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Erotici Racconti

Fattezze rassicuranti

By 16 Settembre 2019Febbraio 13th, 2023No Comments

Me lo aspettavo in un certo qual senso, ero per così dire interiormente addestrato, coinvolto ed erudito e lo avevo pacatamente appreso mio malgrado, che prima o poi un sole di quella portata m’avrebbe tinteggiato i sogni decorandomi in definitiva le membra e nel contempo m’avrebbe abbellito in ugual modo l’intelletto arricchendolo. Io avevo intuito che quell’aria sarebbe diventata ben presto irrequieta, che quelle nebbie infinite che ricoprono questa piana desolante alla fine si sarebbero diradate per sempre, le notti sarebbero diventate profumate come il sandalo, quello che io accendo peraltro regolarmente, allorquando la legge delle stagioni m’indica la primavera, sì, perché quando c’è il clima mite io allargo le braccia e mi scaglio per terra, fissando il cielo con il naso all’insù. 

Vorrei vedere dove nasce la notte, passare ore per fissare un albero, vederlo crescere, coprirmi delle sue foglie, doveva succedere ed è successo. Anche quest’anno, ripetitivo come una festa, mi sono svegliata con la voglia giusta e pertinente di captare il meglio di me stessa, di prendere tutto ciò che mi aggrada, e principalmente la disposizione e la volontà di fluttuare. Noto che le mie trepidazioni s’esaltano aumentando, ogni cosa diventa più avvenente ed elegante, addirittura dolorosa e talvolta spaventosa, poiché anche l’amore assume connotati sconcertanti e sconvolgenti. Erano anni che non t’incontravo. Stavo correndo per scaricare un po’ di quell’elettricità che mi ritrovo addosso, tu passeggiavi in senso opposto con un cane buffo, dato che ho notato prima lui di te, mi sono fermata per accarezzarlo voltandoti le spalle, dopo mi sono piegata e ho sentito la tua mano sulle mie natiche, ho urlato logicamente, più di spavento che per altro e girandomi ho visto il tuo sorriso d’adolescente mai cresciuto.

“Sei proprio un cretino” – t’ho detto ridendo mentre t’abbracciavo, tu divertito insistevi nel darmi pacche sul sedere molestandomi. 

“Adesso, però la smetti”.

“Nadia, sono secoli che non t’ammiro come Dio comanda”. 

“Chissà mai, che cosa ci sarà di così contegnoso e formale d’ammirare”. 

In seguito i saluti, le smancerie, i come stai, i figli, le mogli e i mariti. Alla fine, scopriamo entrambi di non esserci mai sposati, che tu sei diventato un bravo operaio in ferie, io viceversa, una discreta e riguardosa musicista però a spasso. T’ho frequentemente raccontato del mio conservatorio, di tutti quei dannati e smisurati esami che ho dovuto e devo ancora sostenere se voglio guadagnare qualche euro, di quanto mi manca la nostra sbornia all’esame di maturità, di come ho fatto faticosamente a campare in questi penosi quindici anni con un mestiere, che mestiere poi non è. Nel tempo in cui parli del tuo solito lavoro, delle tue canzoni, delle tue aspettative e dei tuoi viaggi strampalati io desidero toccarti delicatamente i capelli. Passeggiamo, più volte ti guardo e non ti trovo cambiato, neppure invecchiato, allora mi lancio: ti prendo sottobraccio con un invito a casa, eppure nel dirtelo ho l’angoscia, la paura, poiché tutta la parte destra del mio corpo freme e ribolle, il mio sguardo scalpita, s’incrocia con il tuo, bellissimo, azzurro come il cielo. Mi sembri un bimbo, mi sei sempre sembrato un malleabile e garbato tenerone da coccolare e da viziare, tu però rovesci argutamente ben presto l’invito annunciandomi: 

“Perché invece non vieni tu a casa mia? Così, mi darai una mano per tagliare l’erba del prato, dal momento che sei una bracciante campagnola?”.

“No, smetti di chiamarmi rustica campagnola, smetti subito, hai capito?” – e rido tanto lasciandomi andare, a crepapelle come non facevo da mesi. 

A scuola mi chiamavano agreste campagnola, perché io abitavo fuori città e ogni fine settimana, specialmente d’estate, mi trovavo a lavorare nei campi per guadagnare qualche soldo. In conclusione accolgo favorevolmente la proposta, indosso gl’indumenti adatti e lo seguo. Per tutto il viaggio i ricordi s’accumulano e scorrono silenziosi, io seduta in maniera poco osservante delle regole, con le gambe incrociate sul sedile m’accendo una sigaretta e rido smodatamente, i capelli mi scendono sul viso, lui m’osserva, io abbozzo un sorriso d’una malizia accigliata, bieca e persino perfida: 

“Sai, sei diventata più avvenente, molto amabile, sei risolutamente più fica?”. Io scuoto la testa annuendo. 

“Levami una curiosità? Tu componi ancora melodie?”.

“Sì, di frequente, le canto però al cane, dato che lui le ascolta volentieri dandomi più completezze e soddisfazioni che con gli esseri umani”. 

“Ti capisco”.

“Se vuoi, ti regalo volentieri una cassetta”.

“Devo scodinzolare?”.

“No, però è sufficiente che non fai la pipì sul sedile”. E ridiamo illimitatamente e sonoramente a non finire. 

“Certo, che tu sei sempre fuori di testa” – dico io.

“Già, hai ragione, hai visto come sono diventata? Poi invecchiando m’inasprisco e peggioro”. 

Io sono euforica, gioconda, ottimista e sfavillante, appena arriviamo vicino a una casa di campagna malmessa, sento spegnersi il motore e in quell’attimo mi preoccupo.

“Abiti qui?” – chiedo io disorientata e per di più perplessa. Lui annuisce con un gesto di scuse, poi m’indica il prato.

“No, tu sei realmente ammattito. Io pensavo che fosse un prato di qualche casa a schiera o cose simili, qualche metro quadro, ma questo è un campo intero da falciare” – gli dico io impensierita. 

“Beh, va bene, dai, per te che cosa vuoi che sia. Che razza di campagnola sei”.

Io immagino che lui mi prenda in giro, almeno lo spero, per precauzione lo guardo sottecchi e faccio di no con la testa, come dire non se ne parla nemmeno.

“Non è ancora giunto il tempo, in effetti, per quanto io ricordi, manca ancora qualche settimana per il primo taglio” – gli annuncio io cultrice, esperta e intenditrice della materia.

“Va bene, allora ti fermerai qua per mangiare?”.

“Ecco, così va già meglio, questo qua è un argomento che mi piace, quello sì che m’ispira”.

Nel frattempo il cielo s’annuvola e un’aria fresca m’accarezza le gambe, il tuo cane sollecita un’urgenza di gioco, tu lo accarezzi e noto adesso il colore della tua pelle già abbronzata. Ho però un fremito, dato che ti sto guardando con gli occhi socchiusi, con la bocca aperta appena nascosta dai capelli. Per buona sorte non te ne accorgi, però un tumulto di sensi mi sta inumidendo e l’aria frizzante stuzzica i miei capezzoli. Io resto ferma a guardarti giocare con il cane e mi gira la testa: mi sto eccitando come una volta, come una ragazzina, senza eccessi di parole o di situazioni piccanti, nella semplice grazia e nel lineare accurato garbo dei tuoi gesti, poiché ho un tuffo al cuore, quando ti giri e rimani fermo a guardarmi:

“Che cos’hai Nadia? Dai vieni dentro, avrai senz’altro freddo” – tu mi sussurri.

Sì, andiamo dentro, o forse no, magari è meglio non insistere, tuttavia i tuoi occhi mi calamitano polarizzandomi in una casa dai colori vivaci e io ti seguo. Un corridoio ornato d’una foto e qualche pianta divide una serie di stanze speculari, dopo mi mostri la cucina, come quelle d’una volta, con quel contenitore di legno a sponde alte che si usava per impastare il pane casereccio e il camino. In un angolo, un piccolo canapè sul quale mi fai accomodare con il tuo cane, che subito viene ad accovacciarsi ai miei piedi provocandomi un senso d’immensa gioia infantile. Tu arrivi con una coperta e m’avvolgi malgrado le mie brevi proteste, il cane si mette a giocare con un lembo e ho un bel daffare per farlo smettere, finché non si mette buono a dormire. Tu mi porti anche una tazza di tè caldo, guardo ogni tuo movimento e rispondo a stento a ciò che mi chiedi, sono persa nei tuoi occhi, nella precisione del tuo modo di fare, nei passi enormi che fai avanti e indietro, nelle tue mani che maneggiano una pentola, che si bagnano e arrossiscono quando le asciughi. Mi chiedi che cosa desidero e quasi rispondo: tu. La ragione ancora non m’ha abbandonato e lascio a te la decisione. Tu hai caldo e rimani scalzo con i jeans che ti scendono perfetti lungo le gambe, una camicia appena aperta sul petto abbronzato, in quel modo sei terribilmente eccitante. Questo però te lo dico e subito dopo stringo gli occhi, mi mordo la lingua come chi aspetta una tempesta, tu invece ridi perplesso, perché mi piace anche questo tuo modo di fare, di ridimensionare tutto sminuendo ogni cosa. 

“Secondo me fumi troppo” – rispondi. Io divento rossa da sotto la matassa di quei capelli. 

“No, dico sul serio. Perché io e te non abbiamo mai scopato?”.

Nel frattempo t’avvicini, fletti le gambe e mi dai un bacio sulla fronte, appena avverto le tue labbra sfiorarmi io ho un sussulto.

“Per la ragione che non t’ho giammai adocchiata in tale maniera. Nadia, se ben rammento, tu eri in compagnia di quell’individuo, precisamente colui che ti voleva maritare, ricordi?”. Io frattanto mi nascondo, perché divento piccina, quasi gretta e dimessa. 

“No, al contrario, fidati, ero io che volevo sposare lui, dammi retta” – proclamo io, accarezzandoti la punta del naso, poi piego la testa di lato e guardo il pavimento con quelle mattonelle rosse. 

“Che cosa ci faccio qui?” – m’interrogo.

“Adesso però mangiamo” – rispondi tu, con delle fattezze che mi fanno ridere. 

Io scopro addirittura che sei un buon cuciniere, uno di quelli nostrani, però con gusto, così ti domando come mai uno come te non si è ancora sposato.

“Che dire mia bella, questione d’occasioni mancate, poco impegno, testa che non c’è mai stata, lasciare scorrere il tempo in cerca d’opportunità migliori, mi riferisco alla mia naturalmente. Azioni diverse, fatti vari, cose d’ogni sorta, episodi e concetti differenti sfuggiti e mai più trovati. Dai, beviamoci su”. 

“Chi è il ritratto della donna che c’è sulla mensola nell’andito?”. Tu rimani un attimo in silenzio riflettendo e valutando, dopo appoggi la forchetta e mi squadri manifestando: 

“E’ una di quelle occasioni che mi sono mancate, perché il destino ha stabilito e infine fatalmente voluto così”.

Io capisco che non è il caso d’insistere né d’assillare oltremodo il ragionamento, giacché lo decifro leggendolo nell’azzurro dei tuoi occhi, rapidamente cambio discorso ed evito in modo metodico di guardarti. Una di quelle emozioni, che forse in un altro periodo dell’anno non risultano all’appello.

“Io invece vivo con una donna” – controllando la tua reazione da sotto in su, eppure tu non fai neanche una piega.

“Non so che cosa ci sia tra di noi, neppure se c’è qualcosa, malgrado ciò, sai quelle situazioni che t’allettano attirandoti come una mosca sul miele. Poi è anche una questione d’esigenza, perché da sola non ce la farei a ogni costo”.

“In tal caso rintraccia un miliardario”.

“Piuttosto vado a battere. Sai che palle con un miliardario, sì, il benessere, i soldi, l’agiatezza e la prosperità, però anche dilemmi, problemi e incognite, poi dietro ciascuno di loro c’è una famiglia, amanti, grattacapi, noie costanti e rogne varie. Prova a immaginare che cosa sia la famiglia d’un miliardario”. Io convengo annuendo con la testa e ammettendo appieno il concetto. 

Tu mi fai ridere ancora, stavolta mi perdo naufragando nei tuoi occhi, sento tutta me stessa un fremito: alle mani, ai piedi e allo stomaco, in quel momento butto giù un bicchiere di vino alla svelta, senza staccarti gli occhi di dosso.

“T’ho mai riferito che mi piaci un mucchio?” – gli rivelo io, cercando di assumere gli atteggiamenti più impliciti e sottintesi assieme alle movenze più allusive che conosco. 

L’esitazione ti scava, l’incertezza t’avviluppa e la remora recondita t’assale, sei in pieno intralcio, lo noto molto bene che sei dubbioso e tentennante, vistosamente irresoluto, sicché seguo il perimetro del tavolo mettendomi dietro di te per massaggiarti il collo per smussare quell’attimo così delicato e spinoso che si respira nell’aria. 

“Di’ un poco, tu fai così con tutti quelli che incontri?”.

A dire il vero m’indigna e mi risente un po’ questa domanda, però io fingo di non udire e proseguo sussurrandoti in un orecchio:

“No, per nulla, al momento unicamente con te”.

Tu mi blocchi le mani, io ne approfitto per stringere sennonché le tue.

“Nadia è un bel nome, non trovi?”.

Io mi libero e t’abbraccio stampandoti un bacio sulla guancia, dato che capisco che qualcosa non va, perché riflettendoci un istante forse sono stata un po’ troppo frettolosa e superficiale, ciononostante non riesco ad allontanarmi. In quel preciso istante rintocca il campanello e il cane si precipita alla porta abbaiando, ti alzi e vai ad aprire, ti sento parlare con qualcuno e uscire. E’ come se mi svegliassi, perché un senso di panico mi pervade, così decido di rigovernare, di muovermi, poiché si stiano fuori per quasi dieci minuti, la mia ansia aumenta, finché decido d’andarmene. E’ stato tutto un errore, io sono un autentico malinteso, a tal punto percorro il corridoio e anziché andarmene mi soffermo su quella foto. La ragazza è bella, un vero incanto, ritratta su d’una spiaggia con un gran sorriso e due occhi deliziosi che ti conquistano, là di sotto c’è una dedica: “A te, affinché le tue mani non abbiano mai freddo. Al mio più grande amico”.

Io indugio ancora un poco, tardo, rallento di proposito, poi decido di fare un giro per la casa, vedo il disordine della camera da letto, i mobili vecchi che mi fanno impazzire, il bagno in perfetto ordine, ma lineare e spartano, una camera con i tuoi strumenti musicali, la stanza con il vino, una scala che porta al piano di sopra. Salgo, faccio una fatica enorme ad aprire la botola, però ne vale la pena: è una soffitta alta, in parte vuota e zeppa di cose ai quattro angoli, entra però una luce strana dalle due aperture circolari, il pavimento è pulito, fatto con i mattoni come una volta. Un fascio di sole corre centrale, io ho freddo ai piedi, mi tolgo le scarpe, i calzini e mi rannicchio in quello spazio, in mezzo al pavimento, avverto gli occhi farsi pesanti, quasi m’addormento, finché una voce mi scuote:

“Nadia”.

“Sono qua” – dico io balbettando.

“Che cosa ci fai lassù?” – ti sento ridere, poi vedo il tuo cespuglio di capelli spuntare dalla botola.

Io ti sorrido tutta acciambellata e con le mani sotto la testa come per fare da cuscino.

“Avevo freddo”.

Tu scuoti la testa e vieni a sederti accanto, incroci le gambe e mi guardi interessato, cerchi un po’ di conversazione parlando dei compagni di scuola, di chi è andato in seminario, di quello che adesso si è sputtanato e fa il commissario di polizia, di quelle due che hanno avuto a che fare con le sostanze stupefacenti, di chi è all’estero, chi non è più tra noi mortali, di chi ha aperto un grande emporio, della bella che ha sposato veramente uno pieno di soldi e passa ore e ore dallo psicanalista e tanti altri ancora del nostro giro che non rivediamo da parecchi anni. Io mi giro alla posizione di prima, ti guardo negli occhi:

“Tu, viceversa, che cos’hai di nuovo da riferirmi, dai racconta un po’?”.

“Che cosa dovrei svelarti? Ho sempre fatto una vita normale, ordinaria: gli amici abituali, il consueto bar, le usuali mostre, i concerti, la ragazza ora sì, ora no”.

“Tu non me la racconti giusta, vorrei crederti, sai. L’ultima volta che ci siamo visti è stato cinque anni fa a quella cena, ricordi?”.

“Lì, in quell’occasione tu non m’hai neanche salutato, m’hai totalmente ignorato. Questo te lo ricordi, vero Nadia?”.

“A parte la mia brutta figura che oggigiorno riconosco appieno, quella volta hai detto che stavi passando un brutto ciclo accompagnato da uno sconveniente periodo. Mi spieghi chi è quell’incantevole fanciulla nel ritratto?”.

Tu prendi fiato, mi sorridi quasi per bisogno e per occorrenza. Io aspetto, ho tempo, non ho neanche più un lavoro, dacché oggi non so più che cosa sia la fretta, la sollecitudine né l’urgenza.

“Forse ti meraviglierai, ma io volevo semplicemente dirti che sono un pederasta”.

Tu attendi una mia replica o uno sguardo che però non arriva.

“Va’ avanti, continua, parlami in modo pacifico che ti ascolto”.

“Lei era una ragazza stupenda, l’unica favolosa donna con la quale mi sia trovato realmente a mio agio, l’unica che pretendesse cose straordinarie dalla mia vita, il successo con le canzoni, la fama, la gloria. A lei bastavo io per quello che sono, con i miei capricci, con tutti i miei difetti, con le mie stramberie, con le mie debolezze, con le mie distrazioni e con le mie leggerezze, poi un giorno, quando abbiamo preso questa casa, ha deciso che potevo anche cavarmela da solo ed è partita. Lei m’ha lasciato in ultimo quella foto e non l’ho più rivista. Tu che sei una donna, me lo spieghi?”.

Io ho gli occhi lucidi per quello che lui eccezionalmente m’espone, questi episodi m’addolorano e m’affliggono nell’animo, perché faccio fatica nel contenere e a reprimere le lacrime, i tuoi invece sono occhi emozionati, entusiasti seppur scossi, alterati, colpiti e immensamente turbati da tutti quei dolorosi e rattristanti ricordi.

“Non lo so. Probabilmente la tua innata omofilia ad alcune donne in certe situazioni crea paura, però credo che forse se ne sia andata perché lei t’amava troppo. Sai che cosa ti dico: quando vedi sbocciare una rosa t’accorgi quanto sia enormemente difficile contenere e delimitare l’amore. Tu per lei eri una rosa, e quando t’ha visto così ha creduto che il suo tempo accanto a te fosse finito. Il rovescio della medaglia è che poi le rose sfioriscono e muoiono, lei t’ha raccolto nel momento migliore, non ha voluto vederti appassire”.

Tu non parli, scruti il vuoto e piangi in silenzio, io t’abbraccio, agguanto la testa tra i seni e ti coccolo, ti copro dalla luce con la mia chioma.

“Tu hai paura dell’amore stellina, hai l’inquietudine di lasciarti andare, t’assale il panico perché temi d’ammalarti o d’ammalare, diciamo d’infettarti e di sgarrare di nuovo, di prenderti un’ulteriore cantonata. Non è così?”. Nei tuoi lamenti e nel tuo profondo rammarico io capto e intuisco leggendo tra le righe la conferma e la dimostrazione di tutto quello che mi evidenzi. 

“Nadia senti, ti dirò che non sono indisposto né mi sento sofferente, ho comunque tanta paura” – m’esponi tu, con un chiaro segno di disperazione e con un evidente scoraggiamento che di continuo t’assale.

Io ti lascio sfogare, non mollo la tua testa e con l’altra mano lentamente mi sfilo la maglietta, sento le tue lacrime calde sulla mia pancia, slaccio il reggiseno e t’accolgo nel mio grembo, poi ti costringo a succhiarmi un capezzolo senza smettere d’accarezzarti. Mangiami, fa che io nutra la tua vita, ti succhi, lecchi con la delicatezza d’un fiore. Tu lo fai gonfiare e poi gli giri attorno con la punta della lingua, io ansimo, emetto brevissimi sospiri di piacere e ti sorrido, agguanto il tuo viso nelle mie mani, ti guardo e scendo sulle gambe per baciarti il naso sorridendo, poi le labbra, infine con la maglietta ti pulisco le lacrime dal viso. T’abbraccio forte, poi ci alziamo in piedi e ti stringo alla vita, adesso sono io immersa nel tuo torace. Rimaniamo stretti per un bel po’ di minuti, ascolto il battito del tuo cuore diventare sempre più rapido, m’allungo sulle punte dei piedi e infilo la mia lingua tra le tue labbra, le esploro, sento la tua che l’avvolge, c’intrecciamo mentre la labbra vanno a chiudersi in un bacio infinito.

Avverto le tue labbra sulle mie, dentro le mie, sopra, sotto, ti passo un mano tra i capelli e ti massaggio pigramente la schiena per istanti immensi. Tu m’abbracci, d’improvviso una mano passa sul fianco e risale la mia pelle fino al seno, nel tempo in cui m’accarezzi ti strappo i bottoni della camicia e la sfilo buttandola lontano. Pure io compio la medesima cosa: tu tocchi me, io lo ripeto sul tuo corpo, questo è il mio gioco amore mio. Tu capisci al volo, mentre avverto che sale un’eccitazione incontrollabile. Guardo i tuoi muscoli alzarmi da terra, con le gambe stringo i tuoi fianchi come in una morsa che non voglio lasciare mai e ti bacio, sembro impazzita e forse lo sono davvero. Tu m’appoggi per terra, scendo frenetica tutto il tuo corpo e vado ad abbassarti i pantaloni e le mutande di colpo, per non perdere tempo infilo in bocca il tuo cazzo già duro e con le mani t’aiuto a sfilarti i jeans, ti tolgo le scarpe e le calze, adoro il tuo sapore.

Ti masturbo e ti lecco i piedi, poi mi faccio violenza per non saltarti addosso e prendere quella carne nella mia, attendendo che il gioco lo adesso lo conduca tu. Tu mi copi, però con una lentezza che non ho mai visto negli uomini. Voglio morire qui, non ho più controllo sui miei nervi e quasi svengo, quando mi fai scivolare il cazzo sulla pancia, lo fai apposta, risali e poi scendi di nuovo, lo passi sul mio pube e mi solleciti il clitoride con la punta. Fai così per un po’ di secondi, poi i miei ansimi, i miei ti voglio, la mia bocca contorta nell’eccitazione irrefrenabile ti hanno staccato e così sei sceso per masturbarmi con le mani, poi con la bocca.

“Non ce la faccio più. Adorami, interessati, amami ti supplico, amami e sii solidale adesso”.

Ed è lì che m’hai afferrato, m’hai scaraventata sul pavimento caldo di sole, sollevandomi all’altezza di te inginocchiato, bellissimo in controluce e m’hai penetrata. Io piango di piacere quando ti sento entrare, tutta me stessa s’apre e t’accoglie grondante e senza ritegno. M’aggrappo alle tue gambe aperte, mi lego alle tue braccia forti che mi stringono sui fianchi, perché tu mi percorri nei segreti più belli, tu che mi fai urlare. Sì, sfondami, tu che a ogni mio singhiozzo controlli che l’attimo dopo sia più intenso, tu che sei la mia fonte di vita, sei il piacere fatto sentimento.

Io non esisto più, volo tra le tue braccia, sono solamente una somma d’emozioni incontrollabili e piango gemendo di felicità. Ogni mio orgasmo è un tuffo del cuore e per te un’eccitazione in più, tu sudi tantissimo, passo le mani sul tuo petto e poi me le lecco, voglio il tuo sapore, amare anche la tua essenza. Tu continui sempre più forte, io adesso urlo e scuoto la testa a destra e a sinistra, a volte mi faccio male, però non lo sento. Grondo pure io incrementando le mie intime irrequietudini, infine imparo che ansimi, sigilli le labbra, malgrado ciò io ti dissuado imprigionandoti, t’imploro scongiurandoti di collocare interamente il tuo liquido seminale fino all’ultima goccia, in un visibilio profondo che in ultimo scaturisce erompendo in un orgasmo nerboruto, poderoso, direi fenomenale. Tu cadi sopra di me urlando, però senz’uscire, io spalanco le gambe e t’accarezzo forte la testa con le mani. Ti bacio ancora amabilmente, ho le labbra gonfie di piacere e la lingua morbida, rimanendo così attaccati fino ad addormentarci. La brezza della sera ci ha svegliato siamo infreddoliti e ci rivestiamo ridendo, tu m’inviti a fare una doccia, ti lasci spogliare, mi spogli e un sollievo d’acqua calda cade sui nostri corpi esausti dall’amore. Ti lavo io, ti pulisco la schiena, le gambe, i piedi e il cazzo che torna a gonfiarsi: ma guarda tu questo monello e ridiamo per l’occorrenza. Tu esegui la stessa cosa con me, mi baci, prendendomi ancora sotto la doccia e anche se mi fa un po’ male accetto con piacere, sento il tuo corpo fremere e mi eccito nel sussurrarti:

“Sta’ così, ti prego, mia stella” – mentre mi farcisci con il tuo fluido esuberante e vivace. 

Io reclino il capo e mi mordicchio le labbra in un piccolo orgasmo, resto abbracciata e ti bacio sorridendo. Il tuo cane abbaia contento nel vederci e forse rimproverandoci, strigliandoci un poco per averlo lasciato da solo per tutto il pomeriggio, usciamo assieme per fare una passeggiata abbracciati e in silenzio, mentre gli confesso:

“Tu già sai che io prediligo di gran lunga le femmine?” – gli riferisco io, facendo la bisbetica grossolana e scandalizzata, stuzzicandolo di proposito.

Lui mi squadra in modo dubbio e inquisitorio, poi esordisce in maniera bonaria e indulgente con una delle sue trovate in modo beffardo, controverso e finanche cedevole, oserei dire discutibile:

“Che cosa dire: oggi una deliziosa saffica e un pederasta di turno che al momento scopano, che avvenimento. Occhio però, che ci sia riguardo, precauzione e zelo per quest’evento”.

In conclusione sopraggiungono le nostre altisonanti e sonore risate, le mie mani calorosamente attorcigliate tra le sue che premono, i miei occhi sono perduti nei suoi che sondano ammaliati e avvinti il mondo, mentre un’affettuosità e una benevolenza globale che non ha bandiere né confini né insegne ci contagia conquistandoci, come questa stagione dei fiori che enuncia esponendo senza restrizioni né riserve il suo naturale corso, il suo benevolo e clemente arrivo: io adoro l’esistenza, bramo questo gradevole modo di vivere.

{Idraulico anno 1999}    

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