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Racconti Eroticisenza censura

Arianna (parte 1)

By 2 Giugno 20254 Comments

Parte 1: Buongiorno Arianna

La luce del mattino filtrava dalle tende tirate male, tagliando l’aria in fasci netti che si stendevano sul pavimento, sul letto sfatto, sul viso ancora incollato al cuscino. Arianna aprì gli occhi con lentezza, lasciando che la realtà entrasse un po’ alla volta. Sentiva già quella pressione familiare in mezzo alle gambe, una pulsazione calda, insistente, quel misto di fastidio e bisogno che le stringeva il basso ventre. Non serviva toccarsi per saperlo: era bagnata. Di nuovo.
Allungò una mano sul comodino, trovò gli occhiali e se li infilò con un gesto pigro. Sbadigliò appena, si stiracchiò sotto la coperta sentendo la maglietta salire fino all’ombelico, e la stoffa degli slip—sottile, leggerissimo—ormai incollata alla figa. Tirò su le lenzuola, si mise seduta sul bordo del letto. I piedi toccarono il pavimento freddo, e quell’impatto secco le fece venire un brivido che le risalì lungo la schiena, fino al collo.
Si alzò e andò verso lo specchio. La luce le disegnava il corpo a strisce, lasciandole sulla pelle chiara fasci più caldi. Sollevò la maglietta fino al petto e la bloccò tra i denti. Il busto nudo prese subito aria. Le tette scivolarono fuori pesanti, morbide, grandi al punto da sfiorarle la pancia. Si mossero lente col respiro, la carne ondeggiante a ogni minimo spostamento. Le areole larghe, rosa scuro, contrastavano con la pelle chiara. I capezzoli erano già tesi, duri, come se non avessero mai dormito. Il peso si sentiva sullo sterno, sulle spalle, su tutto. Arianna si osservava senza staccarsi gli occhi di dosso, e il pensiero fu diretto, netto: quanto cazzo mi piace avere le tette così grosse.
Le piaceva sentirle cadere quando si piegava, quel movimento lento e naturale, quasi ipnotico. Le piaceva vederle riempire lo spazio davanti a sé, accavallarsi, schiacciarsi al centro. Non serviva stringerle: la scollatura c’era già. Bastava respirare. Bastava esserci. A ogni passo, a ogni rotazione del busto, rimbalzavano leggere, poi si fermavano appena in ritardo, come se il corpo intero facesse fatica a contenerle. Erano la prima cosa che si notava, la prima che si cercava con le mani, la prima che scaldava. E lei ci si sentiva dentro, viva. Quel seno pieno le dava peso, concretezza, presenza.
La pancia sotto era morbida, curva, liscia. Una rotondità leggera subito dopo l’ombelico, senza esagerazioni ma piena, accarezzabile. Le mani le scivolarono sui fianchi larghi, ben marcati, che si aprivano verso le cosce. Erano strette tra loro fino a metà gamba, forti, la pelle chiara e uniforme rifletteva la luce come seta tirata. Ginocchia lisce, caviglie affusolate, piedi piccoli. Le unghie smaltate di rosso, due sbeccate. Non si sistemava da giorni, ma tutto sembrava esattamente al suo posto.
Fece mezzo giro su se stessa, la maglietta ancora stretta tra i denti, il busto scoperto. Le tette si spostarono appena, dense, lente, come trascinate dal resto del corpo. Dietro, il culo le spingeva il tessuto verso l’alto, pieno, compatto, due chiappe rotonde che sembravano voler uscire dalle mutandine bianche.
Si rimise di fronte allo specchio. Abbassò gli slip, lasciandoli scivolare fino alle cosce. Le grandi labbra erano gonfie, chiuse, con la pelle leggermente più scura. Le piccole sbucavano appena: lucide, morbide, bagnate. Il clitoride era in vista, teso, come se qualcuno l’avesse già sfiorato. La figa le pulsava, e l’umidità le colava lungo l’interno coscia. Il profumo salì subito: intenso, vivo, calore pieno. La pancia sopra, tonda, e quel sesso gonfio, lucido, aperto al giorno. Il contrasto era netto ma armonico. Tutto aveva senso.
Il corpo era pieno, concreto, vivo. Le braccia morbide, le spalle tonde, il collo allungato. I capelli castani lisci le scendevano oltre le spalle, gli occhiali incorniciavano il viso ovale con zigomi pieni e labbra carnose. Il labbro inferiore più spesso, più rosso. Gli occhi grandi, nocciola, le ciglia incurvate come ventagli. Lo sguardo tranquillo, quasi assente, ma presente. Registrava ogni cosa.
Non era un corpo scolpito, era un corpo vivo. In carne. Ogni curva, ogni peso, ogni piega diceva la stessa cosa: tocca. Niente pose, niente filtri, niente da nascondere. La carne seguiva la luce, il respiro, seguiva lei. E in quella luce del mattino, con la maglia tra i denti e le tette che sembravano crescere a ogni respiro, Arianna si guardava. E si piaceva. Senza pudore.
Non si muoveva. Respirava appena, come se anche l’aria potesse disturbarla. Ma dentro era tutto un terremoto: la vescica gonfia, la pancia in tensione, la figa che batteva come un cuore impazzito. Un gemito le salì in gola, graffiato, sfuggito senza controllo. Doveva pisciare. Lo sentiva ovunque. Ma non voleva un bagno. Non cercava la privacy. Voleva godere. Sporcare quella necessità. Farla diventare eccitazione.
I padroni di casa erano di là, forse in cucina, forse nel corridoio. Bastava una porta appena socchiusa, un passo fuori posto. Lei lo sapeva. E le piaceva. Le fece stringere la pancia come se qualcuno le avesse infilato una mano dentro. Un crampo che si apriva in calore. Si morse il labbro, il respiro spezzato, gli occhi che saltavano nella stanza come se cercassero un’uscita, o una conferma.
Poi lo vide. Il bicchiere. A sinistra del mouse, dove l’aveva lasciato. Quello da birra, grande, in vetro spesso. La sera prima lo aveva riempito e svuotato per tre volte. Tre bottigliette di birra che ora giacevano nel cestino, ben piu di quanto riuscisse a reggere. Poi, ubriaca e arrapata, si era aperta la fica e il culo con le dita, col cuscino in bocca a soffocare i versi più profondi, quelli che le escono solo quando si perde davvero.
Lo prese. Era ancora pesante, anche se vuoto. Il vetro freddo, segnato da schizzi secchi, incrostazioni, saliva, birra rimasta. Lo portò al naso e inspirò. Sapeva di fondo di bottiglia, alito acido, umido da lavandino. Faceva schifo. E questo la fece bagnare ancora di più. Un impulso basso, viscerale. Le si inumidirono le cosce. La figa era pronta. Stretta, calda, gonfia.
Sfilò la maglietta sollevandola da dietro, lentamente. Passò sopra il seno, che rimbalzò libero, pesante, poi sopra la testa. Senza esitare abbassò anche le mutandine, lasciandole scivolare fino alle caviglie. Le spinse via con un piede, sempre senza smettere di guardarsi. Il corpo nudo, il seno grande che pendeva naturale, le areole larghe, i capezzoli duri. La pancia liscia, tonda, e sotto la figa scura, lucida, pulsante.
Si sedette sulla sedia a gambe larghe, la schiena dritta, le cosce aperte come una porta in attesa di essere spinta. E lì, la sua malattia prese spazio. Il bisogno di fare qualcosa di sbagliato, di eccitante, di troppo. Prese il cellulare e attivò la videocamera. Lo tenne nella mano sinistra, in alto, abbastanza da riprendere tutto: viso, tette, ventre, figa. Era lei la regista delle sue perversioni, dei video che poi guardava per toccarsi fino a perdersi. Lo faceva per sé, per godere ancora. Più forte. Per vedersi e pensarsi indecente, e godere nell’umiliarsi.
Con l’altra mano prese il bicchiere. Lo posò tra le gambe, l’orlo premuto contro l’interno coscia caldo. Il bordo sfiorava le piccole labbra tese, gonfie, già aperte. Il vetro freddo e la figa bollente. Lo scontro le fece tremare. Il bicchiere traballava, rischiava di cadere, ma non si fermò. Trattenne il respiro, spinse il bacino in avanti per sentire meglio quel contatto.
«Guarda cosa fa la puttanella…» sussurrò al telefono, la voce ruvida, bassa. Le labbra appena aperte, il fiato caldo sul microfono. Era eccitata come un animale in calore. E stava per liberarsi.
Poi si lasciò andare.
Un fremito le strinse la pancia. Senza nemmeno un respiro di avvertimento, il primo getto partì. Bollente, dritto, violento. L’urina colpì il vetro con un rumore sordo, viscido, che le fece vibrare il clitoride. Non c’era più controllo, non c’era più decenza: solo liquido che usciva da dentro come un orgasmo lento, pieno, che la svuotava un secondo alla volta. Ogni spruzzo era una scossa, una liberazione che la faceva ansimare.
Il primo fiotto bagnò subito il fondo del bicchiere. Gli altri seguirono, forti, continui, un flusso giallo chiaro che schiumava sulle pareti. Le bollicine salivano rapide, tremanti, mentre il livello cresceva, luccicante e caldo. Il vetro fumava. E lei non si fermava.
Le scappavano ansimi rotti, bassi, il respiro spezzato. I piedi si piegavano, le dita stringevano il bicchiere per non farlo volare via. Il vetro scivoloso, la figa bagnata, le cosce tese che tremavano sotto la tensione. Le spalle curve, la schiena che si inarcava a scatti, seguendo i colpi che le uscivano da dentro.
«Oh sì… sì… guardami… guardami bene… guarda come piscio…» sussurrò nel microfono, la voce roca, impastata di saliva e voglia. «Mi sto svuotando tutta… tutta… solo per me… per te…»
Ogni parola accompagnava uno spruzzo, uno scatto, un colpo umido che riempiva il bicchiere ormai pieno per tre quarti. L’odore si faceva forte, denso, quasi solido. Sapeva di lei, di corpo caldo, di notti senza tregua. Le saliva addosso come un vapore. E lei lo amava. Al punto da aprire ancora un po’ le gambe, inclinare il bacino per far uscire meglio quel liquido che la stava mandando fuori di testa.
«Senti come piscia la troia… mmmh… senti che schifo…»
Si piegò in avanti, il telefono ancora in mano, la figa al centro dello schermo. Le labbra gonfie, lucide, il buchino che ancora si apriva a scatti, lasciando uscire spruzzi irregolari che facevano traballare il liquido nel bicchiere. Giallo, denso, quasi pieno. Il bordo tremava per il peso.
Il bicchiere era al limite, pronto a traboccare. Ma lei tremava ancora. Gli occhi si chiudevano e si riaprivano a scatti, il petto si sollevava rapido, i capezzoli duri, tesi, come tirati da una bocca immaginaria. Le gambe bagnate di gocce calde, il vetro che le toccava l’interno coscia, quel profumo intenso che le annebbiava la testa.
«E adesso… cosa farà questa cagna? Lo sai… lo so che lo sai… sai quanto è troia… quanto fa schifo…»
Le parole si spezzarono in un gemito lungo, profondo, che le uscì dalla gola come un conato di piacere. Era lì, nuda, sudata, con la sua stessa piscia tra le mani. E si piaceva così. Maledettamente.
Appoggiò il cellulare sulla scrivania, inclinato quel tanto che bastava per inquadrare tutto. Voleva che si vedesse ogni dettaglio: la faccia arrossata, le tette pesanti che le cadevano verso il ventre, la figa ancora umida, aperta, viva. Ogni goccia che colava, ogni tremito, ogni movimento. Nessun filtro, nessun taglio. Tutto doveva restare impresso.
Si alzò, stringendo il bicchiere con una mano. Era pieno, il vetro ancora tiepido. Fissò lo schermo come fosse uno specchio che non poteva mentire. E si vide. Nuda, lucida, eccitata, con la pelle bagnata dalla propria urina. Niente da nascondere.
Si piazzò al centro dell’inquadratura. In piedi, ferma, a gambe aperte. Guardava dritto nella camera, e si guardava addosso allo stesso tempo. Le gocce continuavano a scivolare dalla figa, lente, ostinate. Alcune le scorrevano lungo l’interno coscia, altre si fermavano sulle labbra gonfie, si raccoglievano ai bordi prima di cadere.
Ci infilò un dito in mezzo, con un gesto calmo, quasi tenero. Scivolò tra le pieghe, salì fino al clitoride, poi giù di nuovo, affondando. Tirò fuori quel dito e se lo portò alla bocca. Lo succhiò piano, gli occhi socchiusi, la lingua che lo avvolgeva come una promessa. Sapeva di lei. Forte, salato, vivo. E quel sapore le accendeva il petto.
«Mmmm… che buono… lo sai che è buono…»
La mano tornò giù, mentre con l’altra sollevava il bicchiere. Lo guardava come si guarda qualcosa che vale. Il vapore caldo del suo piscio le salì addosso, un richiamo che le fece contrarre la carne. Lo portò al naso, inspirò. L’odore le entrò dentro come un colpo diretto alla figa. Le pupille si dilatarono, il bacino si mosse da solo. Sapeva cosa stava per fare. Lo voleva. Era suo. Uscito da lei. In quel momento, era l’unica cosa che contasse.
Poi: toc toc. Due colpi secchi alla porta.
«Arianna? Tesoro, sei sveglia? Ti va un caffè?» La voce della padrona di casa era lì, chiara, vicina. Bastava una maniglia girata. Arianna si irrigidì. Il bicchiere le tremò tra le dita, un filo caldo le scese sulla pelle. Ma non lo mollò. Nemmeno per sbaglio. Il cuore le batteva forte, il viso le bruciava, le guance accese. Si voltò verso la porta e sorrise. Un sorriso pieno, uno di quelli che sa esattamente cosa ha fatto e non si scusa.
«Sì… grazie! Mi faccio la doccia e arrivo!» rispose ad alta voce, con una calma che sapeva di teatro. Intorno a lei, tutto era nudo: pelle bagnata, figa ancora aperta tra le gambe, il bicchiere colmo tra le mani.
Poi si piegò verso la camera. Lo sguardo fisso, le labbra lucide, la voce un filo più bassa.
«Quasi beccata. Figa aperta, gambe larghe, il bicchiere pieno in mano. Ancora calda. Sono proprio una troia… fino al midollo. E sai la verità? Mi fa eccitare da impazzire.»
Si tirò indietro i capelli con uno strappo, li buttò dietro la nuca, il collo esposto, le spalle lucide di sudore. Sollevò il bicchiere mezzo pieno, le dita strette attorno al vetro tiepido, e lo portò alle labbra. Ma non bevve subito. Prima ci passò la lingua lungo il bordo, lenta, precisa, con la punta che raccoglieva ogni residuo, ogni traccia del liquido che le era uscito dalla figa. Leccava come se fosse un cazzo sporco. Come se stesse pulendo la bocca di qualcuno. Il vetro sapeva ancora di lei, denso, pungente, e quel gusto le fece fremere lo stomaco. Le fece salire la nausea e la voglia insieme.
Poi il sorso. Uno solo, ma lungo, deciso. Le labbra si spalancarono e la piscia le riempì la bocca tutta in una volta, calda, salata, col sapore sgradevole che la mandava fuori. Le colò tra i denti, sotto la lingua, dentro le guance, fino a farle chiudere gli occhi. Un filo le scivolò fuori dalla bocca, giù per il mento, lungo la gola, e si divise sulle tette, si infilò tra i capezzoli, si attaccò alla pelle come una leccata.
Ansimò. Come una che sta soffocando da sola.
«Guarda che sei…» sibilò, con la voce rotta, roca. «Guarda che sei una porca di merda… ti bevi la tua piscia… ti scende in gola… la senti? È tua. Tua. E ti fa godere come una cagna in calore.»
Un’altra sorsata. Ancora. Poi un’altra. Non beveva: si ingozzava. Le colava fuori da tutti i lati, scendeva a righe, le bagnava le tette, le rigava la pancia, si infilava tra le cosce. La pelle ormai viscida, appiccicosa. Tra le tette scendeva un ruscello caldo, continuo. Le mani le tremavano. Ma non si fermava.
L’altra mano già si muoveva. Due dita dentro, secche, senza attenzione, solo spinte. Carne dentro carne. Lo faceva come si scopa una puttana: veloce, sgraziato, sporco. Il clitoride sembrava esplodere. Ogni colpo era come una martellata. Figa fradicia, cosce inzuppate. Piscio, umori, saliva. Un pasticcio caldo, appiccicoso, che colava ovunque. E lei dentro, ci sguazzava. Ci godeva. Le serviva.
Tirò fuori le dita e le mostrò alla camera. Gocciolanti, lucide, imbrattate. Le fissò appena, poi se le ficcò in bocca tutte insieme. Le succhiava come cazzi, leccava con la lingua sotto, il mento colava. Non c’era grazia, solo fame.
Poi di nuovo tra le gambe. Le dita ad aprirsi la fica, a divaricarla come un pezzo di carne. La tirava da un lato e dall’altro, mostrandola, facendola vibrare sotto la luce. Le labbra gonfie, tirate, il buchino pulsava. Il respiro era a scatti, e con un dito cominciò a premere sul clitoride con forza, senza pausa, come se volesse schiacciarlo.
«Guarda come sei ridotta… ti lecchi la tua piscio e ti fai godere come un maiale… e ti piace… perché sei marcia dentro… sei una cagna schifosa e ci stai bene così…»
Beveva e si toccava. Si insultava e godeva. Arianna era tutta lì, nuda, tremante, con la figa che colava e la faccia impastata. Non c’era niente da salvare. Solo da usare. Solo da guardare e farsi venire duro. O da leccare con la bocca sporca.
Aveva quasi finito il bicchiere. Forse un sorso ancora, due al massimo. Ma la gola le bruciava, lo stomaco si contorceva, e la figa sembrava una bomba pronta a scoppiare. Il mento le gocciolava, le labbra appiccicose, il gusto acre e salato le pizzicava la lingua e le saliva in testa come l’alcol a stomaco vuoto. Le veniva da vomitare e venire allo stesso tempo. I capezzoli erano due spine piantate nel petto, gonfi, tesi, al punto da farle male. A ogni respiro le tette si muovevano come sacchi pieni, pesanti, segnate da righe lucide. Si passò una mano sulla bocca, aperta, lenta, e il braccio le seguì come uno straccio unto. La pelle rimase segnata, unta di lei, come se si fosse spalancata l’anima e l’avesse leccata a dita nude.
Il cuore le batteva nel petto, ma il vero tamburo era più sotto, tra le gambe, lì dove le dita volevano tornare a scavare e aprire tutto. Bastava un colpo secco, uno solo, e sarebbe esplosa. Di quelle scopate solitarie che ti strappano l’ossigeno, ti svuotano da dentro e ti lasciano con la figa che pulsa e le gambe che non tengono. Ma non poteva. Non ora. Se veniva, restava lì mezza ora, col respiro in gola e il sapore in bocca. A leccarsi le dita come una drogata.
Si guardò allo specchio. Braccia lungo i fianchi, petto che si alzava a scatti. Le tette lente, pesanti, segnate da gocce che sembravano latte acido. Il ventre rosso, teso, vivo. Ma era la figa a catturarle tutto: gonfia, vibrante, spalancata come una bocca affamata. Le labbra tirate, brillanti, sembravano appena leccate. Il clitoride sporgeva come un bottone impazzito, lucido, pronto a esplodere solo per essere guardato.
Distolse lo sguardo. Guardò l’orologio. Le sette e dieci. C’era ancora tempo, ma non abbastanza per lasciarsi andare del tutto. E poi, a lei piaceva rimanere lì. In bilico. Sull’orlo. Sulle spine. Farsi male così. Tenere l’eccitazione viva dentro come un virus. Restare bagnata per ore. Scivolosa. Piena. Doveva tirarsi indietro. Rimettere la faccia pulita. La brava ragazza. La felpa larga. Gli occhiali dritti. La camminata composta.
Sorrise alla telecamera. Un sorriso sporco, sudicio, quello che si fa dopo essersi fatta pisciare addosso e averlo leccato con gusto. Come un’ultima occhiata all’amante segreto, quello che sa tutto, quello che l’ha vista dentro.
«La puttanella si deve preparare… non è ancora l’ora del premio…» mormorò piano, la voce impastata, roca, come se le parole le scivolassero fuori con l’ultima goccia che non le è venuta.
Spense la registrazione. Lo schermo divenne nero. Il silenzio tornò a colare nella stanza come un sudore freddo. Prese un fazzoletto e si asciugò. Ma solo il necessario. Le cosce rimasero appiccicose, la figa ancora bagnata, il profumo denso addosso. Non serviva essere pulita. Serviva sembrare normale.
Il bicchiere ancora in mano. Due dita di piscio sul fondo, dorato, tiepido, il bordo segnato dalla bocca. La stanza sapeva di lei. Di scopata trattenuta, di fluidi, di anima buttata per terra. Quello era il vizio. Non il sesso. Ma il potere. La libertà di pisciarsi addosso, di leccarsela, di infilarsi le dita in gola e poi uscire come se niente fosse.
Nessuno avrebbe saputo. Nessuno avrebbe immaginato. Là fuori c’erano le chiacchiere da colazione, i saluti gentili, le facce a posto. E poi c’era lei. Arianna. Con gli occhiali puliti, i capelli legati, la voce bassa. La ragazza educata. Quella che prende appunti. Quella che sorride.
In camera invece c’era solo lei, con la figa fradicia, la bocca piena della propria piscia e la testa immersa in un porno che nessuno avrebbe mai avuto il coraggio di girare.

FINE

Ciao a tutti! Vi è piaciuto? I miei racconti sono tutte esperienze di vita vissuta in prima persona e non, ovviamente romanzati. Se questo vi è piaciuto fatemelo sapere, così saprò se continuare. Se non vi è piaciuto, fatemelo sapere lo stesso! ;) Suggerimenti e idee mi piacciono sempre e scusate se su alcuni aspetti psicologici dei personaggi mi dilungo ma mi piace sia il corpo che la mente e odio i personaggi piatti. Un bacio! Cherise

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