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Racconti Erotici

Fallo per me

By 14 Gennaio 2005Dicembre 16th, 2019No Comments

Da qualche tempo cercava spesso di fare tardi in ufficio. Finalmente sola, spegneva tutte le luci e si metteva comoda davati al monitor.

Prima fase del rito, scaricava la posta dall’altro account: iniziava così, ogni volta, il suo viaggio.

Titolo del messaggio: ‘Fallo per me’. Il nick del mittente non le diceva nulla. Rimase un po’ ad assaporare quella frase che annunciava una richiesta, senza decidersi a scoprire quale fosse. Un poco temeva che si dissolvesse nella banalità di parole sbagliate la tensione creata dall’annuncio. Un poco voleva lasciare che la fantasia si concedesse ancora tempo per figurarsi scenari incogniti, richieste inaudite. Voleva, soprattutto, decidere prima, al buio, se partecipare al gioco.

Aprì il messaggio confermando a se stessa la decisione che aveva presa fin da principio: ‘Lo farò’.

Quando ebbe letta la richiesta, si ritrovò addosso una sensazione strana. Mentre si chiedeva perché accettare un’imposizione del genere da uno sconosciuto, o da chiunque, sentiva che la stava accettando, e che già combatteva con sé stessa per non andare a placare il tepore che iniziava a contrarre i suoi muscoli in spasmi impercettibili.

“Voglio che tu non abbia più nessun orgasmo fino a quando non te lo chiederò”. Tutto qui. Nessuna firma, nessun chi sono, nessun perché.

Forse era il caso di spegnere tutto. Magari uscire, pensare ad altro. Accettare – perché no – ma senza infierire su se stessa. No. Sarebbe stato un modo di barare. Il gioco non poteva che avere una regola implicita: arrivare fino all’orlo dell’abisso, della liberazione. E comunque, per ora, non le andava di fermarsi, di rinunciare a quel tempo che aveva deciso di dedicare alla sua fantasia.
Proseguì nel suo percorso, nelle sue fasi iniziali ormai quasi abituale, dando un’occhiata alle pagine in cui presentava i suoi disegni (fotografie ritoccate, in effetti). Forse qualcuno aveva lasciato un commento che le dimostrasse che aveva colto e apprezzato la voluttà che lei vi aveva messo e che vi trovava. C’era un invito: “Se vuoi vedere le mie immagini, eccetera”. Il viaggio era già al primo bivio. Sarebbe inziato bene o male, a seconda di ciò che avrebbe trovato seguendo l’invito ricevuto. Capitava, di quando in quando, che qualcuno contraccambiasse proponendole altre immagini. Questa volta, però, la situazione era diversa. Il divieto impostole rendeva quasi rischiosa l’ipotesi che ciò che avrebbe visto accendesse i suoi desideri. Era una sensazione piacevole, ma lieve. Provò a premere sull’acceleratore: sollevando la gonna, portò il palmo della mano, bene aperto, all’interno della coscia, scivolando più vicino possibile alle mutandine, ma senza sfiorarle.

Mentre nel palmo avvertiva il calore e sulla coscia sentiva quasi una mano che non fosse la sua, sullo schermo si compose il mosaico delle immagini offerte in contraccambio. Ne notò subito una, che ingrandì. Era una fotografia. Ritraeva una donna, nuda. Era sopra un letto, adagiata su un fianco, le caviglie legate tra loro e ai polsi. Il suo corpo disegnava un arco ben teso. Il volto, invece, e gli occhi chiusi, parevano sereni. In qualunque altro momento, probabilmente, non vi si sarebbe soffermata. Ma ora ne era attratta, dapprima senza sapere il perché, e quindi comprendendo sempre più chiaramente che quel corpo stava diventando il suo, e che tramite esso si sentiva in balia di mani, di carezze infinite. Le vedeva ora, le sentiva. La blandivano ovunque, trascinandola a volte più vicina alla fine, ma lasciandola poi sempre nel limbo. Le sue dita si erano un poco serrate sulla sua stessa carne, quasi a trattenersi per non scivolare, per non venire meno all’impegno. Nella testa un ronzio elettrico. La bocca si era schiusa.

Durò così finché il ventre non iniziò a contrarsi, e a ogni sobbalzo si accompagnava un sighiozzo strozzato che sembrava di pianto.

Allora decise di cedere, di uscire dal gioco. Non volle farlo, però, prima di averlo annunciato a chi glielo aveva proposto. Stordita, al contempo esausta e straripante di una forza che non poteva contenere, rispose al messaggio: “Non ce la faccio”. Lo inviò, e sorrise.

Se ne stette così, sollevata dal sentirsi di nuovo in sé, a fissare lo schermo senza guardarlo per qualche minuto.

La risposta la colse ancora in quello stato. Titolo: “Devi”. Nessun testo.

Quella tempestività la colpì. Era come se lui (o lei, ma aveva deciso che fosse un lui) fosse rimasto in attesa, sapendo che dopo poco tempo sarebbe giunta la resa. Era, soprattutto, la conferma che erano davvero in due a giocare. Avrebbe continuato. Per ora, almeno. Ma a lui non scrisse nulla. Meglio spegnere tutto, e in fretta, e andare a casa. Uscì dal portone, intabarrata in un pastrano nero che la confondeva col nero della notte. Il suo respiro condensava in brevi sbuffi, nebbia nella nebbia. Aprì la portiera e salì in macchina, veloce. Serrò le mani aperte tra le cosce, per scaldarle.

Sapeva, o credeva di sapere, che la persona che le aveva inviato quel messaggio non la conosceva, se non come Valentina. Aveva sempre badato, nei suoi incontri virtuali, a non fornire ai suoi compagni di avventure alcun appiglio che consentisse di risalire alla sua vera identità. Nè lei voleva conoscere la loro. Così, chiunque fosse, poteva contare che restasse nella sfera della sua vita “altra”, notturna e telematica, totalmente libera da qualsiasi vincolo imposto dalla realtà quotidiana e materiale. Si mise a frugare nella memoria, in cerca di qualche epsiodio a cui ricollegare la richiesta che aveva ricevuto. Le venne in mente un tale, era passato qualche mese, che le aveva chiesto di venire insieme a lui, ma non subito: dopo che si fossero lasciati, esattamente a mezzanotte. Aveva accettato, e rispettato l’impegno. Le era piaciuto, quella notte, godere sentendosi desiderata, sconosciuta da uno sconosciuto. Era stato lui a scriverle? Non le sarebbe dispiaciuto, anzi: poteva pensare che il suo io notturno, così volbuile e evanescente, fosse capace di sopravvivere nella fantasia di coloro che aveva incontrato. E che nel tempo trascorso tra quel primo incontro e questa sera avesse vissuto, inconsapevolmente, chissà quali vicende, che ora, magari, erano andate a scrivere un copione che le sarebbe stato chiesto di recitare. Sì, probabilmente era questo che più le piaceva: supporre che quella richiesta, in sé in fondo solo fastidiosa, fosse l’incipt di una storia che lei non conosceva, ma che era già scritta perché fosse lei a viverla.

Era ancora ferma, in macchina, a rovistare nella memoria. Il ghiaccio sui vetri isolava l’abitacolo quanto bastava perché nessuno potesse vederla. Sollecitata dai ricordi di fantasie condivise, la sua mano salì, adagiandosi sul pube. Le tornavano davanti agli occhi parole urlate in maiuscolo, sequenze di lettere senza senso, professioni d’amore, con cui i suoi partner le avevano raccontato, offerto il loro orgasmo. Portò la mano alla bocca e succhiò l’indice e il medio, mentre divaricava le gambe e spingeva un po’ avanti il bacino. La mano scese di nuovo, scostò la gonna, si infilò sotto collant e mutandine e cominciò a massaggiare lentamente. “Solo un po'”. Pronunciò queste parole, perché non stava parlando solamente con se stessa. “Solo un po’, poi basta”. Ma non sapeva se si sarebbe fermata: non voleva lasciare il gioco, non voleva che cessasse quel piacere. Così, comandava le sue dità perché la tenessero in sospeso. Con gli occhi aperti fissava il nulla nei cristalli della sottile lastra di ghiaccio che ricopriva i vetri. Poi vide comporsi una figura, un’ombra che si faceva sempre più vicina. Le sue dita si fermarono, in attesa che l’intruso passasse oltre, lasciandola nuovamente sola. Quell’ombra, però, pareva ora dirigersi proprio verso di lei, verso la sagoma che doveva avere intravisto nell’auto. “Sei già qui?”, bisbigliò al suo interlocutore immaginario. Le sue dita ripresero a muoversi. L’ombra bussò delicatamente al finestrino. Lei aprì appena uno spiraglio. Intravide un uomo, e sentì che le chiedeva qualcosa, un’indicazione, ma non capì quale. Non era lui. Semplicemente un tale che non trovava la strada.

“Sono di strada. Salga, la accompagno”. Si ricompose rapidamente. Sentì lo sportello aprirsi e la voce dell’uomo ringraziare. “Devo essere impazzita” mormorò docilmente, quasi abbandonandosi a un’altra se stessa che ora aveva preso il controllo delle sue azioni. Quindi volse il viso verso lo sconosciuto a cui aveva offerto un passaggio e gli rivolse uno sguardo confuso e assente. “Si sente bene?”, le chiese lui. “Io non so dove portarla… non so dove deve andare” rispose. Lui la guardò stupito e imbarazzato, attendendo che lei aggiungesse qualcos’altro, una spiegazione, una domanda. Lei, però, ricambiava il suo sguardo senza dire nulla. “Forse…” cominciò lui, cercando con la mano la maniglia, ansioso di sottrarsi da quella situazione inquietante. Lei spostò gli occhi, e prese a fissarlo sfrontatamente, nella semioscurità, all’altezza del bacino. Lui si immobilizzò, e la guardò con più attenzione: notò che sulle gambe le falde del cappotto erano aperte e la gonna sollevata, sebbene nel buio non si vedesse fino a dove. “Ti faccio una sega?”, chiese lei con naturalezza, senza alzare gli occhi. Lui non rispose, pensando che forse fosse il caso d’andar via, ma senza risolversi a farlo. Lei sollevò la mano destra, che teneva posata sulla leva del cambio, e la portò a cercare a tentoni un bottone del cappotto di lui, che slacciò senza fretta, la sinistra sempre sul volante. Insinuò la mano a cercare la cerniera dei pantaloni. La seguì con la punta delle dita fino in cima, poi la abbassò, aprendola. Lui non riusciva a liberarsi dal senso di inquietudine, al quale ora si sommava l’imbarazzo di non avere un’erezione. Mentre lei gli infilava la mano dentro i pantaloni, lui abbandonò finalmente la maniglia e andò, riscuotendosi, a cercare le gambe di lei, che percorse con una rapida carezza per trovare subito, a sua volta, una strada verso il sesso di lei. “No, stai fermo… non posso”, gli ingiunse con dolcezza. Lui la guardò negli occhi, domandando con lo sguardo. Lei lo guardò a sua volta, intensamente, mentre cominciava a carezzarlo. Sentì l’uccello gonfiarsi lento sotto le sue dita. Poi lo afferrò e lentamente cominciò a muovere la mano, su e giù, su e giù, su e giù… con un ritmo lento e uniforme. Continuava a guardarlo negli occhi, ora illanguiditi, e nella mano lo sentiva sempre più vicino a scoppiare. Lui fece per dire qualcosa, ma una fitta di piacere gli blocco le parole in gola. Lei, con gli occhi, gli fece cenno di parlare. “Prendimelo in bocca”, le chiese. Lei rispose di no scuotendo appena il capo, e continuò con lo stesso ritmo lento. Quando sentì che sarebbe venuto tra un istante gli sussurrò: “Ora devi andare”. Lui non riuscì a rispondere nulla, zittito dall’orgasmo. Lei estrasse la mano, prese un fazzoletto dalla borsa e la asciugò. Accese il motore e lo congedò: “Ciao”. “Ciao”, rispose lui, andandosene. Era stata una follia, senza ombra di dubbio. Piacevole, per un verso: forse soprattutto per quel senso di potere, per il fatto di avere sentito di avere completamente in mano le redini gioco, mentre masturbava uno sconosciuto immobilizzato sul sedile della sua auto.

Davanti all’ufficio, però… quello sì era stato un errore. Sperava che quel tale non decidesse di ripresentarsi, aspettandola al varco bello pronto e pettinato, con la mano già sullo sportello dell’auto. Per qualche giorno sarebbe stato meglio usare i mezzi: se non altro, non avrebbe saputo dove appostarsi in sua attesa. Ciò che temeva non era che costui potesse farle del male, o semplicemente assillarla.

Temeva piuttosto che contaminasse due universi che voleva mantenere distinti, quello reale e quello virtuale. Era da questa alterità che traeva alimento la totale libertà di cui riusciva a godere il suo io virtuale. Le sfuggì una smorfia di imbarazzo quando si affiacciò il pensiero di potersi trovare di fronte quel viso in una sala riunioni.

Nel garbuglio delle emozioni che provava, sul timore e l’imbarazzo prevaleva però la sorpresa. Non si sarebbe creduta capace di fare ciò che aveva fatto. Per iscritto sì, questo ed altro, ma non così, non davvero. E in questa sorpresa c’era anche una sorta di orgoglio: ce l’aveva fatta, si era “sporcata le mani” e aveva rischiato. Nessuna delle due cose le era abituale, e di entrambe sapeva di avere bisogno. Ma volle smettere di pensare. Le sensazioni erano troppe, e troppo confuse. Andavano lasciate un po’ lì, senza accanirsi con il bisturi.

Mentre guidava, notò con fastidio tracce gelatinose che andavano rapprendendosi sulla sua mano. Dovette confessare a se stessa che lei, amante di mille fantasie telematiche, era poco avvezza ad avere a che fare con le inevitabili scorie materiali che quei giochi più o meno pirotenici finivano per produrre, trasformandosi in realtà. Fu sul punto di succhiarle via, e rompere un’altra barriera, ma lasciò perdere.

Arrivata a casa, optò per una doccia fredda, meno gradevole ma più adatta a evitare nuove impennate dei sensi e della mente. Per questa notte, voleva tenere fede al suo impegno. Domani, forse, tutto si sarebbe dissolto in una bolla di sapone. Mangiò qualcosa senza troppo appetito e si tuffò a letto, sperando di andare incontro a sogni morigerati. Addormentarsi, però, non le fu facile: il pensiero di ciò che non ci è permesso fare si ripresenta alla nostra mente con una frequenza e un’intensità vivificate dal divieto. A un certo punto, finalmente, arrivò il sonno.

In ufficio, il giorno successivo, contrariamente alle sue abitudini, approfittò di ogni occasione propizia per accedere al suo regno notturno, il che di fatto significò dedicarsi a scambiare messaggi con l’ignoto interlocutore della sera precedente, e a rimuginare sulle sue richieste. Fu lei a iniziare, appena arrivata. Titolo: “Ce l’ho fatta”. Testo: “Per ora… ma non posso continuare così!”. “Così come?”, chiedeva la risposta di lui. All’ora di pranzo, quando i colleghi uscirono per colazione, lei protestò mancanza di appetito, ed ebbe così tempo e modo di trascrivere quanto era avvenuto la sera prima, in macchina. La risposta si fece un po’ attendere. “Capisco. Eppure non mi va. Non è la cosa in se… vorrei averti a mia disposizione. Te la senti di fare quello che ti chiedo e SOLO quello che ti chiedo?”.

Sulle prime ci rimase male. Si era lasciata andare ed ecco che le arrivava subito una bacchettata sulle dita, resa ancora più dolorosa dal fatto che una parte di lei si associava al rimprovero. Ma poi prevalse l’oscuro fascino che sentiva esercitato su di se dalla prospettiva di acconsentire e prese a chiedersi che cosa avrebbe fatto, se avrebbe risposto sì o no. Era una richiesta impegnativa. Certo, aveva sempre la possibilità di rispondere sì, se non altro per soddisfare la curiosità che quel messaggio suscitava, sapendo che avrebbe potuto chiamarsi fuori in qualunque momento se il gioco si fosse rivelato troppo folle, o magari solo troppo tedioso. Ma non lo avrebbe fatto. Il suo codice di condotta, per quel che riguardava l’universo virtuale, prevedeva l’onestà più assoluta. Non che si imponesse di prendere sul serio qualunque cosa, ma quando si giungeva a un certo punto, sapeva che era necessario esserci o non esserci, darsi o non darsi. Perciò riflettè accuratamente prima di rispondere, soppesando da un lato l’attrazione che quella proposta suscitava in lei e dall’altro tutte le conseguenze della consapevolezza che avrebbe poi dovuto tenere fede all’impegno.

Finalmente rispose: “Accetto. Ma ho delle condizioni. Uno: Non farò niente di pericoloso per la mia incolumità. Due: Non ti rivelerò la mia identità. Tre: Tutto questo durerà una settimana a partire da oggi”.

Quella sera le arrivarono le prime consegne.

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