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Racconti Erotici Etero

Bella di giorno

By 14 Febbraio 2004Dicembre 16th, 2019No Comments

Se mio marito sapesse cosa ci faccio a quest’ora di giorno con una gonna leggera insolitamente più corta, con sotto un reggicalze che nemmeno conosce, che conto questi alberi che mi portano dritti alla meta, ad una casa dove m’aspettano e fanno la fila, ad un bordello dell’anima che ora è il mio mondo.

Se mio marito davvero sapesse quanto non ne posso fare più a meno, quanto il sentirmi desiderata sconfigga ogni paura, ogni morale che accetto ogni domenica quando mi confesso. E’ stato più facile di quanto immaginassi, una signora elegante dentro la panetteria ha intercettato i miei pensieri senza una forma, senza neanche una noia per sentirli importanti. Mi ha avvicinata discreta: ‘Lei è molto carina Signora! Venga a trovarmi.’

Un biglietto di carta mi ha cambiato la vita. Un indirizzo scritto a penna l’unica meta, l’unico pensiero decente che giorno e notte m’ha scosso e ritemprato la mente.

Ma non c’erano dubbi o colpe di tradimento, solo una serie infinita di dettagli. Cosa avrei dovuto dire al primo appuntamento e quale il momento per togliermi la gonna, e quale gonna, quale camicetta adatta all’occasione. Mi domandavo come avrei reagito alla vista del primo sesso diverso dal solo che conoscevo. Cosa distingueva una signora da una bella di giorno? E poi sarei stata all’altezza di farli ritornare? Di finirli nel tempo stabilito? Sapevo che una puttana non bada a spese per apparire più bella, non bada a trucco per innescare la miccia, ma io ero diversa. Una forza di dentro mi spingeva da dietro, una nausea incontenibile mi risucchiava in quel posto.

Andai a trovare la signora dopo una settimana di congetture, di ripensamenti davanti allo specchio. Lei era bella, ammaliante. Se il suo charme era frutto del mestiere avrei cominciato immediatamente. Ma non ero pronta e lei comprese.

Se mio marito sapesse mi domanderebbe il motivo, cosa mi spinge a vivere questo segreto che mai nessuno potrebbe capire, come del resto la mia mente che si rifiuta ogni giorno di pensare che ci possa essere un altro domani dove percorro questa strada, che conto i passi e gli alberi, ogni trenta passi un salice, ogni 30 minuti un nuovo cliente.

E sono lì che ricomincio daccapo, dentro lo stesso letto appena rifatto, lenzuola pulite, profumo pulito, mentre io sono la stessa che stringo delle pieghe disfatte, dentro un paio di mutande che appaiono nuove e perfette, ma mantengono indelebili le tracce di chi per caso ha scaricato le voglie. Faccio solo attenzione che le mie calze non siano sfilate, che tra la confusione del desiderio precedente si sia impressa una macchia, sulla mia gonna che tiro che allungo fino al ginocchio, che ricomincia d’incanto a far sognare chi di fronte s’illude comunque d’essere il primo. Sono altri occhi, altro sesso che ricominciano a girare, a scandire i primi approcci che non vanno mai dritti, che cercano di prolungare ogni attesa per vedermi più attraente un attimo dopo. Come se ci dovessimo scambiare parole, come se davvero mi dovesse piacere, senza sapere che invece le mani, i fiati sono identici a quelli che prima di lui m’hanno toccata e rivoltata per bene.

Mi guarda e prende tempo, come se tra poco ci stringessimo le mani sopra una panchina ad ascoltare un tramonto, come se fuori ci fosse un culo di luna e il prezzo che paga dovesse servire a scoparmi dalle parti del cuore. Ma fuori c’è solo un mezzogiorno cocente con il sole che squaglia l’asfalto e qui dentro un’ombra soffusa che serve all’amore quando non ci si guarda negli occhi. Chissà perché davanti ad una donna cercano di rifarsi una faccia, addirittura recitando poesie o la parte di non essere capiti, dimenticando per un attimo che sono venuti per sesso, per questa cosa che stringo e nascondo perché il desiderio non scemi prima del tempo.

Io sono lì che fumo, seduta al bordo del letto dondolo il tacco e chiedo un nome, qualsiasi a caso, sapendo che dopo l’amore l’unica cosa che resta è un odore di sesso che copro e svanisco con altro profumo.

Difficile invece che chiedano il mio nome, sicuri che non sono una puttana qualunque, che quello che faccio lo faccio in segreto come una qualunque signora borghese che ammazza la noia sbafando rossetti mentre la sera adagia le labbra sopra la fronte dei suoi nipotini.

Poi d’incanto tutto svanisce, smettono di guardare le curve che fa l’ombretto attorno ai miei occhi, come se non ci fossero più laghi, tramonti o quel culo di luna che li ha fatti sognare. Mi fissano il seno e poi scendono fino alle gambe, i loro occhi diventano bilance che pesano carne. Si fanno avanti, m’accarezzano e mi spogliano, mi chiamano troia per discrezione, mi costringono in ginocchio perché non conoscono altro modo per essere sé stessi, almeno una volta dentro una mezz’ora qualunque.

Ecco questo è il momento, l’esatto momento che mi convince ogni volta a ricominciare il giorno dopo, la ragione che ribadirei con forza davanti a mio marito che chiede. Ecco il momento, con il seno schiacciato sulle loro ginocchia, con una mano possente che m’accarezza i capelli e mi spinge, m’abbassa senza che io possa ribellarmi, come un bambino che piange e s’attacca e ciuccia il seno per fame.

Sono lì che m’impegno, che l’inforno come pane senza lasciarne un centimetro all’aria. A volte non c’è bisogno d’altro, sento la pressione che sale, che preme, il respiro allungato senza più pause, le mani che fanno forza e mi spingono oltre come se ci fosse altra pelle, altro sesso per farmi sentire in difetto.

Mi lascio guidare, insultare che non sono all’altezza, che altra puttana farebbe di meglio fino a sbavare passione sopra un uomo che gode, con le labbra a ventosa che resistono a chi vuole resistere. Accarezzo col palato gli ultimi istanti che mi danno la certezza d’essere unica, la stessa che sbocca in un fiotto, che sfocia in una superficie di mare piatta e tranquilla, ma che nei suoi abissi si smuove un turbinio che non vede riposo, che neanche queste urla scomposte gli placano l’anima ed ogni volta s’ingravida come coniglia che segue l’istinto senza per questo capirne la causa.

Eccolo lo sento, ma non vuole mollare, ora mi rivolta indeciso dove finirmi e sfinirsi, ma il tempo è scaduto ed io lo invito a sbrigarsi, ad entrare nel posto dove giustifica il prezzo, dove la signora tra poco mi bussa ed un altro come lui sta facendo la coda.

E lui obbediente si rintana nella voglia che apro, che allargo. Solo ora capisce che nel sogno era stato diverso, che salendo le scale s’immaginava davvero tramonti infiniti di giallo e di rosso mentre ora ha davanti soltanto una fica, pieghe di carne che s’inumidiscono a comando.

Ora lo sento, mi vuole e chiama quel nome, che sa di moglie e d’amante, che sa di mille parole d’amore mai dette. Lo sento, si contrae per svuotarsi fin dentro le ossa, per sentirsi leggero quando attraverserà questo viale di salici, per convincersi davvero che s’è fatto una signora di classe, che freme, che gode, che urla tra queste pareti damascate di rosso, che non chiede altro d’essere domata nella noia dell’anima, nella folle richiesta di lasciarsi estirpare l’inquietudine che ancora l’assale.

Oggi sarà la prima volta che farò la lunga, salterò il pranzo per scoprire cosa si prova a rimanere col ventre ripieno dall’alba al tramonto, per scoprire l’effetto delle mie parole sincere, le mie parole bugiarde quando stasera a cena mio marito vorrà sapere dove diavolo ho passato l’intera giornata. Mi chiederà cosa ho fatto di bello, su quale vetrina ho adagiato i miei occhi, su quale orlo a mano ho accarezzato le dita senza sapere che se andasse giù duro, se fosse perlomeno interessato a quello che dico non potrei cavarmela descrivendo una giornata qualunque, una di quelle senza un sussulto, che passano lente e non devi far fatica a ricordare nemmeno un dettaglio. Mentre nella mente passano pareti damascate di rosso, divani d’oriente, dove cala sinuosa la seta e c’è solo un pensiero che t’angoscia e ti lascia sospesa nel dubbio. Quale gonna domani abbellirà queste gambe, quale merletto aggrazierà questi seni dove un uomo a caso affannerà il respiro? Già lo vedo, lo sento che spinge e sale nel mio ventre distratto, preme ed accelera illudendosi che un pene più lungo, più duro, possa portare a ragione il mio istinto, possa addomesticare la carne, che gonfia s’ammolla per chiederne ancora. Ma già so che alla fine della sua misura bramerò il prossimo ancora in salotto, lo solleciterò che faccia più in fretta, per scorticarmi quest’anima che non ha labbra e non ha buchi, che se solo sapessi dove mi risiede l’abbellirei almeno con una punta di rossetto. Perché è lei la puttana, la grande infinita mignotta che sogna d’andare di notte e strusciare le scarpe, che ora mi fa contare questi alberi, ogni trenta passi un salice, ogni trenta minuti un cliente. E’ lei la grande cagna che attira file di maschi spargendo odori simili a piscio, inzuppando ogni angolo dove si ferma ed aspetta che uno a caso si faccia coraggio e le dia quel senso infinito d’essere la sola, unico recipiente del mondo.

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