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Racconti sull'Autoerotismo

Lacrimose invocazioni

By 7 Febbraio 2008Dicembre 16th, 2019No Comments

Il ticchettio del mio passo’
Piacevolmente accompagna la mia andatura, il suono scandito di un vizioso tacco.
Particolarmente selettiva ed esigente impiego giornate nell’acquisto della mia scarpa.
Il mio tacco &egrave simulacro di corruzione ed estasi. Carezza la mia libido ed assorda la mia latente moralità nel suo narcotico picchiettio. Sottile e sinuoso come la forma femminile che ne ondeggia lasciva in un inganno di apparente instabilità.
Oh quel dondolio che porta i glutei a danzare e le cosce sode a strusciarsi energicamente una con l’altra con polpacci contratti nel prendere il terreno’ oh questo a me fa umettare la fica!
Adoro passeggiare nella mia irrefrenabile natura, dove al contrario la staticità porterebbe alla mia morte. Non riesco a stagnare in atteggiamento passivo a quanto la vita può offrirmi, no, io devo ondeggiare sulla lama affilata di una vita al limite.

Mi senti sopraggiungere da lontano, quel suono cadenzato che caratterizza carattere e determinazione. Un legno pieno, massiccio, che fa una sorda eco nel tuo petto.
Pesto le tue voglie e schiaccio il tuo carattere. Sei solido e stabile come il freddo pavimento su cui meriti di stare, l’adulazione istintiva che vorresti ripudiare.
Ti arrivo contro, calcio un tuo fianco e mi allargo sovrastandoti, appoggio le mani sui fianchi e sorrido del tuo strisciare.
Sono un’immagine onnipotente nella mia statuaria posizione.
Tenti un inizio di dialogo con chi ti governa, ma il mio tacco arriva sulla tua guancia obbligando il tuo collo a contorcersi. Un tuo grugnito mi fa irritare nella sua espressione di rivolta. Il mio tacco scivola rapido dalla tua guancia a riempirti la bocca: ‘Lecca, lecca e taci!’
Imperativa, voglio sentire il tuo ruvido carattere implorare pietà sotto la mia acuminata perfidia.
Pretendo le tue mani come appoggio, un irrisorio consenso ad esser strumento del mio piacere.
Ora un tuo grido strozzato in gola, piange quel tacco conficcato sul torace, proprio nel martoriare un tuo capezzolo.
Hai capito che di lamentele non ne voglio sentire.
Saranno le tue lacrimose invocazioni ad infradiciarmi le mutandine.
Tacchi come lame affilate che imprimono sul tuo impenetrabile cuore il piacere di vedermi sorridere.

Kasta Diva

Io so che non vuole sentire lamentele, la mia Maestra’ E non ne sentirà’ L’inizio di dialogo &egrave un tentativo per mascherare l’emozione, il desiderio insostenibile di sentire il ticchettio dei tacchi, quel rumore che più s’avvicina e più diventa eccitante. Banale raccontato così: solo chi ha dentro sé la natura dello schiavo può capire. La sensibilità &egrave acuta, quasi dolorosa’ Il dolore fisico non &egrave che la materializzazione di quello che prova l’anima: ed &egrave ciò che realmente appaga. Striscio verso lei, vermiciattolo insulso fiero della sua condizione. Il tacco scivola in bocca. Lo lecco’ prima lentamente, poi con crescente avidità’ Sento i mormorii di approvazione della Maestra: ed &egrave quello che desidero: la sua approvazione totale e incondizionata, conquistata con la mia capacità di soffrire in silenzio, di godere della sofferenza, di godere della sofferenza silenziosa’ Lo succhio, ora: come fosse un cazzo’ ‘Ti piace, vero? Certo che ti piace, succhiacazzi che non sei altro”. Ed &egrave vero. E’ vero che mi piace ed &egrave vero che sono una succhiacazzi. L’ho sempre saputo, ma soltanto la Maestra &egrave stata capace di tirarlo fuori, di farmelo ammettere fino in fondo. Lecco e succhio, per la sua soddisfazione, per il mio piacere.
La posizione in cui sono &egrave eccitante di per sé. Sdraiato, vedo la sua figura giganteggiare su di me’ Lo sguardo che ferisce. Non ci sarebbe neppure bisogno di parole. Lo sguardo esprime il disprezzo e la soddisfazione nel contempo. E’ uno sguardo che mi rende felice. Umiliato e quindi felice. Dal basso verso l’alto la osservo: come il cagnolino che so di essere, scodinzolante. Aspetto ansioso che la Maestra mi metta il collare e che mi conduca per la stanza al guinzaglio. E’ quello che più vorrei in questo momento. Lei lo sa: e non ci pensa minimamente. Resta così, col tacco nella mia bocca.
Ma non mi basta. Non mi può bastare. Offro il mio petto, nella convulsa eccitazione mi sento il martire del desiderio, del desiderio della mia Maestra. Maestra, non Padrona: così ha voluto, e così &egrave giusto. Io devo imparare, prima di tutto. Io devo imparare tutto. E lei, soltanto lei, può insegnarmi. Eccoti il mio petto, Maestra. Sento il tacco che preme sul capezzolo’ Deciso, forte’ ‘Sì’ la prego sì’, mi sento urlare’ Lacrimose invocazioni escono dalla mia bocca. ‘Non mi basta, non mi basta” Il tacco preme sul capezzolo martoriato. ‘Zitta, puttana’, &egrave la risposta: secca, ma per me dolce e appagante. Lacrimose invocazioni si susseguono: ‘Ancora, la supplico, ancora’ Ferito, bruciato, ucciso: soltanto così posso provare piacere’. Una risata sarcastica, umiliante: ma io lo so che le mutandine sono infradiciate, che la fica cola di piacere irrefrenabile. Sono io che le sto procurando questo piacere, Maestra. Sorrido. Per poco: il tacco diventa una lama e trasforma la pressione in un dolore insopportabile. Insopportabile se fossero altri a procurarmelo. Ma &egrave lei, Maestra. E io godo nello sprofondare negli abissi del piacere più vero.
Smorto

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