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La Caduta, atto Settimo. Della caccia di Eria

By 27 Gennaio 2021No Comments

Serena Prima aveva l’aria di non aver ricevuto una risposta positiva. La donna velata nota come Eria, per nulla sorpresa dalla cosa, sospirò. Aristarda Nera sarebbe stata un’ottima alleata, oltre che un trastullo sessuale di tutto rispetto per lei e per Serena. Ma quella possibilità, con tutti i suoi annessi e connessi a sfondo erotico, era ormai chiusa. A dispetto del brillante inganno messo in atto dalla giovane, Aristarda aveva scelto l’integrità, l’onore. Suo malgrado, Eria poteva dire di rispettarla.
A differenza di tanti che si riempivano la bocca di vuote nozioni d’onore, la sorella di Septimo non l’aveva barattato, neanche per l’Impero. Egoista e coerente con sé stessa, ma onorevole, appunto.
Eria si alzò. Doveva raggiungere Madridia, e Alexander Varus, prima di chiunque altro. Ormai Aristarda sapeva che il Coltello era in possesso del giovane e sicuramente avrebbe preso le sue contromisure. Il poter vantare il possesso di una simile reliquia avrebbe certamente avuto il suo peso, a livello di pubbliche relazioni e avrebbe rafforzato enormemente la pretesa del trono, da parte del suo possessore, chiunque egli fosse. Ed era per questo che la Stirpe doveva riprenderselo.
-Ho fallito.-, disse Serena, sconsolata.
-Sapevamo che sarebbe potuto accadere.-, minimizzò Eria.
-Calus non mi vorrà con sé.-, disse la giovane. La donna annuì. Amsio Calus non avrebbe sicuramente mostrato pietà per colei che il suo predecessore aveva tenuto in tanta stima.
-Prendi le tue forze. Vai da Nimandeo Feral. Lui é un pretendente migliore di altri. Possiamo manipolarlo. Amsio Calus é un beota senza spina dorsale, che ancora cerca conforto negli Dei. Possiamo essere certe che non cederà alle pressioni di Aristarda. Non nell’immediato. E questo ci da tempo e modo di agire.-, mentre parlavano si erano avviate verso la scorta, costituita dalla guardia d’onore di Serena, abituata a non fare domande e a dimenticare rapidamente della presenza di Eria. Salirono su un trasporto. La navetta le avrebbe riportate celermente al campo.
-Ti presterò una Infiltrator Delta. È la navetta migliore che posso darti. Il pilota é un veterano di voli a bassa quota in territorio nemico. Ti porterà a Madridia.-, disse Serena.
-Bene. In quanto a te, parla ai tuoi uomini. Devono essere disposti a seguirti. La Stirpe ha bisogno che tu riesca a convertire Nimandeo alla nostra causa. Altri nostri agenti in Roma si occcuperanno di eliminare eventuali contingenze. Calus ci sarà utile, a suo modo.-, disse Eria, -Aristarda é irrecuperabile. Faremo sì che Amsio Calus, ora Imperator in Roma, decida di darle il benservito. Morirà presto. Senza il Coltello é solo una dei tanti signori della guerra, anche a dispetto del suo onore tanto millantato!-.
-E a quel punto noi cancelleremo Amsio e gli altri arrivisti.-, sussurrò Serena Prima, il viso che mostrava un ghigno crudele. La donna velata sorrise a sua volta, nascosta da cappuccio.
-Sì.-, disse, -E potremo rirprendere ciò che fu nostro.-.

Il pilota si chiamava Martineus. Traghettò Eria ben oltre la linea del fronte, passando con vera e propria maestria oltre le reti di sensorium attive lungo il confine dell’Hiberia.
La nave atterrò molto al di fuori di Madridia, in una piana desolata. Ripartì.
Eria non se ne sorprese: l’ordine era stato quello. Accompagnarla sino a lì e non attenderla in loco, per evitare di attirare l’attenzione delle truppe di Aristarda che pattugliavano la zona.
Questi ultimi erano riservisti, o reclute, spesso e volentieri messe ad assicurare il territorio. Stando ai rapporti ricevuti dalle spie di Serena, Eria sapeva che il grosso delle forze di Aristarda Nera era prossimo al  raggiungimento di Barcino, da cui sarebbe ripartito per Castila, e poi oltre i Pirenei.
L’Imperatrix in esilio stava raggruppando le truppe.
Ma non le sarebbe servito: presto il Coltello sarebbe stato in mano alla Stirpe, e con esso, anche il futuro dell’Impero. Eria sorrise. Tanto tempo, tanti piani, tutti per giungere a quel momento.
L’aria fresca dell’autunno la fece sorridere. Freddo, caldo, avevano perso d’importanza da un po’. Restava solo lo scopo. E a tal proposito.
-Ferma!-, eslcamò una voce maschile. Lei si voltò, piano.
-Sì?-, chiese. Non fece un movimento. I tre soldati erano evidentemente una pattuglia, giunta ad investigare. Erano due uomini e una donna, più giovane dei suoi commilitoni. Tesi?
No. Apparentemente sicuri. Eria si finse sorpresa.
-Io sono solo un’umile viandante, signori…-, disse, con tono piagnucoloso ed esitante.
-Documenti!-, ordinò il capo della pattuglia. Lei non li aveva, ma non si sarebbe fatta fermare.
Rimase in silenzio, attendendo. Appena sette metri la separavano da quello che aveva parlato.
L’arma energetica dell’uomo era puntata su di lei. Sicura disinserita. Gli altri invece parevano più rilassati. Evidentemente non si aspettavano guai.
-Li ho… persi.-, sussurrò lei. Chinò il capo.
-Ma bene! Mani sopra la testa. E niente mosse brusche.-, ordinò l’uomo. Gli altri due erano fermi come stoccafissi. Idioti. Eria valutò. L’uomo era la spina dorsale della pattuglia.
E si avvicinò di un altro passo. Un altro metro in meno. Cinque metri… Pochi.
Ma ancora troppi. Lei eseguì l’ordine, piano.
-Non ho fatto nulla di male, vi prego…-, sussurrò.
-Silenzio! Ora sdraiati, mani sopra la testa.-, ordinò lui. Fece l’errore finale. Avanzò ancora.
Nonostante l’arma puntata, fu sufficiente. Eria non era una novellina. E quegli idioti ora si sarebbero resi conto dell’errore che avevano fatto. Infilò le mani nelle maniche, raggiunse le impugnature dei coltelli saldamente affrancate alla sottoveste. Estrasse le lame.
Passò un istante di puro stupore da parte del capo dei militi, e dei suoi sottoposti.
Fu sufficiente: Eria si lanciò in avanti. Sferrò un calcio che mandò la raffica sparata dall’uomo verso il cielo. Entrò nella guardia del soldato e colpì. Collo e petto. Tagli chirurgici. L’uomo gorgogliò cercando di parlare, lasciò l’arma e si portò le mani alla gola. La donna eseguì una caduta, rotolando sul suolo compatto al di sotto della raffica sparata dagli altri due. Scagliò il coltello nella mano sinistra senza neppure un pensiero cosciente, evitando di misura due colpi di arma energetica. L’altro uomo della pattuglia sprizzò un gayser rosso. Rimaneva la ragazza.
-Ferma!-, esclamò questa. Puntava il fucile, pur tremando. Una novellina.
Eria si alzò, stringendo il coltello. Sorrise. E abbassò il cappuccio. L’altra inorridì.
-Dei…-, sussurrò, semplicemente incredula.
-Nessun dio.-, disse Eria. Scattò in avanti. La giovane fece per sparare ma perse l’istante.
E la donna le arrivò addosso. Il primo calcio a sforbiciata le strappò l’arma di mano. Il secondo centrò la ragazza al mento prima che questa riuscisse a estrarre il pugnale, catapultandola a terra. L’elmetto le cadde, scoprendo i capelli biondi e un viso grazioso, occhi castani grandi di paura.
-Novellini. E questi sarebbero i guerrieri di Roma?-, chiese Eria a sé stessa più che alla giovane.
Pur storidta, questa tentò di strisciare verso l’arma. La donna la lasciò arrivare quasi all’arma prima di schiacciarle la mano, poggiandovi con tutto il peso. La ragazza urlò.
Metacarpi frantumati? Forse, sicuramente un dolore terribile.
-Silenzio…-, sussurrò Eria. La giovane si zittì in un istante. Eria annuì. La guardò. Non era brutta.
Era un giunco. Flessuosa e sottile, oltre che semplicemente bella, anche solo per l’aria d’innocenza che ostentava. La donna avvertì un languore nel ventre. Ma sospirò: non era né il luogo né il tempo. Ve ne sarebbe stato dopo. A iosa.
-Madridia. Come ci arrivo?-, chiese. La giovane singhiozzò, smozzicando parole. Eria non aveva tempo da perdere. Le sferrò un calcio nelle costole. La giovane si raggomitolò tipo feto. Tossì.
-Madridia.-, disse di nuovo la donna.
-Io… la via Principalis… Ma non riuscirai a entrare… Non senza documenti…-, riuscì a dire l’altra.
-A questo c’é rimedio.-, disse lei, -Ora dimmi come arrivarci. In fretta.-.
L’altra parlò. Eria notò la mano, sempre più vicina al coltello nella guaina alla cintura.
-Ottimo. Grazie.-, senza preavviso, la donna colpì. Il calcio centrò l’altra al viso. Prevedibilmente, annullò ogni reazione. Ed Eria colpì. Affondò il coltello sino all’elsa nel costato della ragazza.
Recuperò l’altra lama e si rimise il cappuccio mettendosi in marcia. C’era del lavoro da fare. Molto.
Camminò per metri, arrivando a una fattoria. Un uomo e una donna. Una coppia semplice.
Li abbatté rapidamente. Prima lei poi lui. Prese i documenti di lei.
Cramila Esiuca, una donna più o meno della sua età e della sua corporatura. Prese delle provviste, tutte quelle che poté. Poi riprese la marcia.

Arrivò a Madridia in tardo pomeriggio. Sbocconcellò alcuni frutti presi dalla fattoria di Cramila e bevve l’acqua.
La città era guardata. La donna svuotò la mente. Lei non era chi era, lei era Cramila, affetta da una malattia nota come Sibilo degli Dei. Stava andando a farsi curare.
Si ripeté quel copione due volte, tre, quattro, ingobbì la postura  e fu pronta.
Raggiunse il primo posto di blocco. Lo superò mostrando i documenti. Quello successivo, venti metri più avanti e ben all’interno delle mura cittadine fu altrettanto facile a superarsi.
Aristarda non era lì e di tutti loro, nessuno sapeva dell’importanza di Alexander Varus.
Non avrebbero fermato nessuno, quei controlli erano per mera rappresentazione. Uno sfoggio di sicurezza e prudenza, tipici in coloro che erano certi della vittoria.
Madridia era immensa, ma il palazzo del Praetor era evidente come poche altre cose.
E fu allora che Eria attivò la sua seconda risorsa.
Glatia Mersina lavorava come ancella e cameriera presso il Palazzo del Praetor. Da tempo la Stirpe le versava due mesi di stipendio extra per garantirsi la sua cooperazione.
Glatia raggiunse Eria per caso ma bastarono poche frasi, pochi gesti, per farle capire.
La giovane annuì. Portò Eria dentro il palazzo. Eria sorrise. Le guardie non dissero nulla.
Non sospettavano. D’altronde Glatia aveva una reputazione irreprensibile. E obiettivi di valore a Madridia non ce n’erano. Glatia la guidò all’interno e poi le comunicò che le stanze degli ospiti erano nella sezione nord del palazzo. Eria si diresse là, portando un vassoio di frutta.
Fu fermata da una guardia. Una Viragea, evidentemente non discendente del Kelreas a giudicare dalla carnagione chiara. Comunque una bella donna. Le offrì un frutto. La guardia non rifiutò.
Né la fermò. Si fidavano. Logico. Arrivò alle stanze degli ospiti. Stando a Glatia, quella di Varus era la più ampia. Aristarda teneva in grande stima Socrax, che fu suo precettore, ergo era naturale che un allievo di Socrax beneficiasse di un trattamento di favore.
Trovò la porta. Nessun rumore all’interno e nessuna guardia all’esterno. Non importava: sfilò il grimaldello e armeggiò con le serrature, sbloccandola in tempo breve, con appena un clack sommesso. Entrò scivolando dentro.
La stanza non era vuota. Eria notò l’uomo. Avvolto in vesti marroni, da viaggio, e un cappuccio che copriva il viso. La donna rimase ferma, congelata. Capì.
-Tu non sei Alexander Varus.-, disse.
-E tu non sei una cameriera.-, rispose lui. La sua voce. Eria sorrise, crudelmente.
-Socrax.-, disse. Lui si tolse il cappuccio. Le fattezze dell’anziano precettore apparvero. La sopravveste marrone cadde a terra, scoprendo un giustacuore in cuoio nero. Pareva calmo.
-Eria… ma non é questo il tuo nome. Noi lo sappiamo. E io lo so bene, qual’é il tuo nome.-, disse.
-Già. Sai tutto.-, mugugnò lei, -Ma hai scelto comunque di opporti a noi, a dispetto della nostra fiducia nei tuoi confronti. Anche se sei uno di noi. Il sangue di Janus ti scorre nelle vene.-.
-Janus non avrebbe mai fatto ciò che state facendo. Disonorate il suo nome, fregiandovi del suo lignaggio.-, rispose Socrax, -E io non intendo permetterlo.-.
-Pazzo. Hai contro tutti noi, e sai bene che non vincerai. Neanche con l’aiuto dei tuoi nuovi amici.-, rispose Eria. Avevano intanto iniziato a girare in cerchio, come squali.
-No. Non vincerò. Ma posso fare sì che anche voi perdiate.-, disse lui.
-I Justicarii non ti salveranno. Nessuno ci potrà fermare. La nostra ora, la mia, finalmente incombe!-, esclamò la donna.
-Forse. O forse no. Comuqneu Alexander ormai sarà lontano. E a me non resta che una cosa da fare.-, disse lui. Estrasse un coltello dalla guaina appesa alla cintola. Lungo, curvo, lama snella e la punta bizzarra. Aveva un nome. Eria ricordò.
-Un Tantō…-, sussurrò, -A questo si é spinta la vostra cerchia? A influenzare altri tanto da rendere le lame di Licanes simili alle vostre? Un memento di perduta virtù.-.
-Forse. O forse i Licanei compresero. Forse non furono così idioti. E forse, tra loro, vi fu chi sapeva.-, rispose Socrax. Si mise in guardia. Eria soffiò l’aria cattiva, inspirò, estrasse le sue lame.
Armi lunghe ma pesanti, con una punta curva, affilate su ambo i tagli. Coltelli da battaglia e macellai. Non restava più nulla da dire. Solo, rimaneva il silenzio, e le domande di Eria, prive di risposta, ma nessuna tanto importante.
-Tutto ciò che hai fatto… Che importanza credi che avrà?-, chiese.
-Nessuna, concordo. I nostri sforzi e i vostri ci hanno portato sino a qui. E questa non sarà la fine. Siamo meri tasselli di un mosaico a noi invisibile. Ognuno fa la sua parte.-, rispose Socrax. Eria snudò i denti in un sorriso predatorio. Tolse il capuccio, abbassandolo.
-Meriti di vedermi in viso prima che io mi prenda la tua vita, vecchio.-, disse. Quello sì sarebbe stato eccitante. Un duello contro un nemico vero, non i patetici soldatini di Roma.
Un vero avversario. Dopo tanto tempo…
-Fai del tuo peggio, demone.-, rispose lui, senza timore alcuno. Solo un altro istante, occhi negli occhi, poi iniziò.
Lei si avventò. E lui reagì. Il clangore delle lame e il sibilo dell’acciaio furono tutto ciò che rimase, sino al colpo fatale, e alla vita presa.

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