Da tempo erano in corso i lavori per l’impianto degli aeròfoni. Lungo la costa e anche nell’interno. Tutto era condotto con la massima segretezza.
Si diceva, tentando di appagare la curiosità di chi notava il movimento di uomini e materiali, che si ampliava la rete radiofonica dell’EIAR, l’ente di stato.
Le aree interessate erano ben delimitate, sorvegliate e protette da reparti specializzati. Una volta terminate le installazioni, le rilevazioni sarebbero affluite al ‘Comando NAP’ che disponeva, come dice la sigla, di nuclei antiparacadutisti.
I componenti di tali unità ricevevano un particolare addestramento per la ricerca e la cattura di paracadutisti nemici.
Anche quando si é certi di un avvenuto ‘lancio’, non sempre é facile identificare un paracadutista nemico che, in genere, conosce abbastanza bene luoghi, dialetto e usanze della zona dove deve agire. Spesso é in borghese, anche se ciò gli fa perdere la qualifica di combattente e gli fa rischiare la pena di morte.
Alcuni, una volta raggiunto il suolo, seminano quelle che chiamano ‘booby traps’, ordigni esplosivi camuffati da oggetti innocui, come penne stilografiche, giocattoli e altro, destinati a trarre in inganno chi li rinviene e provocarne il ferimento, spesso la morte. Altro pericolo, la forma di difesa attiva di alcuni, specie se indossano giacche, impermeabili, pastrani. Portano alla cintola una rivoltella che, alzando le mani, lascia partire un colpo contro chi é di fronte.
Per l’incarico che dovevo svolgere, ero entrato in contatto con l’ingegnere che dirigeva i lavori, Roberto Ricci.
Era difficile poter stabilire la regione d’origine, lui, sorridendo, non aveva risposto alla mia domanda in proposito. Dal suo curriculum riservato, però, avevao appreso che aveva studiato anche in Inghilterra e negli Stati Uniti, e che in Italia era uno dei massimi esperti della materia. Di aspetto sportivo, simpatico, non molto ciarliero. Appena conosciuto non riuscii a capirne l’età, forse gli stessi anni di mio padre, intorno ai cinquanta. Aveva progettato e stava realizzando la rete aerofonica della zona. Era in paese da qualche tempo. Viveva in una villetta, piano terreno e primo piano, alla periferia del paese. Il suo ufficio operativo, però, era nella caserma, sorvegliato a vista giorno e notte da sentinelle armate.
Tecnici e operai, pur non indossando divisa, erano militari del Genio, gente di provata fedeltà e riservatezza.
L’ingegner Ricci si era fatto raggiungere dalla famiglia, e più volte mi aveva detto di andare ad alloggiare da lui, poiché erano più le stanze, nella villetta, che gli abitanti.
Aveva sposato una allieva conosciuta al Politecnico di Torino durante un ciclo di lezioni tenute in quella università.
Erano passati diversi anni, da allora.
* * *
Milena era al terzo anno, aveva superato brillantemente il biennio e affrontava con la solita determinazione il campo dell’elettrotecnica e della radiotecnica.
Non perdeva una parola di quello che diceva il docente. Prendeva appunti e si riservava di chiedergli delle spiegazioni, al più presto possibile perché il professore era solo ‘in prestito’, ed entro pochi giorni sarebbe tornato all’Istituto Superiore delle Telecomunicazioni, presso il quale conduceva ricerche e progettazioni.
Roberto s’era dichiarato disponibilissimo a fornire tutti i ragguagli possibili, e aveva detto agli studenti che, malgrado non fosse tanto vecchio, poteva benissimo trascurare le attrattive della bella Torino pur di essere loro utile.
Milena gli presentò un lungo elenco di domande.
Lui lo esaminò attentamente, e guardò lei con un sorriso scanzonato.
‘La prego, signorina, si segga. I suoi quesiti sono tutti molto interessanti e denotano il suo lodevole desiderio di sapere. Che anno frequenta?’
‘Il terzo, professore.’
‘Forse per comprendere bene le risposte alle sue domande servirebbe aver superato alcuni esami che dovrà affrontare in futuro. Inoltre, per approfondire il tutto dovremmo trascorrere insieme moltissime ore, più di quelle che mi restano ancora da passare in questa città.
Facciamo così, mi sottolinei due quesiti e mi lasci il foglietto. Torni domani alla stessa ora.’
Milena prese il foglietto, scelse due domande, le circondò con un segno della penna e restituì il tutto al professore.
Lui le tese la mano. Lei salutò, uscì.
Però, osservò tra sé la ragazza, molto gentile il Ricci. Da vicino appariva anche più giovane di quando era in cattedra. Chissà quanti anni aveva. Beato lui che era stato presso centri universitari specializzati in Inghilterra e in USA. Gli uomini hanno libertà che a una donna raramente sono concesse. Mio padre, poi, mi terrebbe sotto una campana di vetro. Per lui sono sempre una ragazzina, e il fatto che abbia quasi ventidue anni e sia maggiorenne non conta.
L’indomani furono puntualissimi entrambi.
Roberto l’accolse con cordiale cortesia.
‘Venga, signorina, le ho portato alcuni miei appunti che spero soddisfino le sue domande. Adesso devo incontrare il Preside della facoltà, ma non sarà una cosa lunga, se vuole può attendermi e, se da parte sua o… del suo ragazzo non vi sono ragioni ostative, potremmo andare a prendere un caffè, così ci toglieremmo da qui, staremmo più tranquilli e potrei spiegarle meglio i punti da approfondire.’
Mirella sorrise, ma anche arrossì un poco.
Non le era mai capitato che un professore l’invitasse a prendere un caffè.
‘Nessun impedimento di sorta, professore, e il mio ragazzo… lo devo ancora conoscere. Le dispiace se l’attendo al caffè di piazza San Carlo?’
‘Va benissimo, diciamo tra mezz’ora.’
* * *
Tutto era cominciato così.
Roberto, tra una spiegazione e l’altra, le chiese se non la infastidita essere vista al caffè con un vecchio professore.
Lei gli rispose che qualche anno in più non autorizzava una affermazione del genere, salvo che lui non lo facesse per farsi dire che era giovane.
‘Ma sa che lei è un bel tipo?’ -disse Roberto- ‘Sta scoprendo i miei punti deboli. In effetti cerco di nascondere di aver superato, ma da non molto, i quaranta…’
‘Io navigo verso i ventidue, professore, li compirò posdomani. Se lei è ancora a Torino potrei invitarla a una piccola festa, a casa mia. Pochissime persone.’
‘La ringrazio signorina…?’
‘Ah, è vero, professore, mi scusi, non mi sono presentata. Sono Milena Peroni.’
‘Figlia del professor Peroni, di Chimica?’
‘Ebbene si, professore, lui è mio padre. Lo conosce?’
‘Non personalmente, ma i suoi libri sono noti in tutto il mondo.’
‘Grazie, professore, allora l’aspetto? Così potrò chiederle ancora qualche ulteriore chiarimento. Adesso mi scusi, devo andare altrimenti a casa mi fanno storie. Allora, a posdomani, alle sei del pomeriggio. Ci conto.’
Si alzò, lo salutò e uscì quasi di corsa, dal caffè.
Non gli aveva dato l’indirizzo, ma lui lo avrebbe cercato sull’elenco telefonico.
* * *
Puntualità cronometrica, quella di Roberto.
Quando il taxi lo depose dinanzi alla casa di Milena, con un fascio di fiori per la signora e una grossa scatola di gianduiotti per la festeggiata, scoccavano le diciotto.
Edificio imponente, ingresso in marmo di Verona, ascensore al centro della scala.
Il portinaio si toccò il cappello.
‘Il professor Peroni è al secondo piano.’
Lo precedette aprendogli l’ascensore, entrò dopo di lui, rinchiuse cancello e porta, premette il bottone del secondo piano. Quando l’ascensore si fermò, aprì porta e cancello e si scostò per far uscire Roberto.
Busso al campanello d’ottone lucido.
Dopo qualche istante venne ad aprirgli una cameriera in cresta e grembiulino.
‘Prego, si accomodi.’
‘Sono Roberto Ricci.’
‘Si, il professor Ricci. E’ atteso’
Si aprì la porta di legno scuro che stava sul fondo del breve corridoio e ne uscì un signore elegantemente vestito di scuro che gli andò incontro.
‘Benvenuto, caro collega, sono Giovanni Peroni, Milena mi ha molto parlato di lei, e complimenti per le sue lezioni, per le sue pubblicazioni. Venga.’
Si voltò verso la porta dalla quale era uscito, e annunciò. ‘Clotilde, Milena, c’è il professor Ricci.’
Apparve una signora, non più giovanissima, ma ancor bella e attraente, che gli tese la mano, e Milena.
Roberto la pregò di accettare i fiori.
Clotilde li prese, li ammirò.
‘Grazie, sono bellissimi, ma non doveva disturbarsi.’
‘E’ un piacere, signora, e mi auguro che li gradisca.’
La donna dette i fiori alla cameriera.
‘Subito in un vaso, Rosetta, e nel salone.’
Roberto porse la scatola a Milena.
‘Per lei, signorina, qualche cioccolattino, spero le piacciano.
Milena scartò il pacchetto.
‘Uh! gianduiotti, la mia passione. Ma lei è un indovino, professore!’
‘Venga, caro collega, -disse Peroni- ‘c’è qualche amico. Pochissimi, sa. Siamo in famiglia. Milena riceverà domani le sue amiche.’
‘Professor Peroni’ -si schernì Roberto- ‘non mi chiami collega, io potrei, al massimo, essere un suo umile allievo.’
‘Ricci, di lei si parla un po’ dovunque, specie all’estero. Sono io ad essere onorato di poterla chiamare collega. Venga.’
Le solite presentazioni, qualche parola di convenienza.
Marco, il fratello, e Margherita, la sorella, erano più grandi di Milena. Lui medico, lei insegnante di lettere al liceo.
Tutto sommato una compagnia allegra e discreta.
Margherita chiese il silenzio, si abbassò la luce ed entrò Rosa con una grossa torta illuminata da ventidue candeline. La depose sul tavolo che era in un angolo della vasta sala. Milena prese per mano il padre e la madre, si avvicinò alla torta, soffiò forte, spense tutte le candeline in una sola volta.
Battimani e auguri da parte di tutti i presenti.
Milena baciò un po’ tutti. Quando giunse vicino a me si fermò.
‘Permette, professore?’
E lo baciò sulle guance.
Margherita aveva messo un disco sul grammofono. Un ballo moderno.
Milena andò verso il padre e ballò con lui.
Sempre danzando, si avvicinarono a Roberto.
‘Io sono troppo vecchio, caro Ricci, continui lei.’
Milena fu tra le braccia di Roberto.
* * *
Due giorni dopo Roberto ripartì.
La ragazza lo accompagnò alla stazione.
‘Chissà se e quando ci rivedremo, professore.’
‘Credo presto. Conto di tornare qui tra poco più di un mese e di trascorrere le vacanze di Natale a Torino.’
‘Verrà a trovarci?’
‘Spero di non disturbare.’
‘Anzi!’
Milena tornò a casa. Si mise a studiare, ma il libro era aperto sempre alla stessa pagina e i suoi occhi non distinguevano le parole.
Si alzò, andò nello studio del padre.
‘Ciao papà. Il professor Ricci mi ha incaricato di ringraziarti ancora per la serata trascorsa con noi e di salutarti. Mi ha detto che passerà a Torino per Natale.’
‘Quando l’hai incontrato, Milena?’
‘Sono andata alla stazione a salutarlo.’
‘Ah! Che ne dici di invitarlo a passare le feste con noi, se non ha altri impegni?’
‘Sai, papà, non credo che abbia altri impegni. Allora, lo invito?’
‘Devo farlo io, cara. Domani stesso gli scrivo.’
E così Roberto Ricci salutò il 1929 in casa Peroni e a mezzanotte precisa baciò Milena sotto il ramo di vischio.
L’anno successivo, Milena lasciò gli studi, a pochi esami dalla laurea, e sposò Roberto.
Mario nacque nel 1931.
Furono in Etiopia dal 1936 al 1938.
Adesso erano qui.
Roberto 54 anni, Milena 35, Mario poco più di 11.
Io, Piero, 23.
* * *
Quando Roberto mi disse di scambiarci il ‘tu’ mi sentii a disagio.
Con voce calma, suadente, mi rassicurò.
‘Vedi, Piero, io credo di avere più o meno l’età di tuo padre, e a lui, certo, non ti rivolgi dandogli del lei. E’ bello, per me, avere un giovanissimo amico. Del resto tu hai voluto che Mario ti desse del tu, anche se ha dodici anni meno di te. Allora?’
‘Grazie, ci proverò.’
‘Ti aspettiamo questa sera a cena.’
‘Grazie, ma non posso. A mensa c’è il Generale Sironi. Non posso mancare.’
‘Allora, dopo cena, a bere qualcosa e far quattro chiacchiere.’
‘D’accordo.’
* * *
Venne ad aprirmi Zor’a, una giovane del luogo sulla quale avevo fatto condurre accurati accertamenti per escludere che avesse contatti con elementi poco raccomandabili.
Mi indicò la porta a vetri.
‘I signori sono in soggiorno. Io e Mario giochiamo a dama, nel tinello.’
Mario, un simpatico ragazzone che dimostrava molto più della sua età, quando non era a scuola, dove era stato ammesso come uditore, passava tutto il suo tempo con Zor’a.
Entrai nel soggiorno. Roberto sfogliava il giornale, Milena chiuse il libro che stava leggendo e mi tese la mano.
‘Roberto mi ha detto che vi siete decisi a scambiarvi il tu. Era ora. Vi sentirete ancora più vicini, e Roberto non brontolerà più contro la formalità dei torinesi. Lo sa che lui e mio padre si danno del lei dopo tanti anni che si conoscono?’
Roberto piegò il giornale e lo mise sul tavolino basso, accanto a lui.
‘Caro Piero, il fuoco sta nelle viscere dell’Etna, a Catania, poi lo ritrovi nel Vesuvio, a Napoli e, con tutto il rispetto per te, intorno a Roma ci sono solo vulcani spenti, e a Torino, poi, non parliamone. Pianure nascoste dalla nebbia.’
Milena lo guardò sorridendo.
‘Lo sente, Roberto? Mio marito è della terra dl fuoco, come dice lui. Però… dillo Roberto… la tua temperatura corporea è mezzo grado inferiore alla mia. Puoi negarlo?’
‘Ma cara Milena, io parlo delle relazioni tra amici. Anche perché da noi di quello che passa nella coppia non si parla.’
Si volse verso la porta alla sua sinistra e chiamò:
‘Zor’a, per favore, qualcosa da bere.’
Milena si alzò.
‘Ci vado io, Roberto.’
Si avviò verso il tinello.
Milena non era molto alta, ma aveva un corpo statuario, perfetto, deliziosamente proporzionato. Mi faceva ricordare un giudizio del mio insegnante di storia dell’arte sulla Venere di Prassitele. Cose giuste al posto giusto, nulla che manchi nulla di superfluo. I capelli di Milena, castani, le incorniciavano e mettevano in risalto il volto regolare, simmetricissimo.
Si ha equilibrio armonico delle forme, diceva il professore, quando, nell’ammirarle, si ha l’impulso, quasi irrefrenabile, di toccarle, carezzarle, goderne il contatto.
L’equilibrio armonico delle forme di Milena era evidente e irresistibile.
Indossava sempre modelli semplici che esaltavano la sua bellezza, il suo fascino seducente. I suoi modi, pur eleganti e raffinati, non erano mai affettati o artificiosi, e riuscivano sempre ad attrarre l’interlocutore, a concentrare su lei l’attenzione di tutti.
Quando c’era Milena, le altre signore sembravano non esserci.
Ma non si dava arie, anzi cercava sempre di mettere gli altri a loro agio, cordiale e socievole.
Gli occhi scuri, a tratti lampeggiavano di luce improvvisa, come la lama luminosa d’un faro che fruga nel buio della notte.
A volte mi scrutava come a cercare di leggere qualcosa nel mio volto.
Avevo ballato con lei. Le punte del suo seno sembravano voler attraversare la stoffa della giubba.
Era bella, desiderabile, ma non avevo mai pensato a lei come a una possibile conquista. Forse la sentivo, oltre che moglie di Roberto, un po’ troppo avanti negli anni per me.
Dora mi prendeva in giro.
Diceva che ero un ‘gerontofilo’. Frequentavo la casa di Lenka e Anna, e quella dei Ricci, con Milena che mi poteva quasi essere madre. Ed esagerava per provocarmi.
Le spiegai che in effetti erano donne un po’ d’età, per me, ma che a ben guardarle si poteva anche comprendere che, tutto sommato, un… pensierino su di loro lo si poteva anche fare.
‘E secondo te, io starei a guardare?’
Diceva Dora pizzicando il mio braccio.
‘Lo sai, Piero, lo sai bene, che tu sei il mio solo uomo, il primo e voglio che sia l’unico. Ricordo come mi guardasti negli occhi, quella sera.’
Mentre il mio pensiero s’affollava di considerazioni e ricordi, Roberto si alzò e andò a chiudere tutte le porte.
‘Ho ricevuto un cifrato. Devo andare in altre zone per alcuni giorni. Non più di una settimana, credo. Ma non deve sapere nessuno dove sono diretto. All’aeroporto militare Is2 mi attende un aereo, e con quello farò il giro che mi è stato ordinato. L’aeroporto è raggiungibile solo con l’automobile, e potrei lasciarla li fino al ritorno, ma non voglio che l’auto manchi da qui così a lungo. Devono vederla, credere che io sia in paese. A Zor’a diremo che rimango sui lavori. Ho pensato, Piero, che potresti accompagnarmi tu e poi riportare l’auto dinanzi al villino, dove sta solitamente. Ti dispiace?’
‘A parte che non mi dispiace affatto, credo che sia un mio preciso dovere aiutarti nel tuo servizio. Quando partiresti?’
‘Domani pomeriggio. Verso le sedici, Così saresti di ritorno per l’ora di mensa. Ma potrai assentarti?’
‘Non credo che Marini abbia qualcosa in contrario.’
Milena guardò Roberto,
‘Posso venire anch’io?’
Roberto m’interrogò con lo sguardo. Io feci un impercettibile cenno affermativo.
Si rivolse alla moglie.
‘Certo, Milena. Domani alle quattro del pomeriggio.’
* * *
Dora era dinanzi al bar. Mi fece cenno di entrare e mi precedette.
‘Come mai così presto, Dorina. Una bella ragazza come te dovrebbe dormire fino a tardi. Riposando si conserva la bellezza.’
‘Devo parlarti, Piero.
Mi sono confessata e il prete ha detto che non dobbiamo farlo più. Io ho promesso… Piero, ma non so se riuscirò a mantenere la promessa…’
Mi guardava con gli occhi pieni di pianto.
‘Io ti voglio bene, Piero, non voglio perderti. Aiutami, dimmi cosa devo fare.’
‘E tu, tesoro, cosa vuoi fare?’
‘Non lo so, Piero, non lo so…’
‘Ma mi vuoi bene?’
‘Si, ti voglio bene, ma soprattutto ti amo. Non immaginavo che fosse così bello stare con te. Perché io voglio stare con te, solo con te. Da quella sera non penso che al momento che mi terrai tra le tue braccia, che mi cullerai, che mi bacerai, che mi farai sentire donna…’
‘Pensiamoci, Dorina, ma quando due si amano, si desiderano, vogliono sentirsi l’uno dell’altro.’
‘Vieni, questa sera, ho bisogno di parlare con te.’
‘Questa sera sono di servizio, non posso.’
‘Vieni, Piero, non lasciarmi sola. Non badare a quello che ho detto. Non devi pensarci, faremo l’amore, come vuoi tu… come desidero io. Io sono felice quando sono con te, quando mi carezzi, mi dici che sono la tua bambina. Io voglio essere la tua bambina, la tua donna, la tua amante. Tutto.’
Le presi una mano. Era fredda, tremante. Le baciai le punte delle dita.
‘Sono veramente occupato, Dora, non posso venire da te. Ci vedremo domani, e sarò felice anche se vorrai solo stare al mio fianco, la mano nella mano. Ti amo, tanto.’
Le sfiorai le labbra, con un bacio lieve. Mi avviai al Comando.
Una giornata laboriosa. Notizie da molti settori, a volte contrastanti. C’era molto nervosismo in giro: formazioni irregolari apparivano e scomparivano, si riunivano, si scioglievano, si spostavano, mutavano abbigliamento. Forse si stava preparando qualcosa di grosso.
Il pranzo fu consumato fuori orario, in fretta.
Le quattro del pomeriggio si avvicinavano rapidamente. Non riuscivo a sbrigarmi. Quando mancavano solo pochi minuti all’ora fissata con Ricci, entrò il Maggiore Marini.
‘Vada pure, Orsini, qui ci penso io. Ci vediamo domani, arrivederci.’
Lo guardai stupito. Non gli avevo detto niente, né avevo chiesto il permesso di allontanarmi.
Mi fissò senza parlare, girò sui tacchi e rientrò nel suo ufficio.
Scesi al magazzino e prelevai una tuta. Pregai di farne un pacchetto. Il maresciallo la mise in una specie di tascapane.
‘Credo sia meglio così, signor Tenente, sembra che portiate documenti militari.’
Ringraziai e mi avviai verso la casa dei Ricci.
L’auto, una Bianchi ultimo modello, era pronta.
Milena e Roberto erano nel soggiorno.
Zor’a mi fece entrare subito e chiese se volessi un caffè. Si, ne avevo bisogno.
Dissi a Roberto che ritenevo utile di indossare la tuta. Avrebbe celato la divisa, e forse era meglio così.
‘Si’ -disse Roberto- ‘credo anche io che sia meglio.’
Levai la tuta dalla borsa, la scossi per togliervi qualche arricciatura, la indossai rapidamente, chiudendola fino alla gola. Misi la bustina nella borsa.
Zor’a portò il caffè.
Quando le restituii la tazzina mormorò ‘sretan put’, buon viaggio, e tornò in cucina.
Salimmo in auto.
‘Forse è meglio che guidi io’ -dissi- ‘così, in tuta, sembrerò il meccanico. Tu e la signora potete accomodarvi sui sedili posteriori.’
‘Bene!’
Rispose Roberto. Aprì lo sportello per far salire la moglie, lui sedette dietro di me.
Partimmo.
La strada era completamente libera, incrociammo pochissime auto, una corriera e qualche carro.
Mantenevo una velocità moderata e costante.
‘Devo correre di più?’
‘No, va bene così.’
I coniugi Ricci sedevano alquanto rigidi, ognuno vicino allo sportello. In mezzo avevano posto la sacca con la mia bustina.
In poco più di un’ora giungemmo a Is2, quasi ai bordi del mare.
Al posto di controllo ci chiesero documenti e lasciapassare. Trovarono tutto in ordine. Ci dissero di lasciare l’auto davanti all’edificio Comando.
Sul campo, mimetizzati con delle reti, alcuni caccia. Un S81 era all’inizio della pista.
Roberto disse che potevamo salutarci li.
Sfiorò la guancia della moglie con un bacio, prese la valigetta di pelle dal portabagagli, mi strinse la mano.
‘Piero’ -disse- ‘ti affido Milena e Mario.’
E si avviò verso l’aereo.
Milena disse che voleva vederlo partire.
Chiudemmo gli sportelli dell’auto e andammo ad appoggiarci alla rete metallica.
Vedemmo salire alcuni uomini sull’aereo, poi, per ultimo, Roberto.
Venne chiuso il portellone, le eliche urlarono sempre più forte. L’aereo fu scosso dalla potenza dei motori, si mosse piano, acquistò velocità, si alzò lentamente allontanandosi sul mare, verso sud-ovest.
Milena tirò un lungo respiro.
‘Ho bisogno di bere qualcosa, Piero.’
Possiamo andare allo spaccio del campo.
‘No, non vorrei entrarvi, vorrei qualcosa qui. Un cordiale, roba del genere. Vada lei, per favore, io attendo in auto.’
Aprii un po’ la tuta per far scorgere la divisa. Fermai un aviere di passaggio. Mi indicò la mensa ufficiali e mi disse che li c’era anche un bar.
Il locale era vuoto. Bussai piano sul banco. Apparve un militare in camicia.
Gli dissi che ero un ufficiale del Comando Zona e chiesi se avesse qualcosa da bere, per tirarmi su.
‘Una bottiglia, signore?’
‘Si, se possibile, ma di cosa?’
Sorrise.
‘Siamo in aviazione e qualcosa che viene da lontano c’è sempre. Vuole una bottiglia di cognac francese?’
‘Autentico cognac?’
‘Certo, signore.’
Sparì per un istante e tornò con una bottiglia incartata in un giornale vecchio.
Gli chiesi anche dei bicchieri.
‘Gliene posso dare uno solo.’
Chiesi quanto dovessi pagare. La cifra mi sembrò modesta e lo pregai di accettare una piccola aggiunta per le sue sigarette.
Mi ringraziò.
Raggiunsi Milena in auto. Era accanto al posto di guida, le sedetti vicino.
‘Allora?’ Chiese.
Cominciai a scartare la bottiglia.
‘Dovrebbe essere cognac francese.’ Seguitai a scartare. ‘Lo è, infatti, e di quello buono. Mi sono fatto dare anche un bicchiere. Ne verso?’
‘Meglio che andiamo via di qui’ -rispose Milena- ‘ci fermeremo fuori del campo.’
Misi in moto, innestai la retromarcia, feci manovra, mi avviai all’uscita.
La guardia chiese di controllare il portabagagli. Si accertò del contenuto, salutò e alzò la sbarra.
Riprendemmo lentamente la strada del ritorno.
‘Fermiamoci dopo la curva, ci deve essere uno slargo.’ Disse la donna..
‘Come sta, Milena?’
‘Bene, grazie, ma sento di aver bisogno di qualcosa che mi dia forza. Non moralmente, no, proprio per vincere un certo senso di stanchezza.’
Mi fermai sotto gli alberi.
Aprii la bottiglia e mi accinsi a versare del cognac nel bicchiere.
‘Molto poco, Piero, poco, meno di un dito.’
Feci come mi aveva detto, le porsi il bicchiere. Lo prese con entrambe le mai, ne centellinò lentamente il contenuto. Mi restituì il bicchiere.
‘Ora a lei, Piero.’
‘Veramente non ne vorrei, devo guidare.’
‘Solo un po’, altrimenti rischio di passare per alcolizzata, ai suoi occhi.’
Sorrise stranamente, quasi con mestizia.
Misi un po’ di cognac nel bicchiere. Mentre stavo per bere mise la mano sul mio braccio e mi fermò.
‘Bevendo dove ho appena bevuto io saprà tutti i miei pensieri, i miei propositi.’
Sorrisi.
‘Belli?’
‘Per me si, non so per lei.’
Lasciò libero il braccio. Bevvi. La guardai sorridendo.
‘Pensieri bellissimi, signora, propositi seducenti.’
‘Perché ha detto seducenti?’
‘Così, mi è venuto spontaneo.’
‘Guidi piano, per favore, molto piano.’
Chiusi bene la bottiglia, l’adagiai sul sedile posteriore. Mi avviai lentamente.
Milena appoggiò la testa allo schienale, allungò le gambe, chiuse gli occhi. Parlò a bassa voce.
‘Come si sente a portare in auto, accanto a sé, una vecchia signora?’
‘Glielo saprò dire quando mi capiterà.’
‘Grazie, Piero, lei sa sviare il discorso, ma ha capito bene che parlavo di me. Perché io mi sento una vecchia signora, specie quando c’è lei. Del resto lei è così giovane. Sa, io non ho mai conosciuto, affettivamente intendo, un ragazzo della sua età. Mi sono sposata a 23 anni, con un uomo che ne aveva, e ne ha, molti più di me.’
‘Pentita?’
‘Non lo so, perché non so se e cosa posso aver perduto. Mi sembra di essere nata vecchia, di non aver avuto giovinezza. Lei conta di sposarsi?’
‘Credo, signora, a tempo e luogo. Adesso, a 23 anni e con la vita che faccio il matrimonio mi sembra lontanissimo. Finora sono stato fortunatissimo. Poco dopo essere stato nominato ufficiale sono stato promosso per merito di guerra. Non durerà sempre così.’
‘Roberto dice che lei ha una maturità caratteriale e comportamentale che molti quarantenni le invidierebbero e una preparazione molto al di sopra della media. Sa che la chiama il piccolo genio? Ma lei è quarantenne anche con le ragazze?’
‘Mah! Roberto mi vede con gli occhi dell’amicizia. Io credo di essere perfettamente normale, in tutto.’
‘Sono veramente lieta che con Roberto vi scambiate il tu: E se lo facessimo anche tra noi?’
‘E Roberto come la penserà?’
‘Per adesso iniziamo, vuole? Poi lo chiederò a Roberto, e se in lui prevarrà la gelosa diffidenza del siculo, davanti a lui continueremo a usare il lei. Che ne dici?’
La guardai assentendo con la testa.
‘Grazie, bravo. Adesso mi sento meno vecchia!’
Mi baciò sulla guancia.
Presi la sua mano e la baciai.
‘Ragazzo’ -disse- ‘se lo fai ancora avrò bisogno di altro cognac.’
‘Le presi di nuovo la mano, ne baciai il palmo.’
Si alzò sul busto.
‘Tu guarda avanti.’
Mi baciò sulla bocca. Non la lasciai allontanare. Sempre facendo attenzione alla strada le strinsi i capelli della nuca e le morsi leggermente le labbra.
‘Adesso il cognac lo devo prendere io.’ Dissi.
‘Mi sta scoppiando il cuore, Piero. Senti.’
Prese la mia mano e se la poggiò sul petto.
L’auto sbandò leggermente.
‘Attento, Piero, stiamo andando fuori strada!’
In effetti, stavo perdendo la direzione e il controllo di me. Milena in quel momento non aveva neppure vent’anni.
C’era una stretta carrozzabile che portava in una radura contornata dagli alberi, protetta da alte siepi. La imboccai, condussi l’auto fuori della vista della provinciale. Fermai.
Scesi, aprii lo sportello posteriore, mi sedetti e presi la bottiglia.
‘Ci vuole un goccio….’
Milena mi raggiunse. Mi tolse la bottiglia dalla mano e si mise sulle mie ginocchia. Mi abbracciò, mi baciò freneticamente, come a dissetare un’arsura antica.
Introdussi una mano sotto la gonna la poggiai sul liscio tepore della coscia. Si tese come una corda d’arco. Salii ancora. Deglutì a fatica. Cercò di allontanarsi.
‘Andiamo a casa, Piero. Andiamo a casa.’
Si alzò, scese e tornò al posto di prima.
‘Andiamo a casa, Piero. Guida lentamente, carezzami dolcemente.’
Ripresi la strada larga. Con la sinistra tenevo il volante. La destra, nascosta tra le sue gambe, la frugò curiosa, ne sentì il fremere, l’estasi, l’abbandono, come in deliquio. Ritirai la mano. Presi a guidare velocemente.
Dopo poco eravamo a casa.
Zor’a ci venne incontro, senza pronunciare parola. Mario corse verso la madre.
‘Perché papà deve restare sui lavori?’
‘Deve assistere al collaudo, caro. Ma si tratta solo di qualche giorno.’
Io indossavo ancora la tuta.
Non sapevo cosa fare.
Milena era pensierosa, come preoccupata. Fece un lungo sospiro.
‘Zor’a, il Tenente Orsini ci farà compagnia a cena e dormirà qui. Prepari la stanza degli ospiti, quella grande, così starà più comodo.’
Si volse a me.
‘Lei vada pure a rinfrescarsi, come farò io. Ci vediamo in soggiorno per l’aperitivo. A più tardi.’
Un po’ frettolosamente, quasi bruscamente, andò verso le scale, salì al piano di sopra.
Zor’a mi fece cenno di seguirla. Mi avrebbe mostrato la camera.
‘Ma lei non ha nulla signor Tenente. Le procuro io qualcosa da indossare per la notte e per radersi. Adesso salga pure in camera e si metta a suo agio.’
Rimasto solo, tolsi la tuta, la giubba, la camicia. Andai nel bagno. Aprii il getto della doccia che stava sulla vasca, vi misi sotto la testa, e lasciai che il fresco dell’acqua scorresse a lungo.
Ero in una situazione imbarazzante.
Roberto, prima di salire sull’aereo, mi aveva detto: ‘ti affido Milena e Mario.’ Non aveva ancora raggiunto la quota di crociera e già gli baciavo la moglie!
Avrei dovuto dire che non potevo restare, che ero di servizio.
Dovevo tornare a casa, farmi invitare a cena da Anna e Lenka, e andare a letto con una di loro. Credo che toccasse ad Anna.
Potevo andare da Dora, la dolcissima Dora, e farle dimenticare la promessa fatta in confessione.
Scossi la testa.
Non potevo, non dovevo accostare Dora alle altre. Erano completamente diverse. Dora era l’amore.
Forse la più adatta a scacciare questi miei pensieri sarebbe stata Regina. Ma chissà dov’era!
Bussarono alla porta.
Zor’a portava un pigiama, nuovo, una vestaglia ancora piegata dopo essere stata lavata e stirata, un paio di pantofole, e una borsa col necessario per la barba, dentifricio, spazzolino, sapone.
Apparve mentre mi asciugavo i capelli.
‘Metto tutto sul letto, signor Tenente?’
‘Si, grazie, Zor’a.’
Sorrise e uscì.
Mi sedetti sulla sedia, ai piedi del letto, e seguitai ad arzigogolare.
Se me ne fossi andato, però, non so quali reazioni dovevo attendermi da Milena. O sarebbe stata contenta? Quanto era accaduto, a ben pensarci niente di importante, poteva considerarsi un momento di debolezza.
Andai allo specchio, mi pettinai.
Milena, però, veramente un bel tocco di donna. I suoi anni non significavano nulla. Si, era proprio una bella donna. Attraente, desiderabile. I suoi gesti, il suo parlare, i suoi occhi denotavano passione, calore. Quando l’avevo baciata, tenendola per i capelli della nuca, il suo sguardo mi aveva detto il suo desiderio prepotente, impellente. Quando l’avevo carezzata, lievemente, a lungo, il suo vibrare aveva svelato il suo godimento.
Roberto mi aveva detto: ‘ti affido Milena e Mario.’
Più pensavo a Milena e più i miei sensi si accendevano.
Cercai di convincere me stesso che era solo curiosità: una donna, sposata, che aveva tanti anni più di me.
Che sciocco, però, pensare che Lenka, Anna, la stessa Regina, e perfino Dorina, avrebbero potuto farmi dimenticare Milena. Sarebbe stato placare sensi, certo, una distensione, un rilassamento. Ma, in ogni caso, si trattava pur sempre di un surrogato, una sostituzione in modo approssimativo che, comunque, non mi avrebbe appagato.
Indossai la giubba e scesi.
Milena era in salotto. Vestita di blu, i capelli sciolti sulle spalle, le splendide gambe accavallate.
Sedetti accanto a lei, sul divano.
Il tono della sua voce era basso, caldo.
‘Sai Piero che sono un’accanita lettrice?’
‘Che genere?’
‘Mi piace tutto, mi piace leggere. E anche scrivere. Ho scritto dei brevi racconti. Chiederò il tuo parere.’
‘Saranno certamente interessanti, belli.’
‘Non lo so. Vedrai tu.
Ho letto i libri più svariati. Per un certo periodo, abbastanza recente, sono andata a frugare tra i titoli più intriganti. Sai come mi è venuto in mente? Ho ricordato quando ci facevano studiare, a scuola, il Decamerone, e ho voluto leggerlo in edizione integrale. Così è stato per Chaucer. Mi ha incuriosito Petronio e il suo Satyricon. Allora ho rammentato Ifigonia in Tauride, la parodia che girava nascostamente nelle aule universitarie, e che certamente conosci anche tu. Ce la passavamo con la massima prudenza, ed eravamo così sciocche che ci chiedevamo se c’era qualcosa di verosimile.
Ho letto Ovidio, l’Aretino, Sacchetti, Straparola, Brantome, D’Annunzio, Miller, Lawrence, Mantegazza, Pitigrilli, Freud, Zola, Schwarz. Le Mille e una notte, che sono in parte di origine indiana, mi hanno indotto a conoscere gli aforismi sull’amore, il Kamasutra. Ma, per me, il più bel libro erotico é Chin P’Ing Mei, Fiore di Prugno del vaso d’oro. Lo hai letto?’
‘No, non ne conoscevo nemmeno l’esistenza.’
Si alzò con un profondo sospiro.
‘Andiamo un po’ fuori. La sera è calma. A me piace il buio della notte, e a te?’
‘Veramente io preferisco vedere.’
‘Materialista! Andiamo.’
La villetta era circondata da un giardino, ben curato. Dietro la casa era stato costruito un gazebo con un tavolino, due sedie, una panca.
Milena si mise sottobraccio e intrecciò le sue dita con le mie.
Andammo a sedere sulla panca del piccolo chiosco.
Mi carezzò il collo, la guancia, mi passò le piccole dita sulla bocca, sporse le labbra che accolsi subito tra le mie, ed esplorò con voluttuosa sapienza la mia bocca con la sua piccola lingua guizzante.
Prese la mia mano e la infilò sotto la gonna. Il vestito era l’unico indumento che indossava. Fece di sì con la testa, fin quando non sentii dischiudersi il morbido cespuglio tra le sue gambe. Mi fece alzare, senza lasciare la mia bocca e senza che io abbandonassi il tepore del suo sesso. Alzò la gamba e la poggiò sul mio fianco, muovendosi languidamente. Staccò piano la testa dalla mia.
‘Questo è lo Jataveshtitaka, l’attorcigliamento d’un rampicante, una fantasia dell’amore, dettata dalla passione, che culmina, al momento opportuno, in una deliziosa penetrazione.
Ora il momento sarebbe opportuno, ma non lo è il luogo.’
Si strinse ancor più a me.
‘La poesia orientale è dolce e convincente:
Io sono la tua cerva, Lingam,
fammi sentire il frullo del passero
nella fremente Yoni.
Poni le mie gambe sulle spalle,
nascondi il mio sbadiglio
con l’arma del tuo amore,
perch’io la serri come tenaglia,
per goderne la possanza.
Guarda l’amore della tigre,
prendimi com’è presa lei,
tu che hai dita e non artigli,
artiglia il mio seno
mentre cerchi il fondo
che non raggiungerai.’
Le ultime parole furono mormorate tra sospiri di piacere, fino a che la voce non finì in un roco gorgoglio nella gola. Abbassò la gamba, rimase avvinghiata a me, con la testa sulla spalla, ansante. Le carezzai i capelli.
La poesia era bella, avrebbe detto il mio professore d’Italiano, al liceo, ma era una poesia… in cerca del concreto.
Ci sedemmo ancora un po’, poi rientrammo.
Zor’a venne avvertì che la cena era pronta.
* * *
Non mangiai molto, e neppure Milena.
Mario aveva sonno e sarebbe andato a riposare.
Zor’a sparecchiò e sparì in cucina.
Milena mi morse il lobo dell’orecchio.
‘Verrò da te fra mezz’ora.’
S’alzò e salì in camera.
Uscii un po’ fuori.
Quando rientrai Zor’a mi dette la buonanotte.
Avevo appena indossato il pigiama quando Milena apparve in una splendida vestaglia rosa.
Chiuse la porta a chiave. Restò li vicino.
‘Piero, io ti voglio da sempre. Ti bramo.
A volte Roberto mi chiedeva come mai fossi così passionale, in questi ultimi tempi, nel fare l’amore. Non gli rispondevo, tiravo su le spalle. La sua voce mi disincantava, perché l’amore l’avevo fatto con te.
Non avrei mai sperato che il mio sogno si potesse realizzare, che tu stessi con me. Non mi interessa perché lo fai, l’importante, per me, è che tu lo faccia. Sono vecchia ma sempre un po’ romantica, pur nel desiderio di saziarmi di te.
Non sorridere se ricordo ancora le parole di poeti lontani:
Tutto di me ti appartiene,
qualunque cosa tu desideri l’avrai.
Scruta tra l’erba del mio prato,
e sfiorala lieve,
con la mano, con le labbra.
Guarda il mio piacere
che rende candida e sinuosa
la strada che ti attende.
Giuoca a lungo
intorno all’ingresso,
prima d’affrontare
l’intimità della rocca.
Vorrei tenerti
per sempre prigioniero,
ma tu sfuggi dalla rocca
ed io ti voglio ancora.
Il mio respiro è lieve,
è solo un mormorio delle mie labbra.
Io sono affaticata ma non doma.’
Mi fissò con le nari frementi, gli occhi splendenti.
‘Ti desidero pazzamente, Piero. Adesso.’
Lasciò cadere la vestaglia, la camicia, giacque sul letto.
* * *
Era quasi giorno.
Milena era su di me. La testa sulla mia spalla, il seno sul mio petto, il ginocchio sul mio sesso. La mano intorno al collo. I capelli sparsi.
Credevo dormisse. La guardai, aveva gli occhi aperti.
Quando si accorse che ero sveglio anch’io sorrise, senza muoversi.
‘Non vorrei lasciarti più. Ho vegliato il tuo sonno, forse troppo breve per te, vero? Sei bellissimo.
Io sono distrutta.
Ho vissuto sensazioni, emozioni, piaceri che nessun scrittore saprebbe mai descrivere. Che non immaginavo.
Ma devo viverle ancora.
Me lo prometti?’
La strinsi a me, la baciai sulla bocca.
‘Certo, amore. Sei meravigliosa, sono sicuro che non esiste altra donna, al mondo, come te.’
Si voltò sulla schiena, si mise a sedere sul letto, infilò la camicia da notte, la vestaglia.
Si chinò su di me, mi baciò. Mi strinse le labbra tra le sue dita. Sussurrò, come parlando a sé stessa:
‘The best fuck I never had.’
Era il sopravvento di Miller sui poeti orientali.
Mi venne istintivo risponderle: ‘I reamed out every wrinkle in yuor cunt!’
Spalancò gli occhi, come spaventata, poi scosse la testa sorridendo. Aprì la porta e uscì.
* * *
Dovevo andar via presto. Prima che Mario si alzasse.
Quando scesi, però, Zor’a era già al lavoro. Mi disse che il caffè era pronto. Lo presi in fretta, salutai, mi avviai verso il centro del paese.
Qualche vecchina si avviava alla chiesa. Il bar apriva in quel momento.
Non dovevo avere un buon aspetto.
Il padre di Dora mi salutò.
‘Finito il servizio Signor Tenente? Si vede che ha lavorato tutta la notte. Mi scusi se glielo dico, ma ha un viso stanco e, se mi permette, anche preoccupato. Venga a bere qualcosa.’
Lo ringraziai, ma proseguii.
In effetti c’era qualcosa che mi turbava. Mi tornava sempre alla mente la voce di Roberto: ‘ti affido Milena e Mario.’
La notte, però, era stata al di là di ogni aspettativa. Mi meravigliavo io stesso di come fossi riuscito a non disilludere le ardenti aspettative di Milena. Non era stato facile. Lo dovevo soprattutto al suo comportamento esaltante, stimolante, eccitante, alla sua sbrigliata fantasia e iniziativa erotica. Se il tempo e la natura lo avessero permesso, credo che avrebbe voluto sperimentare tutte le descrizioni che aveva letto nei suoi tanto amati libri.
E mi aspettava anche quella sera!
Dovevo parlare con qualcuno, che non ridesse, però, dei miei scrupoli in lotta con l’incantevole indescrivibile voluttà che mi attendeva tra le braccia di Milena.
Decisi. Ne avrei parlato con un sacerdote. Mi sarei confessato.
Entrai in chiesa. Poca gente in attesa della prima messa.
Seduto in un angolo, un vecchio prete leggeva un logoro libro dalla copertina consunta.
Mi avvicinai a lui. Chiuse il volume tenendo un dito per segnalibro e mi guardò interrogativamente.
‘Vorrei confessarmi, padre.’
‘In ginocchio.’
E m’indicò l’inginocchiatoio accanto a lui. Mise il libro su una sedia e tracciò un segno di croce.
‘In nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo. Da quanto tempo non si confessa?’
‘Da quando sono qui, alcuni mesi.’
‘Cosa ricorda di aver fatto di male durante questo periodo?’
Dora, Lenka, Anna, Regina, erano completamente dimenticate. Dissi che un marito, dovendosi allontanare per motivi di lavoro aveva affidato a me la moglie e il figlio e che io, per tutta risposta, quella sera stessa ero andato a letto con quella donna.
Mi ascoltava distrattamente.
Doveva essere sicuro che avessi detto tutto, perché mi interruppe.
‘Dirà un Pater, un’Ave e un Gloria…’
‘Veramente, padre, quella donna mi era stata affidata dal marito…’
‘Dica l’atto di dolore, nel quale è contenuta la promessa di non peccare più in avvenire.’
Non lo avevo ancora terminato quando mi benedisse, mi assolse, mi congedò e si rimise a leggere.
Ero profondamente stupito, irritato.
Uscendo dalla chiesa mi rimisi la bustina.
Sentivo di avere le mascelle contratte.
Mi sorpresi ad alzare le spalle: per una così modesta penitenza valeva certo la pena di tornare da Milena!
Al Comando il Maggiore Marini mi disse che avevo una brutta faccia.
‘Torni a letto, e se vuole le mando l’ufficiale medico.’
‘Grazie, signor Maggiore, ma spero di riprendermi presto.’
Andai a casa. Anna e Lenka erano in ufficio. Salii in camera, mi liberai in fretta della giubba e degli stivali, mi gettai sul letto, e mi svegliai dopo circa quattro ore.
Era l’ora della mensa.
Ringraziai ancora il Maggiore e gli dissi che stavo molto meglio, anzi bene.
Trascorsi il pomeriggio al lavoro e andai a trovare Dora più presto del solito.
Era dietro al banco. Mi venne incontro radiosa.
‘Dorina, andiamo al cine questa sera?’
Fece di sì con la testa.
‘Allora ci vediamo alle otto e un quarto.’
Appena un bacio e fui di nuovo in strada diretto a casa Ricci.
Milena china sull’aiuola grande curava i fiori.
Uno spettacolo incantevole.
Si alzò di scatto, arrossì, si guardò intorno.
Zor’a stava spazzando il portico.
Mi guardò di nuovo, con le nari lievemente dilatate, come in preda ad ira.
‘Vieni a dirmi che non verrai questa sera?’
‘Vengo a dirti che, se vuoi, sarò qui poco prima del coprifuoco.’
Il suo volto si distese, assunse un’aria serena.
‘Ti aspetterò nella mia camera. Staremo anche meglio e più isolati.’
Così, quel letto avrebbe conservato il ricordo dei nostri incontri. Non voleva lasciare lontano dalla sua abituale alcova l’impronta del the best fuck she never had.
* * *
Con Dora sedemmo al solito posto.
Le cinsi le spalle e l’avvicinai a me.
Si rannicchiò guardandomi con profonda dolcezza.
‘Sono felice, Piero, credevo che dopo quanto ti avevo detto tu fossi inquieto con me. Ti ripeto, sono tua, felice ed entusiasta di esserlo, ansiosa e bramosa di esserlo.’
‘Ascolta, Dorina. Ho deciso di dire ai tuoi genitori che voglio sposarti.’
Sobbalzò.
‘Non scherzare, Piero. Non prendermi in giro. Tu sposare me? La ragazza conosciuta dove sei in servizio militare? La maestrina di un piccolo paese? Lo so che prima o poi te ne andrai e mi lascerai disperata.’
‘Ma tu, mi sposeresti, Dora?’
‘Che domanda, Piero. Lo sogno ad occhi aperti. Sarei la tua schiava per tutta la vita.’
‘Che dici, invece di essere la signora Orsini?’
‘Piero, non burlarmi.’
‘Dora, domani parlerò con i tuoi genitori e se non ci sono impedimenti tra due mesi ci sposiamo. Domani stesso scriverò anche ai miei. Ho già detto di te. La mamma vuole conoscerti. Verranno qui per le nozze. Poca gente, però.’
Dora scoppiò a piangere.
* * *
Eravamo sposati da un mese, ed ancora ospiti dei miei suoceri.
Il giorno delle nozze la chiesa era piena di curiosi. Nei primi banchi, Lenka e Anna. Roberto Ricci era il mio testimone.
Pochissimi invitati. Per l’occasione erano venuti i miei genitori e mio fratello, Cesare, di 15 anni.
Milena era più elegante e affascinante che mai. Per tutta le cerimonia restò immobile, con gli occhi velati per la commozione.
All’uscita, baciò affettuosamente Dora.
‘Ti invidio, Dora, sei bellissima.’
* * *
Quella mattina c’era qualcosa di strano nell’aria. Un nervosismo impalpabile.
Il Generale Sironi aveva parlato a lungo, al telefono, col Colonnello Vera .
Il Maggiore ed io fummo convocati dal Generale.
Era prevedibile una sostanziale modifica della situazione militare. Tutti i reparti dovevano essere pronti a muoversi, arma et impedimenta, da un momento all’altro.
Ciò che non era trasportabile doveva essere messo in condizioni di poter essere distrutto.
La parola ‘disfatta’ non fu pronunciata, ma era nella mente di tutti.
Il Generale si rivolse a me.
‘Lei, Orsini, si prepari a raggiungere il Comando di corpo d’armata. E porti con sè tutto quello che può. Le suggerisco di farsi accompagnare dalla la sua signora. Cerchi di partire domattina. Speriamo che sia ancora in tempo. Contiamo di rivederci, e mi saluti il Generale Catarini.’
Dora non stava nella pelle per la gioia di tornare nella grande città dove avevamo trascorso la breve licenza di nozze.
Quando le dissi che doveva portare roba per una lunga permanenza, mi guardò sorpresa.
‘Quanto tempo staremo via, Piero?’
‘Non lo so di preciso, amore, ma a lungo.’
L’indomani partimmo.
* * *
Dopo pochi giorni ci fu il tracollo generale. Le forze armate si sbandarono. I Tedeschi rastrellavano i militari che cercavano di tornare alle proprie case.
Dora ed io riuscimmo a prendere l’ultimo treno diretto dove risiedevano i miei genitori.
Il suo paese fu teatro di atroci persecuzioni.
Solo i Ricci riuscirono a fuggire, raggiungendo fortunosamente Is2 e da lì il Sud.
Dora ed io pensiamo spesso a quei giorni, e lei, malgrado gli anni trascorsi, spera sempre di poter riabbracciare i suoi genitori.
grammaticalmente pessimo........
Ciao Ruben, sei un mito! Hai un modo di scrivere che mi fa eccitare! La penso esattamente come te. Se…
Ti ringrazio, sono felice che ti piacciano. Vedremo cosa penserai dei prossimi episodi, quando si chiuderà anche la sottotrama di…
Davvero molto bello. Piacevole come gli altri e decisamente pregno di sentimenti espressi senza risultare melensi o ripetitivi. D'impatto leggiadro,…
Come ti ho detto, in pochi e poche sanno sa scrivere in maniera così eccitante sia dare un senso ad…