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NOVE MINUTI

By 16 Settembre 2019Novembre 28th, 2020No Comments

Sto considerando quanto sia piacevole poter indossare ancora gonne leggere in questo fine settembre, quando scorgo la sagoma del bus delinearsi in fondo alla discesa…

Come ogni giorno, l’autobus delle sei e quarantacinque, che ci porta alla fermata della metropolitana dell’EUR, è talmente pieno di persone che sembra impossibile riuscire a guadagnarsi un posto tra l’equipaggio.

Per questo ho preso l’abitudine di farmi una passeggiata a ritroso nel percorso del bus, fino alla fermata precedente alla mia. Questo, ovviamente, per conquistare, con meno fatica, uno spazio all’interno di quel cetaceo su quattro ruote.

L’autobus si ferma davanti a me. Riesco a salire.

Dopo una mezza dozzina di inutili tentativi, finalmente le porte si chiudono dietro di me.

Il mezzo riparte per fermarsi alla fermata successiva; quella dove sarei dovuta salire io, se non avessi fatto la solita passeggiata a ritroso.

Quella era l’ultima fermata del centro abitato. Poi l’Enterprise, così l’avevo ribattezzato, avrebbe affrontato un lungo tratto di strada prima di arrivare in prossimità dell’Eur.

Nove minuti

Nove minuti: un tragitto la cui durata spesso, giocando e facendo scommesse sull’argomento, avevamo cronometrato.

Come sempre, altre persone riescono a salire a quell’ultima fermata, con il risultato di comprimere ulteriormente il resto dell’equipaggio.

Nella mia posizione, immobilizzata come sono, riesco appena ad intravedere quanti possano essere gli umanoidi che anelano un posto sull’Enterprise. Tanti. Ma  soltanto tre persone riescono a salire.

Dietro di me un uomo dall’aria distinta che avevo notato anche altre volte. Non avrà più di 40 anni.

Di fianco a lui un altro uomo, molto più in là con gli anni; non ho ancora affinato la capacità di saper assegnare l’età agli altri ma sicuramente quest’ultimo deve averne almeno sessantacinque di anni. Il terzo, compressi come siamo, non riesco nemmeno a vederlo.

Penso di essere stata fortunata, a trovarmi dietro il più giovane, visto che di solito quelli anziani non si reggono in piedi, non so se davvero oppure facciano finta per carpire una rapace palpata.

Finalmente le porte si richiudono. Partiamo, per affrontare come sempre, quei nove minuti.

Nove minuti in cui, chi è riuscito a salire sopra, può tirare un respiro di sollievo: almeno per quella mattina, e almeno su quel bus, ha smesso di guerreggiare.

Sto pensando che è un modo certamente estenuante per cominciare la giornata e mi rinfranco considerando che a scuola avrò un orario leggero: escluso un’ora d’anatomia e una di religione, il resto sono solo materie artistiche. 

Di colpo, il silenzio.

Non più il brusio delle persone.

Non più il motore che sforza in salita.

Solo il silenzio.

E quella mano.

Il contatto della mano di uno sconosciuto.

Non è un contatto casuale, ne sono certa.

È la prima volta che vivo con tanta consapevolezza quella situazione.

Sicuramente è già accaduto altre volte ma non vi ho mai dato il giusto peso; non ho ancora sviluppato questo tipo di malizia.

E soprattutto non mi capacito di essere io, così giovane, oggetto d’attenzione da parte di un adulto che avrà almeno il doppio della mia età.

Un’attenzione che percepisco con un semplice contatto.

Un soffio, quasi.

Leggero come un battito di ciglia.

Tutto attorno è un pigiarsi e pressarsi, indipendentemente dal sesso e dall’età; mentre dietro di me, solo dietro il mio culetto, c’è il vuoto.

E quella mano.

Una delicata mano che mi lambisce appena, senza nessuna pressione ma con intenzione inequivocabile.

Nove minuti. E ne rimangono almeno altri sette.

Mi chiedo: “Chissà cosa gli passa per la testa a questo qui?”

E ancora: “Ma non ce l’avrà una ragazza? Perché non va a scocciare lei, invece di infastidire una sconosciuta? M’è sembrato anche un bell’uomo. Non credo che gli manchino le occasioni…”

Penso e intanto, decisa a non lasciare andare le cose senza reagire,  porto il gomito sinistro di lato, in modo da allontanare lo sconosciuto, premendoglielo sotto il costato.

Ma più premo forte e più forte è la sua resistenza alla pressione del mio gomito. Percepisco nettamente i suoi addominali indurirsi sotto la mia spinta.

E la sua mano dietro di me non molla.

Avverto un inedito senso di calore nella pancia. Non so se è rabbia o che altro.

Riconoscendo quel poco di paesaggio che riesco a  scorgere, deduco che mancano circa sei minuti al capolinea. Ancora sei minuti in cui devo pazientare.

Intanto, con piccoli e quasi impercettibili tentennamenti, sento che la sua mano si fa  sempre meno leggera fino a diventare complementare alle forme del mio didietro.  Riconosco l’indice e il pollice poggiati sulla natica destra, il medio insinuarsi in mezzo al solco e l’anulare e il medio sull’altra natica.

“Insomma non vuole proprio smetterla? A quest’ora del mattino, pensa già a queste cose? Ma non ha paura che qualcuno lo veda?”

Vorrei proprio che qualcuno lo vedesse, così farebbe proprio una “bella figura”.

Però anch’io farei una “bella figura”, dal momento che non ho ancora protestato.

Forse perché sono impietrita dalla sorpresa e soprattutto dal contrasto di quel che sto vivendo: è vero che istintivamente ho serrato le gambe ma è anche vero che senza accorgermene ho cominciato ad apprezzare quel massaggio.

No. Ma cosa sto pensando!?

È insano, quel che mi passa per la testa. Eppure non credo di essere impazzita.

Raccolgo la mia lucidità e torno a “disprezzare” quell’ uomo, quell’ aguzzino che sta violando parte della mia intimità.

Forse nel serrare le gambe ho reso il mio culetto ancora più sodo, perché l’ho sentito emettere un mugugno di apprezzamento. Quel grugnito non è l’unica cosa che ho captato nettamente.

Avverto il suo respiro caldo infrangersi e distribuirsi tra i miei capelli. Ho ancora i capelli lunghi e lisci: ultimo residuo di un romanticismo tipico della mia età.

Il calore che fino allora avevo avvertito allo stomaco stava scendendo, presentandomi una sensazione nuova, proprio lì, in mezzo alle gambe.

La sua mano si è impossessata della mia natica destra e ha preso a roteare lentamente e comprimermi la parte di carne che è riuscita a conquistarsi.

Stringe e rilascia. Intuisco la sua soddisfazione dal ritmo lento e costante che imprime alla sua mano.

Di nuovo mi sento pervadere da quella sensazione di piacere per quel massaggio morbido e deciso.

Ma ancora una volta la ragione mi dice che ciò che sta accedendo non è giusto e per questo gli sferro una decisa gomitata nello stomaco.

Non molla.

Sgrano gli occhi.

Vorrei gridare, cercando aiuto, ma la mia salivazione è pari a zero e quel che sto subendo mi paralizza.

Di nuovo cerco di farmi forza pensando che dovrò subire ancora per poco quella tortura.

Ad un tratto sento la sua mano mollare la presa.

La pressione del mio gomito lo ha allontanato, penso.  O forse si è accontentato di quel che ha ottenuto.

Per prudenza, comunque, mi sposto più verso il centro della porta, avvicinandomi all’altro uomo, quello anziano.

Faccio appena in tempo a tirare un sospiro di sollievo quando capisco che non si è spostato per la mia gomitata, ma soltanto per mettersi più comodo.

Infatti, le mani ora sono due. Una per ogni natica.

Sto per piangere.

Guardo l’orologio contando i pochi minuti che mancano: tre, quattro al massimo..

Le mani prendono possesso delle mie rotondità aderendo con decisione al mio culetto.

Sono impietrita e indispettita per l’ indifferenza che c’è sull’ autobus.

Mi volto in ogni direzione, cercando aiuto con lo sguardo. Non c’è nemmeno una persona di sesso femminile alla quale rivolgere una richiesta di aiuto.

Un ultimo tentativo: guardo alla mia sinistra ma la persona che sta di fianco a lui, l’anziano, è immobile, con lo sguardo fisso sulla nuca della persona che ha davanti.

È incredibile. Siamo sei persone per metro quadrato e pare che io sia l’unica ad accorgersi di quanto sta accadendo.

Mi volto per sfidarlo con uno sguardo eloquente. Naturalmente non incrocia i miei occhi.

Mi rendo conto che ha un’aria indifferente, incorniciata in una posa di sincera innocenza. Una posa, la sua, ne sono certa, che renderebbe veramente poco credibile una mia denuncia gridata al resto dell’equipaggio. È più facile che io possa esser presa per una pazza paranoica.

Ma ora, forse  un sobbalzo, ha costretto il mio persecutore a cercare un appiglio, perché ora la mano è di nuovo una sola. Abbrancata alla mia natica sinistra.

Ma è solo il pensiero di un attimo. Indosso una lunga gonna di tessuto leggero, di tipo provenzale. È la fine di settembre e il tempo, come sempre a Roma, consente ancora un abbigliamento leggero.

“Questo è veramente troppo!”, penso.

La destra dell’uomo sta raccogliendo il tessuto della gonna, sollevandolo per farlo scorrere oltre il suo polso.

Grido dentro di me: “Mi sta sollevando la gonna!”.

Capisco in quel momento il significato del concetto espresso dalle compagne più grandi, per cui i jeans sono molto più pratici.

È evidente che si senta incoraggiato dal mio silenzio.

Capisce che ormai sono una preda in mano sua.

Una strana eccitazione si impossessa di me. E quando dico strana è perché non so davvero descrivere cosa sto provando.

La mano, la destra, che stava sollevando la gonna ha finito probabilmente il suo lavoro perché, per un attimo, non avverto più nessuna mano sul mio corpo.

Dopo un’attesa di pochi secondi avverto il calore di un dito, un polpastrello soltanto, che scorre lungo il confine tra le mie mutandine e la mia pelle.

Si sta dedicando ora all’esplorazione sotto la gonna. È in prossimità della parte inferiore del gluteo che insiste nella sua azione di esplorazione. Proprio lì dove, con una piega naturale, nasce la natica.

Il movimento è lento da destra a sinistra e viceversa.

Dl centro del mio culetto verso l’esterno.

È un movimento col quale il mio aguzzino mi trasmette tutta la sua eccitazione. Soprattutto per la temerarietà del suo gesto: una mano sotto una gonna, su un autobus pieno di gente.

Non capisco più nulla: vorrei che fossimo già all’Eur ma allo stesso tempo, per non perdere nessun movimento di quel polpastrello, socchiudo gli occhi.

Mi risveglio da quella strana estasi quando mi sussurra qualcosa nell’orecchio.

Non riesco a capire cosa ha detto.

Ma uno stato di terrore vero e proprio mi assale quando sento le nocche della sua mano destra sfiorarmi. Determinano un percorso che, all’altezza del mio culetto, in un unico movimento va dall’alto verso il basso. Realizzo cosa sta facendo: si sta aprendo la cerniera lampo dei pantaloni!

Voglio urlare, dargli del porco, ma la salivazione è ormai praticamente inesistente e il mio tentativo di dire qualcosa mi rimane strozzato in gola.

Il paesaggio che scorre oltre la testa delle persone, mi da la certezza che mancano poco più di due minuti al capolinea.

Avverto un calore, questa volta fisico, esterno al mio organismo. È la carne del suo membro, con la punta verso il basso, poggiata delicatamente in mezzo al solco delle mie natiche.

La sua mano porta quel bastone di carne ad aderire perfettamente all’interno del solco.

Le mie narici si sono allargate e il respiro si è fatto più profondo. I miei occhi sono appena dischiusi. Socchiudo e mi umetto le labbra con inedita voluttà.

La sua mano destra tiene aderente il suo sesso in mezzo alla mia fenditura.

Se lo sta carezzando lentamente su e giù.

La sinistra, intanto, mi palpa la natica sinistra mentre mi allarga il solco per portare il suo sesso più all’interno possibile, in mezzo ai miei glutei.

Avverto il calore del suo cazzo attraverso il tessuto delle mie mutandine.

L’azione della sua mano lo porta all’orgasmo. Ne sono certa. Avverto i fiotti che mi sta scaricando addosso.

Due, tre, quattro… non so quanti getti colpiscono l’interno della mia coscia sinistra.

Li avverto, caldi.

Scendono vischiosamente lungo la mia gamba…

Manca un minuto alla fine del viaggio.

Il bus si ferma.

Qualcuno ha prenotato la fermata per scendere prima del capolinea.

Quel “qualcuno” dietro di me grida: “Apre?!”

La porta al mio fianco si spalanca.

La mia gonna cala lungo le mie gambe, mentre il mio aguzzino scende dall’autobus.

Non ho il coraggio di voltarmi per guardarlo negli occhi.

Il cuore mi batte forte.

Da allora, pur prendendo lo stesso autobus per almeno tre anni, ci siamo sempre ignorati.

E di questo, almeno, lo ringrazio.

……………………..

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