Il mio rapporto con il fumo è sempre stato conflittuale. Fin dall’adolescenza, quando, a tredici anni, ho provato a fumare per la prima volta.
Mio fratello Fabio, di dieci anni maggiore, fumava. A quel tempo (erano gli anni ottanta) era il mio eroe, la persona che ammiravo di più e che cercavo di imitare quanto più possibile.
Quando fumava, poi, era come se fosse un dio. Invidiavo il modo come socchiudeva gli occhi quando il fumo gli avvolgeva il viso, la disinvoltura nel modo di tenere la sigaretta tra le dita, quell’aureola che il fumo gli creava attorno… Con tutto me stesso avrei voluto essere come lui.
Così comprai un pacchetto da dieci di Muratti Ambassador e una scatola di cerini.
La mia prima sigaretta fu un disastro: lacrime, nausea, tosse…
Poi la seconda fu un po’ migliore e cominciai a capire perché alla gente piacesse tanto.
Ma a quel punto mio padre mi beccò. Lui non fumava, non voleva che fumassi e mal sopportava che suo figlio maggiore invece lo facesse.
Mi condusse sbrigativamente nella mia camera.
– Vuoi fumare? E fuma, allora!
Mi mise una sigaretta in bocca, presa dalle otto rimaste nel pacchetto bianco, nero e rosso da dieci, e me l’accese.
Rimase a guardarmi seduto di fronte a me, in modo che non potessi svignarmela, mentre, spaventato, facevo del mio meglio per finire la sigaretta il più in fretta possibile.
Finita quella, mi obbligò subito a fumarne un’altra.
E un’altra.
E un’altra.
A quel punto corsi in bagno a vomitare. Avevo la vista annebbiata e mi girava la testa.
Ma lui non si scompose minimamente.
– Forza, ne hai ancora quattro da finire.
E me le fece fumare tutte.
Stetti male per due giorni e da quel momento il solo odore del fumo mi procura conati di vomito.
Anzi, comincio a provare nausea ancora prima di avvertire l’odore, come se il mio corpo reagisse automaticamente a livello inconscio.
Questa mia intolleranza al fumo influenzò anche la mia vita sentimentale.
Quella volta che conobbi la donna che sarebbe diventata mia moglie, infatti, io stavo puntando la sua amica Rossana, una mia compagna di liceo.
Mi attiravano soprattutto le sue grandi tette e quella sua aria di disinibita disponibilità.
Aveva appena mollato il suo ragazzo e già si stava guardando in giro per un rimpiazzo. Io pensavo di candidarmi per quella posizione.
Quella domenica sera le incontrai per caso. Rossana mi presentò Federica e io chiesi loro se sarebbero venute volentieri in discoteca con me. Non mi sarebbe dispiaciuto finire la serata con una bella chiavata con Rossana.
In verità contavo sul fatto che Federica facesse un passo indietro e ci lasciasse soli, ma invece le due ragazze dopo qualche insistenza, accettarono entrambe.
Una volta in discoteca, cominciai a ballare con Rossana abbandonando Federica e dopo qualche ballo decidemmo di ritornare ai nostri posti, ché Rossana si sentiva in colpa per Federica. Mi chiese scusa per aver interrotto il nostro divertimento e mi baciò sulla bocca.
Un bacio senza lingua, solo di scusa, ma che faceva presagire un elettrizzante dopo-discoteca.
Solo che il suo alito sapeva di fumo e io persi immediatamente tutto l’interesse.
Mi veniva la nausea solo a guardarla.
Invitai quindi Federica e ballai con lei per il resto della serata.
Ovviamente dopo quella sera Rossana mi tolse il saluto, ma ormai non mi importava più molto, visto che avevo cominciato ad apprezzare Federica e le sue innumerevoli doti, non così appariscenti come quelle di Rossana, ma ben più profonde.
Federica era comunque bellissima.
Era alta, rossa di capelli, un corpo spettacolare, flessuoso, elegante, atletico. Il seno non era piccolo, anche se non evidente come quello della sua amica, sodo e tonico con capezzoli rosa che si inturgidivano graziosamente ad ogni complimento.
Il suo culo era una poesia e non riuscivo e non toccarlo in continuazione, qualche volta anche in pubblico.
Era vivace, intelligente e simpatica, con un sorriso radioso e occhi verdi nei quali perdersi. Mi conquistò totalmente nel giro di qualche giorno.
Cominciammo a uscire insieme e dopo l’università ci sposammo.
Per fortuna io non avevo problemi di lavoro, perché mio padre mi prese con sé nella sua piccola azienda, che un giorno sarebbe stata mia.
Lei rimase subito incinta del nostro primo e unico figlio, Alessio.
Passarono gli anni. Mio fratello morì di cancro al polmone, un dolore grande, devastante per tutta la famiglia e una ragione in più per odiare il fumo.
Federica, quando Alessio cominciò a frequentare le elementari, trovò un lavoro nell’ufficio Risorse Umane dell’Università Cattolica – reparto relazioni con gli studenti, dapprima a tempo parziale e poi full time.
Alessio, finito il liceo, manifestò il desiderio di iscriversi in una Università in America. Lo avevano accettato infatti al prestigioso Mit di Boston, alla facoltà di ingegneria, e noi, seppure a malincuore (vista anche l’enormità del sacrificio economico), acconsentimmo.
Quindi a vent’anni ci lasciò e noi ci ritrovammo soli, nel nostro grande appartamento all’ultimo piano in piazza Minniti, a Milano, in piena sindrome del nido vuoto, ma con la consapevolezza di avere alle nostre spalle più di due decadi di matrimonio intenso e felice.
Il sesso ancora celestiale, frequente e fantasioso, l’amore sempre vivo, fatto di parole dolci, carezze, gesti affettuosi, piccole premure.
All’inizio, quando rimanemmo soli, la nostra vita sessuale divenne più intensa, più spregiudicata anche, visto che Federica mi chiese di provare posizioni e situazioni che non facevano parte del nostro abituale menù. Poi, poco a poco, mi resi conto che la frequenza dei nostri rapporti si andava deteriorando e che sempre più spesso Federica si negava con qualche scusa.
L’altra cosa strana che avevo notato riguardava il suo abbigliamento: aveva cominciato a scegliere capi più colorati, più sbarazzini, più giovanili… in qualche caso anche più audaci.
Io me n’accorgevo, ma non pensavo nulla. Sorridevo e scuotevo la testa divertito.
Avevo quarantacinque anni e lei uno meno, portati benissimo, quando il problema del fumo tornò a tormentarmi.
Era un giovedì, ed entrando nella nostra camera matrimoniale per cambiarmi d’abito prima di cena, il mio stomaco mi diede un segnale inequivocabile, subito confermato dal mio naso.
Fumo. Una leggera presenza, come se le finestre fossero state aperte a lungo per cambiare l’aria, ma comunque avvertibile.
Qualcuno aveva fumato nella nostra camera. Possibile? Chi?
Lo chiesi a Federica, ma lei disse di non avvertire nessun odore e che dovevo avere le allucinazioni.
Io però non mi sbaglio. Ho un senso dell’olfatto superiore al suo. Ci sono odori che mi affascinano (come quello della sua pelle quando è eccitata, ad esempio) e altri che odio, il fumo di sigaretta sopra ogni altro, e ne percepisco ogni sfumatura e la loro presenza anche in minime quantità.
Lo avvertii di nuovo il giovedì successivo!
Questa volta la chiamai, la feci rimanere in piedi accanto al nostro letto col naso all’aria e poi le feci annusare la coperta e le lenzuola. Per me era evidentissimo, ma lei insisteva nel non sentire niente e mi fece capire che dovevo essere matto.
Il giovedì seguente, invece, l’odore era quello di deodorante per ambienti, essenza lavanda. La cosa mi insospettì ancora di più e mi misi ad annusare le tende.
Ed eccolo là, l’odore di sigaretta, coperto, ma ancora avvertibile.
Inutile girarci intorno. Qualcuno fumava in camera tutti i giovedì e Federica cercava di coprire questa evidenza con tutte le sue forze.
Una sola spiegazione possibile: Federica mi tradiva. Con un fumatore.
Ci misi una settimana a prepararmi e il giovedì successivo, a cena, davanti a un piatto di scaloppine al Marsala, l’affrontai direttamente.
– Allora, chi è, Federica?
Quasi si strangolò con il boccone che stava inghiottendo. Si riprese con difficoltà dopo quasi trenta lunghissimi secondi.
– Chi è chi?
– Il tuo amante che fuma nella nostra camera tutti i giovedì.
– Stai scherzando, vero? Non so di cosa tu stia parlando…
– Semplice. Ti sto accusando di invitare un uomo tutti i giovedì nella nostra camera e di consentirgli di fumare.
– Tu sei impazzito. Ventun anni insieme, sempre controllato, sempre calmo e rilassato e improvvisamente dai fuori di matto.
– Comunque buone queste scaloppine. Sei davvero una brava cuoca. Perché non le mangi?
– M’è passata la fame.
Mi alzai, andai un momento in camera, trafficai qualche secondo e tornai con un piccolo oggetto che posai sul tavolo
– Sai cos’è?
– No.
– E’ una piccola telecamera wi-fi. Si attiva, audio e video, quando registra un movimento e trasmette I suoi dati quando colleghi un pc, come il mio notebook, alla rete. L’ho installata martedì, mentre eri al lavoro, sopra l’armadio. Non ho ancora visto cos’ha ripreso oggi. Vogliamo guardarlo insieme?
Ci fu un lungo silenzio. Il suo sguardo, prima fisso dritto nei miei occhi, divenne rapidamente colpevole e fu costretta ad abbassare gli occhi.
– No. – disse. Poi alzò la testa con un’aria di sfida.
– Ebbene sì! Tutto vero! Ho un ragazzo. Contento adesso?
– Contento? Come posso essere contento sapendo che mia moglie si sbatte qualche bastardo dietro le mie spalle qui, in casa mia, nel mio letto! Ti ripeto la domanda: Chi è?
– Non te lo dico.
– Perché no?
– Perché non voglio che tu gli faccia del male, Mauro – Scusate, non mi ero ancora presentato. Mauro sono io, Mauro Sartori, Sinceramente Vostro.
– Ti prometto che non lo toccherò.
– Giuramelo.
– Fede, quando mai non ho rispettato le mie promesse?
– Tu le tue promesse le hai sempre mantenute.
– Quindi?
– E va bene. Si chiama Alberto Pozzoli, È uno studente della Cattolica.
– Certo! Come ho fatto a non pensarci! È il tuo lavoro che ti obbliga a occuparti degli studenti, giusto? A soddisfare tutte le loro esigenze, vero?
– Basta con questo sarcasmo a buon mercato, Mauro. Non cadere così in basso.
– Quanti anni ha?
– Ventidue, mi pare.
Non ci potevo credere. Mia moglie se la faceva con un ragazzino che aveva la metà dei suoi anni. Circa della stessa età di nostro figlio. Pensai ai recenti cambi nel suo abbigliamento alla luce delle nuove informazioni che mi aveva appena dato e capii come mai era così “giovanile”: era a beneficio del suo stalloncino!
– Bene. Ora che tutto è chiaro cosa facciamo ora? Divorziamo così lo sposi?
– No! Per carità! Io ti amo ancora, Mauro! Più di prima! Non lui, sei tu il mio amore! Non voglio nessun divorzio! Non lasciarmi, Mauro! Ti prego! Non mi abbandonare!
– Tu lascialo e ne riparliamo.
– Mauro… Non sono sicura di essere capace di lasciarlo. Non voglio fare promesse che poi potrei non essere capace di mantenere. Mauro, si tratta solo di una cottarella, un capriccetto, niente di serio. Basta aspettare che passi e sarò tutta per te.
– E se non accetto?
– Allora ti giuro che farò del mio meglio per dimenticarlo. Ci proverò con tutte le mie forze. Ma devo dirti che l’attrazione che sento per lui in questo momento è così forte che non ti posso assicurare nulla. Con lui mi sento viva, come non mi sono mai sentita!
– Io non ti faccio sentire viva, allora?
– Ma sì, Mauro. Con te mi sento al sicuro, protetta, amata, considerata. Sono così orgogliosa di te quando siamo insieme… Con lui è diverso però. Ci proviamo, vero Mauro? Mi prometti? Io a cercare di dimenticarlo e tu a cercare di perdonare le mie debolezze. Farai un tentativo, Mauro? Mi vuoi bene abbastanza per cercare di capirmi?
Mi alzai in piedi e mi misi meccanicamente a sparecchiare. I piatti sporchi nella lavastoviglie, gli avanzi nei loro Tupperware nel frigo, la bottiglia di vino mezza vuota sotto il lavandino, la spazzatura nel bidone… Tutto per trovare il tempo di pensare a cosa volevo davvero, Alla fine cedetti.
– Non lo so, Federica. Ci penso stanotte e domani ti farò sapere.
– Davvero, Mauro? Come si fa a non essere innamorate di te! Davvero prenderai in considerazione la mia posizione e le mie esigenze?
– Così ho detto, no? Intanto però sposto le mie cose nella stanza di Alessio. D’ora in poi dormirò là.
– No, Mauro, resta con me! Non mi lasciare sola!
– Figurati! Come se non sapessi come sono I ragazzi oggi. Se non ha lo scolo, sicuramente avrà l’herpes o le piattole. Non se ne parla, Federica.
La lasciai con gli occhi rossi seduta al tavolo della cucina e passai il resto della serata a rimuovere le mie cose dalla nostra matrimoniale alla camera che nostro figlio aveva lasciato vuota andandosene in America.
La mattina successiva me ne andai al lavoro prestissimo, prima che si svegliasse, proprio per non incrociarmi con lei. Ci incontrammo invece la sera.
Aveva preparato la pasta al forno, una sua specialità che mi piaceva da impazzire. Il vino era ottimo, un Barbaresco Prunotto d’annata, e c’era il tiramisù come dessert.
Aveva tirato fuori l’artiglieria pesante…
A tavola mi guardava trepidante, non osando affrontare l’argomento. Parlammo di cose banali, gli eventi della giornata, la salute di sua madre, se aveva avuto notizie di Alessio, cercando di ignorare l’elefante nella stanza.
Alla fine, al dolce accompagnato da un Passito di Pantelleria, non ce la fece più e sbottò:
– Allora, hai avuto modo di prendere una decisione sulla nostra situazione?
– Sì, Federica. Ci ho pensato molto e ho cercato davvero di mettermi nei tuoi panni e di capire la tua posizione, ma…
– Vuoi dire che mi lasci? – Sguardo allarmato, voce rotta dall’emozione.
– Il fatto è che ti amo, Fede. Ma sei stata la mia donna per venti e più anni e non posso accettare di condividerti con altri. Ti giuro che farò il possibile per perdonare e dimenticare, ma la tua storia con quel ragazzo deve terminare. Subito, oggi stesso. Non lo devi più vedere, non gli devi più parlare. Niente più email o sms. Se venisse a trovarti in ufficio lo farai parlare con qualche tuo collega, chiaro? Nessun contatto, mai più. Zero, nisba, nada. Questa è la mia condizione. Irrinunciabile.
– Se mi comporterò come dici, tutto tornerà come prima tra noi?
– Forse. Non te lo posso garantire perché una cosa del genere non mi è mai successa, ma voglio provare a far funzionare ancora il nostro rapporto e col tempo credo che ci potremo riuscire.
– Grazie Mauro. Sei davvero un galantuomo. Ci proverò anch’io, vedrai.
– No, Fede, non devi solo provarci. Devi proprio smettere di vederlo! Sai quanto ti voglia bene, ma non lascerò che mi cornifichi impunemente. Un solo cedimento e tra noi è finita e questa volta per sempre.
– Quindi tra noi ora è tutto a posto e tornerai a dormire con me, nel nostro letto!
– No, Fede. Prima mi dovrai portare un certificato medico che attesti che tu non abbia contratto malattie veneree e poi, casomai, ne riparliamo.
– Va bene. Prendo appuntamento con la ginecologa domattina. Ma stai tranquillo: Alberto è un ragazzo pulito.
– Figuriamoci. Se scopa con te, probabilmente si sta sbattendo mezza Cattolica. Sono stato ragazzo anch’io e conosco questi soggetti.
Le settimane seguenti videro una Federica molto disciplinata. Pareva davvero essersi scordata del suo bello ed essere ritornata quella di un tempo.
Mai un sospetto, mai un ritardo senza spiegazioni, nessuna telefonata misteriosa. E fece di tutto per riportarmi nel suo letto.
Si faceva trovare la sera con magliette leggere quasi trasparenti senza reggiseno, gonne corte o pantaloncini, niente slip, mai.
Si accucciava contro di me mentre guardavamo la tv sul divano, assicurandosi di appoggiare sempre il suo seno contro il mio braccio, e a fine serata annunciava che se ne sarebbe andata a letto, stiracchiandosi in modo di mettere in evidenza il seno e chiedendomi se le avrei fatto compagnia.
Stavo davvero cominciando a cedere di fronte alla sua capacità di seduzione, al risultato negativo degli esami per le malattie veneree (anche se per il test per l’Hiv ci sarebbero volute altre nove settimane) e al suo comportamento irreprensibile.
Le volevo un bene folle, l’astinenza mi uccideva, non vedevo l’ora che le cose tornassero come prima e pregavo il cielo che la tenesse lontano dal suo innamorato.
Ma il mio naso mi diede il colpo di grazia.
Era in cucina e stava lavando gli spinaci nel lavandino. La luce dell’ultimo sole della sera dava ai suoi capelli un’aureola angelica. Era bellissima. Il suo seno, libero sotto la leggera maglietta, era irresistibile.
Persi il controllo. Mi avvicinai a lei da dietro, infilai le mani sotto le sue braccia e le afferrai i seni.
Lei rimase sorpresa per un momento, poi tolse le mani dall’acqua e le appoggiò sulle mie, inarcando la schiena in modo di appoggiarsi contro di me.
– Hmmmm, mio marito è tornato… – disse con voce roca.
Nel dire così, rovesciò la testa all’indietro cercando il contatto col mio viso e il mio naso finì nei suoi capelli.
Cazzo! No! Odore di fumo di sigaretta nei suoi capelli! Riconoscevo persino la marca, una popolare a buon mercato.
Diedi un passo all’indietro e la spinsi via.
– Cosa? Che c’è? Perché mi respingi?
– Niente, scusa, ho sbagliato. Non è una cosa giusta da fare.
– Come non è giusta? Sei mio marito, no? Non c’è cosa più giusta di questa!
– Ripeto: scusami. Ho perso il controllo per un momento.
– Bene! Da un mese cerco di farti perdere questo benedetto controllo e proprio quando ci sto per riuscire ti fai prendere dagli scrupoli? Perdilo, maledizione! Ridatemi mio marito!
– Sicura?
– Cosa?
– Sicura che sono io quello che vuoi?
Mi guardò dritto negli occhi, cercando di capire dove volessi arrivare.
– Ma certo, Mauro. Non c’è niente che desidero di più al mondo!
– Davvero? Ci hai pensato bene? Vuoi me e non il tuo giovane amante?
– Assolutamente sì! Non l’ho più visto, l’ho già dimenticato…
Era brava davvero a recitare. Ma non abbastanza. Ogni volta che mentiva si metteva a tormentare la sua vera matrimoniale e anche stavolta la fece roteare intorno all’anulare.
– Esco un momento. Devo pensare. Ci vediamo dopo.
– Aspetta! È quasi pronta la cena!
– Tienimela al caldo. Cenerò al mio ritorno.
Camminai furiosamente per tutto il quartiere. Arrivai fino al nuovo centro, alla nuovissima piazza Gae Aulenti e alle sue architetture futuristiche non lontane dalla Stazione Garibaldi. Entrai in un caffè in corso Como e ordinai un aperitivo, circondato da modelle e calciatori. Riconobbi Maldini (vabbe’. Ex calciatore…), ma niente mi consolava dalla consapevolezza che il mio matrimonio era al capolinea, nemmeno il capitano (o ex capitano) della mia squadra del cuore.
Tornai a casa con due Campari nello stomaco e venticinque euro in meno in tasca. Fede mi guardò con tenerezza e mi mise una mano sulla spalla.
– Hai potuto pensare? – Annuii.
– Alle volte mi piacerebbe sapere cosa ti passa per la testa…
– No, Fede. Non ti piacerebbe saperlo.
Cenai da solo e me ne tornai nella stanza di Alessio.
La mattina seguente l’avvocato della ditta mi diede il nome di una sua collega specializzata in separazioni e divorzi. La chiamai e mi fissò un appuntamento per le dodici e trenta quello stesso giorno, nel suo studio in via Carducci.
Quando arrivai la segretaria si scusò e mi pregò di aspettare qualche minuto perché la dottoressa non aveva ancora terminato con l’appuntamento precedente al mio.
Mi accomodai nella sala d’aspetto al secondo piano e cercai il modo di passare il tempo.
Guardai fuori dalla finestra che dava sulla via Carducci. Sotto di me stava lo storico bar Magenta e lo vidi pieno di studenti. Mi resi conto di non aver collegato il fatto che l’Università Cattolica fosse proprio dietro l’angolo, a non più di 200 metri.
In quel momento vidi un gruppo di sei ragazzi avvicinarsi al bar, sicuramente per un panino all’intervallo di pranzo. O meglio: cinque ragazzi (tre maschi e due femmine) e mia moglie.
Federica appariva radiosa, sovreccitata, elettrizzata. Rideva come una ragazzina, si prendeva a braccetto scherzosa con le altre ragazze, al punto che feci fatica a riconoscerla: quegli atteggiamenti non erano certo i suoi abituali.
L’avvocatessa uscì un momento ad annunciarmi che purtroppo erano sopravvenuti dei contrattempi e quel giorno non avrebbe potuto ricevermi. Mi chiese di fissare un nuovo incontro con la segretaria. Si scusò in tutti i modi, ma a quel punto salutai quell’appuntamento bucato come una opportunità.
Scesi in strada e mi sedetti sul sedile della fermata dell’autobus, confuso tra la folla, in modo di tenere d’occhio l’uscita del bar.
Dopo circa mezz’ora la vidi uscire sola e dirigersi a passo spedito verso l’università. Cominciava a piovere e lei cercò di proteggere la testa con la borsa, mentre a tratti correva, tra un riparo e l’altro.
Mi fiondai nel bar.
C’era un tavolo vuoto accanto ai ragazzi che avevano accompagnato mia moglie e mi sedetti accanto a loro, riuscendo a ascoltare le loro conversazioni.
Feci cenno al barman di portarmi una media chiara e un panino, mentre le due ragazze del gruppo si dirigevano insieme al bagno. I ragazzi ne approfittarono per lasciarsi andare.
– Davvero ti fa di tutto? Anche i pompini?
– Da non credere. Sembra un’aspirapolvere!
– E cos’altro?
– Tutto. Ma proprio tutto quello che le chiedo. Al punto che ho cominciato a guardare il porno in internet per farmi venire delle idee.
– Glie l’hai già messo nel culo?
– Se non lo faccio si offende!
– E poi?
– Ho provato a legarla al letto, a sculacciarla, ho cercato di farmi fare una spagnola ma le sue tette sono troppo piccole. Poi la tratto male, la insulto… Le ho persino sputato in faccia una volta! Ma quello che le piace di più è il mio uccello. Devi sentire come gode quando glielo schiaffo dentro. E come smania quando faccio finta di non volerla scopare.
– Cacchio, che figo! Ma non è troppo vecchia? Cosa pensi di fare con lei?
– Per il momento va bene così. Finché me lo fa venire duro non mi lamento. Certo, mi vergognerei a farmi vedere in giro con lei…
– Beh, passala a noi, quando ti sarai stancato.
– Non c’è molto da aspettare, allora!
– Cosa vuoi dire? Stai già per mollarla?
– Se Stefania si decide e me la da, la mollo in un secondo!
– Se me la passi ti do venti euro!
– Per venti euro non ti faccio neanche toccare le sue tette. Però mi hai dato un’idea: la potrei noleggiare agli altri e farci qualche soldo, no?
Si misero tutti a ridere, mentre le due ragazze ritornavano dal bagno.
– Perché ridete?
– Alberto sta pensando di affittare la sua troia agli altri studenti.
– Poverina! È così gentile! Vorrei che mia madre fosse come lei.
– Io invece vorrei avere tette come le sue. Avete visto che roba? Alla sua età? Non capisco cosa ci trovi in un babbo come te, Alberto.
– Va pazza per il mio grosso uccello! Suo marito è vecchio, non gli tira più e dormono in stanze separate.
Non sapevo se fosse più grande la pena per Federica o la rabbia verso questo scimmiotto.
Come poteva mancarle di rispetto in questo modo dopo tutto quello che lei stava rischiando per lui? Avrei voluto buttargli giù tutti i denti a martellate, castrarlo e fargli ingoiare i suoi coglioni con pomodoro e basilico, mozzargli il cazzo e ficcarglielo nel culo! Che stupido ero stato a promettere a Federica che non l’avrei toccato!
Fuori pioveva forte, ormai.
Alberto guardò la pioggia, accigliato. Estrasse le sigarette dalla tasca del giubbotto e se ne accese una.
Uno dei suoi amici gli indicò il cartello “Vietato Fumare”, ma Alberto scrollò le spalle.
– Piove troppo per uscire! Ho bisogno di una siga, e se agli altri non piace possono andare in culo.
Presi la mia birra e mi alzai. Mi veniva da vomitare il panino che avevo appena finito. Mi sedetti al banco, il più lontano possibile dai ragazzi.
Il barman, un omone anziano, forse quasi di settant’anni, barba lunga, capelli bianchi e occhi azzurrissimi, mi guardò e mi chiese se era tutto a posto, visto che stavo soffocando qualche conato.
– Sì, è solo per via della sigaretta. Mi fa lacrimare gli occhi e mi prede allo stomaco.
Il barman alzò gli occhi, si guardò intorno e vide Alberto con la sigaretta in mano, che cercava di nasconderla sotto il tavolo. Il fumo però si vedeva.
Asciugandosi le mani in uno straccio, il barman raggiunse i ragazzi.
– Fuori! Tutti!
– Calma, non ti scaldare. La spengo, la butto via. – E così dicendo la gettò fuori dalla porta d’entrata, sul marciapiede.
– Non t’ho detto di spegnerla o di buttarla via. Ti ho detto di uscire. Hai dieci secondi e poi prendo il bastone. – E cominciò a contare.
– OK, va bene, ce ne andiamo. Tanto questo è un bar di merda!
– In tal caso fate a meno di venirci la prossima volta. Perché comunque non vi faccio più entrare.
Alberto gli mostrò il medio, ma una delle ragazze non la prese bene e cominciò ad abbaiargli dietro.
– Tutta colpa tua! Sei il solito pirla! Dove andremo a pranzo adesso?
Comunque uscirono, alzarono il bavero della giacca e scomparvero nella pioggia.
Il barman tornò da me. Il bar era ormai quasi vuoto e un suo collega era sufficiente a preparare i pochi caffè che a quell’ora venivano ordinati.
– Mi scusi per l’inconveniente. Posso offrirle un’altra birra?
– No grazie. Non ce la faccio a berne un’altra. Ma sono io che devo scusarmi: le ho fatto perdere dei clienti.
– Clienti come quelli è meglio perderli che trovarli. Vengono qui sempre con una donna sui quaranta. Credo che uno di loro se la scopi. Lei paga per tutti e sembra divertirsi un sacco. Ma appena se ne torna al lavoro deve sentire le malignità che le dicono dietro, mentre si fanno durare le consumazioni che lei ha pagato per tutto il pomeriggio. Mi spiace proprio per lei. Sembra una brava donna.
– È carina?
– Beh, se me la desse non ci sputerei sopra, se capisce cosa intendo…
– E allora perché dice che le dispiace per lei?
– Non sono uno psicologo e i miei studi sono stati davvero impresentabili. Ma sto dietro a questo bancone da quasi quarant’anni e situazioni come quelle di questa signora ne ho viste almeno altre due o tre volte. Si siede con loro e scherza e ride alle loro battute cretine come se fosse una di loro. Questa cosa può finire in un solo modo. Male. Ma lei deve aver sentito cosa dicono di lei appena se ne va, no? Poi, si figuri, è sposata. Non voglio pensare a quello che deve provare suo marito. Me lo immagino in questo momento piangere da solo in un bar davanti a una bottiglia di grappa. Mi creda, questa storia finirà tra dolore e lacrime.
– Perché si comporta così, secondo lei?
– Per quanto ne so, non è per il sesso. Quel ragazzo è un deficiente e sicuramente a letto non vale nulla. No, non è la lussuria. È il terrore di perdere la giovinezza. Lei non si rassegna a invecchiare col marito. Vorrà sentirsi di nuovo giovane e corteggiata. Quando questo stronzo la lascerà lei cercherà di fare di tutto per rimettere in piedi il rapporto col marito. Ma non ci sarà niente da fare: troverà un altro pistola e poi un altro e un altro. Alla fine si butterà nelle braccia di qualsiasi ragazzo che le dia un minimo di attenzione, tra lo scherno e il disprezzo di tutti. Ma non potrà farne a meno, è come una droga. È davvero desolante.
– Sembra che lei parli per esperienza.
– Non vede nessuna moglie dietro questo bancone. Si chieda perché. Il bar era in parte nostro, ai tempi. Un’altra birra? – disse guardandomi dritto negli occhi con uno sguardo di una tristezza infinita.
– No grazie. La mia pausa pranzo è terminata ed è ora che torni al lavoro. – Quell’uomo mi aveva colpito e mi aveva dato materiale su cui riflettere. Sembrava una persona decente, che sapeva quello che diceva.
Cosa dovevo pensare?
Federica era ormai perduta o avrei potuto ancora recuperare il nostro rapporto? Sinceramente ero scettico. Le balle che mi aveva propinato testimoniavano che la sua discesa all’inferno era ormai iniziata.
La sera, quando tornai a casa, mi si sedette in braccio appena mi sbracai sul divano.
– Tutto bene?
– Certo. E che ne è del nostro piccolo Alberto? C’è rimasto male?
– Mauro, non so. Non lo vedo da almeno cinque settimane…
Era brava davvero. Se non l’avessi vista con i miei occhi le avrei creduto.
– Fede, abbi pazienza. Ancora un mese e mezzo prima di avere i risultati del test sull’Hiv e poi potremo pensare a ritornare come prima. Non sai come ti voglio bene.
– Non ne posso più, Mauro. Davvero vuoi aspettare? Se mi vuoi sul serio puoi sempre metterti il pr…
– Neanche per sogno, Fede! Io non prendo precauzioni per colpa di uno che non le ha prese! Ti pare?
La lasciai e me ne tornai nella mia camera.
Era chiaro che lei non mi avrebbe più detto la verità.
Aveva bisogno di me, della mia stabilità economica, della mia sicurezza, dei miei consigli, della mia protezione, come una figlia adolescente, che non può liberarsi dei genitori. Non come una moglie.
Non avrei potuto vederla cadere nell’abisso dell’umiliazione e della depravazione.
Non avrei potuto garantirle quella stabilità, quella sicurezza che lei mi chiedeva.
Ma nemmeno avrei potuto vederla finire come il barman del bar Magenta preconizzava.
Usai le successive due settimane per preparare la mia uscita. Presi in prestito il camioncino dell’azienda, e mentre lei era al lavoro, impacchettai tutte le mie cose nel piccolo Volkswagen.
Decisi di andarmene il giovedì, proprio dopo un confronto con i due amanti.
Quel giorno passai la mattinata a fare le valige e impacchettare tutto nel furgone. Poi mi sedetti ad aspettare in salotto.
Quando entrarono in casa e mi videro si sentirono gelare. Alberto aveva ventidue anni, ma pareva averne sedici da come si cagava addosso dalla paura, al punto che uscì di nuovo dalla porta e rimase sul pianerottolo.
– Cosa fai a casa, Mauro! – Federica cercò di caricare. Invano.
– Potrei chiederti la stessa cosa. Non m’avevi assicurato che con questo stronzo era finita?
– Hai ragione, Mauro, ma non ce l’ho fatta, Un giorno è venuto a trovarmi in ufficio e ci sono ricascata. Non riesco a resistergli! Mi spiace Mauro, ma sono sicura che riusciremo a superare questa cosa, dammi fiducia, Mauro, cerca di capirmi! Torna al lavoro, Mauro. Parleremo questa sera. Te lo prometto.
– No, Fede, Voglio parlare con lui.
– No, Mauro, lascia stare, non è il caso, ti fai solo del male!
– Beh, questo tizio si scopa mia moglie, in casa mia, nella mia camera matrimoniale e ci fuma dentro, persino: avrò il diritto di parlarci, almeno, porca puttana!
– Vuol dire che non sei arrabbiato per questo Mauro? Che davvero puoi accettare questa mia piccola trasgressione? Mi stai facendo felice, Mauro!
– No, Fede, non mi va bene. Ma sai che non posso vederti infelice. Così fammi parlare con lui e chiarire alcune cose.
– Hai promesso che non gli farai del male, Mauro.
– Ho promesso di non toccarlo. E manterrò la promessa.
Con il sorriso sulle labbra se ne tornò sul pianerottolo dove Alberto si era nascosto, lo prese sottobraccio e lo portò davanti a me.
– Mauro, questo è Alberto. Alberto, mio marito Mauro.
Il ragazzo era terrorizzato.
– Siediti pirletta. Bevi una tazza di caffè. – Avevo preparato la moka e riempii tre tazze.
– Il mio nome è Alberto, se non le spiace. Piacere di conoscerla, signore. – disse stendendomi la mano.
– Non mi spiace per niente, pirletta. Ma ho promesso a Federica che non ti avrei toccato e mantengo sempre le mie promesse, alla lettera. Quindi non stringerò la tua mano.
Era nervosissimo e spaventato. Estrasse il suo pacchetto di sigarette, ne estrasse una e fece per accendersela. Glielo tolsi di mano.
– Non essere idiota, pirletta. Il fumo uccide e se accendi quella sigaretta davanti a me, se non ti uccide il fumo ci dovrò pensare io. È buona educazione, in casa di qualcuno, chiedere il permesso prima di accendere una sigaretta. Non voglio finire puzzando come un posacenere fuori da una discoteca, chiaro?
– Scusi, signore, Feddy diceva che a lei non importava, così mi sono permesso…
– “Feddy”? Sarebbe Federica? Beh, “Feddy” sbaglia. Quello che fate a letto sono cazzi vostri, ma io non ti permetto di avvelenarmi col tuo fumo passivo del cazzo, chiaro?
– Chiarissimo, signore. – Gli tremavano le mani.
– Magari te ne posso permettere una dopo la chiavata. Ma mi stupisce che tu non ne capisca i rischi. Lo sai che puoi morire?
– Le statistiche dicono che se non si fuma per dieci anni il rischio si riduce quasi a zero. Così avrei deciso di smettere a trent’anni, prima dell’età critica…
– Sperando che tu riesca a vivere così a lungo… Ma bevi il tuo caffè, adesso.
Ci fu un momento di silenzio in cucina, mentre Alberto sorseggiava il suo caffè bollente. Così continuai.
– Adesso che siete diventati così intimi te la sposerai, giusto?
Quasi si strangolò col caffè. Federica si intromise.
– No, Mauro. Non ne abbiamo mai parlato. Io voglio continuare a essere tua moglie!
– Giusto qualche cazzetto qua e là, per vincere la noia, giusto?
– Basta, Mauro! Torna nel tuo ufficio oppure ce ne andiamo noi. Ne parleremo stasera!
Mi rivolsi ad Alberto.
– Sembra che “Feddy” stia esasperandosi, non ti pare? Forse ha paura di perdere l’appuntamento col tuo uccello, oppure il suo posto nel vostro piccolo gruppo, vero?
Per la prima volta mi parve di scorgere nei suoi occhi un inizio di riconoscimento. Dove m’aveva visto?
– Forse è meglio che me ne vada e vi lasci lo spazio per il vostro piccolo divertimento.
– Signore, mi sembra che lei la stia pigliando proprio bene, se posso permettermi…
– Si chiama amore, pirletta. Quando l’ho sposata ho giurato a me stesso che avrei cercato di farla felice per il resto della sua vita. Ed è proprio ciò che penso di fare.
Federica mi venne incontro, mi abbracciò e mi disse:
– Ti amo tanto anch’io. Davvero, Mauro. Sei il miglior marito del mondo.
Non risposi. Lei prese il braccio di Alberto e lo tirò per farlo alzare dal divano, mentre me ne andavo.
– Abbiamo terminato, signore?
– Certo, pirletta. Io vi lascio. Divertitevi.
– Signore, posso riavere le mie sigarette?
– Se va bene per “Feddy” io non ho obiezioni.
Si ritirarono in camera. Sentivo le loro risatine soddisfatte, sottovoce.
Raccolsi le ultime mie cose e me ne andai, chiudendo ermeticamente le porte e le finestre. La cucina confinava con la stanza da letto e ne era separata solo da una sottile parete di cartongesso. Armeggiai qualche secondo sotto il lavandino.
Alle sei ero ormai installato nel mio nuovo appartamentino a Crescenzago. Scesi al bar sotto casa a bere una birra e a guardare il notiziario nel televisore sopra il bancone.
L’annunciatore stava riportando la notizia di una tremenda esplosione in un appartamento di piazza Minniti, all’Isola.
Le immagini mostravano un palazzo il cui ultimo piano pareva completamente carbonizzato.
Strano, quel palazzo credevo di conoscerlo. Non era quello dove avevo abitato fino a ieri?
Fortuna che è assicurato, dissi tra me e me.
Il reporter continuò sostenendo che l’esplosione aveva fatto due vittime, presumibilmente il dottor Mauro Sartori, imprenditore milanese, e la moglie Federica, i cui corpi carbonizzati erano stati trovati nella stanza matrimoniale un volta spento l’incendio.
Il reporter stava intervistando il capo dei pompieri e gli stava chiedendo cosa avesse provocato l’esplosione.
– Tutto lascia pensare ad una fuga di gas. Abbiamo trovato il tubo del gas staccato dalla cucina. Forse non era stato fissato bene. Certo è che quando una stanza è satura basta un nulla, la scintilla di un interruttore, la fiamma di un accendino a causare il disastro. Si tratta senz’altro di un tragico incidente.
Spensi la tv e rimasi con la testa tra le mani per quasi un’ora. Pensavo a Federica e a come sarebbe discesa nell’inferno della sua depravazione.
Una cosa che potevo impedire in un solo modo.
Lo schermo del mio pc trasmise la sua immagine che usavo come screen saver, e che non avrei mai potuto dimenticare. Le chiesi perdono piangendo tutte le mie lacrime.
Poi andai su Google, trovai i numeri di telefono delle stazioni televisive che trasmettevano senza sosta l’esplosione di casa mia e chiamai la prima.
– State dicendo che sono morto nell’esplosione. Non è vero. Io sono vivissimo… No io non fumo…
grammaticalmente pessimo........
Ciao Ruben, sei un mito! Hai un modo di scrivere che mi fa eccitare! La penso esattamente come te. Se…
Ti ringrazio, sono felice che ti piacciano. Vedremo cosa penserai dei prossimi episodi, quando si chiuderà anche la sottotrama di…
Davvero molto bello. Piacevole come gli altri e decisamente pregno di sentimenti espressi senza risultare melensi o ripetitivi. D'impatto leggiadro,…
Come ti ho detto, in pochi e poche sanno sa scrivere in maniera così eccitante sia dare un senso ad…