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Racconti di Dominazione

Metti una sera in treno

By 22 Aprile 2014Dicembre 16th, 2019No Comments

Fare la pendolare non mi era mai pesato: anzi, quando risposi all’annuncio per
il posto che ora occupo, ormai diversi anni fa, apprezzavo l’idea di essere
lontana da casa, di dover prendere un treno sia il mattino che la sera e
passare un’ora con i miei pensieri, la mia musica, i miei libri. Erano momenti
solo miei, tutti miei, un mondo sospeso tra i doveri dell’ufficio e le beghe
familiari. Il lavoro non era noioso, e il menage a casa era sereno, senza
slanci, ma anche senza troppi disagi.Ma ultimamente quel treno stava diventando
sempre più pesante, non era sufficiente a farmi distrarre dalle responsabilità
del lavoro, che negli anni erano cresciute, e non bastava a farmi dimenticare
la noia di una relazione sempre più stanca e banale.

Quella sera, inoltre, avevo dovuto sistemare un piccolo casino che un mio
sottoposto aveva combinato. Niente di irreparabile, ma la mia voglia di
chiudere la questione prima di lasciare l’ufficio mi aveva fatto perdere il mio
solito treno per soli pochi minuti. Ero corsa in stazione, sperando
nell’inaffidabilità di Trenitalia, pregando che quella sera il treno fosse in
ritardo di qualche minuto, sufficiente a salire in carrozza in tempo. Ma
l’efficienza dei capistazione mi remò contro, e mi vidi sfilare il mio solito
treno dalla banchina. Niente di grave, in effetti, avrei potuto prendere un
treno successivo, cosa che però mi sarebbe costata un cambio in una stazione
intermedia, e quasi un’ora di ritardo. Tutto rimediabile, quindi, ma, non so
perch&egrave, quel piccolo ritardo dovuto solo al mio senso del dovere mi fece andare
in bestia. Non salutai, come ogni sera, il bigliettaio, che ho sempre creduto
mi facesse il filo, e mi sedetti ad aspettare il treno su una panchina, senza
nemmeno accendere il mio inseparabile i-pod.

Il treno arrivò, stavolta con qualche minuto di ritardo, mannaggia, e trovai
quasi subito un posto a sedere in una carrozza semivuota. Anzi, e la cosa mi
avrebbe dovuto mettere di miglior umore, mi sedetti nel posto singolo vicino
alla porta, un posto che mi piaceva molto perch&egrave mi permetteva di essere sola,
ma in posizione privilegiata per guardare gli altri passeggeri. Di solito mi
piaceva scrutare gli occhi degli altri, alzando i miei dal libro o dalla
rivista che leggevo, per carpirne i pensieri, i desideri, intuirne le
inclinazioni, le voglie, anche. Ma non quella sera, sarà stato per
l’inconveniente che mi aveva fatto cambiare i programmi, o perch&egrave in effetti la
carrozza era semi vuota. Immersa nei miei pensieri, il suo “E’ libero?” mi fece
sobbalzare, non tanto per la voce decisa e profonda con cui me lo chiese, ma
perch&egrave mi era sembrato avvicinarsi troppo al mio orecchio per una domanda così
semplice: ne avevo quasi percepito il fiato sul lobo. “Certo…”: che voce
cretina e flebile che mi era uscita, mi sembrava di aver sentito una bambina
che rispondesse ad una sgridata del papà. Lui si sedette quindi di fronte a me,
senza degnarmi di uno sguardo, o almeno a me così parve…. O forse speravo nel
profondo che mi degnasse di uno sguardo in più di quello che avevo percepito mi
aveva squadrato le calze nere che mi velavano le gambe. Qualcuno avrebbe potuto
dire che il vestito che portavo era troppo scollato, e quel qualcuno avrebbe
avuto la voce di mia suocera; ma era caldo in treno, e mi ero tolta il foulard
che portavo in ufficio per nascondere i dei seni che non passavano certo
inosservati. E davanti a me non stava certo sedendo mia suocera, che di solito
sembrava guardare più il mio seno che i miei occhi mentre mi parlava. Anzi,
forse avrei preferito fosse mia suocera a sedermi di fronte, visto che
quell’uomo sembrava essersi limitato a soffiarmi una domanda all’orecchio, e
non aveva degnato di uno sguardo le mie tette.
Mi stava quasi indispettendo col suo caparbio modo di leggere Asimov. Dopo
poco, però, mi resi conto che le sue dita non avevano sfogliato pagina da
troppo tempo, e che quei jeans stretti stavano diventando sempre più stretti,
proprio davanti alla patta… No, mi stavo sbagliando, era solo una mia idea, e
mentre mi baloccavo con questi pensieri le mie gambe, quasi per volontà
propria, si scavallavano e si accostavano, e le ginocchia non ne volevano
sapere di accostarsi. No, ora ne ero certa, quel libro era fermo da troppo
tempo alla stessa pagina, e i bottoni dei Levi’s erano più tirati di prima. Ma
ancora non sembrava degnarmi di uno sguardo. Allora sì allargai leggermente di
più le ginocchia, ed ero io a volerlo fare!

Passa il controllore, prende il mio abbonamento e molto gentilmente mi ricorda
che tra due stazioni avrei dovuto scendere per la coincidenza. Prende il
biglietto allo sconosciuto di fronte a me, e non dice una parola. Fra dieci
minuti sarei scesa e non l’avrei più visto. Ma che cretina, mi dissi, ma cosa
te ne importa! Arriva la stazione di cambio, mi alzo e senza salutare mi
avvicino alla porta del vagone per scendere. Percepisco, senza voltarmi, che
non sono l’unica che si appresta a scendere, esattamente nello stesso momento
in cui mi accorgo che ho un impellente bisogno di trovare al più presto una
toilette! Scrutare di sottecchi il mio compagno di viaggio non mi aveva fatto
percepire che avevo un disperato bisogno di fare pipì. Per fortuna che avevo
venti minuti tra un cambio e l’altro di treno, avrei cercato un bagno nella
stazioncina dove stavo per scendere. Il treno si ferma lentamente, troppo
lentamente, per la voglia di scendere, salto giù dalla carrozza e cerco subito
la direzione da prendere. Certo, la fretta era tanta, ma ora credo che mi sarei
dovuta accorgere di essere seguita, ma si sa, solo dopo ci si rende conto…..
La piccola stazione &egrave deserta, non ci sono edicole aperte, anche la
biglietteria sembra chiusa, ma fortunatamente i bagni sembrano illuminati.
Entro di corsa nel bagnetto e dopo poco ne riesco, più rilassata, per lavarmi
le mani. Mentre l’acqua mi scorre sui polsi sento una mano afferrarmi i
capelli, tirarmi indietro la testa, l’altra tapparmi la bocca. La stessa voce
che mi aveva chiesto mezz’ora prima “E’ libero?” mi intima di non parlare:
sembra che mi chieda “E’ libero?” di nuovo. E io vorrei rispondergli “No, &egrave
occupato!”, ma la mano che mi tappava la bocca ora mi sta sollevando la gonna,
mi sta liberando dagli slip, mi scorre lungo la fica, mi accarezza il culo. E
la mia bocca non urla, anzi sussurra “Certo che &egrave libero, serviti pure”. Sì,
una frase assurda, cretina, ma era dettata direttamente dalla mia fica, che non
potendo parlare si stava bagnando come da mesi non faceva più. Mi tira i
capelli sempre più piegandomi indietro la testa, mentre due dita si fanno largo
tra le mie grandi labbra. Spingo il culo all’indietro, facendomi penetrare
sempre più dalle dita e sentendo che il gonfiore dei Levi’s che avevo scrutato
in treno era veramente un cazzo gonfio. Cerco di sbottonargli i pantaloni,
senza riuscirci. Mi lascia i capelli e si sbottona da solo, io spingo il mio
culo sempre più verso di lui inarcando la schiena. Come d’incanto mi sento
aperta, penetrata, spinta, compressa, invasa. Sento caldo tra le cosce, sento
la cappella che mi allarga il profondo, sento l’asta che mi apre le piccole
labbra, i suoi fianchi spingere sul mio culo. E’ sempre più profondo, sento il
caldo salirmi allo stomaco, alla bocca, alla testa, la mia mano prende la sua e
la implora di strizzarmi un capezzolo, mentre l’altra sua mano mi sfrega il
clitoride. Non capisco più nulla, mi sento gridare, mi sento venire, mi guardo
godere, poi godo per davvero, sciogliendomi sul lavandino. Ora lui spinge più a
fondo, sento la sua cappella sempre più grossa aprirmi il fondo della fica, lo
sento ansimare sempre più velocemente. Solo allora mi libero dalla sua morsa,
quando &egrave più sguarnito, più sorpreso, più indifeso, e lo spingo via dalla mia
fica, dal mio sedere, dal lavandino. Mi volto, incrocio il suo sguardo
attonito, mi inginocchio e gli prendo la cappella in bocca, fino a che non mi
inonda la gola con il seme caldo, senza distogliere i miei occhi dai suoi.
Neanche una goccia volevo lasciargli, lo succhio, lo lecco, lo pulisco, alla
fine, bevendo tutto quello che sprizzava dalla punta congestionata della sua
cappella.

Come uscimmo non lo ricordo, insieme, separati, prima lui poi io, proprio non
ricordo. Ricordo solo che quella sera, dopo aver mangiato molto più tardi del
solito, dopo tanti anni.
Alla mattina mi sono svegliata vicino a mio marito… ed ero in ritardo per il mio treno….

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