implacabile con chi cerca di esportare pezzi di corallo, di barriera, conchiglie o sabbia -oggetti che, a detta di lui, non sfuggono ai portali a raggi X per i bagagli!- punendo l’incauto turista con multe dai seicento ai seimila euro.
Un mormorio diffuso accompagnò questa informazione e difatti, quando arrivammo davanti all’aeroporto, molti si precipitarono ad aprire i bagagli ed a estrarre pacchetti e ‘ricordi’ naturali, tanto da riempire rapidamente un grosso contenitore gettacarte.
Ripuliti i bagagli dai rischi di pesanti sanzioni, ci accodammo pazientemente per il controllo dei documenti e dei bagagli ed il metal detector per entrare nell’aeroporto: mentre l’addetto a radiografare i bagagli aveva un’espressione annoiata, il poliziotto al metal detector faceva spesso tornare indietro le persone, che a poco a poco si liberavano anche dei più piccoli oggetti metallici; diverso trattamento per le signore che indossavano stivali, costrette a levarseli per farli radiografare assieme ai bagagli.
Comunque, alla fine riuscii ad entrare (dopo esser dovuto tornare indietro al metal detector per la fibbia della cintura e l’orologio!) e mi accostai al banco del check-in, trovandomi improvvisamente accanto Gino e Lorella; mi proposero di prendere sedili vicini ed accettai.
Quando venne il mio turno, chiesi espressamente un posto nella fila 12 dell’Airbus 320 col quale saremmo tornati, sapendo che le file 12 e 13 sono incomprensibilmente poco amate, a causa della presenza delle uscite d’emergenza.
L’addetto egiziano mi guardò con un sorriso ironico e mi chiese: «Perchè, proprio la fila dodici?»
«Perchè -spiegai pazientemente- la fila 12 è più larga ed io… -feci un passo perchè potesse vedermi meglio- …con la mia taglia, preferirei volare comodo!»
Lui rise, mi fece l’occhiolino e mi assegnò il posto 12A, accanto al finestrino.
Dietro di me, Lorella gli fece presente che avevamo fatto amicizia, per cui ebbero il 12B e 12C.
Completato il check-in, compilai il modulo per lasciare l’Egitto -accalcandomi su un bancone alla ricerca di una penna- e infine, dopo l’annullo del visto d’ingresso, affrontai un metal detector ancora più feroce di quello all’entrata: stavolta lo superai, essendomi levato TUTTI gli oggetti metallici, nonostante avessi il dubbio che la zip dei jeans avrebbero fatto squillare l’allarme.
Poi, ci accampammo nella sala d’attesa, in paziente attesa che le lancette strisciassero sui quadranti fino all’ora del nostro imbarco, chiacchericchiando, curiosando nei negozietti duty free, bevendo un birretta e, fondamentalmente, annoiandoci.
Finalmente giunse la nostra ora ed il gate venne aperto: salimmo sul pullman aeroportuale che ci scaricò davanti alle scalette.
Dopo cinque minuti, eravamo seduti ai nostri posti e, lì a poco, l’Airbus rollò fino a capopista caracollando; poi sembrò concentrarsi, come un atleta ai tacchi di partenza, sentii i motori aumentare i giri, mentre la fusoliera oscillava sulle sospensioni e poi… via!!!
Mi trovai con la nota spinta dello schienale contro la schiena, fin quando il grosso aereo fece la rotazione, staccando il ruotino di prua dalla pista e poi, dopo qualche centinaio di metri, anche i grossi carrelli si staccarono dalla pista e dopo poco avvertii il leggero tonfo dei portelli che si richiudevano, coprendoli.
Dopo una ventina di minuti, mi resi conto che eravamo in volo livellato, appena prima che il comandante ci desse il benvenuto a bordo, ci informasse che avremo volato a trentasettemila piedi (divisi per tre e capii che si trattava di quasi dodicimila metri) alla velocità di ottocento chilometri all’ora, con una temperatura esterna di sessanta gradi sotto zero e che saremmo atterrati a Malpensa intorno alle tre del mattino, ora italiana.
Subito dopo, il personale di bordo passò distribuendo bevande e biscotti secchi e poi le luci della cabina si attenuarono, mentre gli schermi LCD si abbassavano per mostrare un film; non ero interessato, per cui non presi neanche le cuffie per sentire il sonoro.
Gino, avendo visto che gli altri tre sedili accanto a noi erano vuoti, si era trasferito lì, alzando i braccioli e stendendosi a dormire e io, alzandomi per prendere il libro dal bagaglio a mano, notai che le file davanti e dietro a noi erano vuote e, verso prua, avevo l’impressione che tutti avessero approfittato dei molti posti liberi, per affrontare il più comodamente possibile il noioso volo notturno.
Vidi, nei ‘galley’ di prua e di coda, le hostess sedute in posizione molto rilassate, a chiacchierare: con l’aereo pieno a metà di gente assopita, in effetti, il loro lavoro era ridotto solo a gettare pigre occhiate per vedere se qualcuno avesse, caso mai, bisogno di loro.
Guardai Lorella, mezza assopita di fianco a me e poi guardai, fuori dal finestrino, il mare di nuvole illuminato dalla luna; un’espressione inglese cominciò a ronzarmi nella testa, come una mosca sul vetro in un pomeriggio piovoso: thirty thousands … trenta mila.
Perché pensavo a quella distanza? Frugai nella memoria e infine mi venne in mente: thirty thousands high! Trentamila (piedi in) alto! Cioè, un’altezza di diecimila metri… Il club dei diecimila metri (di quota) raccoglie tutte le persone che possono vantarsi di aver fatto sesso in alta quota e… beh, guardando Lorella, pensai che l’occasione era favorevole.
La risvegliai con un bacio sulla tempia e lei aprì gli occhi, guardandomi con un sorriso complice.
Mi porse le labbra da baciare ed io le infilai sensualmente la lingua in bocca, facendole però scivolare la mano sotto la gonna midi di flanella.
Feci risalire le dita lungo il nylon della calza, fino alla giarrettiera di pizzo elasticizzato e poi su, sulla pelle tiepida della coscia , fino al suo pube bollente.
Lei schiuse le gambe, e la mia mano si impadronì della sua fichetta nuda, già bagnata di eccitazione.
Giocherellai pigramente con le labbrine, poi le schiusi con due dita e feci correre un polpastrello tra di loro, andando lentamente dal buchetto al bottoncino, poi tornai indietro e proseguii fino al buchetto, che trovai rilassato e palpitante.
Lei mi mise la mano sulla patta ed abbassò la zip, armeggiando coi miei boxer per tirar fuori il mio cazzo semiduro.
Proprio in quell’istante, Gino si svegliò e con una rapida occhiata verso di noi, comprese subito gli eventi, sorridendo di compiacimento.
A cenni, lo pregai di stare attento che nessuno si avvicinasse e lui annuì, mettendosi a sedere nel posto verso il corridoio.
Nel frattempo Lorella si era abbassata ed aveva cominciato a leccarmelo, portandolo rapidamente al massimo dell’erezione.
Quando la consistenza fu di suo gradimento, lo fece sparire in bocca, spingendoselo fino alla glottide ed aspirandolo e massaggiandolo con la sua guizzante linguetta, mentre con due dita lo stringeva alla radice e col pollice mi sfiorava lievemente lo scroto.
La fica era guazza, col le labbrine aperte, come il becco di un uccellino che implori il cibo dai genitori: decisi di soddisfarle gli appetiti e la tirai, facendomela infine sedere sul pube.
Feci ricadere la sua ampia e lunga gonna fino oltre le mie ginocchia e la allineai alla mia cappella congestionata.
Con una mano sotto la gonna, se lo appoggiò sulla fica e poi, con un quasi impercettibile «Ohhh….», ci si impalò lentamente.
Le misi le mani sui fianchi e la tenni, mentre inarcandomi mi spingevo ritmicamente dentro di lei.
La mia mente, malandrina, mi riportò alla memoria una scena simile del film Emmanuelle ed il mio piacere aumentò.
Sentivo il cazzo massaggiato e come masticato dai muscoli vaginali di Lorella e stavo con i sensi all’erta, stimolato dalla paura che qualcuno ci notasse.
Tanto che venni sorpreso dall’onda di piacere che, dai coglioni, risaliva violentemente su per il cazzo, molto in anticipo sui tempi a me abituali.
Anche lei sentì il mio uccello irrigidirsi ancora e vibrarle dentro la fica ed anche lei sentì arrivare il treno del piacere: si lasciò sfuggire un piccolo gemito e ridussi i rischi che svegliasse qualcuno afferrandola per la nuca e spingendole la lingua in bocca, proprio mentre i nostri corpi, alla stesso tempo, vibravano per l’orgasmo raggiunto.
Le lanciai lunghi schizzi dentro la fica, contro il collo dell’utero e lei, felice, si rilassò, mi abbracciò e mi baciò con gioia.
Poi, sempre facendo piano piano, si alzò e raggiunse la coda per rinfrescarsi nella toilette.
Presi fiato un momento, poi anch’io andai a poppa e mi chiusi nell’altro camerino, per fare una rapida abluzione e, già che c’ero, per alleggerire la vescica.
Tornando a metà fusoliera, ai nostri posti, notai la gente ammassata -sei per fila- a dormire seduta: sembravano l’equipaggio in ibernazione di un’astronave in un film di fantascienza.
Mentalmente, li ringraziai tutti di essersi ammassati lì in coda ed aver, così, lasciato tanto comodo spazio a noi, viaggiatori porcelli nonché -da poco!- neo iscritti al “Thirty-thousands-high Club”.

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