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Racconti Erotici Etero

La responsabile (capitolo 2)

By 13 Novembre 2025No Comments

II.

Da quel giorno le ore di lavoro erano velate dall’attesa del suo arrivo, dallo spasmodico desiderio di vederla comparire, di sentire all’improvviso i suoi tacchi emergere da brusio di fondo che immergeva perennemente quell’ufficio.
Quando passava da noi, non le staccavo gli occhi di dosso. M’alzavo, fingevo di cercare qualche documento, le passavo accanto contemplando il suo fisico snello, mentre stava china su una scrivania, di spalle, a parlare con qualche collega. I polpacci sodi avvolti nel nylon delle calze, i tendini a scivolarle nel tallone laccato delle scarpe, che fluivano a loro volta in tacchi affusolati.
Ma non era solo il suo corpo ad attrarmi: quella donna emanava un fare sensuale ma autorevole. Quando parlava, intuivi subito che aveva grandi capacità di gestione e controllo. Pareva che il ruolo di responsabile le fosse stato cucito addosso, che fosse per lei un’attitudine innata: il suo scopo naturale dal momento della nascita. Persino il modo in cui camminava, dritta e sicura, suggeriva doti di comando. Era l’unica che sapeva destreggiarsi fra quel caos con disinvoltura e fermezza. Pareva sempre sapere cosa fare, senza pensarci su più d’un fugace istante.
Questo traspariva quando la osservavo interfacciarsi con colleghi e superiori, ma quando parlava a me, tutto ciò si velava d’una morbida premura. Notai questa cosa fin dal primo giorno. Dapprima pensai che fosse perché ero appena arrivato e per questo mi trattasse con maggiore rigurardo, ma man mano che le settimane passavano, la cosa in un certo senso cominciava a infastidirmi. Quel tatto nei miei confronti mi faceva sentire inferiore agli altri, qualcuno da tutelare da quel trattamento troppo diretto. Mi sentivo trattato come un ragazzino. Era evidente che ai suoi occhi lo ero. E lo potevo pure sembrare stando all’anagrafe, ma certamente io non mi sentivo tale.
Se fra me e me mi rallegravo del non avere responsabilità alcuna in quell’ufficio, ma l’idea di non esser considerato all’altezza da quella donna tuttavia mi infastidiva.
Cominciai così a fantasticare sul modo in cui riscattarmi. . Ma bastava che incrociassi il mio riflesso in qualche finestra dell’ufficio per far affiorare la consapevolezza del rischio di sembrare ridicolo.
Quell’idea di rivalsa aleggiò nella mia mente per qualche tempo, per poi svanire; e col passare dei giorni mi rassegnai al mio ruolo. Certo aiutò il fatto che Zaira non venne nel nostro reparto per quasi un mese. Temendo che l’avessero trasferita, cercai persino di scoprire qualcosa in modo casuale e disinteressato, buttando lì l’argomento con un collega. A quanto pare, risultava ancora la nostra responabile, almeno sulla carta. Qualcuno disse d’averla vista proprio il giorno prima. Semplicemente me l’ero persa.

Poi una sera di straordinario, con l’ufficio deserto e semibuio, e il fosco plumbeo d’un cielo autunnale fuori dalle finestre, me la ritrovai nella saletta fotocopie.
Con in mano le pratiche da duplicare per un collega in malattia, mi bloccai sulla porta di quello stanzino percependo una figura nell’angolo della stanza in penombra. Mi ci volle mezzo secondo per riconoscere Zaira in quel corpo alto e sinuoso. Il suo profumo m’inondò le narici di colpo. Vedendo la mia ombra proiettata sullo scaffale al suo fianco, si volse con uno scatto spaventato. “Oh sei tu!” gli scappò con un riso di sollievo. “Cosa ci fa qui da solo in ufficio?” mi chiese subito, più incuriosita che indagatrice. “E allora lei?” risposi con fare ironico; ma non appena l’ultima parola uscì dalla mia bocca me ne pentii, credendo d’aver oltrepassato una soglia di confidenza non richiesta. In un istante sudai freddo, ma contrariamente a quel che temevo la donna mi sorrise, e tornò a guardare gli schedari.
Né io né lei avevamo risposto alla domanda.
Così allungai una mano ed accesi la luce della saletta, ma non appena i neon sfarfallarono lei mi disse secca: “No la tenga spenta”. A quell’intimazione feci nuovamente scattare l’interruttore e tutto ripiombò in ombre azzurre, ridelineando il rettangolo più chiaro della porta con la mia figura, proiettato sullo scaffale.
M’avvicinai allo scatolone nero della fotocopiatrice, con quel suo spiraglio luminoso e la spia azzurra. Alzai il coperchio e il fascio bianco si diffuse sulla parete davanti a me. Appoggiai al vetro il primo foglio e mi voltai per guardare Zaira con quella nuova luce. L’alone freddo le raggiungeva attenuato il viso, dipingendone il profilo e rigandole con un semicerchio netto i capelli scuri sotto l’orecchio: il brillare d’un’orecchino largo e tondo, che sbucava dalle ciocche nere. Evidentemente sentendosi osservata, si volse a guardarmi, per poi allontanarsi subito verso un altro scaffale: “La luce mi dà fastidio: è da stamattina che ho mal di testa”. Pareva stanca. Nonostante la solita apparenza, le sue movenze avevano qualcosa di meno rigido, più rilassato e molle. Sembrava persino più bassa. Notai allora che non portava le scarpe: i talloni scoperti, spogli dalle consuete calze di nylon. Le gambe nude. Un taglio baluginava sopra il suo piede destro: una cavigliera. Richiusi il coperchio della fotocopiatrice e tutto tornò inghiottito nell’oscurità. Premetti il pulsante azzurro ed un ronzio riempì la stanza, mentre la luce si spostava a scatti nella fessura della macchina. Un foglio venne sputato fuori nell’apposito vassoio: rettangolo lattescente dai contorni incerti. Per quanto gli occhi si fossero abituando a quell’ombra, mi chiedevo come la donna potesse riconoscere i vari fascicoli. Voltandomi, la ritrovai immobile, poggiata allo schedario aperto. Non stava cercando nulla.
“Tutto bene?”.
Mi guardò accennando un sorriso spento: “Sì sì. Ho solo bisogno d’un momento…” la frase restò sospesa. Osservai il suo viso. Vidi la sua espressione cambiare: i suoi occhi ora mi fissavano intensamente. Mi sentii trapassare. “Sa..” cominciò a dirmi, ma non continuò la frase. Cercando di distogliere lo sguardo, lo posai per un istante sui suoi seni: sfiorati dalla luce proveniente dalla porta, accennavano sul vestito due piccole ombre radenti. Erano i suoi capezzoli. Mi sentii il cazzo ingrossarsi. Alzai di scatto la testa: i suoi occhi erano ancora fissi su di me. La vidi aprire piano le labbra. Sussurrò: “Qui”. La sua mano accennò un movimento nella mia direzione, come a chiamarmi a sé. Come ipnotizzato, feci un passo nella sua direzione. Sollevò la mano, ed allungando il braccio, lentamente, mi prese delicatamente per la cravatta. Piano mi tirò a sé, ripetendo una seconda volta, con un filo di voce, ma con fermezza: “Qui”.
Ora le stavo davanti.
Con sguardo serio, fece scorrere tutta la mia cravatta nel suo palmo semichiuso, quindi alzò nuovamente la mano e me la posò su una spalla. Fece pressione, piano ma con decisione: “Giù”. Istintivamente guardai il pavimento, come per controllare se vi fosse qualcosa a terra; quindi m’abbassai, un poco traballante.
“..Ginocchio”.
Mi misi in ginocchio e la guardai, così, dal basso. Il cuore mi martellava in petto, ero un fascio di nervi: il torace rigido, il cazzo a eplodermi nelle mutande. Pendevo dalle sua labbra. In quel momento capii che cio che m’aveva infastidito non era tanto l’esser trattato come un ragazzino, ma il venir precluso dal suo trattamento autorevole.
Zaira mi guardava seria. Poi, nella penombra, le sue labbra accennarono un sorriso. Il suo palmo lasciò la mia spalla. Con entrambe le mani, alzò la minigonna, scoprendosi le cosce.
Lentamente.
Sempre di più.
Come un sipario, la stoffa disvelò un paio di mutandine di pizzo scure, probabilmente nere.
Due dita s’infilarono sotto il loro ricamo, e scostandole di lato, scoprirono una pelle glabra.
Capivo cosa dovevo fare, ma non avevo il coraggio di muovere un muscolo. Attendevo un suo cenno.
La vidi dischiudere un poco le gambe, per mostrarsi a me.
Dopo qualche interminabile secondo, ebbi l’ordine: “Lecca”.
M’accostai al suo sesso e protesi la lingua. Il mio naso sfiorava quel monte di venere liscio, mentre la punta della lingua raggiunse le sue labbra, bollenti. L’affondai piano fra queste, sentendole leggermente bagnate. Ne assaporai il gusto.
Era quasi dolce.
Venni richiamato subito al mio compito dalle sue dita, che si posarono sulla mia testa e mi spinsero tra quelle cosce. Premuto contro la sua fica, presi a leccarla a dovere.
Un ansimo sfuggì verso il soffitto dello stanzino. Alzando lo sguardo, la vidi ad occhi chiusi, in evidente godimento. Allora la succhia con forza, e lei cacciò un gridolino strozzato. Le sue dita affondarono nei miei capelli e mi sentii il naso ancor più schiacciato contro la sua pelle morbida. Percepivo, lieve e ruvida, un velo di ricrescita.
Più leccavo e più la sentivo bagnarsi. Il suo respiro si faceva sempre più profondo, lasciando via via posto a dei veri e propri gemiti.
Pian piano, cominciò a premere col bacino contro la mia bocca, tanto che venni sospinto indietro, finendo seduto sui miei talloni.
Tenendomi la testa, sollevò un poco una coscia, quasi a salirmi sul viso: il collo scomodamente piegato, le sue dita a stringermi i capelli, quasi boccheggiavo per la mancanza d’aria. “Sì.. sì… così…” prese a strusciarmisi addosso, irrorandomi naso e bocca dei suoi umori, sempre più copiosi. A quello sfregamento, io tenevo rigida la lingua il più possibile.
Poi, di colpo, mi tirò indietro la testa. Alzai lo sguardo: aveva il viso arrossato e il fiatone. Uno sprazzo di lucidità la attraverso, strappandola dal suo godimento fino alla soglia d’un ravvedimento: “Dio, potrei essere tua madre…!”. Buttandomi fra le sue cosce le ghermii la fica, per riportarla nell’abisso del piacere, concellandole ogni ombra di pentimento. Volevo farla godere. Volevo che mi volesse a leccargliela.
Ma in effetti aveva ragione: come scoprii in seguito, potevo essere suo figlio.
Ma in quel momento ero intento a succhiarle il clitoride e ad infilarle la lingua più a fondo che potevo.
Improvvisamente sentii la sua fica contrarsi, insieme alle dita strette/serrate alla mia testa. “Cazzo…!” la sentii sbottare. Le cosce tremarono, premute alle mie guance, e un breve fiotto caldo mi bagnò la bocca. “Dio…!” la sua voce strozzata si spense fra le pareti ormai buie.
L’ora s’era fatta tarda. Dalla porta aperta filtravano appena le luci dei lampioni e delle case, dalle finestre dell’ufficio.
Mi sfilai da sotto di lei. Mi sentivo il collo anchilosato. La lingua insensibile. Il palato avvolto dai suoi umori.
Come figura scura, Zaira mi sovrastava: le spalle abbandonate, il fiatone. Appena accennati, i cerchi chiari degli orecchini e gli occhi lucidi.
M’alzai, sentendo un leggero male alle ginocchia.
La mia responsabile d’uffcio stava dinnanzi a me, molle e svuotata, col vestito alzato e il pube scoperto.
Il mio cazzo, duro come una roccia, spingeva contro la patta dei pantaloni.
Per non accendere la luce, andai alla fotocopiatrice ed alzai il coperchio. La macchina ronzò e la stanza s’illuminò tutta di bianco.
Zaira mi guardò.
D’un tratto parve un’altra. Dal suo sguardo trapelava il panico, la realizzazione di non avere il controllo della situazione.
Si nascose il viso fra le mani: “Cos’ho fatto!”

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