La palestra era squallida e sporca: l’odore di corpi maschili -e delle loro secrezioni- vi stagnava inequivocabile.
La penombra avvolgeva ogni cosa.
Camminando, i peli del vecchio tappeto si arricciavano intorno ai piedi, insistenti come amanti abbandonati.
Disseminati in giro si notavano sbarre di metallo pesante equipaggiate di pulegge e pesi mobili che, in quella luce da acquario, ricordavano antichi strumenti di tortura.
Nell’aria densa e maleodorante si insinuava una specie di musica vagamente macabra, Bach o un Handel di umore acido, quasi una messa da requiem rituale che faceva di quel luogo una specie di santuario sacrificale.
Elektra scivolò nel locale.
Molto alta, anche per la razza nordica cui chiaramente apparteneva, e molto bionda-di un biondo così chiaro da ricordare il platino di certe dive anni ’30-
aveva la vita sottile stretta in un’ alta pesante cintura di cuoio marrone, allacciata da fibbie d’argento sul davanti.
Sopra la cintura la sua potente struttura erompeva come un punto esclamativo,
mentre più giù l’acciaio dei muscoli addominali guizzava sotto la calzamaglia sgambata nera, lucida e cangiante.
Le gambe erano lunghissime e anatomicamente perfette, nude fino ai piedi molto grandi rivestiti da pesanti calze di cotone arrotolate a mezzo polpaccio.
Lentamente si avvicinò all’uomo nascosto tra le ombre vicino alla parete.
-Allora?- chiese con voce neutra.
Lui chinò il capo più che poté, come se fosse insostenibile la forza degli occhi verdedorati della donna, agitando le mani affondate nelle tasche del costoso abito di Armani che non riusciva a nascondere la sua goffaggine.
Tossicchiò e :
-Gli avvocati dicono che il contratto è a prova di bomba; inattaccabile; abbiamo vinto.
Faranno il diavolo a quattro per un paio di settimane, ma non riusciranno a ottenere neppure un’ ingiunzione di congelamento dei beni-
-Ottimo –
Quella parola poteva bastare, lei non era donna da inutili ringraziamenti e non faceva parte del suo piano perdersi in giri di parole.
Voleva dimostrargliela, la sua riconoscenza, così si sarebbe divertita anche lei.
Mormorò:
-Questo non è lo Sport Club, ma una palestra vera…-
Lui intuì il suo pensiero, sapeva che erano soli, che Elektra, nel suo immaginario, non era una vera donna, bensì il prototipo favoloso di una qualche nuova e perfetta specie umanoide e che al mondo nulla esisteva di più esaltante del divenire una sua proprietà.
Cominciò a deglutire a fatica, le mani sudate che si agitavano spasmodicamente nelle tasche.
-Mi desideri, non è vero, Daniel?-
Gli sorrise, con una mano sul fianco, e sulle labbra tutta l’arroganza del padrone verso lo schiavo.
-Ma se mi vuoi, devi lavorare per me, d’accordo?-
Lui non riusciva a guardarla in faccia né a parlare.
La sua testa si mosse su e giù in un disperato gesto di assenso.
-Spogliati- ordinò la donna.
Il petto ossuto dell’uomo sembrò palpitare di vergogna in quel tempio del narcisimo.
Si immaginava tutti quei maschioni sbuffanti che grugnivano per la fatica di esercitar i loro muscoli perfetti con le facce gonfie di steroidi arrossate
e stillanti sudore.
Bach o Handel suonavano anche per loro?
Oppure si esibivano circondati da un silenzio ancor più spettrale di quello che lo stava soffocando ora?
-Togliti scarpe e calze e vieni subito qui-
Lui si affrettò, gli occhi incollati alle curve dei glutei perfetti, mentre lei lo guidava verso il suo obiettivo.
Infine Elektra si fermò: era giunta a destinazione.
Si volse a guardarlo, le mani dietro la schiena, il volto acceso dal compiacimento del proprio potere.
Attese qualche secondo prima di abbassare con lentezza le spalline del body,
poi le scostò dalle braccia con un unico gesto deciso.
I seni opulenti si rivelarono, bagliore latteo nella penombra, per quella meraviglia che erano, con le grandi areole scure che circondavano i capezzoli turgidi.
Gli occhi quasi fuori dalle orbite, il petto scosso dal respiro affannato, Daniel
agitò le mani, protendendole verso di lei, in gesto di supplica.
-No- gli ordinò la donna.
Abbassò il resto del body, svelando l’ombelico perfetto, poi fu la volta dei fianchi e del ventre, e infine del torturante baluginare della peluria bionda del pube.
Si fermò, guardandolo implorare in silenzio l’atto finale.
La sua voce risuonò mortalmente dolce:
-E’ questo che vuoi, non è vero? è questo che sogni…-
Lui allungò di nuovo le braccia, incapace di trattenersi.
-Non toccarmi-
E la voce fu una staffilata.
Le mani dell’uomo ricaddero impotenti lungo i fianchi.
Lei si spostò di lato.
La piattaforma ricoperta di cuoio nero si sollevava dal pavimento con un’inclinazione di quarantacinque gradi.
A un capo era fissata una pesante cinghia di cuoio, slacciata.
-Sdraiati sulla piattaforma-
Lui si affrettò a ubbidire. Ci si allungò sopra supino.
Lei prese la cinghia, gli serrò le caviglie e le gambe, stringendo in modo che dalla cintola in giù non potesse muoversi.
-Mettiti a sedere- ordinò la donna.
La prima volta fu facile, tese i muscoli addominali e lottando contro la forza di gravità si portò in posizione seduta.
Ma non la vedeva più.
Stava da qualche parte dietro la sua testa e lui aveva disperatamente bisogno di vederla.
Torse il busto per guardarsi attorno.
-Sdraiati- abbaiò lei- e poi siediti di nuovo. E vai avanti finché non ti dirò di fermarti-
Si allungò. Si sollevò di nuovo. E poi ancora. E ancora.
E ancora, fino a che i muscoli dell’addome cominciarono a non poterne più e a fargli un male insopportabile.
Finché il respiro divenne sempre più affannoso e i movimenti sempre più lenti.
-Devo …ripo…sarmi…- gemette.
-Va avanti !-
Avanti. Doveva ubbidire per forza.
Lei glielo aveva ordinato.
Con gli occhi della mente la vedeva nuda, magnifica, con i setosi peli biondi del sesso che immaginava morbido… vicinissimo…. lontanissimo.
I muscoli gli facevano sempre più male, mentre un’erezione impossibile si gonfiava tra le gambe; pregava perché lei gli dicesse di smettere.
Alla fine gli mancarono le forze. Giacque immobile.
-Mi spiace, non ce la faccio più- mormorò.
Elektra gli si parò davanti.
Poi si mise a cavalcioni su di lui e avanzò, fino ad imprigionargli la testa con le gambe.
Allora il suo inguine fu a pochissimi centimetri dagli occhi sgranati dell’uomo.
La visione gli esplose nella mente, annullando tutte le sensazioni di sconforto o dolore.
Alla fine lei gli aveva fatto il dono che aveva sempre sognato, ma nel preciso momento in cui il suo corpo poteva far tutto tranne che accettarlo.
-Se mi vuoi, devi lavorare per me- aveva detto.
Ora Daniel comprendeva il significato di quelle parole.
Il premio era a due dita dal naso.
Il suo corpo fu squassato da una possanza nuova, il cuore da una gioia selvaggia.
Urlò in silenzio e i muscoli morti tornarono a vivere nella reincarnazione della passione.
Piano, molto piano, come uno spirito che uscisse da una tomba finalmente aperta l’uomo sollevò la testa dal cuoio nero su cui riposava.
A bocca spalancata, la lingua famelica inaridita dall’eccitazione, si tuffò nel Nirvana biondo che giaceva tra le statuarie gambe di Elektra.
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Mamma mia ruben, mamma mia... Ti prego, scrivimi a gioiliad1985[at]gmail.com , mi piacerebbe condividere con te le mie esperienze…
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le tue storie mi eccitano tantissimo ma avrei una curiosità che vorrei chiederti in privato: è possibile scriverti via mail?