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Racconti di DominazioneRacconti erotici sull'Incesto

M’s story. Capitolo 42. Nuvole nere all’orizzonte

By 2 Dicembre 2022No Comments

Mamà ha fatto il segno di vittoria in modo che la comunità creda che sia tutto a posto. Ma, grazie alla sua esperienza, immagina perfettamente cosa può succedere a una sposina che ha orgasmi violentissimi come li ho io con Leòn. Quando raggiunge il marito gli sussurra: “Mi amo, la encontraran aplastada, destrozada [sfondata, rotta]: va a pasar un lío”. Poi prosegue, svelta, con fare indifferente, verso la loro casetta.

Intanto, sugli scalini che portano sulla piattaforma si sta formando una coda: sono otto uomini, gli stessi sorteggiati da Bogumil al mattino appena svegli. Tutto attorno, la comunità chiacchiera, stanno aspettando qualcosa, la cerimonia del matrimonio della Hermandad (fratellanza) non è finita.
Mamà ritorna quasi correndo alla piattaforma, guarda Leòn che è su, accanto a me, gli porge due piccoli vasetti e alcune foglie: guarda il figlio serissima, con gli occhi che ora sono verde scuro. Leòn capisce, ringrazia Mamà sottovoce, poi, con fare indifferente, mi spinge in bocca due foglie e mi spalma gli unguenti dei vasetti nella patatina e nell’ano.
Madre e figlio han subito capito cosa potrebbe succedere; il padre, Bogumil, ci sta arrivando solo ora: ricorderete che una delle prime regole per le sottomesse è di essere una ragazza per bene e non essere sfondata: proprio quel che è appena successo a me, oltre ad essere sconvolta e sfiancata per la violenza dell’orgasmo.
Finalmente mi risveglio, qualche minuto ancora e mi riprendo. Leòn mi sussurra: “Mastica bene la foglia che hai in bocca: se qualcuno vorrà baciarti nascondila nella mano”. Ubbidisco mentre Leòn mi fa mettere a 4 zampe sul letto che si trova nella piattaforma.

Ed ecco che il primo fratello sale, abbassa i calzoni mostrando che è già in erezione: vedo un uccello importante. Parte un moderato applauso da parte della comunità mentre lui si posiziona dietro di me: senza tanti preamboli, spinge il sesso dentro la mia passerina. Non mi fa male, anzi non sento quasi niente: di sicuro il suo pene balla dentro la mia vagina, perché, dopo che ci è passato Leòn, tutti troveranno la mia vagina allargata.
Ma ecco che il fratello si alza, si rivolge alla piccola folla, è rabbioso mentre urla: “¡Està aplastada, rota, destrozada! ¡Es una zorra!”. Mamà lo aveva previsto! Aveva avvertito il marito che, subito, sale sulla piattaforma e con voce calma, cerca di spiegare e far calmare tutti. Non capisco cosa dice, ma mi sembra che l’indignazione generale si calmi.
Invece, il fratello (si chiama Ramiro), non si calma per niente: torna dietro di me e mi sodomizza, con rabbia, come se volesse farmi male. Mamà aveva previsto anche questo e gli unguenti della tradizione castigliana, applicatimi da Leòn, attenuano di molto il dolore: ma strillo, questo sì, parecchie volte, fino a quando Ramiro si scarica.

Tocca al secondo fratello, che poi è il quarto a possedermi: anche lui si arrabbia e grida allo scandalo di avermi trovata la patatina tutta molle, allargata e aperta. Bogumil torna a parlare alla comunità, ma stavolta il risultato è meno efficace. Vengo perciò sodomizzata di nuovo, almeno lì Leòn non è passato e sono più stretta.
I successivi sei fratelli mi possiedono direttamente nel sedere e io, presa con meno violenza, godo ripetutamente con il culetto, quasi con tutti. Almeno, questi ultimi sei sono rimasti contenti di me (forse anche “molto” contenti), mi prendo qualche “simpatica” manata sulle natiche (strillo!), che mi lascia il segno, ma anche parole affettuose.

La cerimonia nuziale è finita, ma la festa che segue è stata rovinata e la comunità è meno allegra di altre volte. Però, finalmente, Leòn può portarmi nella mia nuova casetta dove vivrò con lui: mi solleva come se fossi una piuma, mi ripete tante volte “bravissima”, ma io sono sfinita e, appena mi posa per terra sul mio nuovo scendiletto, crollo a dormire.

È martedì. Mi risveglio con le luci del sole che filtrano dalle ante della finestra, mi guardo attorno. Accanto me c’è Mamà, che mi accarezza teneramente il viso e mi dice qualcosa: mi ha messo tre coperte mentre dormivo: sono confusa, ma almeno ho dormito. Provo ad alzarmi… mi fa male sia davanti che dietro, non riesco. Leòn si affaccia nella nostra stanzetta, sta facendo colazione e, vedendomi sveglia, subito viene a darmi un bacio. Per lui sì che mi rialzo, oh sì! Aiutata da Mamà mi rimetto in piedi e lui mi abbraccia, mi stringe a sé, mi dice parole dolci, di non preoccuparmi, che lui sistemerà tutto.
Il problema è che forse, vedendomi nuda sui tacchi alti, gli succede qualcosa laggiù. Il suo pene si alza velocemente e spinge per superare il blocco della cintura dei calzoni.
Leòn: “Scu… scusami Emme, non so cosa mi succede” e allenta la cintura: l’uccellone esce dai calzoni e si irrigidisce tutto, fino a che la cappella supera l’ombelico.

Mamà non ride affatto, sembra stupita e insieme preoccupata per la potente erezione del figlio. Ma io so cosa si deve fare in casi come questo: subito mi inginocchio davanti a lui, gli lecco la mano, chiedo: “Il mio signore ha bisogno di usare la sua schiava? La sua schiava sarebbe onorata di poterlo fare felice”.
Lui si morde un labbro, cerca di respingermi “Ma Emme, sei sicura? Ieri credo di averti fatto male, almeno un po’”.

Io: “La schiava del mio signore spera di essere la colpevole della sua erezione… e brama il suo amore e di poter essere degna di venire usata”. E lui mi guarda, mi riguarda, mi accarezza il viso, la schiena, torna ad abbracciarmi: io nuda, lui vestita, con quel cosone che ora è bollente e spinge sulla mia pancina.
Mentre Mamà gli dice: “¡Calmate! Ahora no puede… ¿no ves que aun està abierta?”. Ma niente da fare, Leòn mi guarda, mi mangia con gli occhi, gonfia il torace, respira con ansia, quasi trema dal desiderio: è ridiventato un gorilla infoiato. Con la voce rotta dall’emozione, confessa: “Mi han fatto andare con due ragazze quando avevo 18 anni: le ho lacerate, le han dovute portare al Pronto Soccorso. Tu sei l’unica donna che ho posseduto negli altri 30 anni… l’unica che è riuscita a non farsi rovinare da me… perdonami M., ma sto impazzendo per la voglia di te”.

Si stende sul letto a pancia in su, mi attira a sé: il mio padrone si accontenta di una sola posizione, non vuole rischiare di farmi male e io mi commuovo. Salgo sopra di lui, scendo lenta: sento dolore, ma anche che mi sto abituando alle sue dimensioni. Stamattina ne ho accolto un bel pezzo, mi sembra molto più di ieri. E godo, dopo pochi minuti godo, godo in quel modo osceno e disperato che solo lui mi provoca. Mamà è vicinissima, mi guarda, è impressionata dalla violenta passione con cui il mio corpo reagisce all’amore di suo figlio. Subito dopo, anche lui viene e mi spruzza dentro la patata, come un idrante.
Crollo su letto, quest’uomo mi distrugge: mi addormento di nuovo, subito.

Dormo qualche ora, quando mi rialzo sono sola, sono indolenzita davanti e mi ungo con gli unguenti di Mamà. Ne approfitto per guardare la mia nuova casa, il nido d’amore dove vivrò con Leòn. Metto avanti qualcosa del pranzo, ma non mangerò senza di lui. Ha messo in bella evidenza un barattolo con le foglie di ieri: ne prendo subito una e la mastico. Verso le 14 ne sento il passo pesante che torna verso la nostra casetta dal fondo della fortezza. Davanti a casa ci sono Ramiro, altri due fratelli e suo papà. Lo fermano, parlano, Leòn si sta arrabbiando… quando se ne vanno. Il solo sentirne il passo e vederlo mi ha fatta bagnare: mi riguardo nello specchio dell’ingresso… sì sono perfetta per lui. Mi inginocchio davanti alla porta, viso a terra e quando apre: “Buongiorno, mio signore”.

Mi rialza, è serio, mi tiene sollevata e abbracciata a lui: “La comunità ha deciso che tre fratelli dovranno possederti ogni giorno, al rientro dai pascoli, dalle 18 alle 21, fino a quando tutti ti avranno scopata o inculata qui nel nostro giardino, che tutti possano vederti”. Non so cosa dire, gli metto le braccia attorno al collo… spero che mi baci… e mi bacia: “La sua schiava è innamorata persa di lei, mio signore”. Mi sorride dolcissimo e mi fa scendere, va in cucina: è apparecchiato e pronto, la mia ciotola ai piedi di dove lui siederà. Siede, mangia, o ringrazio mentalmente il cuoco da cui ho imparato qualcosa in Italia, mentre lui mi spiega: “Io lavoro la mattina, abbiamo un rifugio antiatomico in fondo alla fortezza sottoterra. Da lì gestisco i fondi e le operazioni della Fratellanza di tutte le comunità nel mondo. Sono l’unico ad avere 5 lauree, anzi, l’unico laureato. Ci sono tre giovani fratelli che mi aiutano, ma non li lasciano studiare perché dobbiamo essere tutti uguali e gli altri fratelli non sono portati per lo studio. Io ho potuto studiare perché per un po’ ho vissuto solo con i miei genitori in Castiglia, ma studiare sarebbe proibito”.

Smette di parlare, io mangio per finire presto la mia ciotola, ma lui: “Emme… io… a vederti così… sto impazzendo…”. Alzo il viso, cerco i suoi occhi… mi sta guardando tutta, lo sguardo è pieno di passione e, laggiù… è di nuovo pronto, superbo, potente.
Io: “Il mio signore gradisce la sua schiava? Questa schiava chiede umilmente di sapere se lei è così… così dritto per colpa mia”. Lui tace, mi solleva, mi fa sedere sulle sue cosce: “Sì, è colpa tua [sorride] … più mi stai vicino, più ti desidero… ogni giorno di più, ogni volta che ti ho vicino di più”. Al sentire la sua risposta, mi bagno come una porcacciona: io, così piccina, su di lui che con un solo braccio mi avvolge la vita, mi sovrasta come corporatura e come tutto. Le bocche si avvicinano… io miagolo… lo chiamo. Sapete già come va a finire: al termine Leòn si calma (almeno per un po’), io crollo e devo dormire per un bel po’.

Alle 18, sono pronta per quello che mi aspetta: esco, vado nel piccolo giardino davanti alla nostra casetta, mi inginocchio: i tre che mi possiederanno sono già lì. Mi prendono uno alla volta, per circa 30 minuti ciascuno: prima provano davanti e, quando sentono che mi ballano nella vagina, brontolano e mi sodomizzano. Io godo con tutti e tre, tre ottimi orgasmini, anche se certo non come quelli che ho quando mi prende Leòn.

Rientro in casa, Leòn sembra molto nervoso. I membri della comunità non sono gelosi, quindi che succede? Sto per mettermi a dormire, quando entra mia suocera con Bogumil e parla con ansia: “¡Asì la vais a matar! ¡La niña no puede resistir a todos estos orgasmos! ¡Es obediente y no rechaza nada, disfruta con cada polla, pero si sigue asì pasarà los dìas durmiendo y no tendrà tiempo para normalizar su culo y su coño! ¡La vais a matar!”. È preoccupata per quello che mi stanno facendo, mi porta in camera, mi fa stendere sullo scendiletto, mi copre con una coperta e mi fa addormentare stando abbracciata stretta a me. Con l’ultimo sguardo cerco Leòn: mi guarda con amore ma, invece che preoccupato, sembra proprio furibondo: sta gonfiando il petto, come quando diventa tipo un gorilla.

Mercoledì 5 mi viene il ciclo, ma la cosa non ferma quel che han deciso per me: chi ci rimetterà, purtroppo, è solo il mio Leòn: appena mi vede sta male perché gli diventa duro: cerca di contenersi, ma ha proprio bisogno di possedermi almeno tre volte al giorno.
Fino a venerdì le mie giornate saranno come questa: ogni sera, dalle 18, mi usano tre membri della comunità: e io sono sempre più sfinita. Le foglie che Mamà e Leòn mi fan masticare sono una specie di antidolorifico naturale, ma mi intontiscono. Me le mettono anche nel “mate”, una specie di intruglio che gli argentini usano come thè. Dopo tre giorni, sono inebetita, non ragiono bene, ma almeno non soffro per i dolori.

È giovedì, vigilia del mio compleanno. Leòn stranamente non è più arrabbiato è affettuoso con me, ma freddissimo: ha chiaramente preso una decisione. Si mette ad affilare coltelli e sistemare le proprie pistole e due fucili: uno ha tipo un cannocchiale. Quando sua madre si accorge di cosa sta oliando Leòn, crolla ai suoi piedi, lo supplica, ripete continuamente “no, no…”. Leòn mi spiega, con un sorriso glaciale che mi spaventa. “Mia madre ha paura per la comunità. Mi ha detto di dirti di farmi calmare e fare l’amore con me il più spesso possibile. Dice che quando sono così freddo è il segnale che sono pericoloso: la comunità non sa cosa ho passato in Castiglia e non immagina nemmeno cosa posso fare”. Poi tace, riprende, ad occuparsi delle sue armi. Infine, riempie uno zaino e portaborse da sella, che nasconde da sua madre. Io dormo.

È venerdì 7 dicembre, il giorno del mio compleanno. Leòn mi fa tanti auguri, mi bacia affettuoso e va al lavoro. A mezzogiorno una torta argentina con i suoi genitori. Mamà ha gli occhi pieni di paura: conosce bene suo figlio, ha capito che sta per succedere qualcosa.
È sera, mi stanno sodomizzando nel giardino davanti a casa, e Bogumil entra nella nostra casetta, per parlare con suo figlio. Bogumil è calmo e saggio; Leòn è freddissimo ma ha gli occhi iniettati di sangue. Mi spiegherà poi di aver rinfacciato al padre e capo della comunità, che lui ha dovuto stare in castità e ammazzarsi di masturbazioni per quasi 30 anni, mentre adesso la donna che lui ama è stata scopata o inculata da 20 fratelli e altri 11 sono in coda d’attesa. Gli urla che sto rischiando la salute fisica e mentale, che a forza di masticar foglie sono ridotta a una animaletta senza cervello, che nessuno si preoccupa del fatto che io posso venire lacerata irrimediabilmente.

Il padre impallidisce, sembra che anche abbia lui abbia terrore di Leòn quando è così. Le ultime parole che si scambiano:
Bogumil: “¿Qué puedo hacer para detenerte?” [Cosa posso fare per fermarti?”] Leòn: “Endura para Ramiro y compañeros” [L’endura per Ramiro e i suoi compari].
Bogumil: “No puedo hacerlo, no por el momento” [Non posso farlo, non ora] Leòn: “Entonces… buena suerte papi. Protege a Mamà lo mas que puedas” [Allora buona fortuna papà. Proteggi la mamma più che puoi].
Rientro in casa con il retto in fiamme, sono sfinita, barcollo, mi gira la testa, non riesco a ragionare, rido come una deficiente: le foglie da masticare (son foglie di coca, che non è cocaina) agiscono sul mio sistema nervoso e mi istupidiscono. Leòn mi bacia con tanta dolcezza, mi sussurra: “Amore mio, è tutto finito, tra poco starai meglio”. Mi mette a letto, mi fa bere una specie di tisana. Spegne tutte le luci, tira fuori zaino e quanto ha preparato, e si mette come di guardia, armato, sotto alla finestra della nostra camera da letto.

Sono le 24 quando Leòn socchiude la finestra. La canna del fucile con il cannocchiale spunta fuori per pochi centimetri. Si sente come uno schiocco di dita: ora la vedetta sulla torre di guardia della fortezza è a terra, sembra si sia addormentata. Anche io dormo, sento solo che mi solleva mi mette su una spalla: zaino e 6 borse da sella sull’altra spalla, fucile nella mano libera. Non corre, sembra cammini al trotto con corsa regolare, silenziosa.

Arriva al cancello d’acciaio della fortezza, le due guardie armate lo fermano. Lui chiede qualcosa tipo: lasciatemi uscire. Scuotono la testa e gli intimano qualcosa, uno gli si avvicina. Leòn lascia cadere il fucile e, velocissimo, un coltello vola fino a conficcarsi nella gola di una guardia. Prende per il collo l’altra guardia con la mano sinistra, la solleva in alto come fosse un filo d’erba: la guardia si dimena, poi si affloscia.

Io vedo tutto, ma non mi rendo conto di cosa sta succedendo: lo capirò solo qualche giorno dopo. Sento che Leòn riprende il nostro bagaglio e ricomincia quello strano modo di correre, silenzioso e al trotto. Va in mezzo alla mandria che sosta fuori la fortezza, corre fino al grande maneggio di cavalli. Mi deposita a terra, va tra gli equini, ne sceglie tre: un imponente cavallo nero che accarezza e bacia, una piccola puledrina bianca, un cavallo normale. Fascia gli zoccoli velocemente, poi torna da me: carica le borse, gli zaini, lega i cavalli tra loro e sale su quello nero, io in braccio a lui.

Si va! attraversiamo la mandria di bovini, fino a inoltrarci nella prateria, nella notte forse più buia della sua vita.

Continua

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