Skip to main content
Racconti di DominazioneRacconti erotici sull'Incesto

Senza via di scampo

By 30 Aprile 2016Dicembre 16th, 2019No Comments

‘Ok, ‘anche questa è fatta!’ Daniela diede un’ultima scorsa veloce all’email e cliccò sul tasto Send.
Si guardò intorno: l’ufficio era inondato dalla luce pomeridiana di quella bellissima domenica primaverile. L’arrivo dell’ora legale aveva allungato all’improvviso le giornate e anche il tempo si era rasserenato: la primavera era esplosa in tutta la sua bellezza.
-‘Non dovrei essere qui.’ ‘ Sospirò a voce alta. Al di là del vetro, le scrivanie e le sedie vuote erano spettatrici silenti delle sue domeniche lavorative.
Il lavoro era parecchio e il fatto di prepararsi per le ferie incombenti le dava la scusa per essere lì, a definire gli ultimi dettagli e a dare le linee guida per chi avrebbe gestito le varie attività in sua assenza, ma in realtà non c’era nessun valido motivo lavorativo per andare in ufficio la domenica, cosa invece a cui aveva ormai fatto l’abitudine. I locali vuoti le erano ormai familiari quasi come la loro versione settimanale, brulicanti di persone e con i classici rumori di sottofondo: ticchettii di tastiere, chiacchiericci sommessi, telefoni che trillavano e ronzio di stampanti.
Si appoggiò allo schienale della poltrona, guardano dalla finestra le cime delle montagne ancora innevate senza in realtà vederle. La sua vita era sempre più vuota e stava, come sempre, cercando di riempire quei vuoti con il lavoro. Non poteva più continuare a farlo e a mentire a se stessa: era arrivato il momento di fare i conti con la sua coscienza. Aveva trasformato l’azienda rilevata dal padre in era una realtà di successo, in grado di dare lavoro a tante persone e tranquillità economica alla sua famiglia, ma era proprio sul fronte familiare dove il contrasto appariva impietoso: la sua vita non poteva essere giudicata altro se non un triste e misero fallimento.
Aveva una madre, ricca abbastanza per passare gli anni della vecchiaia in giro per il mondo e che quasi non si ricordava di avere dei figli, un fratello sbandato che si ricordava di lei, sì, ma solo quando gli servivano soldi o aveva bisogno di aiuto per farsi tirare fuori da qualche guaio in cui puntualmente andava a cacciarsi e una figlia con cui aveva un buon rapporto, ma che aveva scelto una strada che la portava lontano dall’Italia. Molto lontano.
C’era stato un tempo dove era stata felice e realizzata, con un marito di cui era veramente innamorata, una persona splendida, nota e con un buon lavoro e un’ottima posizione sociale’ che aveva rivelato la sua vera personalità quando lo aveva scoperto a tradirla con un’infermiera mentre lei era incinta della loro figlia. A lui era crollato il palco, a lei il mondo intero. Aveva poi scoperto che non si trattava di una scappatella occasionale o di un momento di debolezza, ma di una pratica che portava avanti da quando erano ancora fidanzati senza che lei avesse mai sospettato di nulla. A questo punto, molti piccoli dettagli su cui in passato aveva sorvolato ma che suonavano strani, prendevano un nuovo, sinistro e terribile significato.
Non si era più ripresa realmente da quello shock. Da allora aveva avuto alcune relazioni, più o meno durature e felici, ma dentro di lei si era rotto qualcosa che non le consentiva più di fidarsi di un uomo e quindi di avere un compagno di vita come se lo era sempre immaginato fin da piccola.
Si alzò dalla scrivania e si avvicinò alla grande vetrata che dava sulla zona industriale. Di domenica era innaturalmente calma e deserta, i capannoni e le palazzine a vetri che vegliavano centinaia di parcheggi senza auto che da lunedì sarebbero stati contesi nella frenesia dei giorni feriali che lasciava posto a weekend di incantato silenzio.
-‘Daniela Venturi, imprenditrice di successo e donna infelice.’ ‘ Dichiarò alla sua immagine riflessa nel vetro.
-‘Stasera però torna Arianna da Shangai e da domani, in Spagna, il cammino con lei verso Santiago de Compostela forse farà sentire me e mia figlia vicine come una vera famiglia e complici come due vere amiche.’ ‘
Era una vacanza strana per lei, abituata a correre in tutti i sensi. Da quando si era separata dal marito, aveva cercato di dimostrare a se stessa che poteva essere per Arianna sia una madre che un padre, per questo forse aveva iniziato a comprare macchine sportive e a correre sempre. Aveva anche avuto un pauroso incidente, devastante per l’auto ma miracolosamente senza conseguenze per lei. Inoltre negli ultimi anni si era messa ad andare in palestra tutte le mattine, per combattere l’avvicinarsi del decadimento fisico dovuto all’età, anche se, a quarantotto anni, poteva definirsi una donna attraente ed in perfetta forma fisica.
Camminare un po’ e meditare le avrebbe fatto bene. Aveva la sensazione che i ritmi lavorativi e di vita la facessero correre, ma senza un reale scopo, un po’ come quelle icone con l’asino e la carota che gli penzola davanti attaccata ad un bastone. Non voleva finire sfiancata per rincorrere cose che non avrebbero dato veramente valore alla sua vita. Doveva ritrovare se stessa, partendo proprio dal rapporto con sua figlia.
Spense il computer portatile e lo mise nella borsa, raccolse le sue cose e uscì dalla stanza e dagli uffici, chiudendo alle sue spalle il portoncino blindato dopo aver digitato la combinazione che attivava l’allarme.
Scese le scale e si avviò verso l’auto. La zona era deserta, di notte un paio di discoteche in zona attiravano gente di ogni risma, ma di giorno non era una zona pericolosa. Non aveva comunque lasciato l’auto al solito posteggio, ma in un posto un po’ più appartato per evitare che qualche passante si facesse tentare da una bella macchina e magari le rompesse un finestrino o peggio, la rubasse. Girò l’angolo e fice scattare il telecomando. Le luci della sua Audi coupé si accesero. Aprì lo sportello e mise la borsa sui sedili posteriori.
Faceva caldo e si tolse l’impermeabile. Si stava benissimo anche solo con il tailleur.
Una piccola puntura sul fianco la fece trasalire, mosse la mano per scacciare l’insetto impertinente, ma le sue dita cozzarono contro qualcosa di metallico, si girò di scatto a bocca aperta e fece appena in tempo a vedere una lama quando qualcosa la colpì così violentemente in volto da farla prima barcollare sui tacchi alti e poi cadere seduta per terra tra lo sportelo aperto e l’abitacolo dell’Audi.
-‘Zitta, troietta! Questo è stato solo un assaggio e se provi a fare il minimo rumore ti farò male davvero.’-
Ora il coltello premeva con la punta sotto il suo mento.
Daniela non capiva se era più stupefatta o terrorizzata. Davanti a lei la voce roca e decisa proveniva da sotto un cappello da baseball che non celava ma lasciava in ombra un viso dai capelli scuri e con un accenno di barba. Non lo aveva sentito o visto arrivare, come non aveva visto il ceffone che l’aveva colpita in pieno volto, ma quello lo aveva sentito, eccome. Aveva tutta la guancia che le pizzicava, anche se probabilmente era troppo agitata per provare dolore.
Cercò di farsi forza e riacquistare un minimo di lucidità. Pensare che qualcuno avesse assistito alla scena sarebbe stato chiedere troppo. Doveva cercare di guadagnare tempo.
-‘Hai capito cosa ti ho detto, troietta?’- ringhiò l’uomo.
-‘Sì”- farfugliò lei. ”Stai calmo, ti darò tutto quello che vuoi. Non ‘non c’è bisogno di farmi male.’-
-‘Questo lo vedremo.’ ‘ rispose minaccioso.
Forse voleva solo rapinarla. Se la sarebbe cavata con un po’ di soldi rubati, una denuncia e un po’ di mal di denti. Forse voleva salire in ufficio e farle disinserire l’allarme’doveva cercare una scusa per evitare che questo succedesse. Forse poteva dire che l’allarme lo controllava l’agenzia della sicurezza e che era temporizzato.
-‘Sali in macchina.’-
Come in macchina? Daniela fu presa alla sprovvista.
-‘Co’Cosa?’- Chiese con un filo di voce.
Il coltello premette più forte contro il suo mento. Faceva male a tal punto che Daniela pensò stesse incidendole la carne.
-‘Allora, troietta, te lo spiego con calma perché oggi sono buono: il dolore parte dal basso e lo posso fare arrivare all’infinito. Il ceffone che ti sei presa era il primo gradino. Ogni volta che mi fai ripetere una cosa lo alzo di un livello. Ubbidiscimi e resterai viva. E’ chiaro?’-
Daniela aveva lo sguardo vitreo negli occhi sbarrati dal terrore e il cuore che sembrava trovasse insopportabile starle rinchiuso nel petto.
Si limitò a sibilare un sì tra i denti stretti per la paura di muovere la mandibola e sentire la punta del coltello affondare ancora di più.
Sempre con il coltello puntato, si puntellò con le mani sul cemento del parcheggio e poggiò il sedere sul sedile di guida. Non capiva se lo sconosciuto voleva che si mettesse al posto di guida o in quello del passeggero. Era frastornata e le girava la testa.
Click-click-click!
Prima che capisse cosa stava succedendo, nell’altra mano dell’uomo erano comparse delle manette, che ora erano saldamente chiuse intorno alle sue caviglie.
Daniela guardò l’uomo esterrefatta con aria interrogativa.
Lui si chinò a raccogliere le chiavi della macchina e i grandi occhiali neri alla moda che le erano caduti quando era stata colpita. Le mise gli occhiali da sole, infilandole le stanghette tra i boccoli biondi, poi le prese le caviglie per la corta catenella delle manette che luccicavano in contrasto con i collant neri e le scarpe alte e facendola ruotare su se stessa, la sistemò in posizione di guida, poi chiuse lo sportello.
Salì dall’altro lato, mise un borsone scuro che prima Daniela non aveva notato sul sedile posteriore e si sedette al posto del passeggero.
A quel punto estrasse un nuovo paio di manette e ne mise una al polso destro di lei, fisando l’altra ad una protuberanza sul retro del sedile, nella parte bassa. Poi mise la cintura di sicurezza a Daniela.
-‘Bene, possiamo andare!’- Disse lui inserendo le chiavi nel cruscotto. ”Premi sul pedale del freno.’-
Daniela non capiva se era impazzita lei o lui. Dove poteva andare conciata così?
-‘Non riesco a guidare così. E’ impossibile”-
In tutta risposta l’uomo infilò la mano con il coltello nello spacco della gonna, lei cercò di contrastarlo con l’unica mano libera e contraendo al contempo le ginocchia verso il volante, ma lui le ricacciò indietro la mano con violenza, facendola sbattere contro il finestrino. Poi, facendosi prima strada con la mano allargandole le cosce, arrivò a puntarle la punta della lama contro le mutandine in pizzo.
Daniela cacciò un grido ma poi si zittì subito ricordando cosa le aveva detto prima lo sconosciuto. Le sue minacce sembravano assolutamente fondate.
-‘Lo stenti, troietta?’-
Odiava quel termine. Era lontano mille miglia dal suo modo di essere. Avrebbe voluto urlargli che non era una troia.
-‘Sì.’- disse piano.
-‘Bene, questo è l’inizio della scala del dolore. Ubbidiscimi e questa lama rimarrà dov’è ora. Fai qualsiasi cosa che mi infastidisca e ti assicuro che prima che tu possa sperare di cavartela, il tuo sangue avrà imbrattato tutta questa bella macchina. Ora premi il cazzo di pedale del freno. Quest’auto ha il cambio automatico, quindi puoi guadarla con un piede e una mano, come sicuramente avrai già fatto mille altre volte.’-
Già’ Era vero, pensò Daniela, ma non ero ammanettata con un coltello tra le cosce.
Premette il freno con il piede destro. Lui premette il pulsante di start e mise la leva del cambio sulla posizione D.
-‘Dove devo andare?’- chiese titubante.
-‘A casa. A casa tua.’- rispose lui.
Daniela capì improvvisamente che la cosa era molto più seria e drammatica di come se l’era immaginata’. E non aveva certo immaginato di fare una passeggiata.
Tolse il piede dal pedale e con orrore sentì l’Audi, ubbidiente, avanzare lentamente verso la strada. Probabilmente suo incubo era appena all’inizio.
Premette leggermente sull’acceleratore e, attraversato il cancello dello stabile, svoltò nelle vie deserte della zona industriale.
-‘Sul serio.. non credo di riuscire ad arrivare a casa. Mi gira la testa e sono agitata, potrei sentirmi male e finire contro un palo o un’altra macchina.’- cercò di convincere il suo aguzzino.
-‘Ce la farai, sei una donna forte e poi non abiti poi così lontano. Oggi poi on c’è traffico e tra 10-15 minuti al massimo saremo arrivati.’-
‘Mi conosce!’ Tutta questa storia stava prendendo una piega terribilmente sbagliata. Daniela iniziò a sbirciarlo cercando di non farsi vedere. Era sicura di non averlo mai visto prima. Il fatto che non si fosse preso la briga di mascherare il suo aspetto le faceva presagire conseguenze tragiche. Il solo pensarci le faceva perdere il senno e si costrinse a rimandare quel tipo di pensiero per non finire veramente fuori strada. Sentiva sempre il pungolo tra le gambe e era conscia che quel leggero fastidio poteva trasformarsi in un istante in una lacerazione fatale. Le sue cosce vivevano ad ogni istante la lotta tra il serrarsi a difesa delle sue parti intime e l’allargarsi per evitare ogni contatto con quell’intrusione così minacciosa.
Nel frattempo si stavano avvicinando a casa. Daniela aveva pensato più volte di cambiare strada e tergiversare cercando di incrociare una pattuglia della polizia, ma era chiaro che quell’uomo se ne sarebbe accorto. Di certo sapeva dove abitava, probabilmente l’aveva pedinata a sua insaputa per giorni, forse per settimane, per imparare le sue abitudini. Le sembrava di impazzire. Non trovava nessuna via d’uscita se non assecondare l’uomo che l’aveva rapita. E quella non le sembrava una via d’uscita.
-‘Hai delle belle gambe.’- disse improvvisamente il suo rapitore rompendo un silenzio che durava da qualche minuto.
La sua voce aveva un tono neutro, non cattivo o lascivo. Incredibilmente, poteva passare per un normale e sincero complimento senza secondi fini. Daniela sapeva di avere delle belle gambe, ed era il tono dell’individuo più che il contenuto della frase che l’aveva sorpresa.
-‘Grazie.’- rispose lei dopo qualche istante di silenzio riempito dal suo stesso imbarazzo. ”se stai pensando di corteggiarmi, devo avvisarti che non sei partito proprio con il piede giusto. Se ci tieni davvero possiamo ricominciare da capo e magari”- provò a scherzare lei sperando che l’uomo avesse qualche ripensamento.
Lui rise forte e di gusto con quella sua voce roca che ormai Daniela aveva impresso nella mente e che non avrebbe più potuto dimenticare.
-‘Lo avevo detto che sei una donna forte e, a quanto pare, anche con la battuta piuttosto pronta. Mi piace!’-
-‘Vuoi dire che non mi farai del male?’- chiese lei speranzosa.
-‘Non ho esattamente detto questo mi pare.’- rispose
Daniela provò a giocare un’altra carta.
-‘Mi ucciderai. Lo so.’-
-‘Perché e sei così convinta?’-
-‘Perché”- la voce le tremava, non riusciva a valutare lucidamente se rivelare i suoi pensieri avrebbe peggiorato la sua già drammatica situazione ”’perché non hai nascosto il tuo volto’- disse alla fine dopo una lunga e tragica pausa.
-‘Stammi a sentire, troietta, se vivrai o morirai dipenderà dalle scelte che farai. Ti ho già detto come fare per restare viva, te lo sei già dimenticata?’-
-‘No”-
-‘Bene, troietta, cosa ti ho detto che devi fare per restare viva?’-
-‘Ubbidirti.’-
-‘Brava, tienilo a mente sempre. Io mantengo sempre le mie promesse, sappilo, troietta.’-
-‘D’accordo’. e’. tu però sappi che io non sono una troia.’- finalmente era riuscita a dirlo
-‘Hahaha’.lo so.’- le ultime parole le aveva pronunciate con un tono che fece capire a Daniela che doveva cercare disperatamente una via d’uscita prima di sprofondare nei meandri di un incubo da cui non avrebbe forse più potuto uscire.
Nel frattempo erano giunti nella via dove abitava e l’uomo stava pigiando i tasti del telecomando attaccato alle chiavi dell’auto finché un a luce gialla intermittente iniziò a lampeggiare sul cancello del palazzo dove abitava. Daniela fermò l’auto all’inizio della rampa di accesso ai garage.
-‘Sul serio’. Cosa vuoi da me? Soldi? Vuoi quest’auto? Te la lascio. Finora è andata bene: fermati qui. Ti giuro che non sporgerò denuncia. Se oltrepassiamo questa soglia poi ti metterai davvero nei casini, pensaci.’-
-‘Mia cara troietta’.non voglio soldi o macchine. Voglio TUTTO.’- sussurrò minaccioso più che mai.
-‘E ora, togli quel cazzo di piede dal freno e scendiamo giù per la rampa, verso questi casini in cui voglio che ci infiliamo.’-
L’auto scomparve, inghiottita dal buio dei garage.

La basculante che isolava il posto auto di Daniela dal resto del garage si abbassò lenta e inesorabile fino a quando, nell’abitacolo silenzioso della sua Audi sportiva fu veramente isolato dal resto del mondo. Era ancora con le caviglie ammanettate e con il polso destro agganciato a qualcosa dietro il suo sedile che la costringeva ad una posizione un po’ scomoda e innaturale.
Lo sconosciuto che l’aveva rapita di fronte al suo ufficio e costretta con la minaccia di un coltello a portarlo a casa sua aprì lo sportello, prese le chiavi da una tasca e liberò l’anello della manetta fissato al sedile.
-‘Scendi!’- le intimò
Lentamente, come in stato catatonico, Daniela aprì lo sportello e scese dall’auto. Se lo trovò davanti, tutto sommato era anche un uomo di aspetto gradevole, riuscì assurdamente a pensare mentre lui la squadrava. Era moro, capelli non molto lunghi, abbastanza alto e sembrava muscoloso, i suoi occhi nella penombra sembravano grigi o qualcosa del genere, ma sebbene il suo sguardo vagasse tra il mefistofelico e l’angelico, il suo aspetto, se non proprio del bravo ragazzo, non richiamava affatto i tratti di un criminale o di un balordo. Tutt’altro. Era anche vestito con abiti sportivi ma ricercati, di certo anche piuttosto costosi.
-‘Togliti le scarpe i collant.’- ordinò in tono asciutto.
Ecco andare in frantumi il quadretto di uomo non proprio balordo che lei stava a forza cercando di farsi entrare in testa per calmarsi.
-‘Vuoi violentarmi?’- chiese lei mentre sentiva gli occhi gonfiarsi di lacrime.
Lui di tutto rimando sorrise.
-‘No, voglio rallentarti. E farti stare zitta. Ora fai come ti ho detto, prima che cambi idea e la tua situazione peggiori’-
-‘Non urlerò, hai la mia parola. E in quanto alla mia situazione’ peggio di così!’- singhiozzò
Non voleva piangere, ma la tensione era al limite da troppo tempo e si trovava chiusa in un garage sottoterra in balia di un uomo che di certo aveva pessime intenzioni nei suoi confronti. Le sue agogniate ferie erano iniziate come peggio non si poteva.
Due lacrime le scesero lungo il volto e si affrettò ad asciugarle con la mano.
-‘Avanti, non crollare adesso che siamo arrivati.’- la incitò lui
-‘Arrivati dove?’- incalzò lei ”all’inferno’..’-
-‘Sbrigati. La pazienza non è tra le mie doti migliori.’-
Questo era ovvio, pensò Daniela. Lui le passò una piccola chiave per aprire le manette che le bloccavano le caviglie e lei dovette armeggiare un bel po’ per riuscire ad aprirle. Incredibile come nel film sembrasse uno scherzo aprirle anche solo con una graffetta piegata.
Una volta libera si sedette sul sedile e si sfilò prima le scarpe e poi i collant. Notò che questi ultimi avevano patito il contatto con la punta dell’arma e presentavano un foro proprio in mezzo alle gambe.
-‘Rimettiti le scarpe e alzati in piedi.’-
Ubbidì, come le era stato consigliato di fare in modo così convincente.
Una volta in piedi lui la fece girare e le ammanettò il polso sinistro dietro la schiena, insieme al destro da cui ancora pendevano le manette usate per bloccarlo durante il viaggio. Poi prese i collant e iniziò a fare una specie di palla molto stretta e compatta con la parte che di solito avvolge il sedere e i basso ventre. Una volta finito la prese per i capelli, facendole reclinare la testa all’indietro e le disse di spalancare la bocca.
Voleva infilarle quella cosa in bocca?!?! Nemmeno per sogno!
-‘No! Ti prego! Giuro che non fiato! Non una parola, promesso!’-
Lui la prese per le spalle e la girò in modo da averla di fronte e le mollò un ceffone come il precedente. Stavolta lo sportello sorresse Daniela che non cadde. Per fortuna, perché con le mani ammanettate dietro la schiena avrebbe quasi certamente battuto la testa.
-‘Non sei poi così intelligente come pensavo.’- disse acido mentre una lacrima di odio solcava la guancia arrossata di lei. ”Ora apri la bocca e non farmi incazzare o sperimenterai subito il secondo gradino sulla scala del dolore.’-
Intontita, Daniela aprì le labbra. Lui inizio a spingere quella matassa di Nylon e lei si trovò a dover veramente spalancare la bocca cercando di non opporre troppa resistenza, ma cercando allo stesso tempo di non soffocare. Alla fine lui con le dita riuscì a cacciarle tutto in bocca, poi, usando le gambe dei collant, fece una serie di giri intorno alla testa, fissandole il tutto in maniera certosina.
-‘Groan”- fu l’unico debole mugolio gutturale che Daniela riuscì a far uscire da quell’impiastro che una volta erano le sue calze.
La respirazione era un po’ affannosa e l’agitazione non aiutava.
L’uomo le sollevò improvvisamente la gonna sopra la vita. Lo guardò con gli occhi spalancati mentre lui afferrava le sue mutande di pizzo e le abbassava fin sopra le ginocchia.
-‘Ga..gog..gg..gaga’- cercò di protestare. Voleva dirgli che aveva appena detto che non voleva violentarla lì in garage.
La gonna fu riabbassata. Ora copriva appena le mutande che erano stata fatte scendere fin poco sopra le ginocchia.
-‘Shhh!!’- disse lui facendo il gesto del dito davanti alle labbra.
Prese il soprabito dall’auto e lo mise sulle spalle di Daniela, alzando il bavero. Poi prese dal suo borsone un foulard e lo mise all’interno del bavero, a coprire la bocca.
-‘Bene. Ora saliamo in casa tua. Ogni cazzata che farai, ti assicuro che te la farò pagare carissima.’-
La basculante si alzò con la sua consueta calma. Iniziarono a camminare verso l’ascensore. Daniela si sentiva goffissima, ma probabilmente ad un passante distratto, poteva sfuggire la sua spaventosa situazione. Quello stronzo era piuttosto ardito e si stava prendendo dei bei rischi. Lei d’altro canto, era veramente sfortunata: in garage infatti non c’era anima viva.
Scappare era impossibile. Stava facendo fatica a camminare senza far scendere le mutande e se avesse provato a correre, sicuramente le sarebbero scese alle caviglie facendola cadere. Oltretutto con le mani dietro la schiena e la respirazione condizionata da quel bavaglio ingombrante, anche se era in buona forma, non avrebbe fatto molta strada e se lui fosse riuscito a riprenderla non dubitava che le avrebbe fatto male come aveva promesso.
Mentre si avvicinavano all’ascensore Daniela pensava a cosa potesse fare per uscire dal suo incubo a parte tentare la fuga. Aveva pesato di sbagliare piano e suonare a casa di un vicino o di fare finta di aprire con la chiave fino a quando questi non fossero venuti a vedere cosa succedeva davanti alla loro porta.
Ripassò mentalmente le possibilità: al piano terra abitavano una coppia di anziani male in arnese e una signora anche lei sull’ottantina. Non potevano essere d’aiuto, anzi, rischiava di farli ammazzare. Al piano primo c’era l’appartamento che aveva comprato e ristrutturato per Arianna, sperando che sua figlia si decidesse a rimanere a stare lì e che al momento era vuoto. Di fronte, sullo stesso pianerottolo c’era una coppia di ragazzi con due gemelli di un anno e non era il caso di metterli in pericolo, al secondo piano c’era il suo appartamento e quello occupato da uno studio di commercialisti che ovviamente, di domenica era deserto.
Arrivò all’ascensore rassegnata. Entrarono.
Appena le porte si chiusero dietro di loro, Daniela sentì qualcosa scivolare sulle gambe. Abbassò lo sguardo già sapendo che cosa avrebbe visto. Le mutande le erano scese alle caviglie. Non aveva il coraggio di guardare verso lo specchio per vederci la terribile e umiliante situazione in cui si trovava.
-‘Beh, queste ormai hanno svolto il loro compito, ora sono diventate inutili.’- sentenziò l’individuo che era con lei, mentre senza troppi complimenti gliele sfilava del tutto.
‘Ah, fantastico..’ cercò di essere sarcastica tra se’ e se’ Daniela, che si sentiva già completamente nuda e inerme di fronte al suo rapitore.
Lui mise il dito sulla pulsantiera e la guardò beffardo con aria interrogativa. Passò la mano sul pulsante che chiudeva le porte. Poi indicò il numero 2. Daniela scosse la testa. Passò al piano successivo. Lei sospirò e fece un microscopico cenno di assenso. Non aveva ben chiaro cosa la stesse aspettando, ma era certa di essere fottuta su tutta la linea. E’ solo un incubo.
E’ solo un incubo.
E’ solo un incubo’
Non faceva altro che ripetersi queste parole come se ormai si fosse rotto il disco dei suoi pensieri. Daniela voleva svegliarsi nel suo letto, traumatizzata da un sogno tragico che la luce del sole che filtrava dalle tende avrebbe presto scacciato dai suoi ricordi, complice anche l’imminente partenza per le ferie.
Ma come mai noi riusciva a svegliarsi?
Nel suo maledetto sogno era in piedi, al centro del suo soggiorno e aveva un po’ freddo. Questo perché gli unici indumenti che le avevano fatto indossare erano le scarpe nere dal tacco alto con cui era uscita di casa nel primo pomeriggio e una benda nera, di un materiale tipo lattice che le oscurava completamente la vista. Aveva un foro in prossimità del naso e da sopra la bocca fino alla parte bassa della fronte aderiva al suo viso senza far trasparire un filo di luce.
In quel momento, però, non era tanto la cecità a darle problemi, quanto piuttosto la stabilità.
Il suo aggressore stava curiosando tra le sue cose, lo sentiva aggirarsi per la casa e dalle altre stanze le arrivavano rumori familiari ovattati dalle mura di casa. Per essere sicuro che lei non lo ostacolasse, l’aveva dapprima denudata e legato i polsi ben stretti dietro la schiena, poi le aveva bloccato anche le caviglie, ma solo dopo averle incrociate, per cui ora Daniela si ergeva traballante sui 12 centimetri di tacco con le gambe accavallate e i piedi invertiti di posizione ma tenuti incollati uno all’altro da parecchi giri di corda intorno alle caviglie.
Rimanere i equilibrio era meno semplice di quanto si potesse pensare. Provare a spostarsi anche solo di poco era impensabile, anche perché, con le braccia costrette dietro la schiena, un’eventuale e di certo probabile caduta avrebbe potuto rivelarsi fatale: bastava sbattere la testa sul tavolino o su un mobile’anche sul pavimento stesso, e si sarebbe provocata lacerazioni e traumi piuttosto gravi.
E’ solo un incubo.
-‘Hai davvero una bella casa.’-
Una voce a pochi passi da lei spezzò il silenzio che da qualche minuto aveva preso possesso di quegli spazi.
-‘Vedo che stavi preparando le valigie.’- continuò nel suo monologo ”Bel posto Santiago de Compostela.’-
Daniela trasalì e rimase a bocca aperta.
Una risata.
Daniela non voleva parlare con quell’uomo. Era già a conoscenza di troppe cose su di lei, l’aveva spiata e seguita per giorni, si era introdotto in casa sua e l’aveva immobilizzata. Ed era nuda e inerme di fronte a lui. -‘Forse, nella tua valigia, oltre alle guide sul percorso del pellegrinaggio, avresti dovuto mettere anche questi!’- ringhiò lui mentre le premeva con forza un oggetto sulla guancia. ”Li ho trovati nel tuo comodino, comodi comodi per tuoi momenti più intimi. Ma quanta ipocrisia! Vedi che avevo ragione a dire che sei una troietta?’-
Daniela sentiva la guancia piegarsi sotto la spinta del dildo che l’uomo aveva trovato rovistando nel suo comodino. Avvampo’ di rabbia.
-‘Ti ho detto che non sono una troia!’- disse con una determinazione che stupì persino lei, vista la condizione in cui versava ”Sono una donna sola e anche io ho diritto a darmi un po’ di piacere, come fanno quasi tutte e tutti. Questo non fa di me una troia. E se non lo capisci deve essere perché ti sei fatto troppe seghe e hai perso il contatto con la realtà!’-
Lo schiaffo arrivò improvviso, colpevolmente inaspettato.
Daniela vacillò, cercò di recuperare la posizione eretta piegando un po’ le ginocchia, ma era troppo tardi. La caduta era inevitabile.
‘Noo!!’ Fece appena in tempo a pensare mentre sentiva che non sarebbe riuscita a restare in piedi. Poi un braccio la trattenne e una presa salda la rimise nel precario equilibrio in cui si trovava prima dello schiaffo.
-‘Non capisco se sei molto coraggiosa o solo molto stupida.’- sussurrò la solita voce roca. ”Forse sei tu che usi troppi falli di gomma e magari te ne servirebbe uno vero, per farti riprendere il contatto con la realtà!’-

-‘Preferisco i falli di gomma, almeno non c’è uno stronzo attaccato dietro.’- ribatté Daniela. ”E poi, se ti stai proponendo, ti ho già detto che non siamo partiti con il piede giusto. Liberami e magari ci ripenso.’- Azzardò.
L’uomo rise. La sua voce roca rimbombava nelle orecchie e nel cervello di Daniela. Lo odiava.
-‘Mi piace il fatto che sei così sfrontata!’- fece lui dopo una pausa ”Solo che’.’- le bisbigliò a pochi centimetri dal viso ”’non sei nella condizione di essere sfrontata.’-
E così dicendo insinuò le sue dita tra le ginocchia di Daniela.
Iniziò a salire lentamente verso l’inguine.
-‘Ora devo decidere cosa fare di te.’-
Lei deglutì, spaventata. La sua voce era inquietante.
Con una mano la teneva dietro la testa, poco sopra il collo, con l’altra era salito e ormai sentiva che stava sfiorando i peli pubici ben curati che si ergevano esili ad ultima fragile difesa delle sue parti intime. Con quella presa la costringeva a tenere la schiena leggermente inarcata all’indietro. Sentiva il calore della sua voce infrangersi sul suo viso, e quello della sua mano diffondersi tra le sue cosce.
Capì che sarebbe stata violentata. Eppure, un po’ per i modi di fare di lui, che non erano poi rozzi e nemmeno veramente violenti, un po’ per come piano piano stessero entrando in una specie di confidenza, forse non sarebbe stato tremendamente degradante come si sarebbe aspettata.
-‘Facciamo così: visto che hai coraggio, voglio premiarti. Ti darò una chance di salvarti, di evitare quello che sto pensando di farti e di partire per le tue ferie!’-
Lei rimase per un istante sbigottita dalla inaspettata concessione.
-‘Una’ chance? Che tipo di chance?’- balbettò confusa.
-‘Un gioco di abilità: se lo superi farò in modo che tu sia libera. Se non lo superi, sarai alla mia mercé finché vorrò.’-
Era una possibilità incredibile. Sicuramente c’era un trucco: probabilmente era una impresa impossibile da realizzare. Ma non aveva altre carte in mano, per cui non c’era ragione di non provare.
-‘Allora accetto.’-
-‘Credo che tu non abbia colto. Se accetti, accetti anche il fatto che se non riesci sarai mia nell’accezione più ampia del termine. Il mio giocattolo, la mia schiava, la mia troietta, finché io vorrò.
Detta così suonava meno accattivante come proposta. Ma la situazione era comunque disperata e in realtà sarebbe stata costretta comunque a subire la violenza di quell’uomo. Forse questa sfida le dava la possibilità di guadagnare tempo e di certo non poteva peggiorare la sua posizione.
-‘Ho capito. Se perdo dovrò sottomettermi a te e soddisfare le tue voglie.’- disse lei ascoltando la sua voce come se venisse da un improbabile film di terz’ordine.
-‘Ok. Accordo fatto’- sentenziò l’uomo.
La afferrò e la fece inginocchiare sul tappeto al centro della stanza. Le si sistemò sopra e le liberò le caviglie, ma solo per bloccarle nuovamente con degli oggetti metallici. Daniela riconobbe il suono e il contatto delle manette che aveva portato nel viaggio verso casa. L’uomo prese le altre manette, incrociò le cortissime catenelle tra loro e chiuse il secondo paio intorno ai polsi di Daniela, lasciandoli sempre dietro la schiena.
La donna si ritrovò inarcata all’indietro, le dita delle mani a sfiorare i talloni. Era una posizione terribile: una specie di incaprettamento. Fu distesa sul tappeto e le fu tolta la benda. Non appena riuscì a mettere a fuoco i dettagli intorno a lei vide le scarpe del suo rapitore davanti al suo viso. Anche girando la testa non riusciva a guardare più in alto delle ginocchia di lui. Era immobilizzata!
Lui le sventolò un oggetto davanti agli occhi.
-‘Questa chiave apre le manette che ti legano.’- così dicendo fece cadere la chiave sul tappeto a poca distanza dal mento di lei. ”hai mezz’ora esatta da ora per liberarti completamente: mani e piedi. Se ci riesci, ti lascerò andare. Se non riesci, dovrai essere la mia schiava e tutto quello che vorrò farti, te lo farò e dovrai dimostrarti felice di soddisfarmi. Chiaro?’-
Non sembrava una cosa così impossibile. Voleva crederci. Mezz’ora non era tanto tempo, ma nemmeno pochissimo. Forse quell’uomo pensava che lei fosse una signora imbranata di mezza età. Se così era, aveva fatto male i suoi calcoli.
-‘Chiaro?!?’- ripeté lui prendendole il mento tra le mani.
-‘Sì”- rispose ”ma poi chi mi garantirà che tu manterrai la tua parola?’-
-‘Nessuno, ovviamente. Dovrai fidarti di me. Ma se fossi stato qui per stuprarti o per derubarti, avrei già fatto entrambe le cose e me ne sarei andato, magari lasciandoti in condizioni molto peggiori di quelle in cui ti trovi ora.’-
Non aveva senso in effetti. Quell’uomo era strano. Non era chiaramente un bruto e nemmeno un ladro o criminale comune. Daniela non riusciva a decifrarlo. Ma era pur sempre in totale balìa di questa persona e non riuscire a comprenderla non migliorava le cose. Decise comunque di assecondarlo. Sarebbe sicuramente riuscita a liberarsi nel tempo concessole.
-‘Posso cominciare?’- chiese infine.
-‘Oh certamente, ‘- fece lui con un sorriso mefistofelico ”hai già sprecato 30 secondi! E ricorda che devi liberarti sia i polsi che le caviglie.’- e così dicendo le mostrò un cronometro che reggeva e che segnava poco più di 29 minuti rimanenti. In rapida diminuzione.
Daniela iniziò a dimenarsi alzando ritmicamente le spalle e le ginocchia come uno strano cavallo a dondolo. I polsi e le caviglie tiravano terribilmente Sbattendo alternativamente il seno e le cosce sul tappeto riuscì a ruotare di 90 gradi. Ora, secondo i suoi calcoli, la chiave doveva essere sul suo lato destro, più o meno all’altezza del sedere. Ruotò la testa il più possibile, aveva la visuale parzialmente coperta dalla sua stessa spalla, ma le pareva di essere nella posizione voluta.
‘Forza Dany!’ pensò ‘Ce la puoi fare!’
Cercò di allungare la mano per arrivare a toccare la chiave, ma i polsi e le caviglie erano troppo vicini e lei non era così snodata. Dopo alcuni tentativi e con i polsi molto doloranti, decise di cambiare tattica.
Si mise ad ondeggiare a destra e poi a sinistra nel tentativo di rovesciarsi su un fianco.
Era decisamente faticoso.
‘Non devo forzare troppo con i polsi, o perderò sensibilità nelle dita.’ Rifletté.
Dopo qualche minuto e dopo numerosi sforzi riuscì a mettersi su un fianco. Iniziò a tastare freneticamente il tappeto. Dove cazzo era finita quella chiave di merda? Iniziava a spazientirsi e nel contempo a essere meno fiduciosa di farcela.
La chiave doveva essere finita sotto il suo fianco, più o meno all’altezza del sedere. Provò a spostarsi un po’ di lato. Era sempre una fatica immensa anche fare pochi centimetri. Aveva la fronte, e non solo, imperlata di sudore.
‘Se non altro ora non ho più freddo.’
D’un tratto il polpastrello del dito medio toccò un piccolo oggetto metallico. Subito Daniela si inarcò per cercare di raggiungerlo e afferrarlo con le dita.
Ci riuscì: ora la chiave era ‘saldamente’ stretta tra il suo dito medio e l’indice.
‘E’ fatta! E’ fatta!’ ora doveva semplicemente infilare la chiave nella serratura e girarla.
Si accorse di avere le dita sudate.
‘Ho no! Non mi deve scivolare a nessun costo!’
Si girò verso il cronometro. Era in ansia e voleva sapere quanto tempo le restava.
19 minuti.
Ce ne aveva messo di tempo a recuperare quella chiave, ma aveva ancora un buon margine. Era ancora tutto possibile.
Nel compiere il movimento per riuscire a vedere il cronometro però si era inavvertitamente sbilanciata verso il petto e la pancia e quindi, lentamente, con terrore, si sentì scivolare nuovamente a pancia in giù.
-‘No!’- gridò mentre il suo corpo cedeva alla forza di gravità, incurante del fatto che lei cercasse con tutte le sue forze ci controbilanciarla.
Cadde di nuovo distesa sulla pancia. Il seno schiacciato contro il tappeto, le ginocchia piegate al massimo e i polsi che le dolevano come se le manette avessero inciso la carne. Il mento andò a sbattere sul tappeto facendole cozzare i denti gli uni contro gli altri. I suoi bei boccoli dorati erano tutti impiastricciati sulla fronte. Ora era completamente sudata, ma la chiave rimaneva ben stretta nel pugno destro.
Iniziò a cercare la serratura con la chiave. Non sarebbe stato facile infilarla. Era sopra o sotto? A destra o a sinistra del blocchetto della manetta? Tastò con le dita, le sembrò di sentire qualcosa. Doveva essere la serratura. Provò a infilare la chiave, ma non entrò. Riprovò di nuovo. Niente.
Dopo una decina di tentativi senza risultato decise di cambiare tattica. Provò prima con le caviglie.
Forse sarebbe stato più semplice.
Tornò a guardare il cronometro: 13 minuti. Più della metà del tempo se ne era andata.
Gemette disperata.
-‘Non mollare, non stai andando male.’- la incoraggiò il suo rapitore.
Daniela riprese i suoi sforzi senza rispondere. Era chiaro che si faceva beffe di lei.
‘Ci devo riuscire!’
Riprovò a cercare la serratura con le dita.
Era madida di sudore, sentiva il metallo scivolare tra i polpastrelli che le sembravano sempre meno sensibili. Avvertiva come un leggero formicolio alle mani. Aveva i minuti contati. In tutti i sensi.
Afferrò con le dita della mano sinistra il tacco di una scarpa in modo da poter avvicinare i piedi, forzando un po’ le ginocchia, ma alleggerendo la pressione del metallo sui polsi. Con una mano sola era un po’ più complicato ma almeno non le facevano più male polsi e caviglie.
Riprovò di nuovo. Fu al secondo o terzo tentativo che avvenne il miracolo: la chiave entrò nella serratura. Con delicatezza Daniela iniziò a farla girare a destra e sinistra. Apparentemente non successe nulla.
Forse doveva girare la chiave e contemporaneamente aprire la manetta. Improvvisamente il sudore le fece perdere la presa delle dita sul tacco, le gambe scattarono verso l’alto subito bloccate dalle manette.
-‘Ahi!’- gridò Daniela. Lo strattone le aveva di nuovo fatto battere il ferro sui polsi già provati.
In compenso lo strattone aveva aperto la manetta e ora una caviglia era libera!
Ma la chiave?
L’apertura improvvisa le aveva fatto perdere la presa e la chiave per il contraccolpo era finita sul tappeto. Ma ora lei non era più bloccata in quella posa da incaprettamento. Si avventò sulla chiave ignorando la spossatezza. Un occhio velocissimo al cronometro: circa 4 minuti. Era dura ma non impossibile.
Si sedette praticamente sopra la chiave e la afferrò. Effettivamente liberare i polsi era più complicato delle caviglie. Fallì tre-quattro tentativi.
-‘Ah, se solo avessi altri 5 minuti!’- esclamò.
L’uomo si alzò e fermò il cronometro. Daniela lo guardò con fare interrogativo.
-‘Vuoi altri 5 minuti?’- chiese
-‘Me li daresti?’- chiese a sua volta lei ansimante con gli occhi velati di sudore.
-‘Te li posso dare ad una condizione: ad un aiuto va data una piccola contromisura. Ti do più tempo ma ti inserisco un elemento di distrazione.’-
Merda’
-‘E sia.’- Disse lei senza valutare cosa potesse essere la distrazione.
Lui le tolse la chiave dalle mani, regolò il cronometro su 7 minuti e 5 secondi, poi frugò nella borsa e prese 2 cose. Una era una palla di gomma rossa, con un laccio nero e una fibbia.
-‘Apri la bocca. Aprila più che puoi’-
-‘Non vorrai veramente’.’-
-‘Apri! ..o niente aiuto.’-
Daniela aprì le labbra. Pochi istanti dopo i suoi denti stringevano una palla di gomma dura che era fissata dietro la nuca con un nastro nero e una fibbia. Era scomodissima e ora che aveva il fiato corto, le rendeva anche più difficile respirare.
Ma non era finita.
Dal maledetto borsone uscì anche un aggeggio’ una specie di microfono. Daniela sapeva cos’era: lo si usava per i massaggi, ma era anche molto efficace come stimolatore delle parti intime e del clitoride in particolare.
-‘Ngghh!’- borbottò nella pallina impietosa.
-‘Via!’- disse l’uomo riazionando il cronometro e rimettendo la chiave tra le dita della donna.
Daniela era seduta sul tappeto, le sue dita frugavano freneticamente le manette mentre il sudore le offuscava la vista e sul seno sentiva un filo di bava colarle da quel bavaglio orrendo.
All’improvviso una mano di lui le sfiorò un seno. Ebbe un brivido.
La mano indugiò un po’ e poi si avvicinò al capezzolo sfiorando la pelle del seno. Poi trovò quello che cercava e, molto delicatamente iniziò a sfiorarlo. Lui soffiò e il capezzolo fu investito da un rivolo d’aria fresca. In effetti Daniela era in un lago di sudore.
Ma non si fece distrarre. Le dita, anche se meno freneticamente provavano e riprovavano il gioco di incastri tra la chiave e la serratura.
Poi, improvvisamente, quel maledetto arnese si insinuò tra le sue cosce. Se lo ritrovò premuto contro le grandi labbra.
‘Ci vorrà ben altro.’ Pensò lei.
Un’altra occhiata al cronometro. 3 minuti e mezzo.
Poi il vibratore si accese.
Daniela sgranò gli occhi.
-‘Uuuugghh! Uhhh!’- mugolò mordendo la pallina.
Era tremendo!
Cercò di serrare le gambe, ma lui non glielo consentì, anzi, sorrise e iniziò a muoverlo ritmicamente, in modo da stimolare tutta la zona, ma senza mai abbandonare il clitoride.
La chiave le sfuggì dalle dita.
Doveva riprenderla.
2 minuti e 15 secondi.
-‘Mmpphh!!’-
-‘Non dirmi che non ti piace’-
-‘Mmpf”’-
1 minuto e 40 secondi
Le dita frugarono il tappeto in cerca della chiave, ma erano veramente troppo lente. Il cervello non era più con loro, era da tutt’altra parte.
Il cronometro emise un suono. Era il suono della resa.
Daniela quasi non lo sentì. -‘Sei’un’maledetto’figlio di puttana!’- ansimò Daniela seduta sul tappeto del suo soggiorno.
L’odiosa pallina di gomma era stata levata dalla sua bocca, incisa dai segni dei denti che la stringevano senza controllo. Il vibratore era stato spento. Se non fosse successo probabilmente avrebbe avuto un orgasmo. La cosa era incredibilmente imbarazzante quanto innegabile. Come se non bastasse, a tutto questo si aggiungeva la frustrazione di non aver raggiunto l’orgasmo a causa dello spegnimento improvviso di quell’arnese maledetto proprio quando ormai tutto il suo corpo e la sua mente erano pronti ad accoglierlo. Era inconcepibile che non fosse riuscita a ignorare quella vampata di lussuria che la aveva tormentata negli ultimi fatali momenti della sfida con il suo rapitore. Ma era successo.
-‘Dì la verità: hai sempre saputo che non sarei mai riuscita a liberarmi, vero?’-
-‘Non è facile come nei film’- esordì lui ”anche se ad un certo punto pensavo ce l’avresti fatta. Vedo che ti mantieni parecchio in forma. Bene. Sarà ancora meglio del previsto.’-
Un brivido le corse lungo la schiena sudata. ”Cosa mi farai?!’-
Un istante dopo la pallina di gomma aveva ripreso posto nella sua bocca tra i mugolii di disapprovazione e si trovò sdraiata sul pavimento con l’uomo sopra di lei, mentre le mani di lui percorrevano lentamente il suo corpo studiandone ogni centimetro con le dita.
-‘Ora sei mia, ricordi? Tutto quello che c’è qui ora è mio, come te. E tu godrai nell’essere mia proprietà. Sarai tutto quello che io vorrò che tu sia. Il mio giocattolo, il mio cesso, la mia troia. Capito?’-
-‘Nnghhg”- protestò inutilmente Daniela.
Non era una troia, non lo sarebbe mai stata. Poteva dire ciò che voleva, poteva violentarla, ma non poteva pensare di conquistarle la mente e fare in modo che si sottomettesse spontaneamente. Non la conosceva affatto così bene come pensava.
Mentre lei faceva opera di autoconvincimento e cercava di trovare una sempre più difficile via d’uscita, il suo assalitore si era tolto la camicia e si era sdraiato di fianco a lei, continuando a ispezionare ogni lembo di pelle del suo corpo. Era un uomo di bell’aspetto, tonico e ben proporzionato. Aveva i modi di una persona colta, anche se sapeva essere estremamente minaccioso. Non era di certo il tipo di persona che si immagina di trovarsi davanti in queste situazioni.
E purtroppo stava dimostrando di saperci fare con le mani e con le dita. Sapeva sfiorare i suoi punti più sensibili e toccare parti del suo corpo che reagivano in maniera amplificata, incitati dalla paradossale situazione che di minuto in minuto prendeva pieghe sempre più impreviste senza che mai si abbassasse quella tensione che acuiva tutte sue le sensazioni.
L’esperienza vissuta pochi minuti prima l’aveva resa meno sicura nelle sue convinzioni. Era palese che aveva provato piacere. Aveva goduto. Sicuramente se ne era accorto anche lui.
Gemette. Le cose stavano prendendo una piega sempre peggiore.
Non doveva cedere a quella vocina infernale che piano piano si faceva sempre più audace dentro di lei.
Quando le sue dita arrivarono in prossimità del suo pube e si infilarono tra le cosce strette, il corpo di lei di irrigidì e si inarcò leggermente all’indietro.
Mentre una mano ispezionava in modo tragicamente garbato le sue parti più intime, l’altra, con l’indice le accarezzava la bocca che, stringendo la diabolica palla di gomma, lasciava sfuggire un leggero filo di saliva, che lui, con delicatezza spargeva con il polpastrello sulle labbra inumidendole leggermente.
Lei lo fissava sgomenta, gli occhi sbarrati, terrorizzata dalla possibilità che il suo corpo si ribellasse al suo volere e si abbandonasse alle moine di quel bastardo.
-‘Vedi, Daniela, che tu lo voglia o no, farai quello che dico, e sarai mia come non lo sei stata di nessuno. Credimi.-‘ le sussurrò fissandola con occhi severi ”Ora, questo potrà accadere in due modi. Puoi opporre tutta la resistenza che riesci, finirai con il soffrire di più e farti male. Non mi fermeranno le tue suppliche o il tuo dolore oppure, puoi cercare di lasciarti andare e scoprire quel lato di te che non hai mai voluto mostrare, nemmeno a te stessa, e forse trarre il massimo beneficio da questa tua nuova, scomoda, situazione.’-
Era pazzo. E lei era nelle mani di un pazzo.
Nonostante questa inconfutabile evidenza, la vocina e anche il suo corpo non trovano questa pazzia del suo persecutore così terribile, ma piuttosto terribilmente piacevole.
Il corpo di lei era ormai un fascio di nervi, nello sforzo di resistere al piacere che avrebbe potuto farsi strada. Lui le baciò un capezzolo e poi l’altro e poi di nuovo’
Daniela socchiuse gli occhi. La mano di lui abbandonò le sue gambe e quando sollevò le palpebre, quella stessa mano stringeva il vibratore a microfono.
‘Oh, no!’ si disperò lei.
Fu trascinata in camera, dove sul letto troneggiava ancora la valigia aperta e non completamente riempita. Molti indumenti e oggetti erano ancora accatastati sul letto in attesa di trovare la loro collocazione in valigia, mentre a poca distanza dal fianco del letto, le ante dell’armadio erano aperte mostrando parte del suo guardaroba. Fu adagiata proprio in quello spazio tra letto e armadio, sulla schiena, le furono tolte la scarpe e legate le caviglie ben strette tra loro. Un lembo della corda fu tirato fino al palo dove, all’interno dell’armadio, le grucce con i suoi abiti erano spettatori appesi silenziosi e poco interessati. Una volta fissata la corda, Daniela era costretta in una posizione estremamente esposta, coricata sulla schiena, i piedi a circa un metro sopra il suo viso, con le piante rivolte verso l’altro e le caviglie collegate al palo dell’armadio. I suoi buchi più reconditi erano finiti con l’essere rivolti verso l’alto, oscenamente esposti e indifesi.
Sentì la parte morbida e tondeggiante del vibratore premere contro le grandi labbra e il clitoride, lo sentiva che veniva mosso piano e ritimicamente, quasi a massaggiarle tutta quella zona.
‘Non riuscirà a farmelo piacere!’ pensò rabbiosa.
-‘Mmppggh!’- mugugnò quando il vibratore fu acceso.
Vibrava in modo tremendo! Cercò di piegare le gambe per scalciare, ma la corda glielo impedì. Riuscì a sollevare il sedere facendo perno con le caviglie legate sulla corda tesa tra i suoi piedi e l’asta nell’armadio, ma in questo modo l’unico risultato fu quello di sollevare il sedere rendendola ancora più esposta.
Contrasse ogni suo muscolo, contrasse le dita dei piedi e delle mani, affondò i denti nella pallina di gomma, si divincolò, ma il piacere si stava facendo inesorabilmente strada dentro di lei.
‘ No, no, no! Non così e non subito!’
Lui intanto assecondava i movimenti di lei che si contorceva spostando il bacino ora a destra, ora a sinistra, cercando di sfuggire a quella tortura dannatamente piacevole. Intanto muoveva sapientemente quel malefico attrezzo, aiutandosi e penetrandola con le dita.
Ormai il piacere non era più un timido bussare, ma una specie di ariete che cercava di entrare nella mente sempre meno risoluta di Daniela. Stava iniziando a godere. Le dita di lui ormai trovavano facilmente la via lubrificata e lei sentiva che le sue parti più intime iniziavano a pulsare al ritmo incalzante dei movimenti di lui. Daniela si contrasse allo spasmo e strizzò gli occhi nel disperato tentativo di resistere, ma sapeva benissimo che da lì a pochi momenti avrebbe raggiunto il più vergognoso orgasmo della sua vita.
Era prigioniera in casa sua, legata e umiliata in una posizione oscena, zittita con un bavaglio che sembrava più una museruola che la faceva sbavare e nonostante tutto questo stava per venire e avrebbe anche scommesso che sarebbe stato uno degli orgasmi più violenti che avesse mai avuto. Sarebbe voluta sprofondare.
Anzi, no, non voleva più quello.
A poco a poco il suo desiderio era confluito tutto nel piacere, quindi in realtà si sorprese a voler godere, a voler completare quel contatto con quel corpo e quell’aggeggio che la stavano stimolando così impunemente e violentemente.
Non voleva sprofondare, no. Voleva venire.
Il corpo teso come una corda di uno strumento musicale, produceva le note del suo piacere.
-‘Mgh’mgh..mmgghh!!’-
La vibrazione ormai si era tramessa al suo corpo. Ogni resistenza era vana. Decise di arrendersi e si preparò ad un orgasmo di incredibile, dirompente soddisfazione.
Poi, improvvisamente, tutto cessò.
Vibrazione, rumori, penetrazioni, contatti, stimolazioni.
Aprì gli occhi incredula, ansimante come un maratoneta che vede il traguardo e inizia a incespicare per poi fermarsi ad un passo dal trionfo. A quel punto, se l’atleta avesse potuto allungare la mano, sarebbe quasi riuscito a toccare la stoffa della fascia che anelava da chilometri, ma il traguardo e la gioia della vittoria gli sfuggono onesorabilmente.
Gli occhi di lui la osservavano, sicuri e beffardi. La guardavano dentro, non era il suo corpo nudo e ansimante, proteso verso il piacere, che vedevano ma stavano osservando la sua frustrazione che montava, la sua umiliazione che arrivava all’apice.
Sarebbero bastati pochi secondi. E lui lo sapeva bene.
Mugugnò di rabbia e frustrazione. Cercò di allungare le mani per artigliare quell’odiato attrezzo, ma era un tentativo platonico e senza alcuna velleità di riuscita.
Sempre senza dire una parola, azionò di nuovo l’interruttore. Il vibratore però era lontano da lei quel tanto da non sfiorare nemmeno la sua pelle. Sentire il rumore e sapendo che era così vicino, risvegliò l’appetito della sua vulva. Ormai non seguiva più nessun tipo di pensiero logico.
Lui le appoggiò la testina vibrante prima sulle piante dei piedi poi, molto lentamente, scivolò lungo i talloni stretti tra loro e sui polpacci, dietro le ginocchia e sulle cosce. Si muoveva con una lentezza esasperante, ma in direzione della sua fichetta che bramava quell’oggetto con tutte le sue forze. Con l’avvicinarsi quasi la sentiva pulsare nel pregustare l’estremo piacere che avrebbe provato. Arrivato tra le gambe, a pochi centimetri dall’obiettivo, la discesa si arrestò e la vibrazione rimase ad una distanza tale da essere percepita, ma non abbastanza da essere determinante.
‘Se continua così per molto, impazzirò.’ Pensò Daniela in un istante di disperata lucidità.
Con la mano che non reggeva il massaggiatore-vibratore, l’uomo prese un tubetto di unguento lubrificante e iniziò a spalmarlo tra le natiche di Daniela. L’operazione fu sempre eseguita con misurata lentezza e perizia. Poi, afferrato il più piccolo dei due dildi che erano stati rinvenuti nel cassetto della donna, lui iniziò a premerlo contro il suo secondo buco, anch’esso esposto di fatto quasi verso l’alto a causa della posizione oscena in cui le gambe di lei, sebbene unite tra loro, erano costrette.
Dopo un po’ di indugi, atti più che altro a rendere più efficace la lubrificazione, il fallo di lattice iniziò a penetrarla. Gemette, ma non era per il dolore, era piuttosto per la consapevolezza di aver salito un altro gradino sulla scala dell’umiliazione. Dall’altra parte, il vibro-massaggiatore continuava a tenerla in una tensione di spasmodica attesa di un piacere che era sempre sul punto di arrivare ma che a causa della distanza non si concretizzava.
Alla fine il dildo penetrò completamente. Daniela lo sentiva dentro di se’. E sentiva l’altro che si avvicinava di nuovo con le dita al suo pube.
-‘Se raggiugerai l’orgasmo, sarà la tua confessione. La confessione che essere mia schiava ti piace a tal punto da appagare i tuoi sensi fino all’orgasmo.’-
‘Cosa?’ Daniela non capiva.
-‘Questa è la tua cerimonia di inizializzazione a mia schiava. Se raggiugerai l’orgasmo ti metterò il collare e il guinzaglio e ti trasformerò in schiava e in cagna da compagnia.’
‘O mio dio, è proprio andato fuori di testa!’
Il vibratore e le dita ripresero dove si erano fermate poco prima e di nuovo Daniela sentì il piacere che montava.
‘No! Non devo venire! Non devo venire!’
Resistere era un’impresa impossibile. A poco a poco a poco sentì nuovamente la sua determinazione crollare lasciando spazio solo alla sua voglia di piacere.
Di nuovo il suo corpo si tese e iniziò a vibrare.
‘Sono veramente una troietta”’ una lacrima di vergogna le scese lungo il viso andando a perdersi sul pavimento. Ma il suo corpo non aveva attenzione per quello che succedeva sul suo viso ormai paonazzo. La respirazione affannosa e i fremiti davano chiare indicazioni su dove era indirizzata tutta la sua concentrazione.
-‘Mmgghh!!’- le dita delle mani e dei piedi si contrassero in una presa vacua e spasmodica.
E di nuovo fu il nulla.
Si sentì al massimo della frustrazione e dell’umiliazione.
-‘Ah, ma allora vuoi veramente essere la mia cagna da compagnia con collare e guinzaglio!’- la irrise con un falso tono di rimprovero.
‘Maledetto figlio di puttana. Bastardo pezzo di merda.’ Pensò Daniela, ma quello che uscì dalla sua bocca fu solo un rantolo poco convincente sotto tutti i punti di vista tranne che per la chiara constatazione di essere prostrata e succube oltre ogni dire del suo persecutore.
Si rese però conto, con assoluto sgomento, che voleva con tutte le sue forze che lui proseguisse, che la facesse godere, venire, che la possedesse e la facesse sua. Era terrorizzata da se stessa come e più dell’uomo che la teneva prigioniera.
-‘Allora? Continuo?’-
Lo fissò affranta, gli occhi spalancati e lucidi, il viso paonazzo, i boccoli dorati appiccicati sulla fronte e un filo di saliva che le scendeva vergognosamente da un angolo della bocca non appena inclinava un po’ il viso.
Con uno sguardo che raccontava la tragedia interiore che la stava spezzando, immerso in una colata informe di trucco e lacrime di vergogna, Daniela annuì.
C’era un che di demoniaco nell’espressione dell’uomo che la stava torturando in quel modo così particolare quando con violenza le spinse il cappuccio morbido e vibrante contro il clitoride e affondò dentro di lei le sue dita. Muoveva con dannata perizia quello strumento di piacere e con le dita le stimolava punti che a Daniela pareva non fossero mai stati così sensibili prima. L’essersi arresa aveva abbassato le ultime barriere inibitorie e in quel momento il piacere e la lussuria avevano fatto breccia e avevano occupato tutto il suo essere e i suoi pensieri. Stava godendo. Godendo come non ricordava le fosse mai capitato.
Avrebbe voluto vergognarsi, ma non c’era spazio per la vergogna in quel momento. Si era consegnata ad uno sconosciuto che si era impadronito dapprima del suo corpo e poi, pian piano stava facendo breccia nella sua mente. Sperava non fosse poi un malvagio come voleva sembrare, ma ora non riusciva a pensare ad altro che a godere, al resto avrebbe pensato dopo. Sempre se ci fosse stato un dopo.
Mentre medio e anulare ispezionavano e stimolavano senza tregua l’interno delle sue parti più intime, con le altre dita continuava a tenere premuto il vibro-massaggiatore contro il clitoride di lei, che ora sentiva stimolato da tutte le parti, sopra e sotto. Non aveva veramente mai provato una sensazione tanto forte e penetrante. Il piacere la stava letteralmente devastando, assurdamente amplificato dalla situazione pazzesca i cui era conscia di trovarsi.
Lui aveva preso da qualche parte un cellulare. Daniela non vedeva nemmeno tanto bene se fosse il suo o quello dell’uomo, con la vista annebbiata da sudore, lacrime ed eccitazione.
-‘Allora? Sei la mia troietta?’- le chiese rabbioso mentre le puntava contro la cam del telefono.
Lei rimase un attimo intontita.
-‘Sei la mia troietta o no? Devo quindi smettere di nuovo?’- incalzò mentre premeva e muoveva sempre più freneticamente le dita.
-‘Mggh”- Daniela inarcò la schiena sotto quel nuovo assalto. Contrasse i muscoli delle gambe e le dita dei piedi quando le vampate di godimento raggiunsero l’apice.
-‘Rispondi ORA o tra 2 secondi stacco tutto!’- il suo tono non ammetteva rifiuti.
-‘Uhg’mghf”- si affrettò ad annuire muovendo su e giù il capo mentre gli spasmi percorrevano il suo corpo ormai impossibili da controllare. L’eccitazione che provava era completamente padrona di lei. Ancora pochi secondi e sarebbe esplosa.
Fu proprio quello che accadde.
Daniela, perso ogni freno inibitore, sentì l’orgasmo arrivare incontenibile. E lo vide.
Lo vide uscire da lei e schiantarsi sullo specchio dell’anta dell’armadio dove vedeva anche riflesso il suo sedere e i suoi buchetti esposti come mai avrebbe pensato. L’orgasmo era stato un getto, violento e corposo, uscito con un rumore strano da lei e che ora imbrattava lo specchio.
Ora era certa di stare sognando.
‘Mi sveglierò da quest’incubo con le mutande allagate..’ pensò ansimante mentre cercava a fatica di respirare con quella pallina in bocca, sfiancata dall’orgasmo più clamoroso e appagante che avesse mai sognato.
-‘E brava la nostra signora imprenditrice’ che squirta come una vera sgualdrina ninfomante.’-
Mentre le parlava le mostrava le riprese fatte dal cellulare dove la si vedeva, in uno stato pietoso con quell’orrenda pallina tra i denti mentre annuiva ripetutamente e con convinzione dichiarandosi la troia del suo sfruttatore e poco dopo l’irreale parabola dei suoi umori che usciva dalla sua fica per andare a finire contro lo specchio a poca distanza dai suoi orifizi.
‘Squirtare? ‘esiste un termine per questa cosa? Non lo sapevo. Ma’ se non lo sapevo e lui me lo ha detto allora forse non è un sogno?’
Mentre confusa, cercava di non perdere il senno, vide l’uomo avvicinarsi. Teneva in mano un collare nero con delle borchie e un anello di metallo.
-‘Ti avevo avvisata.’- disse non senza una nota di trionfo nella voce.
Daniela era stremata e si lasciò mettere quello strumento simbolo di antiche schiavitù ormai formalmente estinte. Quando fu saldamente fissato intorno al collo di lei, le fu agganciata una catena all’anello di ferro.
-‘Ecco fatto, troietta. Collare e guinzaglio per la mia cagnetta.’-
Si tolse i pantaloni e si denudò completamente. Il suo membro era marmoreo, gonfio dell’eccitazione del momento.
Le tolse la pallina di bocca e tirandola per il guinzaglio e per i capelli, iniziò a schiaffeggiarla usando il suo cazzo durissimo. Nessuno l’aveva mai presa a schiaffi così’
Poi, all’improvviso lo avvicinò alle labbra di lei, ancora dischiuse a causa dell’effetto della permanenza prolungata della pallina in bocca.
-‘Fai un bel lavoro e ti prometto che ti farò godere ancora, e ancora. Molte volte, tutte le volte che vorrò vederti così: eccitata e vinta, consapevole di essere la mia troietta e la mia cagna. Ora succhiamelo come non hai mai fatto con nessun altro.’-
Daniela lo fece. Fece de suo meglio. Non sapeva a cosa era abituato quell’uomo, ma voleva avere almeno il potere di farlo godere come lui aveva fatto con lei.
Usò tutte le tecniche che le venivano in mente, miscelandole con la lussuria che questa l’aveva resa preda di quell’uomo in questa esperienza assurdamente eccitante. Lingua, labbra, il fervore con cui stava facendo quel pompino sorprese anche lei. Lui gradiva. La teneva con una mano dietro la testa, costringendola ad ingoiare il suo membro, e con un braccio dietro le ginocchia di lei, per tenere i corpi in contatto tra loro.
Anche lui raggiunse l’orgasmo con un grugnito liberatorio, le venne in bocca. Violentemete. Poi lo tirò fuori e le fece cadere delle gocce sulle guance e sulla fronte, come a firmare quel quadro di trucco distrutto che era ormai il viso di Daniela.
-‘Manda giù tutto.’- ordinò
E le rimise il ballgag.
Daniela fu costretta suo malgrado ad eseguire l’ordine mentre lui si era diretto verso il bagno, dove lei sentiva l’acqua scorrere. Si stava lavando. Lei invece era impiastricciata di sudore, di sperma, dei suoi stessi umori e non osava nemmeno guardare nello specchio la maschera che il trucco distrutto le aveva disegnato sul viso.
Era ancora legata saldamente con i piedi bloccati in alto e legati all’armadio. La bocca tappata dalla solita odiata palla di gomma.
E infatti non era riuscita a muoversi di un centimetro quando lui fece capolino dal bagno, lavato e rimesso a nuovo come se nulla fosse accaduto.
-‘Bene, aspettami qui.’- esordì sarcastico ”Io devo fare una commissione.’-
Si avvicinò e le mostrò il telefono con cui aveva fatto le riprese. Era il cellulare di Daniela. Ma non le stava mostrando un video come aveva fatto prima. Le stava mostrando una conversazione di whatsapp.
 Arianna: Ciaooo! Arrivo in aeroporto alle 19:10. Vieni a prendermi?
 Bentornata! Ho avuto un imprevisto al lavoro e farò un po’ tardi, ma mando un mio collaboratore a prenderti. E’ nuovo ma molto fidato, ti porterà a casa. Lo riconoscerai perché gli presto la mia auto. Si farà trovare all’uscita dell’aeroporto, fuori dai gate degli arrivi. A dopo!
 Ah, ok! Perfetto. Se gli presti la tua auto ti devi fidare davvero tanto! ;-) Ci vediamo a casa.
-‘Mmggghhh!!! Ummphhh!! Nnngghh!!’-
Daniela era come impazzita, con gli occhi fuori dalle orbite si dimenava sbattendo schiena, braccia e sedere sul pavimento, mentre con i piedi si divincolava facendo strage di abiti appesi nell’armadio a cui era legata.
No! Nooo! Nooo! Sua figlia! Sua figlia Arianna stava rientrando dalla Cina e doveva aver mandato quel messaggio a Francoforte, quando aveva fatto il cambio di aereo per la tratta verso l’Italia.
Lui lo aveva letto e le aveva risposto prima di imbarcarsi. Ora sarebbe finita nelle mani di quel figlio di puttana! Doveva impedirlo. A qualunque costo!
-‘Mi sa che non hai ben chiara la situazione.’- Le ruggì in faccia l’uomo mentre le teneva il mento stretto in una morsa infernale tra le sue dita.
-‘Tu sei mia. Sei la mia troia, la mia cagna e tutto quello che io vorrò tu sia. Hai presente la proprietà transitiva? Te la spiego io: tutto quello che è tuo, adesso è mio. Tutto quanto! Capisci, troietta?’-
Daniela lo guardava quasi senza vederlo. Paralizzata dal terrore.
-‘Tu adesso sei quella che si vede in questo video. Una troia pompinara con collare e guinzaglio che squirta come una fontana. E non rompermi troppo il cazzo, o quel video diventerà il link più cliccato di tutti i siti porno più famosi e magari lo postiamo anche su youtube.’-
‘Oh no, no, no’è finita! Non sono nella merda: sono morta! Ma morirò mille volte piuttosto di sapere la mia bambina tra le mani di questo pazzo criminale.’
Si sforzava di pensare, ma la lucidità le sfuggiva continuamente di mano, scacciata dalla paura e dall’ansia che le facevano uscire il cuore dal petto.
-‘Inutile che ti disperi, inutile che ti tormenti. Inutile pensare ad un modo per uscire da questa situazione. Non hai via di scampo. Ora vado a ricevere tua figlia in aeroporto, ma prima, visto che ti sei dimostrata tutto sommato abbastanza abile, mi occuperò di te e ti sistemerò per bene in modo che tu non possa fare nulla se non convincerti definitivamente che sei un piccolo giocattolo nelle mie mani e che le tue paure, le tue emozioni, quelle sensazioni che hai così violentemente vissuto oggi, sono solo la piccola punta dell’iceberg contro cui ti porterò a schiantare.’- L’interminabile volo partito dall’aeroporto Pu Dong aveva finalmente iniziato la discesa verso Francoforte.
Seduta vicino al finestrino della settima fila, Arianna era assorta mentre al di là del vetro si intravedevano le campagne del nord della Baviera e, in lontananza, le prime foreste della selvaggia Turingia. Era stato un volo passato tra pensieri, musica, letture e un paio di film guardati molto distrattamente.
Questo periodo trascorso a Shanghai le aveva scombussolato tutti i piani. La città l’aveva dapprima affascinata con la sua incredibile vitalità e i suoi aspri contrasti, ma poi, sotto quella patina aveva cominciato a scorgere una città dove forse non le sarebbe piaciuto così tanto vivere. Senza poi contare lo smog a cui non era mai riuscita ad abituarsi in quei mesi passati tra Puxi e Pudong.
Forse per questo era andata a cercare qualche italiano e forse per questo aveva poi incontrato lui. Patrick a dispetto del nome era italianissimo. Anche lui si trovava in Cina per lavoro e, anche se per periodi brevi e non continuativamente come Arianna, faceva spesso capolino tra gli strabilianti grattacieli del Pudong, il quartiere simbolo del progresso tecnologico e finanziario cinese a Shanghai. Era proprio il tipo di persona che ci voleva in quella situazione: carino, brillante, di compagnia, decisamente perfetto per sue le serate solitarie sulla riva dell’Huangpu. Aveva dieci anni più di lei, ma era giovanile e si manteneva in forma. Anche se si trovavano in Cina praticava parecchi sport e la aveva portata con se’ quando aveva organizzato partite di tennis, squash o persino di golf.
Insomma, tutto così perfetto che era scontato che sarebbe nata una relazione tra loro.
Meno scontato come questa relazione si era sviluppata. Dopo il primo approccio e le prime due uscite da soli, Patrick confessò ad Arianna che, prima che la loro relazione potesse diventare qualcosa di serio, doveva confidarle che aveva qualche piccolo segreto. Niente mogli o figli in Europa, no. Solo una’.schiava!
Ok, non glielo aveva detto i modo così crudo, ma quello era il succo del discorso.
In pratica Patrick era un Dom, o un Master, Arianna non aveva ancora colto bene la differenza e la nomenclatura usata da chi praticava il sesso in un certo modo la interessava relativamente. Di certo buona parte del fascino che esercitava lui dipendeva proprio da questa sua indole sicura e dominante ma non superba o brutale. Era un uomo con una certa cultura e lo si notava. Aveva stile. E, come detto sapeva essere brillante sia tra le persone che nell’intimità. In Italia aveva una ‘amica’ con cui si vedeva e con cui usciva. A quanto pareva era una relazione basata essenzialmente sull’amicizia e sul sesso, praticato in modo particolare.
Arianna si era già presa una mezza cotta e la cosa che più la turbò non erano tanto le strane pulsioni sessuali di Patrick che, al contrario, la affascinavano ulteriormente, ma il fatto che avesse già una compagna sebbene non ufficiale. Lui dovette capire che questo le dispiaceva più di tutto il resto, quindi le spiegò che la persona con cui si vedeva era solo un’amica e che in questo periodo stava cercando di instaurare una relazione più tradizionale con un’altra persona per cui i loro incontri si erano molto diradati e probabilmente, se tutto fosse andato per il verso giusto, da lì a poco sarebbero terminati del tutto perché lei avrebbe avuto la sua famiglia. Sarebbero probabilmente rimasti amici, ma solo platonici.
Questa storia dell’amicizia platonica tra ex trombamici, specie con la complicità che si creavano nella coppia con certe pratiche non convinceva tanto Arianna, ma decise di sorvolare. Era presto per mostrarsi gelosa.
Patrick le disse che anche a lui sarebbe piaciuto sistemarsi, ma che la sua futura compagna o moglie avrebbe dovuto condividere con lui la passione per le pratiche di dominazione e sottomissione.
Era un bel dazio da pagare, pensò subito Arianna. O forse no’
Si fece spiegare cosa intendeva e come erano quelle pratiche e lui, pian piano iniziò ad introdurla nel suo concetto di D/s, che non era di quello dove lo scopo è il dolore, ma il dominio e la sottomissione soprattutto a livello mentale. Le parlò di corde, di immobilità forzata e di stimoli a cui non ci si poteva opporre, le parlò anche di umiliazioni, anche se in forma strettamente privata e vissute più come una pratica sessuale che una consuetudine di coppia. Insomma: per lui la compagna era una persona di cui avere stima e rispetto, e se si metteva un collare o se la si costringeva a fare certe cose era per cercare di creare situazioni pazzesche dove l’imbarazzo e l’adrenalina amplificavano al massimo le sensazioni e il piacere.
Questa visione del bsdm e del rapporto D/s non era gradita ai puristi, che la volevano come vero e proprio stile di vita, ma a Patrick non sembrava importare molto di essere in linea con questa ortodossia e questo gli faceva guadagnare altri punti agli occhi di Arianna.
Ovviamente provarono. Erano anche nel posto giusto, visto che a Shanghai si trovava proprio ogni cosa potesse servire per quei giochi erotici, dai ballgag alle tute in latex.
Era stata una scoperta travolgente. Era vero che situazioni paradossali acuivano i sensi e il piacere. Arianna aveva raggiunto livelli di eccitazione impensabili e aveva ormai sperimentato con il suo nuovo compagno cose che mai avrebbe potuto immaginare. Ora era veramente invaghita di lui e, nell’intimità, era la sua schiava devota, il suo giocattolo sessuale, per il suo e anche il proprio piacere. Aveva iniziato a masturbarsi frequentemente e pensando sempre di essere nelle sue mani, a lui che la puniva per sue mancanze del tutto pretestuose, ma in modo assolutamente eccitante.
Spesso lui le proibiva di masturbarsi, e in quei frangenti la voglia di lui schizzava alle stelle. Ogni tanto era persino andata al lavoro con un piccolo plug infilato nel sedere.
-‘E’ come il collare.’- le aveva detto ”serve a ricordarti che sei mia ma, a differenza del collare, solo tu ed io sappiamo che c’è.’-
E lei lo sapeva eccome, specialmente quando si sedeva e lo sentiva muoversi e penetrarla un po’ di più. A volte le sue guance avvampavano, ma sperava che nessuno cogliesse il suo disagio. Le poteva capitare di sentire le sue parti più intime che si bagnavano al solo pensiero.
Di tutto questo a sua madre non aveva parlato. Un tempo erano state molto in confidenza, ma poi si erano un po’ allontanate e comunque non avrebbe mai trovato il coraggio di confessare certe cose a nessuno.
Sua madre in realtà sapeva che durante il periodo cinese si era vista qualche volta con un italiano ma Arianna si era sempre tenuta sul vago, come se non fosse una cosa importante. E ora non sapeva come dire a sua madre che aveva deciso di tornare definitivamente in Italia e di andare a convivere con un uomo che lei non aveva nemmeno mai visto. La vacanza a Santiago de Compostela era un buon momento, forse, per lasciarsi andare e dire a sua madre che pensava di avere trovato l’uomo della sua vita. Anche a lei avrebbe fatto bene riuscire a trovare una relazione che la tenesse lontana dall’ufficio. Sapeva che aveva preso l’abitudine di andarci anche durante il fine settimana. Sì, aveva proprio bisogno pure lei di un uomo che la distraesse dal suo lavoro. Tra qualche giorno, in viaggio per la Spagna, avrebbero avuto tutto il tempo per ritrovare la loro antica sintonia di madre e figlia.
Nella zona dell’aeroporto destinata ai passeggeri in transito si sistemò con il trolley su una fila di sedie e accese il cellulare per avvisare sua madre dell’orario di arrivo. Ovviamente lei stava lavorando, infatti le aveva scritto che aveva qualche problema in ufficio per cui avrebbe mandato un collaboratore a prenderla.
‘Che strano’ pensò Arianna ‘un collaboratore nuovo che non conosco’ potrebbe essere, visto che manco da qualche mese, ma che lavora la domenica come mia madre e a cui addirittura presta la sua preziosissima Audi? ‘vuoi vedere che forse anche lei mi deve raccontare qualcosa?’ Arianna sorrise pensando a sua madre che si invaghiva di qualcuno. No’ impossibile.
Il telefono suonò nuovamente:
Ciao! Ho deciso che vengo a prenderti io in aeroporto. Preparati ad un appuntamento di benvenuta.
Era Patrick. Vulcanico e destabilizzante come sempre.
Ciao.. Ma come faccio? Mia madre mi ha appena scritto che mi manda a prendere all’aeroporto.
Beh, se non viene lei avrà altro da fare, si vede. Trova una scusa e dalle buca. Dille che vi vedrete domani. Non vorrai andare in vacanza senza che ti abbia mostrato la mia casa, ora che sei in Italia, vero? Stanotte dormirai da me’.sempre che decida di farti dormire’
Sarò stordita dal jet lag. Mi sono sorbita 15 ore di aereo e sono ancora a Francoforte.
Su, su. Vedrai che rimedio portentoso al jet lag che ti farò provare. Ho deciso che appena uscirai dall’aeroporto inizierà il nostro gioco di stasera.
Uh-Oh! Devo spaventarmi?
Certamente! Come sempre.
‘ok! : )
Arianna era felicissima di passare la sua prima notte italiana con Patrick, ma allo stesso tempo si sentiva un po’ in colpa per non andare da sua madre. Non la vedeva da quasi due mesi, dall’ultima volta che lei aveva deciso di venire a Shanghai per passare qualche giorno di ferie e visitare la città adottiva di sua figlia.
Fortunatamente non si era incrociata con Patrick in quell’occasione. La serata a casa di Patrick cascava giusta giusta per poter togliere dalla valigia e lasciare a casa sua alcune cosette un po’ difficili da spiegare a sua madre, come la tuta di latex con corredo di collare e museruola di tipo muzzle. Sì, meglio passare prima da lui.
Decise di scrivere a sua madre per avvisarla.
Ciao! Mi hanno fatto una sorpresa degli amici. Mi vengono a prendere loro e mi faranno fare serata. Se non ti spiace ci vediamo domani.
‘Speriamo che se la beva.’ Pensò.
Quando fu l’ora di imbarcarsi, vide che sua madre non aveva ancora letto il messaggio, quindi pensò che era meglio chiamarla per spiegarle a voce che avrebbe passato fuori la notte.
Lei però non rispose. Il telefono squillava, ma a vuoto.
‘Forse è presa con il lavoro e non ha il telefono vicino.’ Fu la deduzione di Arianna che poi entrò nel gate in coda agli altri passeggeri.
Una volta atterrata in Italia e recuperati i bagagli, accese il telefono.
Sua madre non aveva ancora letto il messaggio.
Provò a chiamarla di nuovo. Niente.
Le scrisse di nuovo sulla chat
Volo tutto ok! Esco con gli amici. Chiamami quando leggi! Ciao e non lavorare troppo!
In realtà non era sicura che sarebbe stata in grado di rispondere, dipende da che fantasia voleva mettere in pratica Patrick, ma se glielo chiedeva, lui avrebbe capito e acconsentito a farla rispondere.
Uscita nella grande hall dell’aeroporto vide Patrick che la aspettava defilato dalla piccola folla che sempre si trova fuori dalle porte degli arrivi.
Gli si avvicinò sorridente e lui la salutò.
-‘Tutto bene il viaggio?’-
-‘Sì, un po’ stanca ma tutto ok.’-
-‘Stai per caso cercando di dirmi che ci dovrò andare leggero stasera?’-
-‘Esattamente. Tra l’altro non capisco perché mia madre non mi risponda.’-
-‘Non preoccuparti, da quello che mi hai detto sarà ancora in ufficio.’-
-‘Sì, molto probabile.’-
-‘Se ti chiama mentre sei tra le mie sgrinfie, vedremo di farti rispondere, non preoccuparti.’-
-‘Sì, meglio, grazie.’-
-‘E tu, sei pronta ad essere rapita?’-
-‘Cosaa??!’- finse di indignarsi Arianna.
Inscenare un rapimento era uno dei giochi che avevano fatto anche a Shanghai, correndo tra l’altro il rischio di essere scoperti e fare una figura tremenda, ma non era mai successo.
Certo, fingere un rapimento e finire nella tua camera d’albergo era una cosa, finire a casa di qualcuno senza sapere bene dove fosse, tutt’altro. Ma Arianna aveva imparato a fidarsi di quell’uomo.
-‘Faccio prima un ultimo tentativo con mia mamma.’-
Ricompose l’ultimo numero chiamato. Il telefono suonava libero.
Nessuna risposta.
-‘Niente, proprio non sta guardando il telefono.’- disse Arianna rimettendo in borsa il cellulare.
-‘Ok, ma ora zitta e cammina!’-
Il gioco era cominciato.
-‘Andiamo a casa tua? E’ lontano?’-
-‘Ho detto zitta e cammina! Preoccupati solo di fare quello che dico.’- era ormai entrato nel personaggio. Arianna si adeguò alla situazione.
Si avvicinarono alla macchina che era parcheggiata a poca distanza. Una station wagon nera con i vetri oscurati.
Le valigie vennero caricate nel baule e Arianna fu fatta salire sui sedili posteriori, dove i cristalli neri non consentivano di vedere nulla all’interno dell’abitacolo. Patrick aprì la valigia di Arianna e rovistò un po’ finché trovò quello che cercava, poi si sistemò al posto di guida.
Le fu ordinato di spogliarsi completamente e di gettare tutti i suoi vestiti sul sedile anteriore. Lo fece. Lui li raccolse e li ripose in un grosso sacchetto di carta.
Sul sedile a lato di dove era seduta Arianna c’era una scatola. Le fu ordinato di aprirla. Conteneva due coppie di manette.
-‘Ora usa le manette per bloccarti le caviglie.’- disse Patrick con voce imperiosa.
-‘Bene, ora usa questi! Sai come si fa.’- esclamò gettando sul sedile una benda di latex di quelle che con un’apertura per il naso, che restano aderenti al viso impedendo completamente di vedere e il gag di tipo muzzle che Arianna aveva portato da Shanghai. Si sistemò prima la benda, poi il bavaglio. Serviva una certa perizia per indossarlo. Era formato da un rettangolo di pelle nera con fissata una pallina di gomma che doveva riempire la cavità orale, mentre la pelle nera aderiva alla zona intorno alla bocca. Una serie di piccole cinghie fissavano il tutto dietro il collo, dietro la nuca e, girando intorno al naso e passando al centro della fronte e sopra la testa, una seconda serie di cinghie si collegava alle precedenti, lasciando la persona privata della vista e della possibilità di parlare.
-‘Ughm..’- protestò debolmente Arianna quando lui si sincerò che le cinghie fossero fissate bene.
-‘Ora le manette ai polsi. Dietro la schiena, naturalmente.’- Arianna eseguì anche questo.
Sempre stando al posto di guida, la aiutò a distendersi sui sedili posteriori.
Era immobilizzata, anzi, si era immobilizzata da sola! Nuda, sdraiata in un’auto dove nessuno poteva vederla.
Il motore si accese e l’auto partì.
E ora, oltre ad essere nuda, legata, bendata e imbavagliata, stava andando verso’ verso dove non sapeva. Non sapeva di preciso dove abitava Patrick. Ma si fidava ciecamente di lui. La situazione poteva sembrare spaventosa, ma lei la trovava più che altro spaventosamente eccitante.
Mentre guidava sporse una mano e le accarezzò leggermente una gamba. Quel contatto le fece venire la pelle d’oca tanto i suoi sensi si erano acuiti. La mano si infilò tra le gambe a verificare quello che già Arianna sapeva: la sua fichetta era già completamente presa dalla situazione e trasudava piacere pregustando quello che sarebbe successo dopo.
-‘E brava la mia vittima a cui piace tanto essere rapita’- la schernì lui ”vediamo se anche la versione italiana del rapimento è eccitante come quella cinese. Intanto, per distrarti lungo il viaggio, e per evitare che mi infradici i sedili con i tuoi umori, prenditi questo!’- e così dicendo iniziò a spingere nell’apertura già lubrificata dal piacere di Arianna la cappella di un fallo di lattice. Un fallo di dimensioni ragguardevoli da quello che poteva intuire lei.
-‘Uh..Ughh..’- mugolò tra la sorpresa, il leggero dolore e il piacere che subito dopo che si fu fatto strada le procurò quell’intrusione.
Lo infilò quasi completamente penetrandola a fondo.
-‘Stringilo bene tra le gambe. Se esce dovrò prendere provvedimenti spiacevoli. Hai capito?’-
-‘Ugghh’-
-‘Non sarà un viaggio lungo, ma in compenso la notte per te sarà molto, molto lunga. Te lo assicuro.’-
Arianna era un po’ spaventata. Come le capitava sempre quando faceva questi giochi con Patrick. Forse un po’ più spaventata del solito. Non sapere dove stava andando le metteva ansia e anche lui aveva un tono che le sembrava diverso dalle altre volte. O forse no, era sempre lui. Forse era solo lo stordimento di tante ore di aereo e il fuso orario che la confondevano un po’.

Daniela aveva perso la nozione del tempo.
Nel ripostiglio era buio e lei era letteralmente sfiancata dalla fatica. Quel ripostiglio lo conosceva bene, non le serviva la luce. Sugli scaffali intorno a lei erano riposte inguainate in sacchetti di stoffa e protette da scatole griffate, tutte le sue scarpe. Molte erano con tacco alto e molte erano costose. Uno dei vizi che aveva era quello degli acquisti compulsivi di scarpe, da Loubutin a Casadei, Da Jimmy Choo a Giuseppe Zanotti e Sergio Rossi. Poteva permetterselo e le comprava. Ora però avrebbe dato qualsiasi cosa per poterne indossare un paio e potersi riposare. Fosse stato anche un tacco 12 da supermercato, lo avrebbe pagato qualsiasi cifra.
L’uomo che l’aveva assalita, rapita e sequestrata nella sua stessa casa torturandola in tutti i modi, sia fisici che psicologici, l’aveva legata nello sgabuzzino custodia del suo vizio di comprare scarpe e per ironia della sorte era scalza. Scalza e in punta di piedi.
Quell’aguzzino aveva fissato un palo tra gli scaffali, più o meno all’altezza del suo inguine. Poi, mentre lei era immobilizzata, la aveva penetrata con un fallo di medie dimensioni che le era stato infilato nel culo, mentre il maledetto vibro-massaggiatore ora non era più a forma di microfono, ma aveva un cappuccio con una protuberanza fallica così da stimolare clitoride e interno della sua fichetta che ormai aveva raggiunto così tanti orgasmi che non era nemmeno riuscita a tenerne il conto.
Il bastardo l’aveva fatta mettere a cavalcioni di quel palo, che, premendo contro il pube e passandole tra le natiche nella parte bassa del sedere, spingeva dentro di lei quegli aggeggi fino a squartarla.
Unico gesto di pietà, quei falli erano stati cosparsi abbondantemente di una pomata lenitiva, per cui erano penetrati abbastanza agevolmente e la pomata stava lenendo un po’ il bruciore e gli arrossamenti che tutte le torture le avevano provocato.
Se appoggiava i talloni a terra, il sedere scendeva in basso e il palo premeva forte, spingendo dentro i due falli e azionando i pulsanti che comandavano la vibrazione. Se però Daniela rimaneva in punta di piedi, la pressione si allentava e i falli uscivano un po’, non penetrandola dolorosamente così a fondo. Anche la vibrazione, quando stava sulle punte dei piedi, cessava e le dava un po’ tregua.
Ma stare tanto tempo sulle punte era molto faticoso. Daniela si ricordava quando, da ragazzina, a danza la rimproveravano per non eseguire alla perfezione i movimenti sulle punte. ‘Devi tirare quelle punte!’ le dicevano. Ora ci stava provando con tutte le sue forze.
Anche le mani erano doloranti. I polsi legati dietro la schiena erano tenuti in alto da una corda che li collegava al montante più alto degli scaffali e la costringevano a stare piegata in avanti con le spalle per compensare. Le caviglie erano legate anche loro a dei montanti, in modo da tenere le gambe divaricate, con i piedi a poco meno di un metro tra loro. In questo modo, quando non riusciva più a restare sulle punte e abbassava i talloni, sentiva i buchi aprirsi ancora di più per accogliere i cazzi di lattice dentro di lei.
Anche la bocca era tappata, sempre con una pallina di gomma, ma anche questa con una piccola protuberanza fallica che le si infilava in bocca, impedendole di espellere la palla per quanto si fosse sforzata di farlo in tutti i modi.
In realtà anche se non fosse stata imbavagliata probabilmente non sarebbe riuscita a chiamare aiuto fino alla mattina di lunedì, quando gli impiegati dello studio di commercialisti che occupava la parte di pianerottolo di fronte alla sua porta fossero tornati al lavoro. In quel momento sia l’appartamento di fronte che quello sotto erano vuoti.
Si era dibattuta come una pazza cercando di liberarsi, ma i nodi erano stretti e per non correre rischi il suo rapitore aveva anche fissato le corde con delle fascette da elettricista, che rendevano del tutto impossibile sfilare le mani o riuscire a sciogliere i nodi. Tutti quegli sforzi ora li stava pagando duramente.
Ma non c’era stanchezza che potesse compensare l’ansia in cui quell’uomo l’aveva gettata quando le aveva fatto vedere sul cellulare la conversazione dove lui, fingendosi Daniela, aveva convinto sua figlia Arianna a salire in auto con lui. A prova che poteva fidarsi, sarebbe andato a prenderla con l’auto di Daniela, per cui probabilmente Arianna non avrebbe sospettato il rischio che stava correndo.
Il cellulare era su un ripiano poco lontano dalla sua testa. Nel buio poteva vedere il led che segnalava che c’erano messaggi non letti o chiamate non risposte.
Nei primi minuti aveva cercato di raggiungerlo in tutti i modi senza riuscirci. Era frustrante. Aveva una via di salvezza a pochi centimetri da lei ma era come se fosse a migliaia di chilometri.
Poteva solo leggerne il display quando si illuminava.
Aveva visto che Arianna aveva mandato un messaggio, ma non era riuscita a leggerlo per intero. Poi una chiamata, sempre da Arianna e poi più nulla. Probabilmente era in volo da Francoforte verso l’Italia. E stava cadendo nella trappola di quel mostro!
‘Se non riesco a fare qualcosa impazzisco!’ pensò disperata.
-‘Uughhh!.. Pgh!..’- niente da fare. Provò di nuovo a raggiungere il cellulare ma senza risultato.
Ormai era fradicia di sudore e di umori. In bocca ancora il sapore dello sperma e della violenza subita.
Il suono del messaggio echeggiò nello stanzino.
Subito Daniela si protese verso l’apparecchio cercando di sfruttare il fatto che il display si era illuminato. Fece in tempo a leggere parte della scritta. Diceva che il volo era andato bene.
‘Povera piccola mia! In che guaio ti ho cacciata!’ singhiozzò, producendo un semplice rumore soffocato.
Il telefono suonò di nuovo. Stavolta era una chiamata. Era di nuovo lei!
Daniela iniziò ad agitarsi e a mugolare cercando di trascinarsi vicino a quell’oggetto che poteva avvertire sua figlia del pericolo mortale che correva.
‘Rovescerò questi scaffali o mi staccherò un braccio ma riuscirò a rispondere!!’ pensò in preda alla disperazione più nera.
Ma gli scaffali erano ben fissati ai muri e le braccia al suo corpo, per cui rimase tutto com’era, compreso il telefono, che in compenso divenne di nuovo silenzioso.
Daniela stavolta cedette e si mise a singhiozzare. Penetrata e violata in ogni parte del corpo, della mente e degli affetti, si sentiva privata di tutto e abbandonata. Mai avrebbe pensato di passare dei momenti così atroci.
Nel frattempo il display del telefono cambiò luminosità. Questo attirò l’attenzione di Daniela che riuscì a leggere quasi per intero l’ultimo messaggio di sua figlia, messo in evidenza molto diligentemente dal suo iPhone. Diceva che sarebbe uscita con gli amici e che non sarebbe rientrata quella notte.
Forse si sarebbe salvata! I suoi amici l’avrebbero portata via e quel figlio di puttana non si sarebbe avvicinato. Ti prego! Ti prego! Ti prego! Fa che succeda proprio così. Che si salvi almeno lei! Ti prego!
Guardò l’orario. L’aereo era atterrato. Tra poco lui sarebbe tornato. Forse con sua figlia, o forse a mani vuote e in quel caso si sarebbe vendicato su di lei. Ma andava bene così.
Nel buio, nello sgabuzzino delle scarpe griffate, Daniela pianse. Pianse di gratitudine, ringraziando il destino qualora avesse salvato sua figlia da quell’inferno in cui lei era invece precipitata.
Stremata, abbassò lentamente i talloni per appoggiarli a terra. Al rilassamento di gambe e polpacci rispose la penetrazione impietosa dei suoi orifizi.
‘BrrZZzzZZZzzRR’
-‘Umphg!’-
La vibrazione riprese solerte. Era terribilmente potente e stimolante. Specialmente quel fallo infilato nella sua vagina mentre il massaggiatore le torturava irresistibilmente il clitoride.
Non ce la faceva più ad alzare di nuovo i talloni. Era troppo stanca. Era domata, vinta, senza più la forza di opporsi a quello che il suo torturatore le faceva e le avrebbe fatto al suo ritorno.
-‘Mmphh!’-
Inarcò la testa all’indietro e socchiuse le palpebre. Quel maledetto affare era di un’efficacia incredibile.
Non voleva raggiungere l’ennesimo orgasmo.
Ma quello che voleva lei non contava più nulla. Si dice che ci si abitua a tutto. Daniela pensava che non si sarebbe mai potuta abituare alla tortura a cui era sottoposta in quel momento. Eppure avrebbe voluto con tutta se stessa abituarsi così, stremata com’era forse avrebbe potuto addormentarsi.
Ma abituarsi a quella doppia profonda penetrazione e a quella violenta e incessante vibrazione era impossibile. Le gambe non la sorreggevano più e i polpacci erano così indolenziti come anche le dita dei piedi da aver perso sensibilità. Non sentiva più le dita delle mani, rese inutili dagli stretti nodi che le bloccavano i polsi in quella posizione così scomoda che la costringeva a stare reclinata in avanti con le spalle.
La pallina di gomma non riusciva più a contenere la saliva e Daniela sentiva un leggero filo di bava che doveva scendere verso il pavimento o contro il palo che si trovava a poca distanza dal suo viso, dopo essere passato tra le gambe, premendo contro il suo inguine e facendo sì che i falli di lattice la penetrassero così a fondo da squartarla.
Aveva rinunciato a sollevare il bacino per dare sollievo ai suoi buchi così martoriati. Non ce la faceva più se non per pochi secondi, e quando il sedere tornava a scendere, si pentiva ogni volta di averci provato.
Quanto tempo era passato? Ore? Non era più in grado di affermarlo. Il display del cellulare ormai era nero, essendosi probabilmente stancato di tutte le solerti notifiche senza risposta.
‘Probabilmente non tornerà più.’ Pensò Daniela. ‘Mi ritroverà Arianna quando rientra dalla nottata con gli amici, ma non arriverò mai a domani mattina in queste condizioni. Mi troverà qui, morta, grondante dei miei umori.’
La disperazione e la rassegnazione avevano raggiunto l’apice. I suoi ragionamenti si facevano sempre più confusi, mentre in quello sgabuzzino buio, le sue preziose scarpe griffate la guardavano scivolare lentamente verso la totale obnubilazione dei pensieri.
Era così stanca’.se solo avesse potuto dormire un po”
bbZZzZZ’
‘Maledetto vibro-massaggiatore. Avrei voluto scoprirti in un’occasione meno tragica, magari a piccole dosi, mentre invece mi stanno costringendo a questa overdose di orgasmi che mi ucciderà.
Sonno’. e sete’ e orgasmi’
‘bbZZzZZ’
Mai avrebbe pensato che qualcuno sarebbe riuscito a domarla, piegarla e spezzarla così. Non lei. La grande imprenditrice da copertina delle riviste dei piccoli industriali della provincia.
La luce la abbagliò, feroce e insopportabile.
Nel vano della porta che si era spalancato buio, era comparso un uomo. Quell’uomo. Il suo nuovo padrone. Padrone dei suoi orifizi, del suo corpo, del suo destino, e ormai anche della sua mente offuscata dalle torture.
Le puntava il fascio di luce sugli occhi, era tutto molto confuso, come in un sogno ad occhi aperti.
Sotto di lei vedeva il palo che l’aveva ridotta in quello stato. Un semplice palo fissato a dei semplici scaffali’
Sul pavimento vedeva la pozza di saliva e il legno sotto il suo viso che grondava, tappa intermedia su cui andava a schiantarsi tutto quello che le usciva dalle labbra socchiuse sulla pallina e dalla mandibola indolenzita.
L’uomo si scostò di lato, sempre illuminandola con il freddo fascio di luce bianca. Sul grande specchio alle sue spalle, fissato al muro del corridoio, comparve una persona, come fosse su un palco, illuminato dall’occhio di bue della scenografia. Era una persona, se così si poteva ancora definirla, ridotta in uno stato pietoso, molto peggio di quanto potessero essere i suoi peggiori pensieri.
Daniela, riconoscendosi a stento in quella tremenda immagine riflessa nello specchio, fu investita dalla consapevolezza di essere finita in un baratro da cui non si sarebbe più risollevata.
‘No’non posso essere io quella che vedo riflessa in quello specchio.’
Capelli, trucco, rimmel, lacrime e saliva costituivano un’unica maschera decadente che deturpava il bel viso che non riusciva nemmeno più ad intravedere, le palpebre, accecate dalla luce e dagli orgasmi, rimanevano socchiuse come a rifiutare quello spettacolo macabro. Le mani, in alto avevano un colorito rossastro dato dalla difficoltà di circolazione del sangue, mentre lungo le cosce, colava il frutto del lavoro del vibratore.
-‘Ti basta?’- furono le uniche parole pronunciate dopo minuti interminabili di silenzio.
Daniela non rispose. Non sapeva nemmeno più se riusciva a parlare. L’unica funzione che ricordava avesse mai avuto la sua bocca era stringere una pallina di gomma. C’era stato un periodo, pareva secoli fa, dove quella pallina aveva cercato con tutte le sue forze di sputarla, di addentarla e spaccarla. Ora, ormai faceva parte di lei.
-‘A me no.’- disse l’uomo in risposta alla sua stessa domanda.
Daniela cedette. Si accasciò completamente per quello che le consentivano le corde. La testa ciondolante e la resa incondizionata come risposta.
‘bbZZzZZ’
Il torturatore si allontanò, lasciandola al buio, sola e sconfitta. Lo sentì lontanamente, come rumori ovattati, rovistare in un’altra stanza.
‘bbZZzZZ’Click!
Sollevò la testa e lo vide, immobile, nel vano della porta, tra le dita teneva il cavo che alimentava il massaggiatore che con cui finora l’aveva stordita, nell’altra mano una bacinella vuota.
Si avvicinò al corpo inerte di Daniela e le mise la bacinella tra i piedi, poi si mise ad armeggiare con le corde che fissavano il palo agli scaffali.
Flop!
Un rumore ovattato, quasi liquido fu quello che fecero i falli sgusciando dai suoi tormentati orifizi, anestetizzati da quella pomata di cui erano stati abbondantemente cosparsi durante la penetrazione.
Immediatamente il suo corpo rilassò inconsciamente i muscoli e la bacinella si riempì di ogni cosa il suo corpo era in grado di espellere da quei buchi.
Daniela era prostrata e comunque inorridita da se stessa. Non aveva più il controllo delle sue parti più intime che, ignorando ogni sua volontà si liberavano dopo essere state così a lungo tappate.
Non c’era limite all’abisso di degrado e umiliazione in cui era precipitata.
Iniziò a singhiozzare e a piangere convulsamente.
L’aguzzino la prendette per i capelli sollevandole il viso, poi, con la mano libera, le slacciò la fibbia che le teneva premuta la palla di gomma tra i denti.
Anche da quella cavità uscì un fiotto di bava. Non riusciva a chiudere la bocca.
Il suo corpo non le rispondeva più.
-‘Meglio non esagerare. Non voglio rompere il mio giocattolo nuovo.’- sussurrò lui ”’almeno finchè non mi sarò stancato.’- aggiunse con un ghigno satanico.
Daniela comprese di essere completamente sottomessa, privata di ogni volontà e dignità quando si sorprese ad essere grata al suo assalitore per le assurdità che le aveva appena detto. Già una parte del suo cervello si lambiccava preparandosi a pensare a come soddisfarlo sempre in modo che non si stancasse mai di lei, del suo nuovo giocattolo di carne.
-‘..ti prego’acqua”- riuscì a biascicare con la mascella che era come fossilizzata.
Ora che la tortura sembrava finita, si reso conto di essere arsa dalla sete.
Fu adagiata a terra, le furono slegati i polsi e le caviglie. Poi l’uomo scomparve dalla sua visuale.
Era libera?! Nuda, sdraiata sul pavimento, dolorante e rintronata dalle torture come nel dormiveglia tormentato da incubi, Daniela non si mosse. Non riusciva a farlo e forse non voleva nemmeno a farlo. Non voleva fare più nulla.
Poco dopo l’uomo ricomparve. In mano teneva un bicchiere con dell’acqua. Sollevò Daniela fino a farla sedere, poi le avvicinò le labbra al bicchiere. Più di metà del contenuto non riuscì ad entrare nella sua bocca che era ancora praticamente paralizzata, e le scese ai lati, andandosi a perdere sul suo seno. Sentiva le gocce fresche scivolare lungo i seni per poi perdersi sulla pancia e sui fianchi.
Singhiozzò.
-‘Ormai sono un’invalida. Ho perso il controllo del mio corpo.’- mormorò a fatica tra le lacrime ”non riesco a controllarmi’ piscio, cago, sbavo e’ vengo a comando di altri.’-
Lui sorrise.
-‘E’ normale. Ma riacquisterai presto sensibilità e capacità di controllare queste cose.’-
Le prese il mento con una mano e la girò verso di se’. Il suo volto a pochi centimetri da quello di lei.
-‘Tutto questo finché io non vorrò farti perdere di nuovo il controllo di te stessa, perché, ormai hai capito, io ti comando e ti possiedo. Sei il mio giocattolo e la mia troietta.’-
Sgomenta, Daniela, spontaneamente annuì.
Lui la prese tra le sua braccia, la sollevò e la portò nella grande vasca da bagno nella stanza attigua. Aprì un getto di acqua tiepida e la lavò passando il suo corpo prima con la spugna, poi massaggiandolo con le mani e il sapone. Le lavò i capelli e il viso, le passò il balsamo e poi risciacquò tutto lentamente.
Daniela era spiazzata da questo suo cambiamento, ma troppo stanca per opporsi a qualsiasi cosa le venisse fatta.
Dopo essere stata avvolta nell’accappatoio, una volta che il corpo fu asciutto, la fece sdraiare sul letto e la cosparse di crema, massaggiandola delicatamente e sapientemente.
La stanchezza, senza più il contrasto dell’adrenalina, iniziò a prendere il sopravvento.
Ma i piani di quella strana persona non erano quelli.
-‘Non ti addormentare. Devi stare sveglia. Se ti addormenti ti rimetto nello stanzino.’-
Daniela si sforzò di obbedire. Non sarebbe uscita viva da una notte nelle condizioni in cui era stata fino a poco prima.
Lui prese un piccolo trolley e ci mese alcune delle scarpe del ripostiglio. Solo allora Daniela si accorse che la sua valigia era sparita.
Le fece calzare un decolté di Sergio Rossi, preso a caso. Un decolté bicolore nero e avorio che lei aveva messo pochissime volte perché lo trovava difficile da abbinare con quello che aveva nel guardaroba.
Stavolta fu abbinato ad un collare di cuoio nero con un anello al centro, unico altro indumento che le fu fatto indossare. Una catena fu agganciata all’anello in perfetto stile guinzaglio.
Daniela, un po’ frastornata dalla stanchezza, immaginava che lui si sarebbe divertito a farla camminare così per casa. Quando le applicò la benda di lattice nero sugli occhi, le tornò alla mente quello che era stata costretta a fare ore prima, in equilibrio precario. Si disse che ora, in queste condizioni, non sarebbe mai riuscita a rimanere in piedi.
-‘Ti prego’.cadrò’ stavolta non sono in grado di”-
-‘Sshh!!’- sibilò lui mettendole un dito sulle labbra.
-‘Parli solo quando te ne do il permesso, altrimenti dovrò farti mordere tutto il tempo il ball gag’-
Daniela rimase zitta, pur consapevole che non sarebbe riuscita a superare altre prove.
Sentì il freddo metallo delle manette cingerle i polsi, molto più delicato delle corde che glieli avevano resi insensibili poco prima. Percepì il fresco del metallo sulla pelle e il rumore delle rotelle della valigia che scorrevano sul pavimento. Il guinzaglio la strattonò in avanti e lei lo seguì meccanicamente, incapace di opporsi alla volontà di quello che avrebbe dovuto abituarsi a chiamare Padrone.
Fecero alcuni passi, poi sentì il terribile rumore della serratura della porta di ingresso.
Stavano uscendo? Lei era completamente nuda! E con collare e guinzaglio!
Si ritrasse istintivamente.
Per un attimo fu silenzio, poi di nuovo il rumore della catenella e il collare che la trascinava verso la porta.
-‘No, per favore, no”-
Ora non aveva più sonno.
Lo sentì rovistare e poi sentì premere contro i denti un oggetto di gomma. Strinse le labbra.
-‘No! Ti prego’non di nuovo’-
-‘Ti avevo avvertita. Se non obbedirai ci sarà sempre la punizione adeguata.’-
A Daniela solo il pensiero di spalancare ancora la bocca faceva male. Era tutta indolenzita e dolorane e riusciva a parlare solo a fatica.
Disperata, cieca, all’improvviso si inginocchiò davanti al suo rapitore e padrone.
-‘Ti scongiuro, perdonami. Tacerò per sempre se non mi darai più il permesso di parlare, ma ti prego, risparmiami di nuovo questa tortura ora.’-
Era sconvolta e sconcertata per quello che aveva appena fatto e detto. Non era più lei.
Anche l’altro doveva esserne rimasto colpito.
-‘Ok, ‘- sentenziò ”ricorda che la punizione per uno sgarro fatto dopo una concessione è dieci volte più dura’-
Daniela annuì non immaginando dove poteva arrivare questa demenziale scala delle punizioni.
Seguì il Padrone fuori dell’appartamento e quindi nell’ascensore.
Si fermarono a quello che doveva essere il piano interrato del garage. Daniela non aveva idea di quale ora fosse. Evidentemente l’uomo doveva aver fatto bene i suoi conti. Era chiaro che non era uno sprovveduto.
Nonostante questo, il rischio era alto e lei percepiva l’adrenalina nell’aria e immaginava il suo corpo nudo a guinzaglio di quel bruto in un luogo pubblico.
La porta dell’ascensore iniziò ad aprirsi lentamente e un rivolo d’aria fresca le accarezzò le curve del corpo. Era incredibilmente esposta e indifesa. Assolutamente priva di ogni controllo su quello che le veniva fatto.
Tra le labbra della sua fichetta, fece capolino un umido sentore di eccitazione.
‘Mio dio’. Cosa mi sta succedendo? Chi e cosa sono davvero? Non posso credere di essere eccitata.’
Le guance avvamparono e la sensazione umida tra le gambe crebbe.
Era sconvolta da se stessa.
I loro passi echeggiavano nel garage, scanditi dal rumore secco dei tacchi a spillo.
Sentì un’auto che si apriva con un comando a distanza. Una serratura che scattava. Il rumore di una portiera che si apriva e lei che veniva infilata nell’abitacolo e adagiata sui sedili posteriori. Sdraiata.
La porta si richiuse.
Poco dopo l’auto stava viaggiando trasportando Daniela verso un destino ignoto.
Tra le gambe, la sensazione di umido non era più un timido sentore, ma una clamorosa consapevolezza di non sapere più chi fosse, di avere scoperto un lato di se stessa che per tutta la vita non aveva mai sospettato esistesse.
Mentre tutta la sua vita veniva sconvolta e riscritta, in preda ad una stanchezza che le torture e le sensazioni così forti avevano amplificato, Daniela si addormentò esausta.

1
1

Leave a Reply