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Beyond the White. Indian target

By 25 Febbraio 2021No Comments

Prima di un’azione, una calma quasi plumbea calava su James Crowain. L’inglese l’aveva provata durante l’attesa prima di alcune azioni in Medio Oriente. L’aveva sentita prima di agire al fianco del Giustiziere, e ora, anche ora, quella vecchia amica lo visitava.
Andava bene. Crowain sapeva bene che quella calma gli veniva dalla consapevolezza del fatto che tutto si riduceva a una semplicissima scelta. Lui o loro.
O il suo gruppo, la sua squadra, o i loro nemici. Tutto si riduceva alla vittoria degli uni o degli altri. Crowain espirò. Mancava una notte e loro si erano mossi verso la capitale dello stato del Kerala. In attesa, avevano esplorato i dintorni, si erano integrati nel panorama turistico, decisamente scarno, ed avevano in poco tempo preso atto della morfologia della zona.
In realtà, non c’era molto da dire: Thiruvananthapuram era simile a tutto il resto del Kerala.
Maledettamente odierna e allo stesso tempo avviluppata dal passato. Bastava fare pochi passi tra le vie per accorgersene: i negozi che parevano edificati dal 1970 parevano amalgamarsi senza soluzione di continuità a edifici ben più antichi, come i templi jainisti e indù, chiese cristiane e a poche strutture che parevano assurdamente moderne e fuori luogo.

Era parte del mito dell’India: la capacità di vivere nel presente e nel passato ad un tempo.
James sospirò, guardandosi attorno. Qualcuno lo guardava. Ma pedinatori o “code” parevano assenti. Parevano. La santa e maledetta paranoia gli fece compiere un’altra serie di vagabondaggi volti a spezzare l’eventuale inseguimento, o a portare i suoi pedinatori a commettere un errore. Ma niente: sembrava che non ci fossero. Un ragazzino si offrì di pulirgli le scarpe. Lui accettò, tenendo gli occhi aperti. Il giovane fece il suo lavoro alla svelta e bene.
James gli lasciò una mancia. Lo guardò andarsene con indolenza, senza fretta.
Un gruppo di belle ragazze in sari marciava lungo il marciapiede opposto, il traffico indiano, perennemente in moto, a separarle a tratti dalla vita di Crowain. L’ex SBS sorrise appena.
Avrebbe voluto qualcosa di simile. La possibilità di una compagnia femminile non gli sarebbe dispiaciuta. Eppure, doveva ammetterlo: non era né il luogo né il momento.
Fermò un taxi e si diresse verso un vicino centro commerciale. Roba da non credere: il posto era quasi una fotocopia dei centri commerciali americani.
Freddo sulla pelle sudata, questa fu la prima sensazione di James. Entrò nel centro commerciale accolto da un’aria condizionata leggermente eccessiva.
Avanzò sino a un negozio. Libri, film… Guardò, curiosò, chiese. Il classico turista.
In realtà era lì per depistare gli eventuali osservatori. Poi lo vide.
Un bodyguard. Era il classico esempio di “duro”, palestrato, abito sobrio, in contrapposizione all’ambiente e al vestiario tipico dei passanti. Armi? Non pareva portarne ma James non ne era sicuro: vedeva solo il fianco dell’uomo che si guarda attorno con calma, ma attento.
Un professionista? Sicuramente uno attento. Chi diavolo poteva necessitare di una protezione ravvicinata? Un politico? O la moglie, o la figlia di un politico. In un paese in cui gli stupri erano ancora moltissimi a dispetto delle spinte e dei movimenti a difesa delle donne, una simile cautela poteva essere adottata, specialmente se si fosse trattato della moglie o della figlia di un politico particolarmente importante. Crowain si avvicinò a un chiosco. Comprò una bottiglia d’acqua e un giornale. Gettò un’occhiata dietro di sé. Il “duro” era ancora lì.
Sostava davanti al negozio di vestiti. Poi, lo raggiunse una ragazza. Una donna.
Lui aveva la pelle scura, lei ce l’aveva chiara. Si voltò un istante nella direzione di James, guardandosi in giro con aria apparentemente annoiata. E in un lampo, James Crowain capì.
La donna era Dalima Khotil, sensuale e conturbante moglie-trofeo di Sanjar Tah.
La donna del bersaglio. Che diavolo ci faceva lì?
Improvvisamente, James decise: l’avrebbe scoperto. Era solo per shopping? O c’era altro?
I due fendettero la folla. Qualcuno fece foto. Il bodyguard abbaiò qualcosa. I cellulari sparirono. James si mosse piano. Li seguì a rispettosissima distanza.
E notò che Dalima stava dirigendosi verso un negozio di telefonia. La vide digitare un numero. Chiamare e dire poche parole. Una conversazione a senso unico.

Il bodyguard, apparentemente insensibile a tutto tranne che al suo compito, squadrava la folla. Crowain sospirò. Doveva capire. Era un consulto o una sostituzione? Eppure il telefono della donna pareva perfettamente funzionante…
No: doveva esserci qualcosa sotto. James Crowain se lo sentiva nelle ossa. Dalima non era lì per mero caso. Anche perché, sicuramente aveva altri tre cellulari, di questo si sentiva sicuro.
Allora perché era lì? C’era un solo modo per scoprirlo.

 

Il bodyguard si chiamava Kunjar Jupik. Era indiano ma aveva avi di altri lidi. Notò subito l’uomo avvicinarsi. Un occidentale, ovvio. Alzò il braccio, il palmo della mano rivolta verso l’uomo, in un universale gesto di “stop”.
-Mi spiace signore. Non può entrare.-, disse.
-Ma… devo fare una sostituzione…-, iniziò l’uomo, sguardo turbato. Kunjar sorrise, il tizio pareva patetico nonostante un fisico da sportivo. Tipico degli occidentali pensare che tutto fosse loro dovuto. Era compiaciuto all’idea di poter far capire a quello straniero come stessero realmente le cose. La sentiva come una rivalsa.
-Mi spiace. Non può entrare.-, disse Kunjar. L’uomo fece per ribattere. Kunjar portò minacciosamente la mano alla cintura dove aveva un manganello con l’anima in piombo. 

 

James annuì. Capì. Quel tizio lo avrebbe potuto pestare fregandosene bellamente dei diritti umani. Non era evidentemente interessato alle possibili conseguenze diplomatiche.
O magari stava solo bluffando.
Crowain tuttavia sapeva che battersi con quel tizio era fuori questione. Avrebbe vanificato la sua copertura e l’avrebbe messo nei guai.
annuì, si scusò e ripiegò educatamente. Aveva visto la bella Dalima parlare con l’uomo in cassa, un tizio dal viso piacevole, il colorito scuro che rendeva solo più piacevole un volto già fotogenico, migliorato solo dai capelli e da uno spruzzo di barba.
Nessun telefono sul bancone, almeno, non che lui avesse potuto vederne.
Poi forse sbagliava, ma sentiva che qualcosa non quadrava e più passava il tempo più pensava di aver visto giusto. Doveva riuscire a carpire qualche dettaglio in più.
Notò un corridoio che si estendeva lungo la destra del negozio, nessuna telecamera.
Si guardò attorno. Ciondolò in giro, premendo tasti sul cellulare per dare l’idea di star comunicando, o tentando di risolvere un problema. Assodato che nessuna telecamera guardasse nella sua direzione, scivolò verso il corridoio. Era uno spazio vuoto. Dava verso un’uscita di emergenza e c’era una porta su un lato e una sull’altro.
Porte che dovevano dare verso il retrobottega dei rispettivi esercizi commerciali.
James arrivò alla porta che avrebbe dovuto dare sul retro del negozio di telefonia.
Sfilò dalla tasca un grimaldello. Non avrebbe avuto molto tempo. Per un miracolo, nessuno sembrava badare a lui. Iniziò ad armeggiare con la serratura. Era abbastanza attuale ma comunque usurata, ed evidentemente nessuno avrebbe speso un capitale per rifare quella porta. Con un clack! appena udibile ma che a Crowain parve un colpo di pistola, la serratura cedette. L’uomo sudava freddo, ma doveva continuare. Abbassò piano la maniglia e gettò un occhio all’interno. Era un magazzino. La luce era fioca e tra la porta e il centro della sala che faceva da retro c’erano scaffali e casse ingombri C’erano scatole in giro, postazioni da lavoro abbandonate e, china su una di esse, Dalima Kothil. La bella giovane accoglieva il membro scuro e decisamente grosso del commesso che la possedeva da dietro serrandole le anche con le mani con gemiti frammisti a parole smozzicate in hindi.
Era evidente che ci stesse provando un gran piacere. Era tutto lì? Dalima Kothil tradiva suo marito con uno di casta decisamente inferiore per supplire ai suo bisogni primari?
James se lo chiese, suo malgrado catturato dalla scena di quell’amplesso così clandestino.
Dalima gemette quando il pene dell’uomo entrò per tutta la sua lunghezza.
Di scatto voltò il capo, il viso distorto in un’espressione lussuriosa decisamente indecente. Verso James. Difficile che non lo avesse visto. L’uomo fece un passo indietro, ma non senza sentirsi gli occhi verdi della donna piantarsi a fuoco nei suoi. Forse era solo impressione…
Chiuse la porta, con cautela ma senza esitare e, incurante delle possibili tracce, se ne andò. Doveva uscire da lì, ora! Camminò rapido verso l’ingresso e chiamò un taxi.

 

Di ritorno all’alloggio, avevano contattato Shaibat. James Crowain riferì rapidamente il tutto ai suoi compagni. Nessuno l’aveva cercato. L’aveva scampata? Nel dubbio, lui e i suoi si trasferirono rapidamente in un altro alloggio, una nuova guesthouse gestita da una coppia.
-Non mi sembra così strano che una donna trascurata si rifaccia in questa maniera su suo marito.-, disse John Kingsword. James sospirò. Di fatto non aveva nulla in mano per provare che tutto ciò fosse qualcosa di più che una mera faccenda di corna…
-Di questa cosa immagino non si sappia nulla, vero?-, chiese l’uomo.
-No.-, disse Shaibat, connessa tramite un palmare e convocata d’urgenza, -La coppia fa molta attenzione a non dare scandalo. Viene da credere che insabbino ogni cosa.-.
-Hanno molto da perdere.-, fece notare Nô, -Ma su questa Dalima si sa altro?-.
-In realtà non più di quanto vi ho già detto. Ho cercato persino nel deep web. Nulla. E questo fa pensare: se ci sono scheletri nell’armadio, solitamente sono sepolti nella parte oscura dell’internet.-, la thai pareva perplessa, -Ma in questo caso, il vuoto.-.
-Già. Ma questo non cambia le cose: abbiamo un obiettivo. E domani dovremo agire.-, disse l’uomo noto come il Giustiziere.

-Esatto. Ma stiamo attenti: sono già accadute diverse cose fuori programma.-, disse Nô.
-Già. A tal proposito, ho decifrato i messaggi che mi hai inviato. Non sono molto sensati. Roba in merito a fiori e frutti. Evidentemente un codice.-, riferì Shaibat.
-Qualcuno ci tiene d’occhio.-, dedusse James Crowain.
-Decisamente.-, concordò John Kingsword, -Non credo che potremo concederci una seconda occasione. Il nostro attacco dovrà essere perfetto.-.
-E anche la via di fuga.-, aggiunse Nô, -Neroko e un gruppo da fuoco saranno alle piantagioni di tè, sugli altipiani. La finestra di estrazione sarà brevissima. Avremo più o meno sette minuti per evacuare una volta raggiunta la zona d’atterraggio. L’elicottero è registrato sotto falso nome. Ufficialmente appartiene all’aviazione indiana. In realtà è del mio clan.-.
-Una volta che il bersaglio grosso sarà a terra dovremo filare via.-, disse James, -E alla svelta.-.
-Già. Ho calcolato un tempo di esfiltrazione dal campo di fuoco di non più di cinque minuti. Oltre quest’orizzonte le forze dell’ordine indiane inizieranno a reagire. Se andrà bene ve ne sarete andati prima che qualcuno possa fermarvi. Da lì, dovrete andare a tutta birra sino alle piantagioni. Il luogo dista circa venti minuti in macchina.-, disse Shaibat.
-E se dovesse andar male?-, chiese il Giustiziere. A Crowain quell’uomo pareva strano. Non aveva il fisico del soldato, né l’atteggiamento mentale di uno che avesse effettivamente passato la vita a uccidere, eppure…
Eppure era uno di loro. Sorto dal nulla? No. Ma anche con le sue prudenti domande, Crowain non aveva avuto alcuna risposta utile a capire dove l’uomo fosse divenuto un giustiziere (non un killer) e per quale ragione. Lo faceva per mero idealismo? James ne dubitava.
-Se dovesse andar male dovrete mettere più distanza possibile tra voi e lo Stato del Kerala.-, rispose la thailandese, -Purtroppo non ho avuto modo di organizzare una seconda evacuazione dal vostro territorio. L’ideale sarebbe che raggiungeste Mumbai. Laggiù posso cercare di organizzare qualcosa di sicuro. Ma… come ho detto, questo è il piano di ripiego.-.
-Beh, almeno ne abbiamo uno. Anche se sono ottimista, non sono certo così ottimista.-, sorrise John nel tentativo di stemperare la tensione che naturalmente precedeva il colpo.
Ci furono sorrisi, ma nulla di più. Erano tutti tesi. Molto.

 

Dopo il briefing, James si occupò di ispezionare l’equipaggiamento. Tutto in condizioni perfette. Pistole mitragliatrici MP7 con tre caricatori l’una, due. Pistole beretta e glock-17, un Dragunov SVU-A, un fucile da cecchino utilizzato dall’OMON russo con un caricatore, pallottole esplosive e ottica a tre livelli di ingrandimento.
Infine, giubbotti in kevlar. Roba adatta a fermare i calibri di armi da pugno e di piccolo calibro.
Niente mine, esplosivi o altro. James smontò ogni singola arma, rimettendole insieme dopo una pulizia e un’ispezione maniacali. Tutto pronto.
Poi, guardò l’ora. Mancava ancora un’ora buona alla cena. Decise di uscire. Voleva capire se lui o gli altri erano sotto osservazione, da chiunque.

 

L’uomo terminò la serie di esercizi. Il caldo sfiancava. Ma non era ancora nulla.
Sentì una porta chiudersi. Uscì a sua volta.
-James.-, disse. L’inglese si voltò.
-Vieni con me a fare un giro?-, chiese. L’uomo annuì. Entrambi soffrivano di paranoia.
Ma in quel caso, forse avrebbe salvato loro la vita.

 

Le strade di Thiruvananthapuram erano trafficate. Molto. Anche la sera, la folla incedeva lungo i marciapiedi, uomini e donne stipati come sardine. L’uomo e Crowain si mossero diagonalmente, attraversando la strada, prendendo una diversa strada, meno trafficata.
Entrarono in una stradina secondaria, videro bancarelle, macellerie all’aperto, mercati di verdura. L’uomo fece una foto o due. Tutta apparenza, anche se dopotutto, l’Asia gli era mancata. Ma anche là, anzi soprattutto là, bisognava stare attenti.
L’uomo si guardò attorno rapidamente. Notò subito una cosa fuori dal normale.
Una donna. Bella, davvero. Pelle scura, capelli neri, il viso purtroppo deturpato da una macchia che denunciava una malattia della pelle.
Nô aveva parlato di aver visto una donna simile. Ma d’altronde poteva essere una coincidenza.
Oppure…
L’uomo diede un colpo di gomito a Crowain, indicando una strada. Lui annuì. S’incamminò dalla parte opposta. E così l’uomo tagliò lungo la strada.
Non dovette attendere molto: la donna lo seguì. Capo chino, comperò qualcosa al mercato. Frutta e verdura pagate senza soffermarsi. Si fermò a parlottare in malayalam con qualcuno. L’uomo ne approfittò per girare un altro angolo. La donna non lo seguì. L’uomo espirò. Stava diventando nervoso, e forse si era sbagliato. Non era un bene.

James Crowain tagliò in una via laterale. C’erano due accattoni, uno per lato. Crowain notò che erano dei lebbrosi. Avvolti in vesti cenciose parevano essere puniti dagli dei, quali che fossero, per qualche peccato terribile. Diede loro un paio di banconote da dieci rupie, venendo ringraziato. E poi lo sentì. Dietro di sé.
Passi, attenti, troppo. Nessuno camminava in quella maniera se non voleva compiere qualcosa di illegale o spiacevole. Il buon vecchio istinto del soldato si fece avanti. Crowain proseguì. Girò in un vicolo. Si girò, rapidissimo. Il tizio che gli arrivò quasi addosso era allampanato e magro. Non denutrito, solo malmesso. Crowain non lo riconobbe ma non aveva importanza.
Il tempo accelerò. James afferra lo sconosciuto per la veste. L’altro resiste. Bene, meglio del previsto. “Non proprio un passante innocente, eh?”, pensa l’ex SBS. L’altro sferra pugni e calci.
Senza tecnica, ma con una discreta velocità. Crowain incassa. Il petto duole, ma l’altro si becca un calcio frontale. Incassa male allo stomaco, espelle l’aria in un’espirazione forzata. Il pugno successivo di James lo stordisce, dando il tempo al commando di bloccarlo.
L’inglese estrae il coltello, aprendolo con unico gesto.
-Chi ti paga?-, chiede. L’altro nega, parla in malayalam. James punta il coltello all’occhio.
-Se non sai parlare inglese ti conviene darmi qualcosa che mi dia modo di capirci qualcosa.-, insiste Crowain. La punta del coltello è a un millimetro dal viso del tizio.
-Kothil… Dalima Kothil…-, sussurrò l’uomo.
-Dalima Kothil.-, ripeté James Crowain. Improvvisamente, ebbe risposta a molte domande.
-Lei vuole solo che io porta da lei. Per favore…-, miracolosamente il malcapitato ora dimostrava una certa padronanza dell’inglese. James annuì.
-Perché?-, chiese. Si guardò alle spalle. Niente complici.
-Lei non l’ha detto. Pagato e basta.-, sussurrò l’altro. L’inglese sospirò. Evidentemente Dalima Kothil era ben più prudente di quanto lui si fosse potuto aspettare. Ma questo poteva significare che l’amplesso a cui aveva assistito era solo l’inizio. Che c’era altro e che Dalima lo riteneva un pericolo. Forse era così.
-Non uccidere… non uccidere me…-, sussurrò l’uomo a terra. James annuì. Gli sferrò un ultimo pugno. Uppercut da sotto in su. K.O. Si alzò rinfoderando il coltello.
Nessuno aveva visto niente. Ma ora doveva ricongiungersi con il Giustiziere, e senza dar nell’occhio. Scivolò fuori dal vicolo.

 

L’uomo osservava le bancarelle mentre il mercato era in via di disfacimento. Gli ambulanti stavano smontando. Pagò l’incenso (che non era di chissà quale qualità) e cercò Crowain, vedendolo sbucare da una via laterale. Notò anche la donna di prima. Gli dava le spalle e pareva intenta in una fitta conversazione con un giovane.
Caso o premeditazione? Probabilmente il primo, a dispetto del timore della seconda.
-Fatto spesa?-, chiese l’uomo. Era una frase in codice per chiedere se ci fossero stati problemi.
-Sì.-, rispose James, -Andiamo a bere qualcosa.-.
Si diressero verso l’alloggio, prendendo strade secondarie, in un dedalo di scorciatoie, giri e svolte, volto a seminare eventuali pedinatori.

 

La donna sospirò. Aveva avuto la conferma di ciò che già aveva compreso: quei tizi non erano turisti. Il giovane con cui stava parlando si chiamava Lidhin ed era uno sfaccendato che lei e il suo capo a tratti pagavano per tenere gli occhi aperti. Gli consegnò una mazzetta di rupie, con discrezione assoluta, al termine del suo rapporto.
Lidhin aveva visto l’altro tizio deviare in un vicolo. L’aveva visto venire seguito da un uomo che poi aveva rinvenuto privo di sensi in quello stesso vicolo. Gli aveva preso il cellulare.
Lo passò alla donna. Lei annuì, facendoselo scivolare nella borsa che portava a tracolla.
Congedato Lidhin si mosse verso la base. Purtroppo fu intercettata in un vicolo.
Due uomini. Odore d’alcool. Ubriaconi in vena di una facile preda. La donna sospirò.
Lei non era una preda facile. Il sari la impacciava. I due si avvicinarono. Uno brandiva un coltello. L’altro si avventò sulla borsetta. Che colpo di fortuna, dovevano credere, una donna sola e con dei soldi! Sesso e profitto! L’idiota non registrò neppure il movimento della giovane.
La mano, tuffata nella borsa emerse armata. Una pistola silenziata.
Sparò due colpi al petto di quello col coltello che si era avvicinato, a bruciapelo. Senza mirare, cambiò bersaglio. L’altro alzò le mani. Due colpi al petto pure a lui.
Colpi finali alla testa. Per entrambi.
La cosa era un incidente, ma era sicura che non fosse di poco conto. In compenso, aveva un rapporto da fare. E doveva togliersi quel trucco patetico dal viso. Aveva visto dove alloggiavano i due uomini, insieme probabilmente alla ragazza del giorno prima.
Avrebbero potuto tenerli d’occhio senza problemi, ma con prudenza.

 

Dalima Kothil osservò l’uomo. Era patetico. Si profondeva in scuse e giustificazioni, evidentemente conscio della gravità del suo fallimento. La donna lo guardava senza parlare.
Sapeva bene che il suo solo sguardo bastava. Esprimeva disappunto, irritazione, rabbia.
Scoprire che uno straniero avesse fatto domanda era stato facile. Dalima lo aveva visto, la domanda era cos’avesse visto lui. Guardone casuale, ladro o… peggio?
Aveva rapidamente fatto una ricerca presso l’immigrazione e altri contatti conservati dai tempi in cui aveva servito in polizia. Anthony Blackthorne, inglese, un turista.
Ufficialmente. Ma non era detto che fosse realmente tale. E Dalima non intendeva permettere a qualche esterno di rovinare i suoi piani così a lungo curati.
Non c’era voluto molto a scoprire con chi viaggiasse, né a trovare l’alloggio. Ma purtroppo, un’azione in piena città alla vigilia dell’arrivo di Tah avrebbe rappresentato un problema.
Così aveva optato per un approccio di diverso tipo. Aveva mandato quel tizio, un poveraccio ex poliziotto con problemi di droga a pedinare l’inglese, decisa a interrogarlo di persona.
Purtroppo l’inglese si era rivelato ben più pericoloso di quanto Dalima avesse creduto.
E questo avvalorava la sua ipotesi. Non era un turista.
-Ti ha preso il cellulare?-, chiese la donna, mettendo fine alla sequela di suppliche e scuse.
-Io… non lo so… Non lo trovo…-, disse lui. Dalima alzò gli occhi al cielo, esasperata.
Kunjar aveva rapidamente recuperato lo straccione, riuscendo a non suscitare sospetti, ma da quel lato, tutto quello che aveva potuto andare storto lo aveva fatto.
-Gli hai detto di me?-, chiese Dalima. L’altro tentennò.
-Rispondi!-, esclamò lei, al culmine dell’irritazione. Odiava perder tempo e odiava i fallimenti.
Soprattutto, odiava i fallimenti catastrofici come quello.
-Io… mi avrebbe ucciso…-, mormorò l’altro. Ora pareva sull’orlo delle lacrime.
Dalima sospirò. Magnifico: l’idiota aveva vuotato il sacco. Estrasse la pistola.
Sparò due colpi al petto dell’idiota che ancora farfugliava. Morto. Almeno non avrebbe potuto dire niente a nessun’altro. La rabbia lasciò il posto a un’irritazione temperata dalla prudenza.
-Come proseguiamo?-, chiese Kunjar. Dalima Kothil prese tempo, riflettendo.
In realtà aveva già deciso. Rimandare non era un’opzione. C’era in gioco molto più di quanto si credesse.
-Contatta Shankar e Patil.-, disse, -Domani agiremo. Il nostro obiettivo è cambiato leggermente, ma forse possiamo avvantaggiarci da questo casino.-.
Il bodyguard annuì.

 

Il giorno del colpo, c’era una strana calma sulla piazza. Sanjar Tah vi avrebbe tenuto un discorso ufficiale, alla presenza di molti suoi sostenitori e numerosissimi altri spettatori.
E ovviamente, c’era un servizio di sicurezza di un certo livello.
Cecchini lungo alcuni dei tetti adiacenti, agenti di polizia e altro.
Tutto inutile. Non importa quanto un bersaglio sia difficile: le brecce nella sicurezza, finanche la più stretta, sono la regola più che l’eccezione.
L’uomo e i suoi compagni sfruttano proprio le brecce. Sono metodici e rapidi. I punti alti sono la minaccia maggiore, oltre che la maggiore possibilità di colpire il nemico.
E il nemico è Sanjar Tah, prossimo a salire e a iniziare il suo discorso.
L’uomo espira piano. Il suo bersaglio è stazionario, a soli sei metri, scruta davanti e sotto di sé, convinto che la minaccia arriverà da quella direzione e, da bravi professionisti, si concentrano su quell’area. Perfetto, peccato che, da perfetti imbecilli, dimenticano che il pericolo può venire (e spesso viene) da ben altre parti. L’uomo arriva alle spalle del bersaglio, silenzioso come un’ombra. Nella mano stringa una lama particolare. Un karambit.
Il coltello tipico dell’Indonesia era la sua seconda scelta dopo il Tantō, e non sapendo quanto l’India fosse al corrente di quanto accaduto in America qualche anno prima, aveva concordato con i suoi compagni di evitare qualunque possibile riferimento. Le armi erano tutte di altre nazioni, irrintracciabili e prive di numeri di matricola. Le lame erano prodotte da stati esteri e acquistate tramite il deep web, le giberne erano prive di segni identificativi e i giubbotti in kevlar erano israeliani. Nessuna possibilità di risalire agli acquirenti di quella merce.
Tutto perfetto. L’uomo impugna il Karambit in presa tradizionale, indice nell’anello al termine dell’impugnatura, lama orizzontale e punta diretta alla sua destra. L’altro forse non è così distratto, sente qualcosa. Forse è attento, o forse l’uomo ha fatto rumore.
Si gira, impacciato dal fucile.
L’uomo pugnala. Collo. L’altro incassa. Boccheggia mentre il sangue lo lascia, fuggendo dal taglio sul collo. Muore in poco tempo, il grido d’allarme soffocato dalla mano guantata del Giustiziere.

 

Nô Mitsutune è tutt’uno con la situazione. Agisce senza dover pensare, per puro istinto.
Zen, direbbero i suoi precettori. Il pugnale che impugna è una baionetta a doppio filo. Il suo bersaglio è in piedi, affacciato a una finestra. Vigile. Ma non abbastanza. La giapponese non commette imprudenze.
La sua lama colpisce appena un’istante dopo il calcio alle ginocchia da dietro. Costretto in ginocchio, l’uomo cerca di divincolarsi. La lama di Nô entra nella nuca dell’uomo, arrivando al cervello attraverso quella che i birmani chiamano Porta del Vento.

 

John Kingsword sa. Capisce. Non sa se quegli uomini siano padri di famiglia amorevoli o i più grandi degli stronzi.  Non vuole saperlo. Di fatto è meglio non sapere.
Ma sa, sa benissimo che il loro compito non può essere subordinato all’imperativo morale.
Sanjar Tah è un pericolo, per la stabilità della regione e per le vite di moltissima gente.
Quei poveracci che lo proteggono sono semplicemente d’intralcio. Purtroppo per loro, per la buona riuscita del piano, non possono permettersi sbavature. Se li stordissero e uno di loro si riprendesse prima del previsto, potrebbe essere un disastro.
John ha accettato l’offerta del Giustiziere solo dopo che lui ha parlato di sua madre.
Adele Kingsword, la donna che aveva voluto sconfiggere il male immergendosi nel putridume al punto tale da superare la linea. Eppure, suo malgrado, non riusciva a odiare l’uomo che l’aveva uccisa. Per lui sua madre era solo un nome, e lui non era un figlio, ma il frutto indesiderato di un amplesso clandestino volto a… cosa? John non se l’era più chiesto.
Ma, poco ma sicuro, era stato amato dalla sua famiglia, dai parenti di suo padre. Aveva ereditato un bel po’ di soldi alla morte del suo vecchio e aveva presto compreso quanto il mondo fosse spietato e ingiusto. E aveva deciso di non essere una vittima.
Così era finito a fare di tutto. Il pappone, il pusher, persino il mercenario. Non in quest’ordine.
E infine, era stato contattato dal Giustiziere. L’uomo gli aveva persino dato la scelta.
Gli aveva detto che avrebbe potuto ucciderlo. Ma John aveva capito, o meglio aveva scelto, di essere diverso. Non avrebbe ucciso quell’uomo. Lo avrebbe aiutato nella sua missione.
Inquadra il bersaglio. È un tizio con in pugno un AK senza calcio, caricatori legati col nastro adesivo a doppio giro. Un “duro” locale. Lo sguardo del tizio è attento. John lo vede. Lo guarda prendere posizione in un punto discostato dalla folla.
Improvvisamente, John vede anche un’altra cosa. Una cosa imprevista. Uomini, uomini coperti da stracci. Pakistani? Indiani? Afghani? Sono avvolti in vesti lunghe. Musulmani? Forse.
Qualcosa non va. Non quadra manco a morire. John Kingsword non capisce. Ma sceglie.
I tizi non sono certamente innocui. E camminano curvi. Storpi solo in apparenza o per davvero? Comunque uno di loro elemosina. Gli altri iniziano una supplica cantilenante, o forse il mantra a qualche dio compassionevole che da tempo non visita il mondo.
Il “duro” reagisce. Sbraita qualcosa in malayalam. Loro si disperdono, se ne vanno lenti e lemmi. Timorosi dell’altrui ira. Peccato che John non sia cieco. Uno di loro va verso una via secondaria, uno verso un’altra e l’ultimo si accascia contro un muretto, apparentemente esausto Il quarto invece si avvicina al “duro”. Questo fa per mettere mano all’arma ma l’altro supplica, piagnucola. Si becca un pugno e una spinta, e un’ennesima ingiunzione ad andarsene.
Il viso del mendicante è chiazzato da… qualcosa. E John capisce. Lebbra. È un lebbroso.
Almeno, lui lo è, ma gli altri? Intanto si sono dispersi nella folla. John si porta il telefono all’orecchio e chiama. Riferisce agli altri. Riceve assensi. La situazione si è appena complicata.
Il “duro” in camicia color kaki e AK made in China è concentrato e impassibile. Il clamore dei mendicanti si affievolisce. Tah sta per fare la sua comparsa. Lo show è prossimo all’inizio.
John agisce, rapido. Spara. La pistola ad aghi non emette rumore alcuno. L’ago si pianta nel collo dell’indiano, che si porta una mano al collo. Non riesce a dire altro. John lo raggiunge e rapidissimo lo prende. Pesa, ma non tantissimo.
-Le zanzare devono essere un vero tormento, eh?-, chiede a mezza voce. L’altro non risponde. Non può. Il veleno, sintetizzato da Arlecchino, sopprime gli stimoli nervosi, prima di far calare sul corpo un torpore e un’immobilità che impediscono la respirazione. Tempo di azione: non meno di un minuto. È letale e devastante. Ovviamente, Arlecchino non lo produce in dosi industriali, ma va bene. John appoggia l’uomo a terra in un angolo dopo essersi assicurato che nessuno abbia visto nulla o che nessuno sia in vista..
Fulmineo toglie l’ago dal collo. Prende l’AK. Non gli serve davvero ma è meglio di lasciarlo a qualche malintenzionato.
La folla è tutta concentrata su Tah che, salito sul palco, è accolto da un’ovazione.
Diversione perfetta.

 

James Crowain è un veterano. Le operazioni “bagnate”, negabili o palesi, sono state il suo pane quotidiano per troppo tempo. Dopo un po’ atti come uccidere e valutare le minacce divengono quasi inconsci, riflessi pavloviani, che non necessitano di interferenze da parte della corteccia frontale per essere eseguiti. Si avvicina al bersaglio con calma. A lui spetta il nemico più rischioso, quello più in alto, al quarto piano dell’edificio antistante la piazza.
La base di fuoco perfetta per abbattere Tah.
Il pugnale fairbarn-sykes, replica moderna dello stiletto a doppio taglio dei commando britannici della Seconda Guerra Mondiale è un’estensione del suo braccio. Il suo bersaglio è consapevole. Troppo. Di fatto pare quasi in allarme. Scruta tutto attraverso il mirino del VSS.
I pretoriani di Tah non sono forze ufficiali. Mercenari, o forse tagliagole reclutati a basso costo. In ogni caso, sono nemici. James non ha motivo di farsi altre domande.
Gli arriva alle spalle, come una creatura d’incubo improvvisamente materializzatasi dagli inferi. Forse l’uomo capisce, forse ha percepito qualcosa, ha visto qualcosa. La mano del cecchino corre alla cintola, alla trasmittente. Ma non la raggiunge.
Il pugnale fairbarn-sykes affonda appena sotto la mano dell’uomo, mentre la mano dell’inglese gli tappa la bocca. L’altro ringhia. Morde. Anche attraverso il guanto anti-strappo, James sente il dolore. Pugnala di nuovo, ad altezza torace. L’altro sanguina. Si affloscia.
James lo lascia in un angolo, accanto al suo fucile. Estrae il proprio. Lo rimonta mentre Tah sale sul palco, accolto da un’ovazione.
-Aquila in posizione.-, dice tramite la trasmittente ultracompatta dissimulata da smartphone.

 

-Falco in posizione.-, risponde John. Ha nascosto l’AK sotto la mantella impermeabile, abbandonata in un angolo. Via i caricatori e i colpi in canna. Ferraglia inutile senza munizioni.
La mano alla cintola stringe la G18.

 

-Tigre pronta.-, Nô Mitsutune impugna la mitraglietta MP7. È tornata tra la folla. Ha provveduto a liberarsi dei cadaveri. Il suo compito, come quello dei compagni, sarà quello di corpire la ritirata di James una volta colpito il bersaglio.

 

-Rōnin pronto-, l’uomo era in mezzo alla folla. Percepiva qualcosa. Qualcosa che non andava.
Improvvisamente ebbe la sensazione che ci fosse qualcosa di sbagliato.
“Richiamare il colpo adesso sarebbe un casino.”, pensò senza neppure considerare l’idea.
Ma c’erano cose che non andavano, tipo l’assenza di guardie del corpo vicino a Tah, o il fatto che, a dispetto di quanto fosse sgradito, non ci fossero proteste nelle vicinanze.
Tutto tranquillo, e sbagliato. Troppo. Espirò.
-C’è qualcosa che non quadra.-, dice, -Troppo poca sorveglianza.-.
-Ricevuto. Abortiamo la missione?-, chiese John.
-No. Non avremo altre occasioni. Ormai siamo in ballo. Vento favorevole. Tiro al bersaglio grosso, duecento metri. Zona d’impatto: cuore, ventricolo e atrio destri. Colpo letale. Abbandono il fucile sulla base di fuoco ed estraggo. Tempo all’estrazione non oltre i quaranta secondi, raggiungimento ZA successivo. Confermate?-, chiese James. L’uomo sospirò.
Pur non essendoci un leader, in teoria lui era spesso e volentieri quello più seguito, ma la logica di James Crowain era inattaccabile. Tah era vulnerabile. Un colpo e via.
-Confermato.-, rispose John Kingsword.
-Confermato.-, rispose Nô. L’uomo percepì del nervosismo nelle loro voci.
-Confermato.-, rispose lui.
-Fuoco al mio Mark. Tre, due, uno…-.
BLAM! Sul palco, Tah si afflosciò improvvisamente. Volò all’indietro, colto in piena testa, lasciandosi dietro una scia di sangue nerastro.
-Dannazione! Non siamo stati noi!-, esclamò John.
-Evac. Ora. Bersaglio a terra.-, ordinò l’uomo. Jamese eseguì. E poi li vide.

 

John Kingsword aveva visto il punto da cui avevano sparato. Poco distante dalla sua posizione, ma era inutile pensarci: l’evacuazione veniva per prima. Scattò, mentre il mondo rallentava.
O meglio, parte del mondo. I tizi coi sai malconci, lebbrosi o no, svelavano la loro reale natura.
AK corti di varie misure, persino un vecchissimo MP5 che doveva essere da museo. Spararono ad alzo zero. La folla, in fuga e nel panico non capì, non poté.
John capisce, e anche troppo. Tiro singolo, double-tap a centro massa. Uno dei lebbrosi con l’AK cade riverso al suolo. Un altro pare compiere una bizzarra giravolta. Gli sgherri di Tah sembrano accorgersi della situazione. Sparano ad alzo zero. Altri danni collaterali.
Uno dei lebbrosi risponde. Preciso e letale. Uno dei “duri” di Tah va giù.
John si lancia verso i punti d’uscita concordati. Non hanno tempo per restare a combattere.

 

L’uomo nota il movimento. Nemici, tra la folla. Figli di puttana che non hanno rispetto per la vita altrui. Non è paura, ma un senso di giustizia a fargli quasi dimenticare di evacuare e portarlo a sparare tre colpi al nemico più vicino. Non si sorprende di riconoscere l’arabo visto tempo prima. L’arabo si volta, l’arma imbracciata fumante dopo la prima raffica. L’uomo spara. Doppio colpo a centro massa. Non aspetta una reazione. È poco, pochissimo, ma è pur sempre giustizia.

 

Nô spara a raffiche corte sui bersagli. Cerca di evitare i civili ma sa, capisce, che non è possibile evitare errori. Un uomo in fuga si becca il piombo. Il bastardo dietro di lui incassa al collo, e cade schizzando di rosso la piazza e i fuggitivi. La gente urla. Sirene. Polizia?
Sì. E forse anche altro. Devono andarsene, ora.
Altri due bodyguard di Sanjar Tah muoiono male.

 

La donna nota la situazione. Tah morto, i suoi uccisi. Ordina a Arjun di coprire la piazza.
Nota il movimento. Degli stranieri, apparentemente americani in fuga. Gli stessi che già aveva visto? Non può essere un caso, si rifiuta di credere che lo sia. Sanno qualcosa? Forse.
Da un ordine ai suoi. Poi, imbracciato l’MP5K spara. Uno degli agitatori, evidentemente pakistano a giudicare dal vestito, AKMS imbracciato alla meno peggio va giù senza capire.
Il suo compagno vede la donna. Lei si butta giù a tuffo. Un alleato alle sue spalle, incassa al petto e al collo. Gorgoglia rosso. Merda! Si rialza in copertura. Ricarica strappando un caricatore dalla tasca che ha appesa alla cintura.
La piazza è appena divenuta uno scannatoio tra corpi di morti, morenti, feriti e illesi.
L’ambulanza e la polizia stanno arrivando, per utili che potranno essere.
-Dobbiamo fermare quegli americani!-, ordina ad Arjun. Lui annuisce. Smobilitano. A pulire il casino ci dovrà pensare la polizia anche se la situazione è tutto meno che accettabile.
La morte di Sanjar Tah avrà ripercussioni, e grosse anche.
Ma, se gli occidentali sanno qualcosa, allora lei deve assolutamente capire se sono stati loro, o se il loro coinvolgimento è dovuto al caso. In ogni caso, è bene trovare alla svelta un capro espiatorio, perché la morte di Tah potrebbe destabilizzare l’intera regione.

 

-Veloci!-, esclamò John Kingsword. L’adrenalina lo aveva fatto agire rapidissimamente.
La macchina era già pronta. L’avevano predisposta prima, anzi, ne avevano predisposte ben due per l’uscita. John, al posto di guida, vide arrivare Nô, James e infine il Giustiziere.
Balzarono a bordo. L’uomo ricaricò la mitraglietta.
-Vai, vai!-, esclamò James. John pigiò sull’acceleratore. Evitò di misura un tuk-tuk e poi un’auto. S’inserì nel traffico senza badare alle imprecazioni di eventuali osservatori.
-Nô, i tuoi sono già all’estrazione?-, chiese. La giovane confabulò in giapponese con qualcuno alla trasmittente.
-Ancora no. Ci stanno arrivando. Abbiamo pochissimo tempo.-, disse. 

Pessima situazione, sul filo del rasoio.

 

L’uomo li vide poco distanti. Un maledettissimo blocco stradale.
-Devia a sinistra!-, esclamò. John eseguì, sbandando pericolosamente. I poliziotti spararono.
Colpi di piccolo calibro, contro cui l’auto, rinforzata sebbene non blindata, resse.
Ma presto sarebbero entrati in gioco altri nemici, gente molto, molto più cattiva e ben armata.

 

-Hanno eluso il primo posto di blocco.-, disse Arjun. La donna, evidentemente concentrata sulla guida, non fece cenni di sorta. Sapeva che i blocchi stradali non li avrebbero fermati. Una fortuna che ci fossero ben altre risorse in gioco.
-Gli alleati arriveranno tra sette minuti.-, disse Dalan. La donna sospirò. In sette minuti tutto poteva andare comodamente a puttane. Pigiò sull’acceleratore.

 

-Destra! La mia destra!-, esclamò James Crowain. Vedeva degli inseguitori. Almeno un’auto. Sparò tre colpi senza certezza di riuscire a dissuaderli. I seguaci del fu Sanjar Tah gli arrivarono addosso da sinistra. Il Giustiziere sparò tre colpi, decapitando uno dei facinorosi armato di un vecchio mitra. Due spari di Nô uccisero il guidatore. L’auto uscì di strada, capottandosi e impattando contro un albero.
-Dannazione! Non mollano!-, esclamò John. Svoltò, uscendo dall’area cittadina, diretto alle piantagioni di thé e da lì alla zona di evacuazione. La strada era un irreale dedalo di curve e rettilinei. Il traffico era ancora pazzesco, ma James aguzzava gli occhi. Vide una camionetta militare in lontananza.
-Merda! Blocco militare!-, esclamò.
-Se qualcuno di voi ha qualche esplosivo è il momento…-, disse Nô.
-Dobbiamo sfondare. Neroko e i suoi saranno al punto d’estrazione a momenti.-, disse James.
Si sporse e sparò una raffica ad altezza uomo. Non era il momento di fare regali. I più si buttarono a terra. Spari in risposta. Il vetro rinforzato del parabrezza resse, pur accusando i colpi. Sfrecciarono oltre il blocco, travolgendo un milite ferito.

 

-Merda!-, ringhiò John. Altri dei seguaci di Tah? O militari? Chi li distingueva più?
Fatto stava: un’altra macchina, decisamente sospetta. Come a rispondere, James sparò gli ultimi colpi di pistola. Mancò il guidatore, ma centrò in pieno viso il copilota. Dall’auto partirono raffiche, sparate da idioti che non si curavano quasi neanche di mirare. Un pneumatico fu colpito. John lottò per mantenere il controllo.
-Merda!-, imprecò. Riuscì a evitare il testacoda, ma l’auto stentava e i nemici non demordevano.

 

-Non va bene…-, sussurrò la donna. Erano riusciti a seguire i loro bersagli, pur sapendo che essi conservavano una lunghezza di vantaggio e un’invidiabile capacità di reazione.
Non si erano fatti scrupoli a colpire dei militari e ora erano inseguiti.
-Arjun, i rinforzi?-, chiese.
-Elicottero in arrivo tra tre minuti.-, disse l’uomo. Lei schivò un ferito, sbandando pericolosamente. Arjun spianò la pistola davanti al guidatore di un tuk-tuk. L’uomo rallentò immediatamente. Proseguirono l’inseguimento.

 

Una sventagliata tempestò il fianco sinistro dell’auto.  Il finestrino rinforzato, già messo a dura prova, si ruppe. L’uomo emise un verso inarticolato mentre il piombo lo oltrepassava, piantandosi nell’imbottitura del poggiatesta del copilota.
-James!-, esclamò Nô. La giapponese sparò tre colpi dal finestrino prima di cambiare caricatore. L’uomo noto come il Giustiziere sparò a sua volta. Finì il caricatore colpendo alla perfezione il blocco motore. L’auto nemica non era rinforzata e decelerò sensibilmente.
-Sto bene!-, rispose lui, -Vai! Vai, John! Siamo quasi al punto!-.
L’uomo udì Nô parlare alla trasmittente. Neroko doveva essere prossimo. L’auto riuscì per miracolo a inerpicarsi lungo la salita.
-Lo spiazzo!-, esclamò John. Si adoperò per frenare.
C’era ancora un’auto dietro di loro. Distante, ma non demordeva.

 

-I rinforzi dovrebbero essere prossimi.-, disse Arjun. La donna li vedeva. Un elicottero moderno, piccolo e con pochi posti, ma con ben tre commandos ben addestrati.
Ma c’era qualcosa che non andava. Non sparavano, non si mettevano in contatto…
La donna ebbe appena il tempo di imprecare che la situazione cambiò di nuovo.

 

L’elicottero era in volo stazionario e scendeva rapido. John fece per inchiodare quando lo vide.
-Merda!-. Si fermò, mani in alto. La frenata fu così brusca da impedire a chiunque di ripararsi. James Crowain batté la testa contro il parabrezza. Il suo mondo si oscurò per un istante.
Poi li vide. Uomini armati. Fucili di vario tipo. AK e armi più moderne. Vestiti da straccioni sotto giberne vecchie di almeno tre decadi se non di più.
Avevano un nome. Dacoit. Tagliagole prezzolati al soldo delle organizzazioni criminali indiane.
E uno di loro brandiva un RPG-7, mirando alla loro auto. Erano in dieci.
James calcolò le possibilità. Manco a parlarne di uscirne vivi da uno scontro simile.

Ma James non era il solo a calcolare le possibilità.
Neroko Tsubikome, a bordo del HAL Dhruv. L’elicottero ospitava comodamente lui e i due piloti e montava una mitragliatrice da portello, attualmente sotto il suo controllo.
Ma si rendeva perfettamente conto dell’inutilità di una tale potenza di fuoco: anche aprendo il fuoco non avrebbe potuto impedire ai nemici di fare fuoco sull’auto che, già danneggiata e piena di bozzi, non avrebbe retto a lungo un tale volume di fuoco. In più, c’erano degli uomini con mitragliatrci RPD e M60. Armi da fuoco di soppressione che, contro quell’elicottero così sofisticato ma fragile, potevano essere devastanti.
E soprattutto, laggiù c’era Nô. La sua signora. Lo Yakuza sentì il cuore avvinto da dita gelide.
Non poteva abbandonarla, ma non intendeva neppure essere responsabile della sua morte.
Una sventagliata di mitragliatrice tempestò la strada. L’auto inseguitrice fece dietrofront.
Si allontanò, rapida.

 

La donna al volante imprecò senza parlare, stringendo lo sterzo fino a sentire dolore.
-Erano sicuramente dei Dacoit di qualche cartello criminale.-, ragionò Arjun.
-L’elicottero non è atterrato. Non li ha prelevati. E non era dei nostri.-, disse lei.
-Quindi pensi che siano una terza fazione? Forse interessata a catturare quegli occidentali per qualche ragione?-, chiese l’uomo. La donna annuì. Conosceva Arjun. Avevano anche avuto una breve relazione, ma era acqua passata. L’uomo era comunque quello più abile del suo gruppo.
E aveva subito capito ciò che pensava. Aveva una mezza idea che li avrebbero rivisti, quei tizi.
E, poco ma sicuro, non in circostanze liete e favorevoli.
-Torniamo alla base. Il capo vorrà sapere cosa c’è in ballo.-, disse la donna.
-Subito.-, rispose lui, decisamente di pessimo umore.
Comprensibile: la situazione si era deteriorata molto, molto in fretta.
E il peggio doveva ancora venire.
-Chiama anche la polizia e gli Interni. Forse riusciamo ancora a evitare il disastro.-, disse lei.

 

-Che facciamo?-, chiese John.
-Usciamo. Mani in alto e sguardo basso. Cerchiamo di capire se possiamo giocarcela.-, disse James. L’uomo sospirò. Non che avessero scelta: sono circondati. Uscirono dall’auto, armi in alto sopra la testa, mani alzate e l’uomo si accorse di aver commesso un errore: gran parte dei loro nemici era nel bosco, relativamente impossibile a individuarsi dall’alto.
-Armi a terra e dite al vostro elicottero di andarsene.-, disse una voce. Maschio, indiano, sicuramente molto confidente nel suo vantaggio. L’uomo lo cercò, trovandolo poco dopo.
Baffi lunghi, barba, carnagione color caffelatte e un viso leggermente deturpato da una cicatrice. Brandiva il megafono come fosse stato un’arma. Rapidamente, lui e gli altri lasciarono a terra le armi.
-L’elicottero ora deve andarsene.-, disse l’uomo col megafono.
-Nô.-, disse il Giustiziere.

-Qi…-, sussurrò lei. C’era rabbia sui suoi lineamenti, oltraggio, l’infamia di chi non ha scelta se non la resa. L’uomo capiva. Comprendeva. Ma non era il momento né il luogo per rivisitare le eroiche gesta dei guerrieri nipponici di altri tempi.
-Ora.-, sibila l’uomo. Nô sospira. Annuisce. Estrae la trasmittente con due dita. Percepisce gli sguardi di tutti su di lei mentre da l’ordine.
L’elicottero rimane in volo. Un minuto, uno e mezzo. Armi puntate, colpi in canna, i Dacoit sembrano pronti alla strage. Poi, lentamente, con un senso di ineluttabilità innegabile, l’aeromobile abbandona l’area. Lasciando da soli l’uomo e i suoi con i cattivi.
-Ora… chi siete?-, chiede finalmente l’uomo. Valuta, registra. Non è un esercito organizzato, solo un branco di tagliagole armati sino ai denti. Eppure, hanno i numeri, la potenza di fuoco e la posizione idonea a falciarli. Non hanno scelta. Il tizio al comando sorride.
-Mani sopra la testa. E niente scherzi. Ora vi perquisiremo, Uno ad uno. Se troviamo anche solo un’arma…-, lascia la frase in sospeso, -E qui le domande le faccio io.-.
Iniziarono da John, poi James, poi Nô (sulla quale si soffermarono con mani decisamente troppo lubriche per poter essere detta solo un’onesta perquisizione) e infine toccò all’uomo.
Conciliabolo in malayalam, poi l’uomo da un ordine. E dei cappucci vengono calati sulle teste dell’uomo e dei suoi, prima di venire portati via.

 

È solo dopo un tragitto a piedi di venticinque minuti circa che vengono fatti entrare in delle auto e dopo un’altra ora circa e infinite svolte e circonvallazioni appena percepibili, James Crowain sente le auto frenare. Viene fatto scendere. Gli tolgono il cappuccio. Gli altri sono accanto ad altrettante auto, guardati a vista. Ma non legati.
Un prigioniero per veicolo. Manovra notevole. Ben organizzata, anche troppo.
Infine, la vede. Una tenuta, fortificata come una sorta di fortezza moderna. Guardie armate ai quattro angoli. Lo stile è probabilmente Mogol, ma non saprebbe dirlo con certezza. Poco ma sicuro, è imponente e ben tenuta. Vengono scortati dentro, oltre la sala all’ingresso e altre guardie decisamente più professionali dei Dacoit che li hanno catturati.
Ed è allora che si trovano in un soggiorno, arredato con mobili d’epoca e schermi moderni. E, seduta su un divano, c’è una persona, avvolta in un sari tradizionale, con gioielli d’oro al collo e orecchini stupendi che da soli dovevano valere come il PIL dell’Hamical Pradesh.
Dalima Kothil. Gli occhi verdi analizzano, scrutano ognuno dei presenti. C’è una soddisfazione assoluta, totale. Si sofferma un istante brevissimo su di lui prima di alzarsi.
E James Crowain capì che la loro situazione era appena peggiorata, in modo notevole.
Dubitava che la bella indiana li avesse sequestrati solo per punire lui, ergo…
Ergo era il caso di rispolverare quel vecchio detto.
“Dalla padella alla brace.”.

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