Bea rientrò a casa nel tardo pomeriggio.
L’aria era ancora calda, il sole ormai più morbido. Camminava con passo lento, rilassato, la maglietta che le cadeva morbida sulle spalle e sotto solo lo slip del costume, ancora umido e salato di sole e piacere.
Il corpo era leggero, disteso.
La mente… calma.
L’eccitazione era svanita come la brezza del pomeriggio.
Ma l’eco dell’orgasmo provato poco prima, all’aperto, sotto gli occhi di un ragazzo sbocciato davanti a lei come un frutto acerbo, le restava dentro.
Non nel corpo, ma nel sorriso.
Aprì la porta di casa, chiudendola piano dietro di sé.
Il silenzio domestico l’accolse con rispetto, come un complice che non fa domande.
Si tolse subito la maglietta, lasciandola cadere sulla sedia più vicina.
Poi afferrò l’elastico del costume e lo fece scivolare giù dai fianchi, lasciandolo cadere a terra. Rimase nuda per un attimo, a pelle viva.
Sentiva l’olio sulla pelle, la traccia del sole sulle spalle.
Il passeggero oscuro taceva.
Riposava.
Aveva avuto il suo spazio, il suo momento.
Ora era Bea a essere di nuovo padrona del corpo.
Andò in bagno.
Aprì l’acqua della doccia.
Il suono del getto che cominciava a scorrere la fece sorridere.
Entrò sotto il flusso con un sospiro lungo, profondo.
La temperatura perfetta: né troppo calda, né troppo fredda.
Il corpo accolse l’acqua come un lenzuolo liquido.
Ogni goccia portava via il giorno, ma lasciava impressa la memoria.
Si lavò con calma, senza fretta.
Massaggiò il cuoio capelluto, fece scivolare la schiuma lungo la schiena, tra le gambe, sul ventre.
Non cercava più stimolo.
Cercava sollievo.
Pace.
E la trovava.
L’odore del sapone neutro si mescolava all’aria umida del bagno.
Chiuse gli occhi.
Rivide l’acqua che scorreva tra le pietre, il corpo di Fabio inginocchiato accanto a lei, il cielo che filtrava tra i rami.
Un piacere consumato senza rimpianti.
Semplice.
Potente.
Giusto.
Uscì dalla doccia e si asciugò lentamente, con gesti lenti, precisi.
Poi si guardò allo specchio.
Le guance rosate. Gli occhi limpidi.
Era Bea. Completamente.
E il passeggero oscuro?
Sì, era lì.
Ma taceva.
Sorridendo.
La sera stava calando quando il telefono vibrò con una notifica.
Bea era stesa sul letto, ancora con l’odore del sapone sulla pelle e i capelli umidi raccolti in un asciugamano.
Aprì il messaggio senza aspettative.
Era un gruppo di amiche del paese.
Qualcuna aveva saputo che la sera dopo ci sarebbe stata una festa in centro: musica, bar all’aperto, pista da ballo improvvisata tra le vie acciottolate.
Un evento raro, nel ritmo lento e prevedibile dei giorni estivi.
“Ci sei anche tu, vero?”
“Dresscode: da urlo 😈”
Bea sorrise.
Il messaggio era semplice, ma bastò.
La noia dolce del paesino, la quiete infinita, i pomeriggi lenti tra sole e pensieri… tutto questo l’aveva tenuta al riparo. Ma ora sentiva che era il momento di uscire. Di essere vista. Di scegliere chi essere.
Sì, avrebbe partecipato.
Ma non come una ragazza qualunque.
Chiuse gli occhi per un momento.
E sentì un respiro leggero dentro di sé.
Non era ancora un richiamo.
Solo una presenza che ascolta.
Il passeggero oscuro non parlava. Ma stava già osservando.
Aprì l’armadio.
Scostò qualche abito. Guardò le scarpe.
Le dita accarezzarono un paio di tessuti con lentezza, cercando sensazioni sotto la pelle più che soluzioni.
Niente sarebbe stato lasciato al caso.
La serata non era ancora cominciata.
Ma già, nella sua mente, Bea immaginava l’ingresso. Lo sguardo. Il primo bicchiere in mano.
E la prima occhiata ricevuta.
Il gioco si stava preparando.
E presto… qualcuno avrebbe fatto la prima mossa.
Forse lei.
Nel pomeriggio, prima ancora di pensare al trucco, alle scarpe, o al profumo, Bea sentì il bisogno di uscire.
Non per distrarsi.
Per riconnettersi.
Prese le scarpe da corsa, indossò un top sportivo, dei leggings leggeri, e uscì di casa.
L’aria era calda ma non afosa. Il cielo terso, le cicale già cantavano da ore.
Ma lei non cercava frescura.
Cercava luoghi. Ricordi. Tracce.
Iniziò a correre a passo regolare, lasciando che il fiato trovasse il suo ritmo da solo.
Le gambe si muovevano bene, forti.
Il corpo sapeva dove stava andando ancora prima che lei lo decidesse.
Entrò nel bosco.
La luce filtrava tra i rami come un mosaico tremolante.
Il profumo dell’erba alta, delle foglie scaldate dal sole, della terra viva si mescolava al suono dei suoi passi sul terreno morbido.
Le scarpe toccavano piano, rapide.
Il cuore batteva costante.
Ogni curva, ogni pietra, ogni albero era parte di una storia recente, ma profonda.
Riconobbe il sentiero.
E poi, l’apertura tra i tronchi.
La radura.
Si fermò.
Nessuno.
Solo silenzio.
Solo vento lieve sull’erba alta.
Ma lei non cercava nessuno.
Non ora.
Voleva solo ricordare. Sentire. Ritrovare sé stessa.
Fece un passo dentro.
Guardò il punto dove aveva lasciato i vestiti.
Il masso su cui aveva poggiato la mano.
L’erba ancora più corta al centro, schiacciata dal calore e dai corpi.
Non c’era niente. Ma c’era tutto.
Un respiro profondo.
Poi si voltò e tornò sul sentiero.
Scese verso il torrente, lo costeggiò a passo più lento.
L’acqua scorreva come sempre.
Chiara.
Indifferente.
Complice.
La corsa si trasformò in camminata.
Poi in quiete.
Bea si fermò un istante.
Guardò il riflesso dell’acqua.
Vide il suo volto.
E sotto… un sorriso. Un’eco. Un nome che non serviva pronunciare.
Poi riprese a correre.
Rientrò a casa mentre il sole cominciava a declinare, ma la luce era ancora limpida, aranciata, come se volesse accompagnarla nel suo passaggio.
Chiuse la porta alle sue spalle e si fermò un istante nel silenzio della casa.
Aveva corso.
Aveva ricordato.
Ora era pronta a farsi vedere.
Si tolse gli abiti con calma e andò in bagno.
Aprì l’acqua della doccia e, come sempre, fu il primo gesto a sciogliere ogni tensione.
Il getto caldo le colpì le spalle, scivolando lungo la schiena, sulle gambe, sul ventre ancora vibrante di vita.
Il profumo del bagnoschiuma le avvolgeva la pelle come una carezza leggera.
Si lavò lentamente, con gesti larghi, fluidi.
Poi, una volta uscita, si tamponò il corpo con l’asciugamano senza fretta.
Davanti allo specchio, osservò la pelle ancora bagnata, i piccoli rivoli d’acqua che correvano sulle curve.
Stava per cominciare.
Prese il flacone di crema idratante e la stese con cura.
Braccia, décolleté, addome, fianchi.
Le mani si muovevano lente, attente, come se ogni centimetro di pelle andasse risvegliato.
Poi passò al trucco.
Non doveva essere eccessivo.
Ma doveva colpire.
Iniziò dagli occhi.
Le iridi chiare — quell’ambigua miscela di grigio e verde — dovevano emergere, brillare.
Usò ombre scure, sfumate verso l’esterno, quasi a dare uno sguardo felino.
Una linea sottile, precisa, allungava lo sguardo.
Poi il mascara. Generoso. Strato dopo strato, fino a renderle le ciglia folte, intense.
Le sopracciglia furono definite con precisione, senza renderle rigide: espressione prima di tutto.
Infine, le labbra.
Le disegnò con un rosso profondo, pieno, deciso.
Le modellò con pazienza, facendo attenzione all’arco di Cupido, fino a formare un piccolo cuore perfetto.
Non era solo un rossetto. Era una firma.
Si guardò.
Il contrasto tra occhi e bocca creava un effetto magnetico.
Seduttivo.
Ma ancora contenuto.
Poi si vestì.
Cominciò dalla lingerie.
Un tanga sottilissimo, in microfibra rossa, privo di cuciture. Quasi invisibile al tatto, ma perfettamente aderente, un prolungamento del rossetto sulle labbra.
Poi fu il momento dei leggings in similpelle.
Li tirò su lentamente, sentendoli aderire alle gambe come un guanto. Le cosce venivano avvolte, disegnate. I glutei…
I glutei non erano solo fasciati: erano esposti nella loro forma, nella loro rotondità, nella loro perfezione. Il tessuto lucido seguiva il solco centrale con tale precisione da far sembrare che la pelle ne fosse parte.
Erano provocanti.
Ma non urlati. Una scultura da indossare.
Infine, il top.
Lo annodò dietro la schiena con un doppio nodo, teso, saldo. Le due bretelle si chiudevano dietro il collo, lasciando completamente nuda la schiena e appena contenuto il seno. Il tessuto sul petto era teso. Appena si muoveva, si intuiva il disegno dei capezzoli. Non c’erano imbottiture. Non c’erano barriere. E lateralmente… uno sguardo attento poteva cogliere ciò che il centro celava.
Poi si voltò verso lo specchio.
Si guardò.
E per un attimo… esitò.
Il riflesso che la fissava aveva qualcosa di diverso. Era sempre lei, certo. Ma più netta, più marcata, più… dichiarata.
Si chiese, in silenzio, se davvero quella fosse la sua scelta. Se davvero quella pelle lucida, quelle curve in mostra, quelle labbra a cuore e quello sguardo felino fossero solo frutto del suo desiderio.
O se, in fondo, il passeggero oscuro non avesse cominciato a suggerire — con troppa naturalezza — come presentarsi al mondo.
Non provò disagio.
Non si sentì forzata.
Ma una parte di lei lo riconobbe. E lo accettò.
Poi afferrò l’elastico.
Raccolse i capelli con un gesto deciso, tirandoli bene sulla nuca.
La solita coda alta. Quella che oscillava con i tacchi. Quella che parlava più di mille sorrisi.
Si voltò e andò verso la scarpiera.
Scelse con cura.
Non tacchi da esibizione, né da bambina obbediente.
Un elegante tacco otto, sottile ma non estremo.
Appoggiato su una suola stabile, adatta a quell’opus romanico del centro, bellissimo ma traditore, che non perdonava un passo incerto.
Li calzò con precisione.
Si alzò in piedi.
Si guardò un’ultima volta.
Poi prese una piccola borsetta rigida, da portare sotto braccio.
Dentro: il necessario. Rossetto, chiavi, un documento, nulla più.
Aprì la porta, un respiro, un passo, e uscì.
Il centro del paese non era lontano da casa.
Una passeggiata breve, cinque minuti appena, ma quel tratto — per Bea — fu come attraversare un ponte invisibile tra due mondi.
L’aria della sera era mite, profumata.
Il sole calava dietro le colline, lasciando dietro sé un cielo che andava sfumando dal blu al cobalto.
I campi respiravano ancora il calore del giorno, ma la brezza che scendeva dalle montagne rendeva l’atmosfera leggera, quasi frizzante.
Bea camminava con passo sicuro, ma non ostentato.
I tacchi battevano regolari sul selciato, accompagnati dallo sciabordio morbido della coda alta che oscillava dietro la nuca.
Il centro era già animato.
Le prime note della musica si diffondevano tra i vicoli.
Luci appese tra i balconi e i lampioni davano un’aria da festa semplice ma sincera.
Le vide subito: le amiche erano già tutte lì.
In cerchio, con i bicchieri in mano, i volti truccati, i corpi vestiti per la serata.
Ognuna aveva scelto qualcosa di sexy, di sfacciato quanto bastava: gonne corte, top attillati, paillettes, tacchi alti.
Ma quando la videro arrivare… la scena cambiò.
Gli sguardi si spostarono.
Le parole si sospesero.
E anche chi stava sorridendo abbassò leggermente il bicchiere.
Era lei.
Bea.
Lucida. Fasciata. Silenziosamente esplosiva.
Il tessuto lucido dei leggings brillava sotto le luci, disegnando il suo corpo come se fosse stato scolpito a mano. Il top teso esaltava il petto senza mai sembrare esagerato. La schiena nuda, la coda alta, le labbra rosso fuoco: tutto parlava di una donna che sapeva esattamente come voleva apparire.
— «Finalmente!»
— «Volevi l’ingresso teatrale?»
— «Mamma mia Bea, ma cosa ti sei messa?!»
— «Sei una bomba stasera…»
I saluti furono affettuosi: baci sulle guance, abbracci che sfioravano la pelle e il profumo.
Qualcuna le mise un cocktail in mano. Ridevano. Si lanciavano occhiate.
Ma sotto la superficie leggera, Bea sentiva, l’avevano notato, tutte.
Qualcuna con ammirazione sincera, qualcuna con un briciolo di invidia, tutte, con un pizzico di stupore.
— «Hai uno sguardo strano stasera…» disse una, stringendole il braccio.
— «Quasi felino.»
Bea sorrise, non rispose, perché lo sapeva….E il passeggero oscuro, in silenzio, sorrideva con lei.
Poi la musica salì.
Le prime note forti fecero vibrare i bicchieri.
E il gruppo si sciolse in una risata collettiva.
Si buttarono in pista a ballare.
Il gruppo di ragazze, brillante come un grappolo di luci accese, non passò inosservato.
Nella pista all’aperto, improvvisata tra piazzette e selciati, una comitiva così agghindata, scintillante di colori, trucco e sorrisi, era una calamita naturale. I ragazzi — del paese e delle frazioni vicine — si avvicinarono come falene verso una fiamma. Alcuni con l’aria sicura di chi conosceva già i giochi, altri con quella timidezza disarmata che li rendeva ancora più affamati.
Uno a uno cominciarono a farsi sotto.
Uno offrì da bere.
Un altro si inserì in un ballo con movimenti goffi ma determinati.
Qualcuno si limitò a lanciare sguardi, aspettando che qualcun altro rompesse il ghiaccio.
E così, lentamente ma con precisione chirurgica, le ragazze vennero allontanate l’una dall’altra, trascinate via dalla corrente invisibile della festa, isolate in mezzo alla folla.
Anche Bea si trovò presto sola.
Ma non spaesata.
Al centro.
Come doveva essere.
La musica era adrenalinica, bassi profondi che facevano vibrare il petto, ritmi incalzanti che guidavano i fianchi più delle gambe.
Il battito stesso del suo cuore sembrava sincronizzato con la cassa.
Intorno a lei, corpi.
Tanti.
Vicini.
Si muovevano insieme.
Fianco contro fianco.
Petto contro spalla.
Polpacci che si sfioravano, mani che si alzavano nell’aria calda.
Era il gioco.
E Bea ballava.
Sorriso sulle labbra, occhi vivi.
I tacchi che battevano sicuri sulle pietre irregolari, le anche che ondeggiavano al tempo giusto.
Sapeva che stava danzando non per sedurre, ma per esistere.
Poi accadde.
Una mano.
Dal nulla.
Morbida. Calda.
Decisa.
Si posò sul suo gluteo destro, pieno.
Non una carezza.
Una presa.
Sostenuta.
Prolungata.
Non il risultato di un passo sbagliato o di un contatto da folla.
Ma un gesto.
Scelto.
Fatto per essere sentito.
Si voltò, con calma.
Il gesto non fu brusco, non fu una reazione.
Fu una curiosità consapevole.
E davanti a sé trovò Fabio.
Lo riconobbe subito, anche se… non era lo stesso ragazzo del torrente.
Era cresciuto o forse aveva solo imparato a guardarla con occhi nuovi.
Indossava un paio di jeans aderenti, scuri, che gli seguivano bene le gambe.
Una camicia floreale, sbottonata quel tanto che bastava a lasciar intravedere il petto abbronzato e ben definito.
I capelli, che ricordava scompigliati e naturali, erano ora pettinati con cura, leggermente mossi, lucidi.
Profumava.
Un sentore fresco, agrumato, ma con una nota calda di fondo.
E sorrideva.
La mano era ancora lì, sul suo gluteo, senza premere.
Bea gliela tolse, con un gesto deciso, ma non duro.
Nessuna rabbia.
Nessun imbarazzo.
Solo… una comunicazione precisa.
Poi si voltò di nuovo e continuò a ballare con lui.
Fabio la raggiunse subito nel ritmo.
Le sue mani sfioravano le braccia, la schiena, si spingevano verso i fianchi ma si fermavano sempre prima del troppo.
La guardava negli occhi.
Non più con adorazione.
Con interesse.
Le fece fare una piroetta sotto al suo braccio alzato.
E quando Bea tornò nella sua traiettoria, si ritrovò davanti a lui, ma avvolta.
Fabio si era messo dietro di lei, un passo più vicino.
Le mani le scivolarono sul ventre.
Non invasivo.
Ma presente.
Le dita appoggiate come se volesse dirle “ci sono”.
E Bea restò lì.
Con il corpo contro il suo.
Le braccia leggermente allargate, il bacino che seguiva il tempo della musica.
Sentiva il calore di lui.
Il respiro che le sfiorava i capelli.
Il suo corpo che la conteneva.
In quel momento, vide una delle sue amiche passare poco più in là, per mano con un ragazzo.
Ragazzo sconosciuto, improvvisato cavaliere della notte.
Lei la vide, sorrise, le fece l’occhiolino.
Bea ricambiò.
Poi si voltò di poco, giusto quel tanto da appoggiare la testa al petto di Fabio, mentre le sue mani restavano salde sul ventre.
Non era prigionia.
Era scelta.
La musica continuava.
La pista ballava.
Lo sentì.
Il suo corpo, il suo desiderio.
Fabio, alle sue spalle, aveva cominciato a premere con più decisione.
Una spinta netta, diretta, sulla parte bassa della schiena.
Nessuna ambiguità.
Non era solo il ritmo del ballo.
Non era un caso.
Era memoria.
Era volontà.
Fabio non aveva dimenticato.
Il torrente, le mani lucide d’olio, le sue labbra attorno a lui.
Tutto era tornato.
E ora… voleva continuare.
Una delle sue mani, quella che era rimasta appoggiata con naturalezza sul ventre, si mosse.
Salì lungo il fianco di Bea, con un percorso lento ma sicuro.
Passò sotto il bordo del top — quel top che le lasciava la schiena nuda e i seni appena contenuti.
Le dita sfiorarono la pelle dell’ascella, poi curvarono sotto il tessuto, cercando il contorno del seno.
Ed è lì, in quell’esatto momento, che qualcosa si accese dentro Bea.
Non un pensiero.
Non un’emozione.
Ma una presenza.
Il passeggero oscuro.
Non bussò.
Non suggerì.
Spinse.
Entrò.
Occupò spazio.
Non come ospite.
Come padrone.
— «È tuo.»
— «Puoi fare tutto quello che vuoi.»
La voce non era interna.
Era parte di lei.
Un brivido le attraversò la schiena, ma non fu di timore.
Fu come se la pelle stessa si stesse preparando ad accogliere altro.
A diventare scena. Strumento. Desiderio.
Gli occhi di Bea si chiusero un istante.
Non per rifiutare, ma per sentire meglio.
Il cuore rallentò.
Il corpo si sciolse contro Fabio, non in resa… ma in comando.
Era lei.
Ancora lei.
Ma con lui — con lui — che vegliava.
Dea non dovette più svegliarsi.
Era già lì.
Non più una presenza da evocare, non più una voce da attendere.
Era parte di Bea, integrata nella sua volontà.
Come un istinto lucido, come una padronanza nuova.
Non spostava l’equilibrio: lo sosteneva.
Il corpo non ebbe esitazioni.
La mano di Fabio, ancora nascosta sotto il top, trovò il capezzolo già teso.
Le dita lo circondarono, lo sfiorarono, cominciarono a giocare con lentezza, con un misto di cautela e desiderio.
Bea la prese.
La sua mano.
Con dolcezza.
Ma con fermezza.
Non per allontanarla.
Per tenerla lì.
Un attimo, un respiro.
Lo guardò negli occhi.
— «Non qui, Fabio.
Non voglio dare spettacolo.»
La voce era calda, profonda.
Senza tono di rimprovero.
Era comando.
E rispetto per sé stessa.
Fabio comprese.
Tolse lentamente la mano dal seno, ma come se volesse lasciare un segno.
Una promessa.
E per confermare il suo intento, la portò dietro di lei.
Entrambe le mani si posarono sui glutei di Bea.
Li soppesò.
Li accarezzò.
Le dita affondarono con un gesto che non aveva bisogno di parole: ti voglio.
Lei chiuse gli occhi.
Non per fuggire.
Ma per sentire.
Poi parlò ancora, con la stessa calma decisa.
— «Fermati, Fabio.
Troviamo un altro posto.»
Gli voltò le spalle.
Un mezzo sorriso sulle labbra.
I fianchi che si muovevano a ritmo lento, ma già diretti altrove.
La pista era ormai alle spalle.
La musica ancora pulsava nell’aria, ma era come ovattata, lontana.
Bea lo prese per mano.
Non corse.
Non si voltò a guardarlo.
Lo guidò semplicemente.
Con un passo lento, deciso.
Come se sapesse esattamente dove stava andando.
Come se tutto il resto — le voci, le luci, la folla — fosse scomparso.
Svoltarono in un vicolo.
Poco illuminato.
Una striscia d’ombra tra due case antiche, dove la pietra sembrava trattenere il fresco della notte.
Il silenzio lì era diverso.
Intimo.
Complice.
Non appena furono al riparo, Fabio la prese.
La spinse contro il muro.
Il contatto fu pieno, denso.
Il corpo di lui contro il suo, senza esitazione.
Le mani salite a cercarle i polsi.
Glieli sollevò sopra la testa, li raccolse in una sola presa.
Salda.
Dominante.
Ma senza violenza.
L’altra mano — libera — cominciò il suo viaggio.
Scese lungo il braccio, poi passò sulla clavicola, il seno.
Sfiorava, esplorava, stringeva.
Senza chiedere.
Come se le sue dita avessero memoria.
Il respiro di Bea si fece corto.
Le gambe appena piegate per assecondare la pressione.
Il petto che si sollevava contro di lui.
E poi… la bocca.
Famelica.
Si abbatté sulla sua senza avviso.
Un bacio pieno, profondo, invasivo e ardente.
Le labbra si cercarono e si scontrarono, si riconobbero subito.
Fabio aveva fame.
E lei lo lasciò mangiare.
La sua lingua entrò subito, con sicurezza.
Nessuna timidezza.
Le accarezzò il palato, la lingua, le labbra interne, con una danza carnale e disordinata.
Era desiderio puro.
Senza filtri.
Senza freni.
Bea emise un suono profondo, quasi un gemito, soffocato tra le loro bocche.
Sentiva il muro freddo dietro la schiena, ma anche il calore assoluto del corpo di lui davanti.
Le mani sopra la testa si mossero appena, ma restarono lì.
Il bacio continuava.
Non si spezzava, non rallentava.
Era una spirale, un vortice che si richiudeva su di loro e li isolava dal mondo.
La lingua di Fabio danzava nella sua bocca con forza e fame, ma anche con una sensualità nuova, più sicura.
Bea non si sottraeva.
Anzi.
Rispondeva con uguale intensità.
Apriva. Accoglieva.
Si fondeva.
Nel frattempo, la sua mano libera scese.
Sfilò lungo il fianco, sfiorò l’anca.
Poi scivolò in avanti, lentamente.
Senza fretta, come se stesse cercando qualcosa di prezioso sotto una superficie proibita.
E lo trovò.
Le dita si posarono sul cavallo dei leggings lucidi.
Non direttamente sulla pelle.
Ma era come se non ci fosse alcun filtro.
La pressione fu delicata, inizialmente.
Un massaggio rotondo, lento, pieno.
Un tocco che non chiedeva, ma prendeva.
E il corpo di Bea reagì.
Immediatamente.
Un sussulto.
Un respiro spezzato.
Un gemito profondo che le uscì dalla gola e si perse nella bocca di lui.
Non se lo aspettava.
Non in quel modo.
Non in quel momento.
Ma accadde.
Un’ondata.
Un picco.
Un’onda sorda e liquida che la attraversò, che le fece piegare leggermente le ginocchia, che le incendiò il ventre e la mente.
Un orgasmo.
Violento.
Inaspettato.
Irresistibile.
Fabio se ne accorse.
Lo sentì sotto le dita.
Nel tremore delle sue cosce.
Nel respiro rotto.
Nel modo in cui la fronte di Bea si appoggiò al suo petto, ancora ansimante.
E lei non disse nulla.
Non poteva.
Non serviva.
Rimase lì, sospesa tra il muro freddo e il calore delle sue mani.
Svuotata.
Accesa.
Fabio la sostenne con un braccio saldo intorno alla vita, mentre con l’altra mano continuava a esplorarla.
Non si era fermato.
Non aveva allentato la presa.
Le dita, premute ancora sul punto più sensibile, muovevano cerchi lenti e profondi, con una confidenza nata non dall’esperienza, ma da una fame precisa.
E la sua bocca, ancora, mangiava la sua.
Il bacio non era più una ricerca.
Era un atto.
Un possesso.
Una fusione.
Le loro lingue si rincorrevano con violenza, con ritmo, come se volessero fare l’amore a modo loro, in quella stretta umida e affamata.
I respiri si intrecciavano, spezzati, accesi.
Bea — o forse ormai solo Dea — sussurrò.
Lo fece tra un bacio e l’altro, con voce roca, graffiata, ancora impastata di piacere.
— «Sei un demonio…»
Lo disse appoggiando la fronte alla sua.
Gli occhi chiusi.
Il corpo ancora tremante.
Poi, con un sorriso lento, carico, consapevole, gli sussurrò all’orecchio:
— «Ora trova un posto più appropriato per proseguire…
Altrimenti ti scopo qui.»
La frase scivolò tra le labbra con un tono che non era una minaccia.
Era una certezza.
Un’opzione concreta.
Una promessa feroce.
Fabio si fermò solo un istante.
La guardò.
Gli occhi lucidi, il fiato corto, la schiena ancora appoggiata al muro, il ventre scoperto dalla maglietta che si era sollevata…
E capì.
Quel vicolo stava per diventare troppo piccolo.
Le prese la mano.
E stavolta fu lui a guidare.
La presa era forte, il passo sicuro.
Bea lo seguiva, ancora scossa da quel picco improvviso, ma con i sensi in allerta e il cuore in piena corsa.
I loro corpi camminavano ancora troppo vicini per dire che si fossero separati davvero.
Poco più avanti, sotto un vecchio lampione che sputava luce calda e intermittente, una moto da cross era parcheggiata a lato della strada.
Alta, scura, il sellino lungo, le pedane piegate verso l’alto, come se attendesse qualcuno da troppo tempo.
Fabio si voltò verso di lei.
La inforcò con un gesto secco.
Le mani abituate al manubrio, le gambe che scavalcarono con la naturalezza di chi sa esattamente cosa sta facendo.
Aprì le pedivelle posteriori con un colpo secco del piede.
Poi si girò, la guardò.
— «Sali.»
Bea lo fissò per un secondo.
Non per esitazione.
Per puro gusto del controllo.
Alzò un sopracciglio.
Il tono fu basso, ironico, appena sussurrato:
— «E i caschi?»
Fabio piegò la testa di lato, un sorriso storto sulle labbra, gli occhi lucidi nella penombra.
— «Non è della moto che ti devi preoccupare.»
E con quella risposta, tutto cambiò.
Bea sentì un brivido salire lungo la schiena, attraversarle la nuca, scivolarle tra le scapole.
Non era paura.
Non era insicurezza.
Era elettricità.
Promessa.
Spinta.
Allungò la gamba e salì.
La coda alta oscillò mentre si sistemava dietro di lui.
Le mani si posarono sui suoi fianchi.
Il corpo si avvicinò al suo.
Era salita.
Sì.
Ma non per seguirlo.
Per vedere dove osava portarla.
La moto si lanciò nel buio della campagna, inghiottita dal silenzio e dalla luce della luna.
Fabio non correva.
Non aveva bisogno di farlo.
Sapeva dove stava andando.
E sapeva che non era lontano.
La strada si snodava tra campi immobili, alberi addormentati e filari d’uva già neri nella notte.
Il potente faro della moto tagliava la tenebra come un raggio solido, aprendo un varco tra la polvere e i pensieri.
Bea dietro di lui — o meglio, Dea — non disse nulla.
Le mani sui suoi fianchi, il petto aderente alla sua schiena, la testa inclinata per seguire il vento.
Sentiva il motore vibrare sotto di loro.
Sentiva il corpo di lui, saldo, vivo.
Poi la svolta.
Un tratto di strada secondaria, sterrata, più scura.
Un lampione solitario brillava in lontananza, sulla via principale, dando una luce fioca e obliqua che arrivava appena a illuminare un piccolo spiazzo.
Lì, un’ansa del torrente scorreva tra le rocce, nascosta tra canneti e pietre piatte.
Un muretto a secco correva lungo il bordo della strada, disegnato dal tempo, robusto, pulito.
Perfetto.
Fabio spense il motore.
Il silenzio fu immediato.
Assoluto.
Il rumore dell’acqua, in sottofondo, sembrava un sussurro.
Si voltò verso di lei.
— «Scendi.»
Dea scese.
In silenzio.
Con grazia.
I tacchi toccarono la ghiaia con un suono pieno, rotondo.
Il cuoio dei leggings lucidi brillava appena sotto la luna.
Il top, ancora teso sul petto, tremava con il suo respiro.
Fece pochi passi.
Poi si voltò verso il muretto.
Appoggiò lentamente le mani sopra, prima una, poi l’altra.
Si girò con il busto.
E lo guardò.
Fabio la raggiunse in pochi passi.
Non c’erano esitazioni nei suoi movimenti, né parole di troppo.
La prese per i fianchi.
Le mani sicure, affamate, si chiusero sulla vita stretta di Dea.
La fece girare dolcemente e la guidò all’indietro, fino a farle sentire la pietra fredda del muretto sotto ai glutei.
Il contrasto tra la ruvidità del muro e la tensione calda del suo corpo fu immediato.
Poi tornò a baciarla.
Non c’era fretta, ma nemmeno delicatezza.
Era fame.
Una fame profonda, vibrante, che li avvolgeva entrambi.
Le loro bocche si cercavano come se fossero rimaste in attesa per giorni, le lingue che danzavano con forza, scambiandosi fiato, desiderio, morsi leggeri.
Ogni suono scompariva, tranne il loro respiro.
Le mani di lui, impazienti, scorrevano sulla schiena nuda.
Le dita trovarono il nodo dietro al collo, lo slacciarono con sicurezza.
Dea si staccò un attimo dal bacio, il viso inclinato, gli occhi socchiusi.
Sfilò lentamente il top, lasciando che il tessuto scivolasse tra le dita.
Poi si appoggiò di nuovo al muretto, mani e glutei puntati contro la pietra fredda, il busto aperto verso di lui.
La luna accarezzava la sua pelle, mettendo in risalto la tensione dei suoi seni nudi, il respiro ancora accelerato, il coraggio di chi si mostra senza timore.
Fabio la guardò come se la vedesse per la prima volta.
Poi si spogliò anche lui, con un gesto rapido, lasciando che la camicia gli scivolasse giù dalle spalle, rivelando la pelle calda e la linea tesa dei muscoli sotto la luce d’argento.
Voleva il contatto.
Pieno.
Sincero.
Innegabile.
Si avvicinò, posò le mani su di lei, sul petto nudo, sulle curve tese e tremanti.
Non solo per toccare.
Per sentire.
Per appartenere.
E di nuovo, le loro bocche si cercarono.
Le mani di Dea si spostarono sull’orlo dei jeans del ragazzo, ne seguirono il bordo fino ad arrivare al bottone, lo fecero aprire abilmente, come tutti gli altri bottoni che li chiudevano, prima di fare altro si alzò dal muretto e lo fece appoggiare.
Nessuna parola, solo gesti, labbra che si cercavano, senza alcuna imposizione scese sulle ginocchia e fece scendere i jeans di quel tanto che bastava per liberare la sua erezione.
Fabio non indossava intimo, il suo membro eretto scattò fuori, finalmente libero, per essere imprigionato dalla mano di Dea, lo carezzò, lo annusò e scoperse il glande lentamente. La mano libera scese ad impossessarsi dei testicoli, anche loro tesi e gonfi, mentre li intrappolava in mano la sua bocca si aprì ed emise un sospiro sulla pelle tesa e lucida. La lingua seguì il sospiro per non fare raffreddare la pelle, tutto il glande venne assaporato lungamente.
Dea adorava il membro eretto del ragazzo, pulito, morbido e profumato, ma soprattutto duro e prodigo di promesse licenziose, fece schiudere le labbra mentre lo faceva entrare nella sua bocca, la lingua continuava a giocare con il membro dentro di lei e continuava ad entrare, fino a arrivare al fondo della sua bocca, dove l’insistenza di Dea ad accoglierlo dette origine a delle reazioni fisiche della sua gola. Ma lei non desistette, un lungo sospiro, il fiato trattenuto e il glande scivolò fino nella sua gola, occupando lo spazio che di solito è dell’aria, ma che lei aveva deciso di donare a quello splendido membro.
Il singulto che ebbe quando il glande toccò il fondo della gola fu accompagnato da un sospiro del maschio che era attaccato a quel membro. Dea cominciò a fare uscire il membro per poi ricacciarlo dentro, alternando il respiro quando usciva all’apnea quando rientrava.
Fabio aveva gli occhi chiusi, il piacere di quella fellatio mai provata prima lo stava lanciando in paradiso senza possibilità di ritorno, prese la coda di Dea come se fosse un joistick per comandare i suoi movimenti e cominciò ad imporre un ritmo forsennato, non era più Dea a dare piacere con la bocca, ma lui che la stava usando per un’amplesso penetrativo orale.
Dea adorava essere usata in quel modo, per il loro reciproco piacere. il passeggero oscuro era lì con lei, le sussurrava “brava ragazza continua così, fatti usare prendi tutto il piacere” e lei accettò il consiglio impegnandosi sempre di più forzando sempre di più la sua gola, la rigidezza aumentò ancora, il membro divenne ancora più grosso nella sua bocca, finchè l’orgasmo l travolse. Gli schizzi potenti e imperiosi riportarono alla memoria il sapore e la consistenza del rapporto al torrente, ma questa volta entrambi si stavano dominando vicendevolmente.
Il piacere durò a lungo, fu intenso e abbondante, ma Dea non ne perse nemmeno una goccia, lo assaporò tutto, lo gustò come il più bel premio che avrebbe mai potuto ricevere. I respiri si calmarono, almeno quello di Dea.
Fabio non si fermò un istante, la fece alzare e la baciò, mangiandola nuovamente, assaporando il sapore del suo piacere nella bocca della ragazza.
Con gesti rapidi, decisi, ma non violenti la fece piegare sul muretto, i capezzoli tesi a contatto della fredda pietra trasmisero un brivido a Bea, Fabio le abbassò i leggings e si mise in ginocchio dietro di lei, non glieli tolse del tutto, li lasciò a metà coscia in modo da lasciare libera l’azione sul centro pulsante di Dea, delicatamente ma inesorabilmene fece scendere anche il tanga, baciano ogni parte del corpo della ragazza che veniva attraversato dalla stoffa.
Una mano per natica e allargò delicatamente alla sua vista l’antro del piacere della ragazza. Neanche un pelo ad ornarla, le labbra rosa in penombra rilucevano del suo piacere, della sua voglia. Si tuffò a mangiarla come se stesse nuovamente baciando l’altra sua bocca. Dea emise un mugolio strozzato il ragazzo la stava leccando come un vero artista, partendo dalla clitoride fino all’ano.
Non durò molto, non ci volle troppo tempo, Dea esplose di nuovo, sotto gli assalti lussuriosi del ragazzino impertinente, ma vero toro in quel momento.
Gli spasimi del suo corpo fecero strusciare i capezzoli sulla roccia, infondendo un piccolo dolore al corpo percorso dall’orgasmo che risultò ancora più intenso e amplificato.
Fabio si alzò una mano sulla schiena di Dea a tenerla schiacciata sul muretto, due piccoli passi di avvicinamento e la sensazione del glande all’ingresso della sua tana.
Immobile, in fremente attesa, si girò a guardarlo, lui in piedi, un sorriso quasi perfido sul viso “chiedimelo se lo vuoi”, lei sbarrò gli occhi, un gemito nuovamente uscì dalle sue labbra, e poi si arrese “prendimi”.
La parola non era ancora finita che Fabio fù tutto dentro di lei, a fondo, duro, allargando le sue mucose violentemente, quasi dolorosamente. Ma una volta entrato e posizionatosi bene dentro e dietro di lei fu solo piacere.
Lei la ragazza per bene, scopata all’aperto sopra a un muretto di sassi, con i pantaloni calati a metà coscia, da un ragazzo sconosciuto, che poteva prendere dal suo corpo tutto il piacere che voleva.
Il recente orgasmo di Fabio gli consentiva una certa resistenza, per quanto il guanto della ragazza fosse molto stretto. Il ritmo era serrato, la stava usando forte e a fondo, e questo a Dea piaceva molto, il suo piacere saliva ancora verso le vette, come pompato in alto da ogni affondo nella sua vagina. Saliva il piacere, il ragazzo la teneva ancora attaccata al muretto con la mano e sotto continuava ad usarla a darle e darsi piacere. una mano cominciò a carezzarle il gluteo si muoveva circolare, fino a sfiorare dove l’unione dei due corpi avveniva, Dea sentiva il suo piacere che veniva spalmato sulla pelle, l’incalzare del nuovo orgasmo in arrivo, si sentì dire “continua non smettere” all’apice del piacere sentì qualcosa penetrarla nel su antro più profondo, un dito spinto dentro a forza che la fece urlare a pieni polmoni tutto il suo piacere.
La ragazza era sudata, distrutta dal piacere, ma Fabio non intendeva smettere, estrasse il suo membro dalla ragazza che venne seguito da copiosi rivoli di piacere, li raccolse e li spalmò sull’antro della ragazza. Dea ancora persa nel piacere da poco provato si ritrovò penetrata dal ragazzo nel suo segreto più profondo.
La lubrificazione e la sorpresa del gesto non consentirono alcuna reazione, solo un nuovo urlo, questa volta di sorpresa e di dolore squarciò il silenzio della campagna. Fabio riprese con lo stesso ritmo interrotto ma in un nuovo mondo, più oscuro, più intimo.
Fece Alzare Dea dal muretto e le prese in mano i seni mentre da dietro trovava la psizione migliore per affondare completamente nell’intestino della ragazza.
Dea aveva gli occhi sbarrati, la bocca spalancata alla ricerca di aria che non riusciva a inspirare, il moto del ragazzo sembrava perpetuo, infinito, ma il ritmo aumentava, così come il piacere perverso che provava Dea.
E di nuovo fu lì, di nuovo fu spinta fino alla vetta del piacere, un nuovo miagolio, una nuova vibrazione del corpo, un nuovo orgasmo devastante le fece emettere versi e rumori fino ad allora sconosciuti. Il ragazzo si piantò in fondo al suo intestino e si lasciò andare, esplose nuovamente dentro di lei, poi lentamente si accasciò sulla sua schiena.
I due ragazzi si immobilizzarono per qualche momento regolarizzando i respiri e le pulsazioni, poi Fabio, lentamente, si sfilò da lei. quasi con grazia prese un fazzoletto per tamponare la fuoriuscita del suo piacere dall’intestino della ragazza e con delicatezza le rialzò il Tanga e i pantaloni.
La notte era ancora ferma, come in attesa di un epilogo.
Il muretto di pietra ora sembrava quasi caldo, complice silenzioso del loro abbandono.
L’acqua del torrente scorreva poco più in là, con quel suono regolare che sembrava riportare i pensieri alla superficie.
Dea era ancora senza il top.
La pelle esposta rifletteva la luce lunare, segnata appena da qualche brivido che non era più freddo, ma memoria viva del piacere.
Fabio le si avvicinò.
Nessuna fretta.
Nessun bisogno di ripetere.
Solo una tenerezza nuova, nata da ciò che avevano appena condiviso.
La baciò.
Lentamente.
Senza morsi, senza urgenza.
Un bacio che non chiedeva.
Un bacio che ringraziava.
E Dea rispose con la stessa dolcezza.
Le loro labbra si sfiorarono, si appoggiarono l’una all’altra come due mani aperte.
Silenziose. Piene. Appagate.
Poi lei si scostò, con calma.
Raccolse il top da terra, lo scosse leggermente e se lo rimise, annodandolo dietro la schiena con movimenti fluidi, misurati, quasi rituali.
Fabio si rivestì anche lui.
La guardava mentre lei sistemava i capelli, la schiena, il respiro.
— «Ti riaccompagno a casa?» chiese, la voce morbida, forse ancora un po’ incrinata dalla notte.
Dea alzò lo sguardo.
Sorrise.
Un sorriso pieno, sereno, complice.
— «No… grazie. Preferisco fare due passi.»
Si voltò leggermente verso la strada, poi verso il torrente.
— «Voglio respirare ancora un po’ questa notte…»
Fabio non insistette.
La osservò mentre si allontanava con passo leggero.
Il suono dei tacchi sul pietrisco.
La coda alta che si muoveva piano dietro la nuca.
La notte l’aveva avuta.
Ma non l’aveva afferrata.
Perché Dea non si trattiene.
Si incontra.
E poi si lascia andare.
Aveva fatto solo pochi passi lungo la strada silenziosa quando, alle sue spalle, sentì il rombo familiare della moto accendersi.
Fabio se ne andava.
La luce del fanale tagliò per un attimo l’oscurità, poi svanì.
Solo il rumore del motore, sempre più lontano, le fece compagnia per qualche secondo.
E fu lì, in quella solitudine improvvisa, nel profumo della terra umida, nel silenzio ripreso dalla notte, che Dea cominciò a ridere.
Una risata chiara.
Cristallina.
Inaspettata.
Sincera.
Scaturì dal basso ventre, salì attraverso il petto e le uscì dalle labbra come un’esplosione di libertà.
Non c’era volgarità.
Solo verità.
Solo corpo.
Si portò una mano alla bocca, quasi sorpresa di sé stessa, ma non si fermò.
Rideva, ancora, mentre il pensiero le scorreva in testa con una limpidezza disarmante:
— «Come cavolo faccio a stare seduta su quel sellino dopo questo assalto. Mi ha aperta in due.»
E rise ancora.
Quella frase, così vera e così assurda insieme, le sembrava la cosa più autentica che potesse pensare in quel momento.
Rideva perché aveva vissuto.
Perché si era lasciata andare.
Perché sapeva esattamente chi era.
Dea.
Bea.
Tutte e due.
Integre.
Insieme.
Il passo riprese.
La notte l’avvolgeva, ma lei brillava.
Di calore, di piacere, di libertà.
Spero che vi stia piacendo, come per la scorsa serie prediligo l’approccio mentale e non quello fisico per la descrizione dei miei racconti. Se avete commenti li leggerò volentieri qui o via mail a mogliemonella2024@gmail.com
Quanta classe , fascino e liberta’ hanno le donne che descrivi nei tuoi racconti si lasciano travolgere dalla tempesta, poi tornata la calma vivono l’impegnativa vita quotidiana come tutte. Questa trasformazione ,questo passeggero oscuro sarebbe bello occupasse l’anima di tutte le donne . Bea e Claudia sono bellissime in questo . Grazie mille
Grazie Ste. Quante belle parole, ti ringrazio sinceramente.
Non son nella testa delle donne, ma credo che ognuna di loro abbia dentro questo germe della lussuria, ma gli stereotipo, la società, le imposizioni culturali ancora non abbandonano totalmente il loro modo di esprimere la sessualità.
Alla fine fare sesso piace sia a maschi che a femmine, sarebbe illogico se piacesse solo a noi maschietti trasgredire.