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La settimana del farmacista

By 14 Febbraio 2004Dicembre 16th, 2019No Comments

LUNEDI

LUNIA

Il primo giorno della settimana inizia sempre con qualche difficoltà, specie se la domenica la farmacia &egrave stata chiusa e, in un certo senso, si &egrave fatto festa.

Anche le persone che vengono, per farmaci od altro, spesso sono meno ‘vive’ del solito. L’effetto flemma del giorno di riposo si dissipa lentamente.

Di contro, ci sono quelli che hanno trovato chiusa la farmacia la domenica e si affrettano acquistare ciò che non &egrave stato loro possibile il giorno precedente.

Ad una certa ora giungono le mamme che hanno accompagnato a scuola i figli. I figli piccoli, logicamente, per cui, di solito, sono mamme giovani.

Quella che era entrata in farmacia, con gli occhi bassi, aria timida, quasi intimorita, non era una mamma, ma molto giovane.

Venne diretta verso me, con un lieve sorriso sulle labbra.

‘Dottore, I’ve got a sore throat, mi fa male la gola, ha qualche cosa per la mia gola?’

Il primo pensiero fu che io qualcosa l’avevo, per la sua gola e per il resto, e mi tornavano in mente alcune scene di ‘deep throat’, gola profonda.

‘Lui’ entrò subito in fibrillazione, come segugio che annusa la selvaggina.

‘I should take a look at your throat, dovrei dare uno sguardo alla sua gola.’

‘OK, doc.’

Quel doc mi apriva strade impensate, mi aveva chiamato doc, come I medici.

La invitai a seguirmi.

Tutto sommato, la camera di riposo (quella per i turni di notte) offriva ogni comodità per un esame medico o di altro genere.

Mi seguì, sempre con quella sua aria indecifrabile, che dava una sensazione di docilità, di abitudine alla remissività.

Entrammo, chiusi la porta.

La luce era molto vivida, ma m’ero munito d’una torretta elettrica e di abbassalingua.

‘La prego, signorina..?’

‘Lunia, doc, sono Lunia Melli.’

‘E cosa fa a Roma?’

‘Studio all’università, economia, sono solo al primo anno.’

‘Però parla molto bene l’italiano.’

‘L’ho studiato a Teheran, anche perché mio padre ha lavorato all’ Ambasciata italiana. Lui, purtroppo non c’&egrave più. Sono a Roma con la mia mamma, che &egrave interprete alla nostra Ambasciata, in Via Nomentana.’

‘Allora, vediamo. Apra la bocca’ però, prima tolga il fazzoletto dal volto e forse &egrave anche meglio che levi il soprabito.’

Fece tutto ciò che le chiesi, con calma.

Aprì la bocca, le abbassai la lingua e proiettai la luce della torcetta nella gola.

‘Lui’ mi disse che avrebbe voluto essere al posto di quel raggio luminoso, a contatto di quella linguetta rossa.

‘Non vedo niente, Lunia, si dovrebbero auscultare i bronchi, I should auscultate your chest.’

Chissà perché lo avevo detto in inglese, probabilmente per darmi importanza.

Era solo un consiglio, il mio, intendendo che sarebbe stato bene farsi visitare da un medico, ma Lunia, forse anche per il fatto di avermi chiamato ‘doc’, lo interpretò come un invito, e, sempre senza fretta, sbottonò la sua blusetta’

‘Lui’ si imbaldanzì ancor più e mi suggerì di invitarla a sdraiarsi sul lettino.

Mi lasciai convincere da ‘lui’, e Lunia si distese, la blusa si aprì del tutto e mise in evidenza a fine pairs of tits, un bellissimo paio di tettine brune sormontate da due deliziose olivette scure.

Non avevo stetoscopio, ma ‘lui’, orgoglioso del precedente suggerimento, mi ricordò che avevo le orecchie e che quel contatto sarebbe stato piacevolissimo. Infatti fu così. Una pelle liscia, vellutata, serica, e non avrei mai voluto risollevare la testa. Sentivo il battito affrettato del cuore, e avevo scorto l’ingrossarsi e incupirsi di quelle belle olivette.

Le dissi di respirare profondamente. Visto che c’ero, seguitai la mia interpretazione e la feci mettere a sedere, per accertarmi dello stato dei polmoni.

‘Si stenda di nuovo, Lunia, voglio accertarmi che non sia un inizio di infiammazione, non ancora evidenziatasi, di origine gastrointestinale, o di altro organo interno.’

Ormai ero completamente in balìa di ‘lui’.

Lunia tornò a sdraiarsi, ma mi guardava con aria esitante.

‘Deve abbassare la gonna’ aspetti’ l’aiuto.’

Rimase col piccolo slip che ornava, non nascondeva, il suo pube.

Palpai l’addome, spinsi sul punto dell’appendice, poi dove, secondo i miei vaghi ricordi anatomici dovevano essere le ovaie.

‘Male qui?’

‘Quasi niente.’

Il respiro di Lunia era divenuto più pesante.

Con molta indifferenza, le abbassai lo slip.

Pensai che un’ complimento in inglese’ avrebbe spezzata una certa tensione’

‘What a nice jet-black bush on your mount of Venus, che bel cespuglio corvino sul monte di Venere..’

Lunia sorrise debolmente, mentre ‘lui’ guidava le mie dita irrequiete a palparla, ad esplorarla. Stavano per perlustrare tra le piccole labbra’

Con voce ansimante, Lunia sussurrò: ‘I’m a may, doc..! Sono vergine’!’

Sempre con la massima indifferenza apparente, mentre ‘lui’ stava quasi trivellando i pantaloni, scesi con la mano tra le sode natiche.

Credo che anche la mia voce fosse roca, quando le dissi di voltarsi, e poi di avvicinarsi alla sponda, e di mettersi carponi. Il tutto eseguito con docilità, certo, ma anche con evidente condiscendenza. Disponibilità, ansia, curiosità, attesa. Lunia non poteva certo farmi credere che seguitava a prestare fede ad una connessione tra gola e il suo bum il suo asshole, tra gola e sedere, e il buchetto che pulsava incessantemente, come le labbra d’un neonato in attesa di suggere il capezzolo materno e ristoratore.

‘Lui’ mi disse che quello era il momento, di non lasciarselo sfuggire. Adesso o mai più, e per seguirmi sul mio stesso terreno me lo ripeté in inglese, right now or nevermore!

Mentre con una mano mi incitò a titillarle il buchetto fremente, con l’altra aveva abbassata la zip, slacciata la cinta, tirato giù pantaloni e boxer, afferrato il vasetto di gel sul tavolino a fianco del letto, cosparso il glande e lo aveva accompagnato vicino a quel forellino incantato’.

Lunia tremava, si voltò appena.

‘I never did that before, doc.. Non l’ho mai fatto, dottore!’

‘Ther’s always a first time, darling, c’&egrave sempre una prima volta, tesoro’ Vedrai, ti piacerà’ godrai! You will enjoy’ !’

Collaborò con diligenza, con dolcezza, e a mano a mano che sentiva invadersi da ‘lui’, manifestò il suo apprezzamento che crebbe immensamente quando una mano le carezzò le tettine e l’altra la frugò tra le gambe, titillando il clitoride. Il suo piacere crebbe, sentiva i testicoli batterle le natiche, e l’orgasmo fu improvviso, incontenibile, talmente impetuoso che volli completarlo invadendola col mio seme, che sembrò un lavacro balsamico, appagante.

Quando, abbattuta sul letto, e ancora ansimante, mi sfilai da lei, aveva un viso estatico, gli occhi trasognati.

Cercò di voltarsi verso me, ancora e sempre alle sue spalle, con voce sommessa, vibrante.

‘Avevi ragione, doc, c’&egrave collegamento tra gola e il resto. Sto benissimo, mai come ora!’

^^^

MARTEDI

MARTA

L’uomo, distinto, abbastanza elegante, molto curato nella persona, entrò con passo lento, guardandosi intorno e si vide chiaramente che non voleva farsi servire da una donna, venne verso me, mise la mano in tasca, tirò fuori la ricetta, me la porse. In silenzio.

Prescrizione di un noto ginecologo-sessuologo alla moda, intestata alla signora Marta H’., di un farmaco abbastanza nuovo, che avrebbe dovuto combattere, almeno in parte, l’anorgasmia femminile.

Incartai la confezione, battei lo scontrino di cassa, consegnai tutto all’ inappuntabile signore e con fare distaccato e professionale gli chiesi se la paziente avesse tratto vantaggio da quella terapia.

‘Veramente’ ‘rispose l’uomo- ‘&egrave la prima volta che l’userà.’

Intanto, avevo preso la banconota datami, ero andato alla cassa, avevo preparato il resto e nel darlo al suddetto signore, sempre con tono freddo, interessato ma non curioso, dissi che, a quanto sapevo (e invece non sapevo niente in materia) molto dipendeva dall’età.

Il signore ritirò il resto e, quasi grato per la mia premura, mi disse che l’interessata era abbastanza giovane, intorno alla trentina.

Salutò cortesemente e uscì.

Presi il mio notes e scrissi il nome della destinataria del farmaco, Marta H’. Un cognome di origine straniera, e non molto comune.

Pensai che Marta era certamente la figlia dell’acquirente, e mi accorgevo che ero stranamente interessato a quella vicenda che, del resto, mi era del tutto estranea. Qualcosa mi diceva che dovevo saperne di più.

Me ne andai nello studiolo del retro-farmacia, dall’altra parte della camera di riposo, presi l’elenco telefonico: lettera H.

Pochissimi abbonati con quel cognome, uno, il Dr. Hans H’., abitava poco lontano dalla farmacia. Fissai mentalmente via e numero. Pensai che, forse, io quella Marta la conoscevo di vista,certamente almeno una volta doveva essere venuta in farmacia. Poverina, chissà che rottame pietoso era; a trent’anni.

La curiosità incalzava.

Dissi alle colleghe che erano al banco, che uscivo per un po’.

Era un caldo e luminoso martedì, di quelli che ti fanno pensare più al mare che non al lavoro.

Sapevo che sarei andato a impicciarmi sul dove abitava la paziente; del resto era solo a due strade di distanza.

Palazzo signorile, con una certa pretesa.

Appoggiato al portone, con un berretto di foggia militare in testa, un uomo. Evidentemente il portiere.

A passo lento decisi di passarvi davanti. L’uomo mi guardò, mi sorrise, salutò.

‘Buon giorno dottore, oggi festa?’

Mi fermai. Lui mi conosceva ma io non lo ravvisavo.

‘Buon giorno.’

Il mio tono sicuramente gli fece capire che non lo avevo identificato.

‘Lei non si ricorda di me, ma io sono venuto centinaia di volte nella sua farmacia, per me o per qualcuno degli inquilini. Anche questa mattina mi sono offerto di venirci io, quando il dottor H’ mi ha chiesto dove fosse la farmacia, ma poi ha detto che voleva passarci lui.’

Cambiai tono, divenne arruffianante.

‘Ma no, caro, la ricordo benissimo, &egrave solo che stavo soprappensiero, Come sta?’

‘Bene, dottore, grazie.’

‘Scusi, ma chi &egrave il dottor H’?’

‘Come, non lo conosce? E’ un pezzo grosso, il boss di una importante multinazionale.’

‘Non &egrave italiano.’

‘No, &egrave italianissimo, &egrave nato a Roma. Credo che il nonno sia venuto in Italia in tempi molto lontani.’

‘Vive solo?’

‘No, con la signora. Una bella signora.’

‘Ha figli?’

‘No. Ma ecco la moglie, sta uscendo, &egrave la signora Marta, e si cavò il cappello per salutare un tocco di donna da mozzare il fiato.’

Ringraziai il portiere e, molto lentamente, con nonchalance, mi avviai nella stessa direzione nella quale era andata la donna. Non era molto distante. La prima a scorgerla fu ‘lui’ che mi fece notare quelle natiche che si muovevano allettanti e maliziose, sotto il leggero vestito a grosse bolle.

La donna entrò nel caff&egrave, andò a sedere a un tavolino, quasi in angolo, feci lo stesso, mi accomodai nel tavolino accanto. Nel sedermi accennai un sorriso e un saluto. Lei ricambiò cortesemente.

‘Buon giorno dottore.’

Dunque, mi conosceva. Ma come potevo non averla notata quando era venuta in farmacia?

Salutai di nuovo.

‘Buon giorno signora.’

Mi rivolse la parola, voce calda, appena roca.

‘Come mai a spasso?’

‘Una giornata di riposo.’

‘Venga a prendere un caff&egrave qui, tanto anche io sto bighellonando.’

Mi alzai e andai a sedere al suo tavolino.

‘Lui’ stava gongolando, gli occhi gli avevano trasmesso l’incanto di quella femmina giovane e bella, con la spallina del vestito leggermente abbassata che rivelava l’inizio di un seno statuario e appetitoso: un grosso frutto da mordere.

Ma tu guarda che fortuna (diciamo così) che hai, mi ripetevo, neanche un’ora fa sapevi dell’esistenza di questo schianto di femmina, ed ora le stai tanto vicino da percepirne il tepore, il profumo. Alzai inavvertitamente le spalle, appena, ma lei lo notò.

‘Qualcosa non va, dottore?’

‘No, sto benissimo. Stavo pensando che per oggi non credo che tornerò in farmacia e tra me e me concludevo che tanto’ Lei come sta?’

Mi guardò fisso. Gli occhi sembravano divenuti di ghiaccio e i tratti s’erano come induriti.

‘Non so’ qualche medico dice che devo curarmi”

‘Sono certo che deve trattarsi di piccole cose’ Lei ha un aspetto splendido, e poi le giovani hanno solo modesti malanni passeggeri.’

‘Speriamo.’

‘Io credo, inoltre, che debba stare tranquilla, specie con le terapie moderne si supera quasi tutto. Vede, non sono medico, ma seguo molto la farmacologia ed ho quasi una fissazione per la medicina, specie per una parte di essa. Abbia fiducia.’

‘Chissà se per me &egrave questione di farmaci.’

La guardai mostrando molto interesse per quello che diceva, perché ‘lui’ mi suggeriva di non far cadere l’argomento. Quando si trattava di una ‘lei’ come quella, veramente eccezionale, non bisognava lasciare nulla di intentato.

‘Comunque, signora, mi reputi a sua completa disposizione.’

‘Si, mi piacerebbe scambiare quattro chiacchiere con lei. Mi dà fiducia.’

‘Le ho detto, sono a sua disposizione.’

‘Ma lei &egrave sempre indaffarato.’

‘Non oggi, ad esempio.’

‘Qui, però, non mi sembra il caso. Con questo viavai, con tante orecchie indiscrete. Perché non rimane a colazione da me?’

‘Lui’ stava per balzar fuori dai pantaloni per la gioia improvvisa.

Feci un significativo gesto di assenso.

La donna seguitò, un po’ pensosa.

‘Neanche da me, non voglio che mio marito venga a sapere che in merito alla mia salute interpello professionisti senza la sua presenza. Potremmo andare al lago, c’&egrave un posticino raccolto e riservato, poco distante dalla mia villetta.’

Mi guardava ansiosa.

‘Lui’ era divenuto irrequieto.

‘Possiamo andarci con la mia auto, signora.’

‘Va bene. Vada a prenderla, l’attendo all’angolo, intanto informo mio marito e a casa che non tornerò per la colazione.’

L’auto era davanti alla farmacia, lucida e pulita. L’avevo fatta lavare quella stessa mattina.

Dopo cinque minuti ero da lei. Si fermò un momento a guardare la vettura, fece un evidente cenno di compiacimento. Ero sceso, avevo aperto lo sportello, avevo ammirato le sue belle gambe bel oltre le autoreggenti col bordo ricamato.

La guardai, in attesa di sapere dove andare.

‘Dovremmo andare sul lago di Bracciano, verso Trevignano.’

Mi staccai lentamente dal marciapiede, e mi avviai per raggiungere il raccordo, da dove avrei imboccato la Cassia.

Era veramente bella, un profilo affascinante. Ma quello che mi attraeva in particolare era il petto. ‘Lui’ mi ricordò che dovevo puntare ben oltre, ci doveva essere una ‘lei’ incantevole.

Ricordai la prescrizione del sessuologo. Non riuscivo a credere che una femmina del genere avesse problemi di anorgasmia. Mi sarebbe tanto piaciuto accertarmene. ‘Lui’ disse che era proprio quello che si proponeva.

Andavo ripassando mentalmente ciò che sapevo su questo problema: l’anorgasmia può essere primitiva, secondaria, casuale. E’ primitiva quando una donna non ha mai avuto un orgasmo; secondaria quando c’&egrave perdita della capacità di avere orgasmo; casuale, quando &egrave dovuta a circostanze occasionali. Quindi, bisognava accertarsi di quale tipo si trattava.

Ha mai goduto sessualmente la bella Marta? Considera la sua anorgasmia come una disfunzione e, quindi accetta come sufficienti altre compensazioni del comportamento sessuale (abbracciare, accarezzare, procurare gratificazione al partner)?

Si, ma come procedere?

Era seduta al suo posto col vestito che le scopriva in parte le gambe, una spallina sempre scesa, il volto abbastanza sereno, labbra da baci’ ed altro (ricordava ‘lui’).

Ogni tanto la guardavo, Marta se ne accorgeva, si voltava verso me, mi sorrideva.

Scambiammo poche parole.

Chiesi cautamente quale fosse il suo problema.

Disse che era a disagio parlarne’

‘Lui’ mi suggerì di fare la prima mossa.

‘Scusi’ ma si riferisce alla sessualità?’

Ebbe un sobbalzo, le guance s’imporporarono, mi guardò con aria quasi sgomenta.

‘Come fa a saperlo? E’ un mago?’

Cercai di buttarla sullo scherzoso.

‘No, signora, un osservatore. Una donna giovane e bella come lei, così fiorente d’aspetto, &egrave facile che sia turbata per qualche aspetto erotico-sentimentale della sua vita. Può trattarsi di crisi di coppia, di delusione provata o procurata, di perplessità comportamentale”

‘Di difficoltà nella coppia, ad esempio.’

‘Raffreddamento dei rapporti? E’ il caso più comune.’

‘Vede, dottore, il mio disagio &egrave grande. Io voglio bene a mio marito, sto bene con lui, in tutti i sensi, ma non ne traggo le sensazioni che mi attendo, che le mie amiche dicono di provare.’

‘E’ un fenomeno più diffuso di quanto lei immagini, signora’.’

‘Scusi, io conosco il suo nome, perché &egrave nell’insegna della farmacia e per come la chiamano le sue colleghe al banco, ma non mi sono presentata, sono Marta H”

Mi tese la mano. Non era il luogo, ma la portai alle mie labbra e la baciai, molto più a lungo del normale. Non mi sembrò che ne provasse disgusto.

‘Vede, signora Marta, a volte quella che sembra una certa insensibilità, freddezza, non rispondenza agli stimoli, può derivare da scarsa conoscenza della sessualità, dell’anatomia, della fisiologia, da mancanza di esperienza, valutazioni sessuali irrazionali.

Scusi la domanda, ma da quando nota questo”

Mi fermai, non trovavo la parola giusta. Mi venne incontro.

‘Questo ‘non piacere’. E’ così: ‘non piacere’, tutto sembra iniziare soddisfacentemente, poi sopraggiunge un blocco. E’ come un fuoco che ritieni di aver acceso e poi, invece, langue, svanisce. Da quando? Da sempre.’

‘vuol dire che lei non ha mai raggiunto”

Anche questa volta mi precedete.

‘L’orgasmo, dottore, non so cosa sia se non dal racconto delle altre. Comprende il mio disagio? Non so nemmeno come abbia fatto a confidarmi con lei quando mi &egrave stato difficile parlarne col mio ginecologo.’

‘La ringrazio per la fiducia, signora. Mantenere il segreto su quello che so della gente fa parte del mio dovere professionale.

Vede, la sua &egrave definita anorgasmìa primitiva, la forma più facile da curare. Più che ricorrere ai farmaci, bisogna incoraggiare un’atmosfera di fiducia e di interesse tra la paziente e il partner sessuale. Per ottenere il massimo piacere dalle esperienze sessuali, &egrave fondamentale che una persona abbandoni il controllo e lasci regnare liberamente le sensazioni erotiche. Se si ha paura di perdere il controllo nella vita sessuale si rischia di essere rigidamente controllati in altri aspetti della vita.’

Mi guardò, interessata.

‘Io mi sento rigorosamente controllata in ogni forma della mia esistenza.’ ‘Vede? Non sto dicendo cose inesatte.’

‘Ma &egrave la prima volta che mi ci fanno riflettere.’

Guardai il cartello stradale.

‘Stiamo poco lontani da Trevignano, dove devo andare?’

‘Oltrepassi l’abitato, dopo due chilometri c’&egrave una stradina, a sinistra, verso il lago, in fondo la piccola trattoria dove potremo stare in pace.’

Seguii le sue indicazioni, vi giungemmo poco dopo.

Giorno feriale, non c’era quasi nessuno.

Scendemmo dall’auto, Marta mi tese la mano e, così, si avviò verso l’entrata. Era ancora abbastanza presto, era da poco suonato mezzogiorno.

Andammo a sedere al tavolino suggeritoci dal proprietario venutoci incontro. Ci informò che la lista era modesta, ridotta una scelta tra i primi: pasta gratinata o al ragù; pesce alla mugnaia o filetto ai ferri.

Marta mi guardò interrogativamente.

‘Mi rimetto alla sua scelta, signora.’

‘Per me poca pasta gratinata e un filetto ai ferri.’

‘Va benissimo anche per me, signora.’
‘Che ne dice di chiamarmi Marta?’

‘Io sono Piero.’

Mi tese la mano, come per stringere un patto.

‘Sa, Piero, che ho detto più cose a lei in qualche ora che non a mio marito in tutto il nostro matrimonio?’

‘E’ sposata da molto?’

‘Sa circa dieci anni. Avevo ventuno anni quando conobbi Hans, in un convegno del quale era relatore e docente. Io, allora, ero una svogliata e confusa universitaria che, pur al terzo anni di sociologia, non aveva fatto neppure un esame. Lui impersonava, almeno per me, la figura austera, un po’ teutonica, del manager di successo. Ci trovammo allo stesso tavolo, al lunch. Non posso dire che fui travolta dalla passione, ma quando mi propose di sposarlo, pochi mesi dopo, malgrado gli oltre venti anni di differenza d’età, accettai. Così, a 22 anni, divenni Frau H’ . Tutto qui.’

‘Io credo che lei, Marta, si sia estremamente controllata, sentendosi, a sua volta, controllata dal consorte ‘austero e teutonico’, come lo ha scherzosamente definito.’

‘B&egraveh, scherzosamente fino a un certo punto, perché Hans non abbandona il suo aplomb mai, in nessuna occasione. Ogni sua azione &egrave per lo meno pararazionale.’

‘Capisco.’

Era giunta, intanto, la fumante e fragrante pasta gratinata, che mangiammo di buona voglia, ed anche al filetto facemmo onore, gustando un ottimo ‘rosso’ della casa. Il tutto terminò col gelato.

‘Lui’ era impaziente, mi diceva che stavamo perdendo tempo, ma io non sapevo proprio come seguitare.

‘Che ne direbbe, Piero, di prendere un caff&egrave da me, &egrave a due passi, al di là della strada principale, quasi in cima alla collina. Troverà un po’ di polvere, ma si sa, questo &egrave il meno che capita nelle seconde case.’

L’idea era allettante.

Dovetti insistere per pagare il conto, uscimmo. Mi indicò quella che chiamava la sua ‘casetta’. Era una bella villa, in posizione dominante. Impiegammo pochissimi minuti a raggiungerla. Aprì il cancello col telecomando, mi disse di entrare e mettere l’auto dietro la casa. Saremmo entrati dalla porta secondaria.

Ambiente accogliente e molto elegante. Senza un filo di polvere, si vede che qualcuno pensava a tenerla in perfetto ordine.

Mi fece entrare nel piccolo salotto che, disse, era un po’ il suo piccolo regno, adiacente alla camera da letto ‘padronale’. Venga, gliela faccio vedere.

‘Lui’ sghignazzò, andiamo così gliela vediamo!

Marta doveva aver assorbito molto della determinatezza teutonica, e doveva credere fermamente nel ‘metodo sperimentale’.

Sicuramente era stata colpita da quanto le avevo detto: Per ottenere il massimo piacere dalle esperienze sessuali, &egrave fondamentale che una persona abbandoni il controllo e lasci regnare liberamente le sensazioni erotiche.

Appena entrati nella ampia ed accogliente camera da letto, si strinse a me e, alzando il viso, mi offrì le sue belle labbra carnose.

Trascuro i dettagli, perché tutto avvenne rapidamente, ma non in modo frenetico. Malgrado l’impazienza di ‘lui’, decisi di seguirla sul suo stesso terreno.

Eravamo sul letto, vestiti solo della nostra pelle.

Lei era più affascinante e desiderabile del previsto.

Un corpo perfetto, con seno sodo ed eretto, fianchi splendidi, ventre piatto, e una folta matassa dorata sul pube, tra le gambe.

Era evidente, e molto, l’irrequietezza di lui, ma dovevo agire quasi con’ professionalità.

La baciai teneramente, mentre le carezzavo il seno, il pube, le andavo tra le gambe con mano esplorante. Era un contatto delizioso, pelle liscia, morbida, riccioli di seta, grandi labbra calde, accoglienti.

Introdussi due dita nella vagina, perlustrando. Mi ricordavo del dottor Grafenberg, in quasi tutte le donne c’&egrave un punto, il punto G dal suo nome, che &egrave alla base del loro godimento. Chiusi gli occhi per rivedere la grafica relativa. Esplorai cautamente, cercando di cogliere anche le più deboli reazioni di Marta.

Mentre premevo dolcemente un determinato punto, la sentii sobbalzare. Con una mano mi afferrò i capelli. Carezzai ancora, delicatamente, con insistenza, i sussulti continuavano, la vagina si stringeva intorno alle dita, palpitava, il respiro di Marta aumentava. Lei giaceva supina, gli occhi chiusi, le labbra un po’ aperte. Mi abbassai a suggerle il clitoride che s’era andato ergendo. Il grembo era scosso, sempre più, e la carezza insisteva, fin quando lei non iniziò un gemito lento e prolungato, incalzante, che finì in un grido quasi soprannaturale, un lungo, interminabile ooooooh! Che si accompagnò al ghermire deciso del mio sesso, nella sua piccola mano.

Mi mossi, mettendomi seduto, e lei, si proprio ‘lei’, s’accostò al mio glande svettante, e lo ingurgitò, golosa, mentre Marta mi cingeva il collo con le braccia, alzando le gambe e inarcando il bacino per accogliermi meglio, il più profondamente possibile.

Un amplesso indimenticabile.

Del resto, era una vittoria attesa da sempre.

Il primo orgasmo d’una femmina più passionale dell’immaginabile.

Marta aveva avuto il suo primo orgasmo, e voleva rifarsi del tempo perduto. ‘Lui’ si prestava egregiamente, anche perché il suo piccolo inconveniente erettile (eccesso di durata) era proprio ciò che ci voleva per quella femmina arrapata, che, finalmente, aveva conosciuto il piacere, il godimento sessuale.

‘Lui’ era veramente orgoglioso delle sue doti terapeutiche.

Si riprometteva di sfruttarle.

La terapia, infatti, non terminò con quella seduta.

^^^

Qualche tempo dopo, il dottor H’ tornò in farmacia, a ricomprare quel tale farmaco prescritto dal ginecologo-sessuologo di grido.

Quando gli detti il pacchetto, mi sorrise.

‘Sa, dottore, che questa medicina fa miracoli?’

E come se lo sapevo, e sapevo anche la vera medicina per Marta.

MERCOLEDI’

MERCEDES

La giornata non era stata molto movimentata.

Buona affluenza di clienti, ma io ero alquanto distratto, svagato.

Ogni tanto ‘lui’ mi ricordava che le ore trascorrevano, si stava facendo quasi sera, e non si era combinato nulla, né c’era qualcosa all’orizzonte. A ‘lui’ non piaceva la inoperosità, e aveva paura di una notte solitaria.

L’insegna multilingue, che indicava trattarsi una ‘farmacia internazionale’ faceva sì che erano numerosi gli stranieri, d’ogni razza, che si servivano da noi, anche nell’illusione che parlassimo tutte le lingue. Il nostro staff masticava un po’ di inglese, francese e spagnolo, del portoghese conosceva cinque parole, altrettante di russo, due di giapponese, e con ‘salàm’ finiva la sua cognizione dell’arabo. I nostri clienti, invece, ogni tanto si rivolgevano in swaili, pakistano, ed amharico (ah, dimenticavo, avevamo anche qualche infarinatura di amharico: tienaistellign, buongiorno).

Quando entrò quella beneficata dalla natura (‘lui’ mi corresse, dovevo dire bene ficata, e lo era!), stavamo quasi per chiudere. Era una stanga d’ebano che faceva girare la testa. Mi chiese qualcosa per dormire.

Era assolutamente escluso che non provassi a rimorchiarla.

Iniziai chiedendole come mai una così bella ragazza non riusciva a dormire. Aggiunsi con intenzionalità, forse perché era sola?

La ragazza mi rispose a tono, con perfetto accento italiano.

‘Quando non sono sola il sonnifero non mi serve, anzi!’

Comunque, il ghiaccio era rotto.

‘Abita qui vicino?’

‘No, sono venuta a trovare una compagna di università. Abbiamo studiato insieme, ora me ne torno a casa.’

‘Dai suoi?’

‘No, i miei sono a Kingstone, in Jamaica. Sono a Roma da quasi dieci anni. Prima dalle suore, le stesse che frequentavo al mio paese. Mi hanno ospitata perché speravano che prendessi gli ordini e tornassi come missionaria in Jamaica. Io, però, l’anno scorso, al secondo anno di noviziato, ho capito che non era la vita per me. Ho cercato un posticino, e me ne sono andata. Nel contempo, m’ero iscritta all’università, a psicologia, ed ora mi barcameno tra studio e lavoro part-time.’

Una presentazione sintetica e quasi completa.

‘E che lavoro fa?’

‘Curo la biblioteca dell’ordine degli psicologi. Due ore ogni mattina. Poi impartisco qualche lezione di inglese, e tiro avanti benino.’

‘Senta, invece di prendere sonniferi, che sono sempre dannosi, perché non cerca di rilassarsi diversamente, magari andando al cine, prendendo una pizza’?’

Alzò le spalle, senza dir nulla.

‘Lui’ mi suggerì di passare all’attacco diretto, cominciando a darle del tu.

‘Se lo gradisci, te la offro io una pizza, o se preferisci, ancor meglio, una bella cenetta, poi quattro passi e vedrai che il sonno non ti preoccuperà.’

Mi guardò con aria da monella.

‘Quando esci?’

‘Esco subito.’

‘Te lo permettono?’

‘Me lo permetto. La farmacia &egrave mia.’

‘Ah!’

Sorpresa, ma compiaciuta.

Aspetta, vado a togliere il camice e prendo la giacca.

‘Per favore, prendi anche il sonnifero.’

‘OK. A proposito, mi chiamo Piero.’

‘Ciao, Piero. Sono Mercedes.’

^^^

L’auto sportiva, abbastanza elegante, le piacque molto, ci girò intorno, la guardò da tutte le parti, quasi la carezzò, poi si decise a salirvi. Io le tenevo lo sportello aperto.

Salì, inebriandomi con lo spettacolo delle sue fantastiche gambe che sembravano non finire mai. Aveva il fisico d’una ginnasta, di quelle che fanno corpo libero. Perfette in ogni dettaglio, col sederino un po’ pronunciato e un paio di tette alle quali certamente potresti attaccarti e farci le sospensioni.

‘Lui’ gongolava, e non era facile tenerlo a bada.

Ora di chiusura dei negozi.

‘Mercedes’ ti chiamano così gli amici?’

‘Mi chiamano Mercy.’

‘Bene. Se non hai orari da osservare, che ne dici di andare a mangiare in un locale in riva al mare?’

‘Io adoro, il mare, ma tu sei libero?’

‘Liberissimo.’

‘OK, allora, andiamo.’

Si accomodò sul sedile, indossò la cintura di sicurezza, e, più o meno intenzionalmente, fece salire la gonna a mezza coscia. Gonna bianca, con piccoli motivi geometrici, su cosce nerissime, lucide.

Le guardai.

‘La tua pelle ha riflessi di seta, sembra cosparsa di crema.’

‘E’ così, non adopero creme. Senti.’

E come se sentii. ‘Lui’ non mi avrebbe fatto mai ritirare la mano, anzi mi spingeva a proseguire verso l’alto. Gli feci comprendere, con molta difficoltà, che era intempestivo: ogni cosa a suo tempo.

Quando Mercy notò che invece di imboccare l’autostrada per Ostia o Fiumicino, m’ero avviato sulla Pontina, mi chiese dove fossimo diretti.

‘Andiamo a Sabaudia. Mai stata?’

‘Mai. E’ bella?’

‘Vedrai. Il locale a me piace.’

Quella venere cioccolato mi irretiva, sentivo il desiderio di morderla, di mangiarla. Lui mi disse: dopo, però’!

Calavano le ombre della sera, guidavo a velocità moderata.

Mercy mi fece un vero e proprio interrogatorio. Volle sapere tutto di me, della mia famiglia, di come vivevo, se fossi fidanzato, che tipo di sport preferivo. Non la finiva mai. Ho risposto sempre esaurientemente, logicamente dicendo ciò che volevo non quello che era. Ma il modo era convincente, e lei ascoltava e annuiva.

Chiesi qualcosa di lei. Madre sola, infermiera all’British Hospital di Kingstone, un fratello, molto più grande, medico nella stessa struttura. Loro erano protestanti, lei cattolica, ma ammetteva che lo era un po’ a modo suo. Niente fidanzato, per ora. Il compatriota col quale aveva flirtato l’anni prima, era tornato nella sua isola. Non le mancava, perché non se ne era mai innamorata, né affezionata. Scrollò le spalle, come una monella.

Stavamo entrando a Sabaudia. Proseguii verso la spiaggia, dov’era l’Hotel-Restaurant che le avevo descritto. Parcheggiai, dtti la chiave al ragazzo che mi venne incontro.

Mercy chiese se potessimo andare vicino alla battigia.

Dissi al ragazzo di prenotarci un tavolo, un po’ appartato.

Mercy s’era avviata sulla rena scura e fredda. S’era tolta le scarpe, correva festosa verso il mare. Lunghe falcate, quelle d’una atleta.

La raggiunsi, glielo dissi che aveva la statuaria struttura della ginnasta.

‘Si, mi piace il corpo libero. Non posso andare il palestra, ma a casa faccio esercizi tutti i giorni. Vuoi vedere?’

Non attese la mia risposta, lasciò cadere l’abito (aveva solo quello e un minuscolo perizoma rosso) e si esibì in una ineccepibile spaccata.

‘Non muoverti, Mercy, sei bellissima coi raggi della luna che di sfiorano. Resta così.’

Rimase ferma, guardandomi.

Quando mi chinai, a baciarla, ricambiò il bacio, con ardore, ma non mosse il corpo. Rimasi a contemplarla, ‘lui’ s’era direttamente collegato ai miei occhi e si soffermava sul seno tondo e splendido, sulle pregevolissime natiche, evidenziate dal perizoma che s’era spostato e le solcava il gluteo destro come il segno d’una frustata. Ma neanche al tempo degli schiavi avrebbero frustato un culetto del genere.

Non la sollecitai, certo, ad alzarsi. Mercy si levò con deliziosa lentezza e si rivestì. Mi guardava sorridendo.

‘Non perdi tempo, eh, dottore.’

‘Invece credo che ne sto gettando al vento limitandomi ad ammirarti”

‘E che vorresti fare?’

‘Baciarti.’

‘L’hai fatto.’

‘Ma quello era un tenero sfioramento decisamente platonico.’

Era di fronte a me, si avvicinò, si avvinghiò a me , mi strinse il volto tra le mani e mi baciò impetuosamente sulla bocca, con la sua lingua guizzante che cercava di avviticchiarsi alla mia.

‘Lui’ era a malapena imprigionato dalla patta che aveva trasformato in una pulsante ed evidente gobba che s’era andata a rifugiare nel grembo della ragazza, proprio dove le gambe si congiungevano, e gli sembrò di sentire chiaramente ‘lei’ che lo carezzava voluttuosamente facendogli sperare meraviglie paradisiache.

Non ci riuscimmo a staccarci subito, e intanto mi accertavo dell’effettiva consistenza delle sue solide chiappe, delle sue tette meravigliose.

Era diverso il tono della voce, più basso, quasi tremante, quando mi sussurrò che era meglio andare a cena. Eravamo all’aperto, dove tutti ci avrebbero visti.

‘Lui’ era combattuto tra il suo abituale ‘tutto e adesso’, e la prospettiva di qualcosa di infinitamente più piacevole. Nella quiete accoglienza del nostro appartamentino, senza fretta. L’abissale sproporzione tra una ‘sveltina’ e i raffinati amplessi d’alcova, ben valeva un lieve differimento, perché una rapida sorsata di qualcosa d’insapore se ci attendeva una inebriante libagione col più delizioso dei nettari?

Tra l’altro, con la ‘sveltina’ le condizioni di ‘lui’ non sarebbero certo variate, se non in peggio. Lo sapeva per esperienza.

Andammo a cena.

Anche Mercy aveva gli occhi che le brillavano, certamente la sua ‘lei’ non era rimasta insensibile né alle labbra, né alla lingua, né al ‘gonfior di patta’.

Già pregustavo l’insuperabile spettacolo delle sue brune grandi labbra che si dischiudevano mostrando il rosa scuro dell’interno. Solo chi non ha mai ammirato una simile visione non comprende l’estasi che accende.

Il ritorno richiese tutta la mia buona volontà per non correre incautamente. Anzi, decisi di guidare a velocità moderata. Malgrado le proteste di ‘lui’. E questo favoriva un bacio di quando in quando, carezze sempre più audaci, che ‘lei’ accolse palpitante, invitante, col sensibile clitoride ben eretto e guizzante, e si infiammò sempre più, fin quando non raggiunse l’orgasmo a lungo atteso che le consentì di placarsi. In parte. Era un pallido assaggio di ben più sostanziosa portata. Non riuscì a trattenersi del tutto, abbassò la zip dei miei pantaloni e armeggiò per tirarlo fuori, rimase un momento a guardarlo, con aria soddisfatta. Ero contento di quell’espressione, era evidente che apprezzava la promessa. E volle anche conoscerne consistenza e dimensione, non solo tattilmente, perché la sua bocca volle rassicurare la vagina che c’era di che saziarsi. Guidare così non era facile, e le auto che incrociavamo rendevano ancora più arduo mantenere una certa stabilità.

Le luci della città le suggerirono di riprendere una posizione degna per la passeggera di un’auto.

Eravamo a casa.

Vi entrò con naturalezza, indifferenza, come se vi fosse stata già altre infinite volte.

Mi sussurrò all’orecchio che voleva sapere dove fosse il bagno. La condussi nella mia camera da letto, le mostrai la porta del mio bagno personale. Vi entrò.

Andai in cucina, aprii il frigo, presi una bottiglia di champagne, poi dalla credenza due coppe e un vassoio, tornai nella camera e deposi tutto sul tavolino.

Mercy uscì dal bagno completamente nuda e andò direttamente al letto, lo scoprì, vi si infilò. Senza parlare. Vide lo champagne sul tavolino, mi tese la mano.

‘Dopo’ non voglio inebriarmi con l’alcool”

Accesi il lume del comodino, spensi la luce centrale. Le feci un segno con la mano, e andai anche io nel bagno, tornando poco dopo, nel su stesso abbigliamento, ma qualcosa era molto evidente. Mercy era completamente scoperta, a pancia sotto.

Come le fui vicino, nel letto, si voltò verso me e cominciò a baciarmi, mentre le mie mani carezzavano quella pelle liscia, lucida, di seta, e si soffermavano dove sentivano più intenso il suo vibrare.

Non fu possibile rinviare oltre quello che con tanta evidenza desideravamo tutti e due.

Si voltò di nuovo, si poggiò sulle ginocchia, nella ultramillenaria posizione d’accoppiamento della sua gente, e mi accolse sussultante, spingendosi verso me, come per tema che ne rimanesse fuori una parte.

Fu inizialmente un lento in-and-out, curando di non uscire mai del tutto, e che il glande strofinasse diligentemente il punto della sua vagina che dimostrava maggiore sensibilità. Quelle natiche accoglievano ondeggianti le mie insistenze, le tette sembravano a cada loro nel palmo delle mani, e il clitoride trasmetteva alle pareti interne il godimento che lo faceva impazzire.

Il ritmò incalzò sempre più. Mercy scuoteva la testa a destra e sinistra, con gli occhi socchiusi, le labbra semiaperte, e un gemito lungo e roco che andò aumentando, fino ad esplodere in un grido, quasi selvaggio, mentre il culetto spingeva come a volermi strappare il sesso e nasconderlo nel suo grembo.

Fu così intenso e voluttuoso, quel tribale amplesso, che anche io raggiunsi l’acme del piacere, e riversai in lei un torrente incandescente che fu accolto con mugolii e movimenti che accrebbero la generosità della sorgente.

Mercy, affannata, con le nari dilatate, mi sussurrò che era quello il più bel modo di brindare, altro che champagne in bocca!

Fu un susseguirsi inesauribile di baci, di congiunzioni.

Era quasi mattino.

Mercy era abbracciata a me. La sua gamba sul mio grembo, la tetta sul mio petto, le labbra che mi baciavano.

Emerse in lei la giamaicana delle calde tribù della sua isola.

‘You’re an endless fucker with an endless spring. Piero.’

E seguitò a baciarmi.

‘Lui’ si ringalluzzì subito, anche per confermare quello che, con parole istintive e essenziali, considerava un complimento: sei uno scopatore senza fine con una sorgente senza fine.

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Mercy venne a trovarmi in farmacia il mattino successivo, Mi dette un pacchetto.

‘Lì dentro ci sono io, come mi ha visto lo scultore in legno della mia tribù.’

La condussi nel mio studiolo.

Era una statuetta con la sua figura. In ebano, lucida. Incantevole.

‘Io desidero l’originale, Mercy.’

‘Certo, tesoro, certo, quando vuoi.’

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GIOVEDI’

GIOVANNA

Mi presentai in farmacia nella tarda mattinata, dopo una doccia sotto la quale m’ero crogiolato a lungo, e un robusto english breakfast.

‘Lui’ era alquanto preoccupato.

Si prospettava una giornata vuota. Io gli avevo detto che ogni tanto ci vuole una ‘pausa’, ma non era d’accordo.

Me ne stavo distrattamente dietro al bancone, quando entrò una di quelle che definivo la tipica mamma casalinga. Una belloccia, vestita con gusto ma senza nessuna pretesa, accurata nella persona, e sempre un po’ in lotta col proprio peso. L’avevo già vista altre volte, anche col figlio.

‘Lui’ decise che non bisognava lasciarsela scappare, un’esperienza meritevole d’essere goduta. Perché quando si trattava di una femmina il godimento era la naturale finalità.

La guardai attentamente, mi pareva un po’ abbondantina. Non di primissimo pelo. ‘Lui’ mi disse che era meglio così, c’era ‘ciccia’ e ‘competenza’.

Venne da me, sorridendo, mi porse la ricetta.

Le ricette del Servizio Sanitario Nazionale, SSN, sono una miniera di informazioni: nome e cognome, età, indirizzo, senza parlare dello stato di salute.

Andai verso lo scaffale, tirai lo scorrevole, ma mentre stavo per prendere la confezione richiesta, mi venne in mente un’idea. Forse fu ‘lui’ a suggerirla. Tornai al banco.

‘Mi spiace, signora, non ho ciò che ha richiesto, ma nel primo pomeriggio sarà qui. Lei non si preoccupi, glielo farò avere a casa. Ci sarà qualcuno, per aprire la porta?’

‘Ci sarò io, dottore. Mio marito, ferroviere, torna solo domani sera, e mio figlio &egrave in gita scolastica. Ma posso passare io se ci sono problemi.’

‘Nessun problema, signora. C’&egrave un’ora che preferisce?’

Alzò le spalle, con indifferenza.

‘Quando vuole. Io vado un po’ a riposare, ma non dormo quasi mai il pomeriggio.’

‘Bene, mi dia l’indirizzo, per favore.’

Tutta scena. L’indirizzo era sulla ricetta. Giovanna Rosi, anni 41, via’ n’ .

Mi sorrise ancora, e questa volta in un modo alquanto diverso. Si voltò, uscì ancheggiando visibilmente.

Inutile, quando uno sa di avere qualcosa di pregevole cerca sempre di sottolinearlo.

‘Lui’ lanciò un saluto silenzioso: ‘arrivederci belle chiappe!’

Aveva detto proprio ‘arrivederci’, non ‘ciao’.

Quel giorno non dovevamo chiudere per l’intervallo pomeridiano, eravamo di turno. Si andava a prendere qualcosa alla tavola calda, alternandoci al banco.

Io dissi che sarei uscito per ultimo, anche perché non credevo di poter tornare, dato gli impegni.

Mancava qualche minuto alle quindici quando presi il farmaco di cui alla ricetta di Giovanna, lo incartai, battei il ticket alla tasca, intascai lo scontrino, e uscii ribadendo che ci saremmo visti l’indomani.

La casa di Giovanna non era distante.

Dall’altra parte della piazza, quella con la grande chiesa, dopo un paio di strade, c’erano degli edifici costruiti alcuni anni prima, da un istituto previdenziale dei ferrovieri. Senza nessuna pretesa, ma tenuti molto bene. A me non capitava spesso di passare da quelle parti, ma ci arrivai abbastanza rapidamente.

Il portone a vetri era chiuso. Lessi sul citofono il cognome di Giovanna. Spinsi il bottone. Attesi. Dopo un po’, tornai a bussare. Era la voce di lei, quella che rispose.

‘Pronto?’

‘Pronto, signora, &egrave la farmacia, ho quello che le serve.’

‘Va bene, le dispiace venire su, sono in vestaglia.’

‘OK, che piano?’

‘Ultimo piano, interno venti.’

Sentii lo scatto della porta che si apriva. Entrai, l’ascensore era presente. Mi misi dentro, premetti il pulsante. Salì lentamente, si fermò al piano, la porta automatica si dischiuse, andai sul pianerottolo. L’interno venti era a sinistra, bussai. Giovanna aprì.

Rimase sorpresa quando mi vide.

‘Ma come, s’&egrave disturbato lei, dottore’ entri’ si accomodi’ entri’ accetti almeno un caff&egrave”

Entrai.

Era in vestaglia, come aveva detto, ma ben pettinata, e con un leggero trucco sul volto e sulle labbra.

Logicamente, gli occhi cercarono di infilarsi dappertutto, ma non dovettero faticare molto, perché dalla scollatura s’intravedevano due fiorenti poppe ancora degne di maggior attenzione.

‘Venga, dottore, si segga.’

Mi fece entrare in una specie di salotto, con mobili abbastanza nuovi, di ottima fattura, e un divano scuro.

Preferii sedere sulla poltroncina, il divano mi sembrava un po’ troppo basso per essere comodo.

‘Signora, ecco il farmaco.’

Le porsi il pacchetto.

‘Quanto le devo?’

Sorrisi, sempre squadrandola da capo a piedi, eloquentemente.

‘Un caff&egrave, grazie.’

E’ certo che aveva decodificato il messaggio che ‘lui’ le aveva lanciato attraverso lo sguardo: ‘sei veramente una montagna di sfizi, famme vedé il resto’.

Tornò poco dopo col vassoio sul quale erano due tazzine fumanti, la zuccheriera.

Pose il tutto sul basso tavolino, andò a sedere sul divano.

I lembi della vestaglia si spalancarono su certe cosce di panna che fecero subito ringalluzzire l’irrequieto cialdone che mi premeva nella patta. ‘Lui’ mi ricordò che il cialdone era proprio fatto per la panna.

Giovanna mi diede una tazzina, mi chiese quanto zucchero, le risposi che lo preferivo così. Continuava a chinarsi sul tavolino, senza ragione, e le belle tette sembravano proprio impazienti.

Come cominciare?

‘Lui’ era più impaziente delle tette: dai, sbattiamola sul divano e facciamocela, non vedi che non aspetta altro? Anche le labbra si sono enfiate, figuriamoci quelle di sotto, e le narici sono frementi, gli occhi lucidi non ti dicono nulla? Lo capisci che per lei tu sei un bel bocconcino? E quando le ricapita un’occasione del genere, non deludiamola.

Evidentemente l’espressione del mio volto le diceva qualche cosa.

‘Cosa sta pensando, dottore?’

‘Scusi, ma sono veramente preso dalla sua bellezza. E’ una donna veramente attraente.’

Cercava di controllare la voce, e le gambe avevano preso a tremare.

‘Via, dotto’, un bel giovane come lei non si contenterebbe di una casalinga da quattro soldi.’

Mi alzai, deciso, mi fermai di fronte a lei, mi chinai, le presi il volto tra le mani e la baciai, frugandole la bocca, incontrando i guizzi frenetici della sua lingua avida e sensuale.

Si alzò, mi abbracciò stretto, mi guardò con occhi lampeggianti. La vestaglia s’era aperta, era nuda, sotto, e stuzzicante. ‘Lui’ non stava in sé dalla gioia, attendendo irrequieto.

Giovanna si staccò da me, con gesti rapidi trasformò il divano in un letto (forse quello dove dormiva il figlio), e vi salì sopra dopo essersi liberata dell’ormai impacciante indumento.

Non c’&egrave che dire, era un bel campione di femmina, attraente, invogliante e vogliosa. Con belle gambe e un posteriore incantevole.

Mi tese la mano, mi avvicinai.

Prese a svestirmi, senza fretta, ma respirando sempre più affannosamente.

Le carezzai il seno, scesi nel boschetto nero e riccio del pube, sentii il suo sesso gonfio, e, inoltrandomi, il clitoride che era eretto e vibrante, le sue piccole labbra distillavano la testimonianza del suo piacere.

Ormai, ero nudo anche io.

Mi spinse giù, salì su me, s’impalo’ trattenendo appena la sua impazienza, e cominciò a cavalcarmi con consumata perizia, consapevole del piacere che mi dava, soddisfatta per quello che questo raffinato amplesso le prodigava.

Le mie mani la brancicavano, dappertutto, dalle spalle all’interno del suo sesso che premeva su me.

Mi guardò con occhi accesi. Sembrava giovanissima, adolescente.

‘Non ho mai goduto così, dotto’, mai. Sto’. Oooooh’. Sto’.’

L’orgasmo che l’invase non le consentì di terminare la frase.

Seguitò, posseduta da una vis erotica travolgente, e raggiunse di nuovo l’acme del suo piacere, poi si gettò su me, ansante, sudata. Affranta. Col grembo ancora scosso, che stringeva in sé le ultime contrazioni del mio pene prima che erompesse in lei la lava incandescente del mio seme, accolta da ancor più frenetici palpiti.

Mi sbaciucchiava l’orecchio.

‘Non sapevo che potesse essere così, dopo tanti anni di matrimonio. Ma certamente sei tu. Sei un dio, meraviglioso. Non l’avevo mai fatto con un altro. Mio marito mi fa godere, ma &egrave come ‘na fontanella di fronte a ‘sto Tevere che sei tu.Il dio Tevere.’

Si sdraiò su me, mi carezzava il volto, mi baciava, mi guardava e sorrideva. Il mio fallo, ancora in lei, non riusciva a raggiungere lo stato di quiete che pur gli spettava dopo tanta applicazione.

In effetti, Giovanna era un’amante eccezionale. Non erano molte le volte che ‘lui’ raggiungeva così presto il piacere, e che accennava, sia pur fugacemente, ad afflosciarsi dopo un solo assalto.

Forse ‘lui’ cominciava ad invecchiare, o era stata la qualità e il grado di voluttà che quella amazzone scatenata aveva saputo suscitargli.

Era tenera, dolce, languida, la bella Giovanna.

Un Giovedì iniziato all’insegna del ‘nulla di nuovo’ e che mi aveva trovato quasi rassegnato a una solinga e opaca conclusione della giornata, s’era trasformato in una avventura inaspettata e incantevole.

Ancora una volta, ‘lui’ ha dimostrato di aver ragione: gallina vecchia fa buon brodo. Quella, inoltre, non era ‘vecchia’ ma il buon brodo l’aveva veramente fatto. Anzi, l’aveva fatto fare a me, e lei ci si era nutrita voluttuosamente.

S’era messa su un fianco, mi aveva voluto dietro di lei, con le sue sode e provocanti natiche sul mio grembo. ‘Lui’ ne profittò per intrufolarsi e, guarda caso, con la punta andò a finire proprio sul buchetto sussultante che sembrava volesse baciarlo.

Giovanna voltò un po’ il capo, verso me, mentre con una mano le titillavo i capezzoli e con l’altra il clitoride.

‘Forse ce lo meritiamo un premio, tesoro. Ma non l’ho mai fatto. Vuoi?’

‘Lui’ era letteralmente impietrito per la piacevole, insperata, sorpresa, era divenuto di granito. Quasi da solo, senza bisogno di suggerimenti o guida, scese un po’, s’andò a cospargere della linfa del nostro piacere, entrando appena nella rorida vagina, e tornò a farsi baciare dallo sfintere fremente che lo attendeva smanioso.

Fu più agevole del previsto farsi strada in lei in quella galleria del piacere che lo accoglieva palpitante. Spingeva perché sapeva di poterlo contenere tutto, non c’era il collo dell’utero a limitarne la penetrazione, come nella vagina. Il movimento peristaltico era inebriante, il titillarle il clitoride si ripercuoteva dove ora era rifugiato ‘lui’, i capezzoli erano turgidi. Il dondolio delle natiche, sentire i testicoli battere su quei glutei meravigliosi, ci fece eccitare sempre più.

Ansimava, la bella Giovanna.

‘Dotto’, non credevo che mi facesse godere tanto anche prendendolo lì. E’ paradisiaco, Le tue mani, poi, sono angeliche. Mi viene da ride, tu mi stai riempiendo e io mi sento svuotata.’

E dopo un ulteriore orgasmo, convulso, cadde quasi in deliquio, senza smettere, però, di agitare le natiche.

^^^

VENERDI’

VENERANDA

Iniziava il giorno che un tempo era destinato al digiuno.

Forse un digiuno avrebbe fatto bene anche a me. In tutti i sensi.

‘Lui’, però, mi disse che ero completamente pazzo: ma che digiuno e digiuno. Sarebbe venuto il tempo in cui avremmo dovuto digiunare per forza di cose!

Personalmente, m’ero orientato allo stand-by, che sta ad indicare lo stato di chi &egrave pronto per essere usato, all’occorrenza.

Me ne andai sul retro, come in ricognizione, guardando in ogni vano. Giunsi alla camera destinata al riposo durante i turni notturni. Era tutto in regola. Ogni tanto quella cameretta aveva ospitato qualche passeggero piacevole episodio. Nel cassetto del comodino l’avevo dotata di quanto eventualmente potesse servire alla bisogna: profilattici semplici ed elaborati, incolori o policromi, insapori o a vari gusti, inodori o profumati; gel lubrificante; e qualche’ pillolina per il caso che la controparte necessitasse di sollecitazioni particolari.

Non so perché, ma quel localino mi faceva venire in mente l’assommoir di Zola, io l’avevo battezzato il fottitoio, poco elegante, ma rendeva l’idea. Potevo addolcire la parola usando una lingua straniera. I termini esteri sembrano sempre eleganti anche quando, nel loro idioma, sono estremamente crudi. Potevo chiamarla la fuck-room, o l’addirittura poetica chambre à baiser, o l’ habitaciòn por l’amor,ma in ogni caso avrei indicato un luogo dove scopare.

Sempre bighellonando, tornai al banco.

Stava entrando una donna, di età indefinibile, anche per lo strano vestito, una specie di divisa collegiale, grigio sbiadito, quasi uno chemisier, tenuto in vita da una cinta che sapeva tanto del cordone dei frati.

Si guardò intorno, vide che io ero libero, e si avvicinò a me.

‘Scusi, vorrei qualcosa per un lieve arrossamento della pelle. Una pomata”

‘Ha preso sole?’

‘No.’

‘Sa se può trattarsi di reazione allergica?’

‘No.’

‘Dove sarebbe questo arrossamento?’

‘Beh’ diciamo’ sotto la gola.’

‘Sul seno?’

‘Non proprio ‘sul’, &egrave dove appena comincia”

‘Lui’ suggerì subito l’azione.

‘Posso vedere?’

Sembrò smarrita.

‘Qui?’

‘Se vuole, venga un momento di la.’

Rimase indecisa per qualche istante, poi mi seguì.

Tecnica antica ma sempre attuale ed efficiente: attirarla in un posto appartato che favorisca l’intimità.

Entrammo nella famosa cameretta. La guardavo senza riuscire a stabilire se il suo volto fosse bello o meno. Era regolare, questo sì, e la pelle liscia, levigata, freschissima. Non un filo di trucco. Ecco, ora stavo capendo: era un po’ pallida. I capelli, raccolti sulla nuca, erano biondi. Gli occhi azzurri, chiari, con riflessi grigi, caesia ocula avrebbero detto i Romani, e mi ricordavano il mare di Fossacesia, in Abruzzo. Belle labbra, ben disegnate. Peccato che quella specie di saio non lasciasse scorgere le forme del corpo. Si vedeva, però, che era abbastanza giovane. Guardai le mani, affusolate, eleganti, ma senza smalto.

‘Dunque signorina. Non ho capito il suo nome.’

Sorrise debolmente.

‘Perché non glielo ho detto, dottore. Adesso mi chiamo Veneranda.’

‘Scusi, come adesso?’

Il sorriso si allargò, divenne quasi divertito.

‘Adesso, perché &egrave quello che ho scelto in Istituto.’

‘In Istituto? Seguito a non capire.’

‘E’ una storia lunga, non voglio affliggerla con le mie sventure.’

‘No, nessun fastidio. Mi dica, si segga.’

Fece un lungo sospiro. Evidentemente aveva bisogno di parlare con qualcuno, fosse pure uno sconosciuto. Sedette sulla sedia, le mani in grembo. Io sedetti di fronte a lei, sulla sponda del letto.

‘Sono in un Istituto di suore dove insegno. Sono in attesa di prendere i voti. Ho scelto Veneranda in onore di santa Veneranda vergine, nata in Gallia (Francia) nel II secolo e martire a Roma durante la persecuzione al tempo dell’imperatore Antonino (138-161). Anche io mi sento martire, anche se non concretamente. Forse pecco di immodestia, nell’assumere tale nome, forse ne sono indegna perché io non sono come la santa, sono stata sposata, ma &egrave il nome che mi &egrave balzato in mente nel momento stesso in cui apprendevo che il mio Mario, mio marito da solo un anno, s’era infilato nel lago col suo aereo sperimentale. Ho subito deciso di farmi suora. Sono entrata in Istituto e mi preparo ad esserlo. Ormai sono trascorsi già due anni dal giorno della mia decisione.’

Aveva il volto teso, ma il ciglio asciutto.

‘Scusi, ma ad una giovane come lei, non pensa codesta vita?’

‘Che sacrificio, rinuncia, martirio, sarebbe se non soffrissi?’

‘Mi perdoni, ma mi &egrave difficile comprenderla. Vediamo l’eritema. Rimanga pure seduta.’

Sbottonò alcuni bottoni dell’abito, ne scostò i lembi, svelando una carnagione rosea e fresca, con appena una piccola area più scura all’inizio del canale che divide il seno.

‘Lui’ ebbe un sobbalzo. Accipicchia che bella roba!

Sbottonai ancora un po’, il vestito scivolò sulle spalle. Spalle tornite, bellissime. ‘Lui’ mi spingeva a seguitare, a non fermarmi.

Ricordai che nel cassetto del tavolino doveva esserci una lente di ingrandimento. La presi. Mi chinai ad osservare meglio quello che la donna chiamava eritema. Un lievissimo arrossamento, forse per la qualità della stoffa.

‘Le dà fastidio?’

‘Un lieve pizzicore.’

‘Lo sente anche altrove?’

Divenne subitaneamente rossa, ma si riprese immediatamente.

‘Mi sembra un po’, sulla nuca.’

M’ero alzato, le stavo di fronte. La pregai di abbassare la testa e così facendo mi svelò che non indossava reggiseno, le due tettine erano sode e belle.

‘Rialzi la testa, prego. Vedo meglio da dietro.’

Passai alle sue spalle, mi chinai di nuovo, e sfiorai il collo con le labbra, come se le passassi le dita per accertarmi che la pelle fosse liscia. Sentii che si irrigidiva. Rimanendo così, le infilai le mani nella scollatura, le afferrai il seno, turgido, sodo.

Fece un lungo respiro, ma non dette segno di altra reazione.

Seguitai diligentemente a palpeggiarla, e ne notavo l’apprezzamento. Quelle carni meravigliose avevano bisogno di quelle carezze. Un corpo giovane, anche se crede di poter scegliere il martirio della rinuncia, ha le sue naturali e insopprimibili esigenze.

Mi chinai a baciarla sulla clavicola. S’era un po’ stesa, sulla sedia, aveva allungato le gambe, socchiuso gli occhi.

Scendendo ancora con le mani, entrai nelle sue mutandine, proseguii sul suo ventre piatto, sui riccioli del pube, tra le grandi labbra che sentivo tumide e trepide, e incontrai il piccolo fiore del suo clitoride, la rugiada della sua palpitante vagina. Seguitai, sentendola sempre più vibrare, abbandonarsi, godere, fin quando non ansimò di piacere nell’orgasmo che la travolgeva.

Le andai dinanzi, con ‘lui’ che smaniava per essere liberato.

Presi le sue mani, la feci alzare, sbottonai ancora la sua veste che cadde per terra, abbassai le mutandine, che si lasciò sfilare senza opporre resistenza, e mi accinsi, di fronte a lei, immobile, impietrita, a svestirmi completamente.

Mi avvicinai a lei, si strinse a me, divaricò appena le gambe per accogliere il mio irrefrenabile ‘lui’ che la penetrò contenendo a stento la sua furia irruente, e cominciò a svolgere con coscienza e diligenza, la sua missione di rammentatore di antichi piaceri e suscitatore di nuove sensazioni, di nuovi stimoli, nuove emozioni, nuovi turbamenti.

Era completamente in preda alla più sconvolgente voluttà, avida, famelica, bramosa, e sembrava volesse staccarmelo del tutto, ingurgitarlo totalmente in lei.

Antica fame repressa che erompeva con impeto, con furore incontenibile. La barriera della lunga castità impostasi, sofferta come sacrificio spontaneo, volontario, e la lunga astinenza erano state travolte. L’imperiosa richiesta della natura le aveva strappato dalle mani ogni briglia ed ora correva sfrenata alla conquista del piacere, che raggiunse gemendo, afferrandosi a lui, palpitando.

Mi gettai sul letto, tirandomela addosso.

Era colorita in volto, bellissima.

‘Come ti chiami, tesoro?’

Sorrise, sudata, coi capelli in disordine, gli occhi sfolgoranti.

‘Mi chiamo Teodora.’

‘Si, amore, sei Teodora, dono di dio!’

Sentivo d’essere ancora in lei, pronto a rinnovare quanto piacevolmente accaduto. Senza farla allontanare in perfetta sintonia, fummo in ginocchio, lei sulle mie gambe, e Veneranda svanì per sempre, lasciando il posto alla splendida Teodora, assidua frequentatrice della mia farmacia, perché i suoi eritemi guarivano solo col mio balsamo.

Quando mi disse che ai suoi alunni liceali (ormai insegnava nelle scuole pubbliche) aveva parlato delle varie ‘Teodore’, ‘lui’ mi suggerì di ricordarle che la moglie di Giustiniano, imperatrice di Bisanzio, oltre ad esser affascinante e intelligente, era anche una deliziosa danzatrice.

Mi rispose che, logicamente lo sapeva.

‘Allora, Tea, danzeresti per me?’

‘Non ‘per’ te, ma con te e su te!’

E cominciò a spogliarsi.^^^

SABATO

SABRINA

Domani, per fortuna, &egrave il nostro turno di riposo.

Si presenta il solito problema: come passerò il tempo?

Oggi &egrave sabato’ ‘lui’ si dimena un po’. Ricordi Sabrina?

Che domande, se ricordo Sabrina!

La polposa biondina, con un paio di accoglienti tette e due cosce che t’invitavano a nascondere tra di esse, sul morbido tappeto di seta che custodivano, il volto.

E soprattutto il resto.

Sabrina, dalle mille estrosità.

Sempre allegra e sorridente.

Forse Prassitele non l’avrebbe scelta a modella, né i sofisticati atelier di haute couture l’avrebbero fatta sfilare in passerella, ma quando ti sdraiavi su lei, o lei si sdraiava su te, o la sentivi vicina, in altre mille positure, capivi che vale proprio la pena vivere, specie quando si può fare del sesso con una femmina del genere.

Sempre pronta e sempre disposta a nuove ed eccentriche esperienze.

Buongustaia, di cibo e di fallo.

A volte le piaceva sorbirlo lentamente, quasi facendoti esasperare, altre era impetuosa, travolgente, schiodante. Si, schiodante, lo attanagliava in lei e sembrava volerlo strappare da te. Una mungitrice elettrica non avrebbe fatto di meglio. Ti mungeva fino all’ultima goccia. E si metteva di buzzo buono per dimostrare che lei era una che ti piegava, pardon, che te lo piegava. Devo dire, che a forza di insistere ci riusciva egregiamente. Ma ‘lui’, l’ho detto, aveva una certa patologia che Sabrina scherzosamente chiamava ‘sempreinpiedismo’.

Gli dava un buffetto affettuoso e diceva:

‘Si, sai quanto ci sta a riposo questo? Si può parafrasare lo slogan di quel caff&egrave di cui si diceva che più lo mandi giù più si tira su. Vero bello?’

E maliziosamente lo carezzava teneramente, ma solo per vederlo ringalluzzire.

‘Dai, Pieri’, ‘sto palombaro rosso, fallo immerge.’

Oppure si richiamava al sindacalismo e diceva che quel ‘lavoratore’ era atteso nella ‘camera del lavoro’.

Simpatica Sabrina. Gran tocco di figliola. Io la consideravo sempre figliola, anche se aveva già salutato i trenta qualche anno prima.

Stavo pensando che l’indomani, domenica, le avrei telefonato.

‘Lui’ si ribellò decisamente: ma che domani e domani, telefona subito.

Una vera e propria tentazione, e io sono come quello che affermava di saper resistere a tutto, meno che alle tentazioni.

Mon ricordavo il numero del telefono a memoria, ma avevo sempre con me il fuck-dyrectory, come dire l’elenco telefonico delle scopabili, e Sabrina era contraddistinta con cinque asterischi (Sabrina*****). Io le catalogavo come gli alberghi, senza per questo mancar loro di rispetto. Poi, a fianco ad ogni nome, c’era anche una sigla composta delle iniziali riferentisi alla parte del corpo più pregevole: C, per cunt, il sesso; A, per ass, il didietro; B, per bosom, le tette. E’ logico che la massima qualifica fosse CAB, e Sabrina la meritava in pieno.

Mi rispose subito, con voce allegra e argentina, come sempre.

Si dichiarò felice di sentirmi, dispiaciuta per il troppo tempo trascorso dall’ultima volta. Mi assicurò di essere in perfetta forma, e chiese notizie di quello che, facendo riaffiorare la parte irlandese di sé, lo era per via di madre, questa volta chiamò ‘hot pestle’, il ‘pestello ardente’. ‘Lui’ se ne inorgoglì! Mi suggerì di chiedere notizie del mortaio d’oro, ‘the golden mortar’. Sabrina, con tono vezzosamente triste, rispose che tutti i suoi mortai erano vedovi del pestello. ‘Lui’ non stava in sé per la smaniosa attesa.

Finiti i preamboli, le chiesi quali impegni avesse per l’indomani.

Fu carezzevole e invitante quando disse che da quel momento ogni impegno sarebbe dipeso da me.

‘Lui’ mi disse di non prenderla per le lunghe. Di invitarla a pranzo, e sussurrò ancora qualcosa.

Sabrina sembrò entusiasta.

‘Sai che faccio, Piero? Passo in farmacia, mi dai le chiavi, vado a casa tua e preparo spaghetti pomodoro e basilico e filetto ai ferri.’

Quasi non attese risposta, perché mi salutò, festosa, e riattaccò.

Dopo poco era a ritirare le chiavi, allegra e sorridente.

Mi salutò con la mano e uscì, seguita dagli sguardi di tutti ma particolarmente da quelli interessati e cupidi dei maschietti.

Le colleghe farmaciste si scambiarono occhiate eloquenti.

Il camice, caritatevole, nascondeva l’intemperanza di ‘lui’, ma appena si avvicinò l’ora della chiusura per l’intervallo pasto, salutai tutti e tra gli ammiccamenti delle pettegole collaboratrici, me ne andai, dicendo loro che se non fossi tornato nel pomeriggio ci saremmo riveduti il lunedì successivo.

Mimma, la più maliziosa, mi disse che tutto sarebbe dipeso se fossi sopravvissuto o meno agli esaurimenti domenicali.

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Mi sarei aspettato di tutto, ma non certo, appena aperta la porta dell’appartamento, di veder girare per casa, intenta a cucinare e ad apparecchiare, la figura incantevole di una Sabrina ‘nature’. Si avvicinò a me, mi sfioro fugacemente con un bacio, e seguitò a sculettare fascinosamente.

‘Sabri, faccio una doccia.’

Andai sotto l’acqua tiepida, e ‘lui’ mi fece riflettere sul cosa fosse più opportuno fare. ‘Lui’ non intendeva assolutamente attendere la cottura della pasta, che il filetto cuocesse, la liturgia del pranzo, e chissà cosa altro. Del resto, anche ‘lei’ era pronta, e si vedeva bene, e avrebbe saziato ben altri appetiti. Rinviare gli spaghetti era il minimo.

Mi asciugai, indossai l’accappatoi, calzai le pantofole di spugna. Andai verso la saletta, dove Sabrina stava apparecchiando la tavola.

Mi fermai sull’uscio.

La visione che incanta.

Era la pubblicità della marca di un televisore.

Televisione: visione lontana.

Sabrina: visione vicina, immediata.

Non solo visione, ma realtà, concreta, palpabile.

Le fui alle spalle, con ‘lui’ che faceva capolino dall’accappatoio e corse a nascondersi tra le ospitali natiche di Sabrina.

Lei si fermò di colpo, abbassò appena il bacino perché voleva sentirlo dove la rugiada indicava l’attesa. Spostò una mano dietro di lei, lo prese dolcemente e lo condusse all’ingresso del paradiso. Girò le chiavette del gas. Attese di sentirlo penetrare, sporgendosi verso ‘lui’, fin quando non percepì il ‘non plus ultra’ imposto dalla natura.

Era calda, Sabrina, accogliente.

Ogni volta più deliziosa di prima. Il suo ondeggiare premiava la diligenza del fallo che si soffermava nel punto che maggiormente la faceva fremere, che provocava le contrazioni che mi svuotavano.

Quando più focose divennero le spinte, si aggrappò alla parete, resisteva e ricambiava i colpi, respirando sempre più affannosamente. Appoggiò la testa al muro, e si lambiva le labbra con la lingua impaziente. Una mano le titillava i capezzoli, l’altra il clitoride. Massimo era il mio impegno a non uscire da lei, data la crescente agitazione del suo grembo, del suo bacino, fino a quando non fu percorsa da un lungo brivido, e gridando il suo travolgente orgasmo, non iniziò lentamente a rilassarsi al balsamo del mio seme che l’invadeva.

Voltò la testa verso me e ricordando che io conoscevo solo pochissime parole di irlandese, mi sussurrò: ‘Taim i ngra leat! Ti amo.’

Lo so, &egrave una frase impegnativa, e quasi sempre si usa per dire tutt’altro.

Nel caso specifico, Sabrina mi esprimeva una sorta di gratitudine per il godimento provato. A mia volta le bisbigliai nell’orecchio che anche a me era piaciuto. Moltissimo.

Non voleva staccarsi da me, né io da lei.

Non parliamo, poi, di ‘lui’. Si trovava nel suo ambiente preferito e non lontano dagli altri obiettivi concupiti.

Quelle natiche erano incantevoli, e il loro contrarsi presagiva deliziosi capitoli successivi.

Sentivo imperioso il desiderio di tuffare la mia testa tra le sue gambe, di baciarla, lambirla, penetrarla con la lingua curiosa e capricciosa, ben sapendo la sua sensuale rispondenza.

Come quei cani che una volta accoppiati non riescono a staccarsi, e così van correndo spaventati, Sabrina ed io ci avviammo lentamente verso la camera da letto, ma non eravamo spaventati. Il movimento delle gambe, dei glutei, si ripercuoteva nella vagina che ciucciava deliziosamente il mio euforico ‘lui’.

Ci separammo, ci adagiammo comodamente sul letto, e io cominciai a baciale la punta pei piedi, per risalire lentamente, sempre più in alto, fino alla boscosa imboccatura del Frejus, come chiamavo là dove s’aprivano le roride labbra della sua vagina.

Ero su lei. M’ero voltato, e ‘lui’ era all’altezza della sua bocca.

Fu una sinfonia di labbra, ‘a labial simphony’, le mie che mordicchiavano le sue piccole, alternandole al clitoride, le sue che accoglievano ‘lui’ e, in perfetta sintonia con quelle in basso, si davano un da fare degno di lode.

Stavamo godendo in modo indescrivibile.

La sinfonia era perfetta: dall’ouverture, lenta e solenne, si era passati allo struggimento dei violini, le cui corde vibravano sensualmente, ai ‘fiati’ che andavano incalzando, all’esplosione di timpani e piatti, che avvolsero tutto nella magica tempesta che ci invase, fino a quando non giacemmo, dopo il finale travolgente che disse tutta la nostra passione.

‘Lui’ era pienamente soddisfatto e pensava che domani sarebbe stata domenica! E si ricordò di Domenica!^^^ ^^^ ^^^ ^^^ ^^^ ^^^

GIOVEDI’

GIOVANNA

Mi presentai in farmacia nella tarda mattinata, dopo una doccia sotto la quale m’ero crogiolato a lungo, e un robusto english breakfast.

‘Lui’ era alquanto preoccupato.

Si prospettava una giornata vuota. Io gli avevo detto che ogni tanto ci vuole una ‘pausa’, ma non era d’accordo.

Me ne stavo distrattamente dietro al bancone, quando entrò una di quelle che definivo la tipica mamma casalinga. Una belloccia, vestita con gusto ma senza nessuna pretesa, accurata nella persona, e sempre un po’ in lotta col proprio peso. L’avevo già vista altre volte, anche col figlio.

‘Lui’ decise che non bisognava lasciarsela scappare, un’esperienza meritevole d’essere goduta. Perché quando si trattava di una femmina il godimento era la naturale finalità.

La guardai attentamente, mi pareva un po’ abbondantina. Non di primissimo pelo. ‘Lui’ mi disse che era meglio così, c’era ‘ciccia’ e ‘competenza’.

Venne da me, sorridendo, mi porse la ricetta.

Le ricette del Servizio Sanitario Nazionale, SSN, sono una miniera di informazioni: nome e cognome, età, indirizzo, senza parlare dello stato di salute.

Andai verso lo scaffale, tirai lo scorrevole, ma mentre stavo per prendere la confezione richiesta, mi venne in mente un’idea. Forse fu ‘lui’ a suggerirla. Tornai al banco.

‘Mi spiace, signora, non ho ciò che ha richiesto, ma nel primo pomeriggio sarà qui. Lei non si preoccupi, glielo farò avere a casa. Ci sarà qualcuno, per aprire la porta?’

‘Ci sarò io, dottore. Mio marito, ferroviere, torna solo domani sera, e mio figlio &egrave in gita scolastica. Ma posso passare io se ci sono problemi.’

‘Nessun problema, signora. C’&egrave un’ora che preferisce?’

Alzò le spalle, con indifferenza.

‘Quando vuole. Io vado un po’ a riposare, ma non dormo quasi mai il pomeriggio.’

‘Bene, mi dia l’indirizzo, per favore.’

Tutta scena. L’indirizzo era sulla ricetta. Giovanna Rosi, anni 41, via’ n’ .

Mi sorrise ancora, e questa volta in un modo alquanto diverso. Si voltò, uscì ancheggiando visibilmente.

Inutile, quando uno sa di avere qualcosa di pregevole cerca sempre di sottolinearlo.

‘Lui’ lanciò un saluto silenzioso: ‘arrivederci belle chiappe!’

Aveva detto proprio ‘arrivederci’, non ‘ciao’.

Quel giorno non dovevamo chiudere per l’intervallo pomeridiano, eravamo di turno. Si andava a prendere qualcosa alla tavola calda, alternandoci al banco.

Io dissi che sarei uscito per ultimo, anche perché non credevo di poter tornare, dato gli impegni.

Mancava qualche minuto alle quindici quando presi il farmaco di cui alla ricetta di Giovanna, lo incartai, battei il ticket alla tasca, intascai lo scontrino, e uscii ribadendo che ci saremmo visti l’indomani.

La casa di Giovanna non era distante.

Dall’altra parte della piazza, quella con la grande chiesa, dopo un paio di strade, c’erano degli edifici costruiti alcuni anni prima, da un istituto previdenziale dei ferrovieri. Senza nessuna pretesa, ma tenuti molto bene. A me non capitava spesso di passare da quelle parti, ma ci arrivai abbastanza rapidamente.

Il portone a vetri era chiuso. Lessi sul citofono il cognome di Giovanna. Spinsi il bottone. Attesi. Dopo un po’, tornai a bussare. Era la voce di lei, quella che rispose.

‘Pronto?’

‘Pronto, signora, &egrave la farmacia, ho quello che le serve.’

‘Va bene, le dispiace venire su, sono in vestaglia.’

‘OK, che piano?’

‘Ultimo piano, interno venti.’

Sentii lo scatto della porta che si apriva. Entrai, l’ascensore era presente. Mi misi dentro, premetti il pulsante. Salì lentamente, si fermò al piano, la porta automatica si dischiuse, andai sul pianerottolo. L’interno venti era a sinistra, bussai. Giovanna aprì.

Rimase sorpresa quando mi vide.

‘Ma come, s’&egrave disturbato lei, dottore’ entri’ si accomodi’ entri’ accetti almeno un caff&egrave”

Entrai.

Era in vestaglia, come aveva detto, ma ben pettinata, e con un leggero trucco sul volto e sulle labbra.

Logicamente, gli occhi cercarono di infilarsi dappertutto, ma non dovettero faticare molto, perché dalla scollatura s’intravedevano due fiorenti poppe ancora degne di maggior attenzione.

‘Venga, dottore, si segga.’

Mi fece entrare in una specie di salotto, con mobili abbastanza nuovi, di ottima fattura, e un divano scuro.

Preferii sedere sulla poltroncina, il divano mi sembrava un po’ troppo basso per essere comodo.

‘Signora, ecco il farmaco.’

Le porsi il pacchetto.

‘Quanto le devo?’

Sorrisi, sempre squadrandola da capo a piedi, eloquentemente.

‘Un caff&egrave, grazie.’

E’ certo che aveva decodificato il messaggio che ‘lui’ le aveva lanciato attraverso lo sguardo: ‘sei veramente una montagna di sfizi, famme vedé il resto’.

Tornò poco dopo col vassoio sul quale erano due tazzine fumanti, la zuccheriera.

Pose il tutto sul basso tavolino, andò a sedere sul divano.

I lembi della vestaglia si spalancarono su certe cosce di panna che fecero subito ringalluzzire l’irrequieto cialdone che mi premeva nella patta. ‘Lui’ mi ricordò che il cialdone era proprio fatto per la panna.

Giovanna mi diede una tazzina, mi chiese quanto zucchero, le risposi che lo preferivo così. Continuava a chinarsi sul tavolino, senza ragione, e le belle tette sembravano proprio impazienti.

Come cominciare?

‘Lui’ era più impaziente delle tette: dai, sbattiamola sul divano e facciamocela, non vedi che non aspetta altro? Anche le labbra si sono enfiate, figuriamoci quelle di sotto, e le narici sono frementi, gli occhi lucidi non ti dicono nulla? Lo capisci che per lei tu sei un bel bocconcino? E quando le ricapita un’occasione del genere, non deludiamola.

Evidentemente l’espressione del mio volto le diceva qualche cosa.

‘Cosa sta pensando, dottore?’

‘Scusi, ma sono veramente preso dalla sua bellezza. E’ una donna veramente attraente.’

Cercava di controllare la voce, e le gambe avevano preso a tremare.

‘Via, dotto’, un bel giovane come lei non si contenterebbe di una casalinga da quattro soldi.’

Mi alzai, deciso, mi fermai di fronte a lei, mi chinai, le presi il volto tra le mani e la baciai, frugandole la bocca, incontrando i guizzi frenetici della sua lingua avida e sensuale.

Si alzò, mi abbracciò stretto, mi guardò con occhi lampeggianti. La vestaglia s’era aperta, era nuda, sotto, e stuzzicante. ‘Lui’ non stava in sé dalla gioia, attendendo irrequieto.

Giovanna si staccò da me, con gesti rapidi trasformò il divano in un letto (forse quello dove dormiva il figlio), e vi salì sopra dopo essersi liberata dell’ormai impacciante indumento.

Non c’&egrave che dire, era un bel campione di femmina, attraente, invogliante e vogliosa. Con belle gambe e un posteriore incantevole.

Mi tese la mano, mi avvicinai.

Prese a svestirmi, senza fretta, ma respirando sempre più affannosamente.

Le carezzai il seno, scesi nel boschetto nero e riccio del pube, sentii il suo sesso gonfio, e, inoltrandomi, il clitoride che era eretto e vibrante, le sue piccole labbra distillavano la testimonianza del suo piacere.

Ormai, ero nudo anche io.

Mi spinse giù, salì su me, s’impalo’ trattenendo appena la sua impazienza, e cominciò a cavalcarmi con consumata perizia, consapevole del piacere che mi dava, soddisfatta per quello che questo raffinato amplesso le prodigava.

Le mie mani la brancicavano, dappertutto, dalle spalle all’interno del suo sesso che premeva su me.

Mi guardò con occhi accesi. Sembrava giovanissima, adolescente.

‘Non ho mai goduto così, dotto’, mai. Sto’. Oooooh’. Sto’.’

L’orgasmo che l’invase non le consentì di terminare la frase.

Seguitò, posseduta da una vis erotica travolgente, e raggiunse di nuovo l’acme del suo piacere, poi si gettò su me, ansante, sudata. Affranta. Col grembo ancora scosso, che stringeva in sé le ultime contrazioni del mio pene prima che erompesse in lei la lava incandescente del mio seme, accolta da ancor più frenetici palpiti.

Mi sbaciucchiava l’orecchio.

‘Non sapevo che potesse essere così, dopo tanti anni di matrimonio. Ma certamente sei tu. Sei un dio, meraviglioso. Non l’avevo mai fatto con un altro. Mio marito mi fa godere, ma &egrave come ‘na fontanella di fronte a ‘sto Tevere che sei tu.Il dio Tevere.’

Si sdraiò su me, mi carezzava il volto, mi baciava, mi guardava e sorrideva. Il mio fallo, ancora in lei, non riusciva a raggiungere lo stato di quiete che pur gli spettava dopo tanta applicazione.

In effetti, Giovanna era un’amante eccezionale. Non erano molte le volte che ‘lui’ raggiungeva così presto il piacere, e che accennava, sia pur fugacemente, ad afflosciarsi dopo un solo assalto.

Forse ‘lui’ cominciava ad invecchiare, o era stata la qualità e il grado di voluttà che quella amazzone scatenata aveva saputo suscitargli.

Era tenera, dolce, languida, la bella Giovanna.

Un Giovedì iniziato all’insegna del ‘nulla di nuovo’ e che mi aveva trovato quasi rassegnato a una solinga e opaca conclusione della giornata, s’era trasformato in una avventura inaspettata e incantevole.

Ancora una volta, ‘lui’ ha dimostrato di aver ragione: gallina vecchia fa buon brodo. Quella, inoltre, non era ‘vecchia’ ma il buon brodo l’aveva veramente fatto. Anzi, l’aveva fatto fare a me, e lei ci si era nutrita voluttuosamente.

S’era messa su un fianco, mi aveva voluto dietro di lei, con le sue sode e provocanti natiche sul mio grembo. ‘Lui’ ne profittò per intrufolarsi e, guarda caso, con la punta andò a finire proprio sul buchetto sussultante che sembrava volesse baciarlo.

Giovanna voltò un po’ il capo, verso me, mentre con una mano le titillavo i capezzoli e con l’altra il clitoride.

‘Forse ce lo meritiamo un premio, tesoro. Ma non l’ho mai fatto. Vuoi?’

‘Lui’ era letteralmente impietrito per la piacevole, insperata, sorpresa, era divenuto di granito. Quasi da solo, senza bisogno di suggerimenti o guida, scese un po’, s’andò a cospargere della linfa del nostro piacere, entrando appena nella rorida vagina, e tornò a farsi baciare dallo sfintere fremente che lo attendeva smanioso.

Fu più agevole del previsto farsi strada in lei in quella galleria del piacere che lo accoglieva palpitante. Spingeva perché sapeva di poterlo contenere tutto, non c’era il collo dell’utero a limitarne la penetrazione, come nella vagina. Il movimento peristaltico era inebriante, il titillarle il clitoride si ripercuoteva dove ora era rifugiato ‘lui’, i capezzoli erano turgidi. Il dondolio delle natiche, sentire i testicoli battere su quei glutei meravigliosi, ci fece eccitare sempre più.

Ansimava, la bella Giovanna.

‘Dotto’, non credevo che mi facesse godere tanto anche prendendolo lì. E’ paradisiaco, Le tue mani, poi, sono angeliche. Mi viene da ride, tu mi stai riempiendo e io mi sento svuotata.’

E dopo un ulteriore orgasmo, convulso, cadde quasi in deliquio, senza smettere, però, di agitare le natiche.

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VENERDI’

VENERANDA

Iniziava il giorno che un tempo era destinato al digiuno.

Forse un digiuno avrebbe fatto bene anche a me. In tutti i sensi.

‘Lui’, però, mi disse che ero completamente pazzo: ma che digiuno e digiuno. Sarebbe venuto il tempo in cui avremmo dovuto digiunare per forza di cose!

Personalmente, m’ero orientato allo stand-by, che sta ad indicare lo stato di chi &egrave pronto per essere usato, all’occorrenza.

Me ne andai sul retro, come in ricognizione, guardando in ogni vano. Giunsi alla camera destinata al riposo durante i turni notturni. Era tutto in regola. Ogni tanto quella cameretta aveva ospitato qualche passeggero piacevole episodio. Nel cassetto del comodino l’avevo dotata di quanto eventualmente potesse servire alla bisogna: profilattici semplici ed elaborati, incolori o policromi, insapori o a vari gusti, inodori o profumati; gel lubrificante; e qualche’ pillolina per il caso che la controparte necessitasse di sollecitazioni particolari.

Non so perché, ma quel localino mi faceva venire in mente l’assommoir di Zola, io l’avevo battezzato il fottitoio, poco elegante, ma rendeva l’idea. Potevo addolcire la parola usando una lingua straniera. I termini esteri sembrano sempre eleganti anche quando, nel loro idioma, sono estremamente crudi. Potevo chiamarla la fuck-room, o l’addirittura poetica chambre à baiser, o l’ habitaciòn por l’amor,ma in ogni caso avrei indicato un luogo dove scopare.

Sempre bighellonando, tornai al banco.

Stava entrando una donna, di età indefinibile, anche per lo strano vestito, una specie di divisa collegiale, grigio sbiadito, quasi uno chemisier, tenuto in vita da una cinta che sapeva tanto del cordone dei frati.

Si guardò intorno, vide che io ero libero, e si avvicinò a me.

‘Scusi, vorrei qualcosa per un lieve arrossamento della pelle. Una pomata”

‘Ha preso sole?’

‘No.’

‘Sa se può trattarsi di reazione allergica?’

‘No.’

‘Dove sarebbe questo arrossamento?’

‘Beh’ diciamo’ sotto la gola.’

‘Sul seno?’

‘Non proprio ‘sul’, &egrave dove appena comincia”

‘Lui’ suggerì subito l’azione.

‘Posso vedere?’

Sembrò smarrita.

‘Qui?’

‘Se vuole, venga un momento di la.’

Rimase indecisa per qualche istante, poi mi seguì.

Tecnica antica ma sempre attuale ed efficiente: attirarla in un posto appartato che favorisca l’intimità.

Entrammo nella famosa cameretta. La guardavo senza riuscire a stabilire se il suo volto fosse bello o meno. Era regolare, questo sì, e la pelle liscia, levigata, freschissima. Non un filo di trucco. Ecco, ora stavo capendo: era un po’ pallida. I capelli, raccolti sulla nuca, erano biondi. Gli occhi azzurri, chiari, con riflessi grigi, caesia ocula avrebbero detto i Romani, e mi ricordavano il mare di Fossacesia, in Abruzzo. Belle labbra, ben disegnate. Peccato che quella specie di saio non lasciasse scorgere le forme del corpo. Si vedeva, però, che era abbastanza giovane. Guardai le mani, affusolate, eleganti, ma senza smalto.

‘Dunque signorina. Non ho capito il suo nome.’

Sorrise debolmente.

‘Perché non glielo ho detto, dottore. Adesso mi chiamo Veneranda.’

‘Scusi, come adesso?’

Il sorriso si allargò, divenne quasi divertito.

‘Adesso, perché &egrave quello che ho scelto in Istituto.’

‘In Istituto? Seguito a non capire.’

‘E’ una storia lunga, non voglio affliggerla con le mie sventure.’

‘No, nessun fastidio. Mi dica, si segga.’

Fece un lungo sospiro. Evidentemente aveva bisogno di parlare con qualcuno, fosse pure uno sconosciuto. Sedette sulla sedia, le mani in grembo. Io sedetti di fronte a lei, sulla sponda del letto.

‘Sono in un Istituto di suore dove insegno. Sono in attesa di prendere i voti. Ho scelto Veneranda in onore di santa Veneranda vergine, nata in Gallia (Francia) nel II secolo e martire a Roma durante la persecuzione al tempo dell’imperatore Antonino (138-161). Anche io mi sento martire, anche se non concretamente. Forse pecco di immodestia, nell’assumere tale nome, forse ne sono indegna perché io non sono come la santa, sono stata sposata, ma &egrave il nome che mi &egrave balzato in mente nel momento stesso in cui apprendevo che il mio Mario, mio marito da solo un anno, s’era infilato nel lago col suo aereo sperimentale. Ho subito deciso di farmi suora. Sono entrata in Istituto e mi preparo ad esserlo. Ormai sono trascorsi già due anni dal giorno della mia decisione.’

Aveva il volto teso, ma il ciglio asciutto.

‘Scusi, ma ad una giovane come lei, non pensa codesta vita?’

‘Che sacrificio, rinuncia, martirio, sarebbe se non soffrissi?’

‘Mi perdoni, ma mi &egrave difficile comprenderla. Vediamo l’eritema. Rimanga pure seduta.’

Sbottonò alcuni bottoni dell’abito, ne scostò i lembi, svelando una carnagione rosea e fresca, con appena una piccola area più scura all’inizio del canale che divide il seno.

‘Lui’ ebbe un sobbalzo. Accipicchia che bella roba!

Sbottonai ancora un po’, il vestito scivolò sulle spalle. Spalle tornite, bellissime. ‘Lui’ mi spingeva a seguitare, a non fermarmi.

Ricordai che nel cassetto del tavolino doveva esserci una lente di ingrandimento. La presi. Mi chinai ad osservare meglio quello che la donna chiamava eritema. Un lievissimo arrossamento, forse per la qualità della stoffa.

‘Le dà fastidio?’

‘Un lieve pizzicore.’

‘Lo sente anche altrove?’

Divenne subitaneamente rossa, ma si riprese immediatamente.

‘Mi sembra un po’, sulla nuca.’

M’ero alzato, le stavo di fronte. La pregai di abbassare la testa e così facendo mi svelò che non indossava reggiseno, le due tettine erano sode e belle.

‘Rialzi la testa, prego. Vedo meglio da dietro.’

Passai alle sue spalle, mi chinai di nuovo, e sfiorai il collo con le labbra, come se le passassi le dita per accertarmi che la pelle fosse liscia. Sentii che si irrigidiva. Rimanendo così, le infilai le mani nella scollatura, le afferrai il seno, turgido, sodo.

Fece un lungo respiro, ma non dette segno di altra reazione.

Seguitai diligentemente a palpeggiarla, e ne notavo l’apprezzamento. Quelle carni meravigliose avevano bisogno di quelle carezze. Un corpo giovane, anche se crede di poter scegliere il martirio della rinuncia, ha le sue naturali e insopprimibili esigenze.

Mi chinai a baciarla sulla clavicola. S’era un po’ stesa, sulla sedia, aveva allungato le gambe, socchiuso gli occhi.

Scendendo ancora con le mani, entrai nelle sue mutandine, proseguii sul suo ventre piatto, sui riccioli del pube, tra le grandi labbra che sentivo tumide e trepide, e incontrai il piccolo fiore del suo clitoride, la rugiada della sua palpitante vagina. Seguitai, sentendola sempre più vibrare, abbandonarsi, godere, fin quando non ansimò di piacere nell’orgasmo che la travolgeva.

Le andai dinanzi, con ‘lui’ che smaniava per essere liberato.

Presi le sue mani, la feci alzare, sbottonai ancora la sua veste che cadde per terra, abbassai le mutandine, che si lasciò sfilare senza opporre resistenza, e mi accinsi, di fronte a lei, immobile, impietrita, a svestirmi completamente.

Mi avvicinai a lei, si strinse a me, divaricò appena le gambe per accogliere il mio irrefrenabile ‘lui’ che la penetrò contenendo a stento la sua furia irruente, e cominciò a svolgere con coscienza e diligenza, la sua missione di rammentatore di antichi piaceri e suscitatore di nuove sensazioni, di nuovi stimoli, nuove emozioni, nuovi turbamenti.

Era completamente in preda alla più sconvolgente voluttà, avida, famelica, bramosa, e sembrava volesse staccarmelo del tutto, ingurgitarlo totalmente in lei.

Antica fame repressa che erompeva con impeto, con furore incontenibile. La barriera della lunga castità impostasi, sofferta come sacrificio spontaneo, volontario, e la lunga astinenza erano state travolte. L’imperiosa richiesta della natura le aveva strappato dalle mani ogni briglia ed ora correva sfrenata alla conquista del piacere, che raggiunse gemendo, afferrandosi a lui, palpitando.

Mi gettai sul letto, tirandomela addosso.

Era colorita in volto, bellissima.

‘Come ti chiami, tesoro?’

Sorrise, sudata, coi capelli in disordine, gli occhi sfolgoranti.

‘Mi chiamo Teodora.’

‘Si, amore, sei Teodora, dono di dio!’

Sentivo d’essere ancora in lei, pronto a rinnovare quanto piacevolmente accaduto. Senza farla allontanare in perfetta sintonia, fummo in ginocchio, lei sulle mie gambe, e Veneranda svanì per sempre, lasciando il posto alla splendida Teodora, assidua frequentatrice della mia farmacia, perché i suoi eritemi guarivano solo col mio balsamo.

Quando mi disse che ai suoi alunni liceali (ormai insegnava nelle scuole pubbliche) aveva parlato delle varie ‘Teodore’, ‘lui’ mi suggerì di ricordarle che la moglie di Giustiniano, imperatrice di Bisanzio, oltre ad esser affascinante e intelligente, era anche una deliziosa danzatrice.

Mi rispose che, logicamente lo sapeva.

‘Allora, Tea, danzeresti per me?’

‘Non ‘per’ te, ma con te e su te!’

E cominciò a spogliarsi.^^^

SABATO

SABRINA

Domani, per fortuna, &egrave il nostro turno di riposo.

Si presenta il solito problema: come passerò il tempo?

Oggi &egrave sabato’ ‘lui’ si dimena un po’. Ricordi Sabrina?

Che domande, se ricordo Sabrina!

La polposa biondina, con un paio di accoglienti tette e due cosce che t’invitavano a nascondere tra di esse, sul morbido tappeto di seta che custodivano, il volto.

E soprattutto il resto.

Sabrina, dalle mille estrosità.

Sempre allegra e sorridente.

Forse Prassitele non l’avrebbe scelta a modella, né i sofisticati atelier di haute couture l’avrebbero fatta sfilare in passerella, ma quando ti sdraiavi su lei, o lei si sdraiava su te, o la sentivi vicina, in altre mille positure, capivi che vale proprio la pena vivere, specie quando si può fare del sesso con una femmina del genere.

Sempre pronta e sempre disposta a nuove ed eccentriche esperienze.

Buongustaia, di cibo e di fallo.

A volte le piaceva sorbirlo lentamente, quasi facendoti esasperare, altre era impetuosa, travolgente, schiodante. Si, schiodante, lo attanagliava in lei e sembrava volerlo strappare da te. Una mungitrice elettrica non avrebbe fatto di meglio. Ti mungeva fino all’ultima goccia. E si metteva di buzzo buono per dimostrare che lei era una che ti piegava, pardon, che te lo piegava. Devo dire, che a forza di insistere ci riusciva egregiamente. Ma ‘lui’, l’ho detto, aveva una certa patologia che Sabrina scherzosamente chiamava ‘sempreinpiedismo’.

Gli dava un buffetto affettuoso e diceva:

‘Si, sai quanto ci sta a riposo questo? Si può parafrasare lo slogan di quel caff&egrave di cui si diceva che più lo mandi giù più si tira su. Vero bello?’

E maliziosamente lo carezzava teneramente, ma solo per vederlo ringalluzzire.

‘Dai, Pieri’, ‘sto palombaro rosso, fallo immerge.’

Oppure si richiamava al sindacalismo e diceva che quel ‘lavoratore’ era atteso nella ‘camera del lavoro’.

Simpatica Sabrina. Gran tocco di figliola. Io la consideravo sempre figliola, anche se aveva già salutato i trenta qualche anno prima.

Stavo pensando che l’indomani, domenica, le avrei telefonato.

‘Lui’ si ribellò decisamente: ma che domani e domani, telefona subito.

Una vera e propria tentazione, e io sono come quello che affermava di saper resistere a tutto, meno che alle tentazioni.

Mon ricordavo il numero del telefono a memoria, ma avevo sempre con me il fuck-dyrectory, come dire l’elenco telefonico delle scopabili, e Sabrina era contraddistinta con cinque asterischi (Sabrina*****). Io le catalogavo come gli alberghi, senza per questo mancar loro di rispetto. Poi, a fianco ad ogni nome, c’era anche una sigla composta delle iniziali riferentisi alla parte del corpo più pregevole: C, per cunt, il sesso; A, per ass, il didietro; B, per bosom, le tette. E’ logico che la massima qualifica fosse CAB, e Sabrina la meritava in pieno.

Mi rispose subito, con voce allegra e argentina, come sempre.

Si dichiarò felice di sentirmi, dispiaciuta per il troppo tempo trascorso dall’ultima volta. Mi assicurò di essere in perfetta forma, e chiese notizie di quello che, facendo riaffiorare la parte irlandese di sé, lo era per via di madre, questa volta chiamò ‘hot pestle’, il ‘pestello ardente’. ‘Lui’ se ne inorgoglì! Mi suggerì di chiedere notizie del mortaio d’oro, ‘the golden mortar’. Sabrina, con tono vezzosamente triste, rispose che tutti i suoi mortai erano vedovi del pestello. ‘Lui’ non stava in sé per la smaniosa attesa.

Finiti i preamboli, le chiesi quali impegni avesse per l’indomani.

Fu carezzevole e invitante quando disse che da quel momento ogni impegno sarebbe dipeso da me.

‘Lui’ mi disse di non prenderla per le lunghe. Di invitarla a pranzo, e sussurrò ancora qualcosa.

Sabrina sembrò entusiasta.

‘Sai che faccio, Piero? Passo in farmacia, mi dai le chiavi, vado a casa tua e preparo spaghetti pomodoro e basilico e filetto ai ferri.’

Quasi non attese risposta, perché mi salutò, festosa, e riattaccò.

Dopo poco era a ritirare le chiavi, allegra e sorridente.

Mi salutò con la mano e uscì, seguita dagli sguardi di tutti ma particolarmente da quelli interessati e cupidi dei maschietti.

Le colleghe farmaciste si scambiarono occhiate eloquenti.

Il camice, caritatevole, nascondeva l’intemperanza di ‘lui’, ma appena si avvicinò l’ora della chiusura per l’intervallo pasto, salutai tutti e tra gli ammiccamenti delle pettegole collaboratrici, me ne andai, dicendo loro che se non fossi tornato nel pomeriggio ci saremmo riveduti il lunedì successivo.

Mimma, la più maliziosa, mi disse che tutto sarebbe dipeso se fossi sopravvissuto o meno agli esaurimenti domenicali.

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Mi sarei aspettato di tutto, ma non certo, appena aperta la porta dell’appartamento, di veder girare per casa, intenta a cucinare e ad apparecchiare, la figura incantevole di una Sabrina ‘nature’. Si avvicinò a me, mi sfioro fugacemente con un bacio, e seguitò a sculettare fascinosamente.

‘Sabri, faccio una doccia.’

Andai sotto l’acqua tiepida, e ‘lui’ mi fece riflettere sul cosa fosse più opportuno fare. ‘Lui’ non intendeva assolutamente attendere la cottura della pasta, che il filetto cuocesse, la liturgia del pranzo, e chissà cosa altro. Del resto, anche ‘lei’ era pronta, e si vedeva bene, e avrebbe saziato ben altri appetiti. Rinviare gli spaghetti era il minimo.

Mi asciugai, indossai l’accappatoi, calzai le pantofole di spugna. Andai verso la saletta, dove Sabrina stava apparecchiando la tavola.

Mi fermai sull’uscio.

La visione che incanta.

Era la pubblicità della marca di un televisore.

Televisione: visione lontana.

Sabrina: visione vicina, immediata.

Non solo visione, ma realtà, concreta, palpabile.

Le fui alle spalle, con ‘lui’ che faceva capolino dall’accappatoio e corse a nascondersi tra le ospitali natiche di Sabrina.

Lei si fermò di colpo, abbassò appena il bacino perché voleva sentirlo dove la rugiada indicava l’attesa. Spostò una mano dietro di lei, lo prese dolcemente e lo condusse all’ingresso del paradiso. Girò le chiavette del gas. Attese di sentirlo penetrare, sporgendosi verso ‘lui’, fin quando non percepì il ‘non plus ultra’ imposto dalla natura.

Era calda, Sabrina, accogliente.

Ogni volta più deliziosa di prima. Il suo ondeggiare premiava la diligenza del fallo che si soffermava nel punto che maggiormente la faceva fremere, che provocava le contrazioni che mi svuotavano.

Quando più focose divennero le spinte, si aggrappò alla parete, resisteva e ricambiava i colpi, respirando sempre più affannosamente. Appoggiò la testa al muro, e si lambiva le labbra con la lingua impaziente. Una mano le titillava i capezzoli, l’altra il clitoride. Massimo era il mio impegno a non uscire da lei, data la crescente agitazione del suo grembo, del suo bacino, fino a quando non fu percorsa da un lungo brivido, e gridando il suo travolgente orgasmo, non iniziò lentamente a rilassarsi al balsamo del mio seme che l’invadeva.

Voltò la testa verso me e ricordando che io conoscevo solo pochissime parole di irlandese, mi sussurrò: ‘Taim i ngra leat! Ti amo.’

Lo so, &egrave una frase impegnativa, e quasi sempre si usa per dire tutt’altro.

Nel caso specifico, Sabrina mi esprimeva una sorta di gratitudine per il godimento provato. A mia volta le bisbigliai nell’orecchio che anche a me era piaciuto. Moltissimo.

Non voleva staccarsi da me, né io da lei.

Non parliamo, poi, di ‘lui’. Si trovava nel suo ambiente preferito e non lontano dagli altri obiettivi concupiti.

Quelle natiche erano incantevoli, e il loro contrarsi presagiva deliziosi capitoli successivi.

Sentivo imperioso il desiderio di tuffare la mia testa tra le sue gambe, di baciarla, lambirla, penetrarla con la lingua curiosa e capricciosa, ben sapendo la sua sensuale rispondenza.

Come quei cani che una volta accoppiati non riescono a staccarsi, e così van correndo spaventati, Sabrina ed io ci avviammo lentamente verso la camera da letto, ma non eravamo spaventati. Il movimento delle gambe, dei glutei, si ripercuoteva nella vagina che ciucciava deliziosamente il mio euforico ‘lui’.

Ci separammo, ci adagiammo comodamente sul letto, e io cominciai a baciale la punta pei piedi, per risalire lentamente, sempre più in alto, fino alla boscosa imboccatura del Frejus, come chiamavo là dove s’aprivano le roride labbra della sua vagina.

Ero su lei. M’ero voltato, e ‘lui’ era all’altezza della sua bocca.

Fu una sinfonia di labbra, ‘a labial simphony’, le mie che mordicchiavano le sue piccole, alternandole al clitoride, le sue che accoglievano ‘lui’ e, in perfetta sintonia con quelle in basso, si davano un da fare degno di lode.

Stavamo godendo in modo indescrivibile.

La sinfonia era perfetta: dall’ouverture, lenta e solenne, si era passati allo struggimento dei violini, le cui corde vibravano sensualmente, ai ‘fiati’ che andavano incalzando, all’esplosione di timpani e piatti, che avvolsero tutto nella magica tempesta che ci invase, fino a quando non giacemmo, dopo il finale travolgente che disse tutta la nostra passione.

‘Lui’ era pienamente soddisfatto e pensava che domani sarebbe stata domenica! E si ricordò di Domenica!^^^ ^^^ ^^^ ^^^ ^^^ ^^^

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