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Racconti Erotici Etero

Il motivo conduttore

By 14 Febbraio 2004Dicembre 16th, 2019No Comments

ALBA

Il silenzio della notte ancora avvolgeva tutto. Gli alberi si movevano appena, senza il solito bisbigliare delle foglie. La grossa campana del convento non aveva ancora annunciato il giorno, né il canto del gallo.

La casa risaltava per i raggi della luna piena che la rischiaravano, e la luce argentea filtrava tra le fessure delle ante delle finestre.

Dentro, nel camino la brace covava sotto la cenere accumulata la sera prima, avanti di andare a dormire.

Dietro la grossa tenda, fatta di pelli di capra, il grande letto. La testiera di rozzo ferro battuto, cavalletti anch’essi di ferro sui quali erano poste robuste assi di legno, e il pagliericcio, il saccone, riempito con foglie secche di granturco.

Lenzuola abbastanza grossolane, ruvide, e una coperta di lana rozzamente tessuta.

Gabriele e Vanna dormivano.

Fu lei a cominciare a destarsi, per prima, come gli altri giorni.

Si sarebbe alzata e, ancora con la lunga camiciola, avrebbe attizzato il fuoco, messo a scaldare il latte, aperta la madia, estratto il pane, tagliato in più parti. Una sul tavolo dov’era la ciotola, un’altra nel panno nel quale avrebbe aggiunto un pezzo di cacio nostrano e una fiasca di vino. Il pranzo per loro, durante l’intervallo del lavoro che li attendeva nei campi.

Gabriele era sdraiato, con la bocca semiaperta, dalla quale usciva il respiro pesante, profondo. I capelli scuri gli incorniciavano il volto. Lo vedeva appena, nella oscurità attenuata dal chiarore che trapelava dagli infissi, e per lei era bellissimo. Era il suo ‘arcangelo’.

Gli carezzò lievemente il volto, ma presto raggiunse il vero soggetto cui era destinata quella carezza, il bischero del su’ omo che, appena si sentì toccare cominciò a insuperbirsi e montarsi la testa, divenendo come il campanile del convento, alto, di pietra, col tetto rosso e col battaglio pronto ai rintocchi.

Vanna sentì che la sua campana aveva proprio bisogno dei tocchi di quel batacchio, e ritenne giusto prendersene un anticipo dandogli asilo nella sua ardente bocca.

Aveva appena iniziata l’accoglienza, che Gabriele si destò.

Così, nudi com’erano, non c’era impiccio da togliere.

Gli fu sopra in men che non si dica, e s’infilò fremente su quel palo che era proprio della cuccagna, per l’abbondanza e per il bengodi che le andava procurando.

Non &egrave che il Gabriele se ne stesse inerte.

Ora le brancicava le chiappe, ora le tette, ora le pizzicava il grilletto e la faceva sobbalzare.

Le foglie di granturco del saccone accompagnavano con una sorta di gracidare che cresceva a mano a mano che aumentava la loro foga.

Era rovente la potta di Vanna che aveva deciso di fondere il pestello che la scuoteva, e di lasciarlo uscire da lei solo sotto forma di piccolo rivolo incandescente che avrebbe sentito percorrerla, come lava, nel canale ch’era tra le sue chiappe e infiammarle il buchetto che le impreziosiva. Ogni volta che ci riusciva sentiva quel buchetto contrarsi e la potta stringere freneticamente il bischero indiavolato del suo arcangelo.

La pensata fu premiata.

Era da poco venuta, travolta da un orgasmo che la fece contorcere tutta, che sentì l’esplosione del cratere di Gabriele, e poi fluire, come aveva previsto, la colata che andava raccogliendosi intorno al suo buchetto palpitante.

Si rilassò beata, rimanendo vigile, però, nel timore che la fusione del battaglio fosse totale, purtroppo, e lei non lo sentisse più. Strinse la potta, mosse le natiche, e sobbalzò felice nel constatare che l’omo nulla aveva perduto del suo vigore, e che il suo bischero di bronzo s’era trasformato in ferro.

Si sfilò lentamente, allora, e si mise a pancia sotto, sulla sponda, sì che il Gabriele capì, afferrò il suo coso e cominciò a infilarlo nel buchetto della donna, ben lubrificato col suo seme che ancora ornava la potta spalancata e fremente.

Uno stantuffare deciso, ritmico, con lei che gemeva e sculettava, specie quando i testicoli sbattevano le chiappe.

Le mani di Gabriele le tormentavano il clitoride impazzito, e le strizzavano i capezzoli.

Pur nell’incalzare del piacere, con voce roca Vanna l’incitava a proseguire.

‘Va tu, toro.. dagli dentro stallone. Che poi ti cavalco io’ via’ ora’ così’ come tu sei bello’ come sei bono’ eccomi Gabriellino’ ora ti spremo”

E Gabriellino si fece spremere, fino all’ultima goccia, e rimase su lei. Sudato ma pago.

Dopo quella scorpacciata antelucana, di bischero, potta e deretano, la coppia si decise a seguitare la giornata così bene iniziata.

Si levarono dal letto, girarono un po’ per casa, sempre nudi, chi si sciacquò a destra, chi a manca.

Ancora qualche pacca sulle spalle, una ciucciata di zizza, una scampanellata di bischero, e poi indossarono i soliti panni, mangiarno quel che Vanna aveva preparato, presero le zappe, il fagotto con le provviste e s’avviarono al campo.

Proprio sull’uscio, Vanna gli afferrò il coso tra le gambe, nelle brache.

‘O vomere di ciccia, sta in campana, che questa sera t’aspetta il tu’ solco per l’inseminata!’

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ORA DECIMA

Il sole era già abbastanza alto, nel cielo, nei campi la gente lavorava. Chi in silenzio, chi accompagnandosi col canto.

Finiti i servizi che doveva svolgere in convento, Fra Giocondo, che vestiva da frate ma non era ordinato sacerdote, prese la bisaccia, i due soliti recipienti, chiese la benedizione del Priore, e s’avviò per la cerca.

Quello era il giorno della settimana destinato a girare per le case dove gli veniva dato del cibo, sotto forma di farina, formaggio, salame, frutta, qualche volta anche una gallina, olio e vino che, appunto, versava nei contenitori appositi.

Se aveva fame, e l’aveva quasi sempre, sbocconcellava un tozzo di pane, un cantuccio di cacio, e mandava giù tutto con qualche non spilorcio sorso del vinello misto che aveva raccolto.

Fra Giocondo era alto e grosso come un armadio, quasi un metro e novanta, ma non corpulento. Il lavoro in convento, zappare l’orto, percorrere i campi per chilometri per andare da una casupola all’altra, lo manteneva in perfetta forma e pieno vigore. L’ultimo sabato del mese era destinato alla cerca in paese, il piccolo borgo a qualche chilometro, dove viva era la devozione per il santuario curato dai frati.

Quel giorno era sabato, abbastanza caldo, e il pesante abito monacale era già di per sé pesante e non richiedeva, certo, altro indumento.

Fra Giocondo, entrato in convento da ragazzo, a poco più di quindici anni, ne aveva trascorso altrettanti senza troppo star a pensare sulla sua sorte. Non sapeva leggere e tanto meno scrivere, ma conosceva a mente le preghiere più frequenti, e perfino in latino. Anche se qualche parola era alquanto storpiata. Del resto, rimasto solo, cosa avrebbe potuto fare? Almeno al convento aveva la sua cella, si mangiava discretamente e qualche volta addirittura bene, fino a riuscire a saziarsi del tutto.

A passo lento s’avviò verso il borgo.

A metà strada, tra le prime case dell’abitato e il convento, scorreva il Rio Murchiaro, così chiamato, forse, per il mormorio dell’acqua e la sua limpidezza, che rigirava tra i campi in infinite piccole anse, prima di divenire più rettilineo. Era attraversato da un ponticello in pietra, molto antico, che per la foggia poteva farsi risalire ai Romani.

Fra Giocondo costeggiava il Rio per un lungo tratto.

Dopo alcune siepi, appena girato il viottolo, vide, nascosta tra le canne, la sagoma di una donna intenta a lavare nel torrentello.

Fra Giocondo si fermò di colpo, in verità folgorato dal sedere prominente della donna che, nel rannare la biancheria, sculettava lascivamente destando immediatamente pensieri concupiscenti, specie in un giovane sano e robusto, con lunghe astinenze sessuali, e suscitando inevitabili conseguenze che subito presero ad urgere nella tonaca del frate.

Era evidente che la donna si credeva al riparo di qualsiasi sguardo.

Fra Giocondo, con passo più felpato d’un cane da punta, s’avviò verso la donna. Ora la vedeva meglio. Era giovane, scura di capelli, e dai bei tratti del volto. Si alzò, la donna, per torcere quanto aveva sciacquato, e dalla più che generosa scollatura, lasciata aperta forse per soffrire meno il caldo, s’intravidero due poppe grosse e sode, che sobbalzavano poco o nulla ai movimenti della torcitura.

Il bischero di Fra Giocondo sembrava impazzito.

Lui pensò perfino di farlo calmare con la solita manovra’ palmare, ma quando la donna si rimise nella stessa posizione di prima (che ridancianamente era detta a buco burzò), il bischero gli propose altre soluzioni.

Era un azzardo, certamente, ma tanto era un luogo isolato e l’eventuale fallimento dell’impresa sarebbe rimasto lì. La donna non avrebbe certamente parlato, e se lo avesse fatto chi l’avrebbe creduta?

Veramente, qualche massaia le avrebbe creduto, ed anche invidiata ricordato le vigorose prestazioni di Giocondo.

Il frate seguitò ad avvicinarsi, senza farsi udire.

Il rumore del Rio e le sbattute dei panni sulla pietra, forse, coprivano tutto.

Le era alle spalle.

Quel sedere era portentoso, una vera tentazione.

Lui si disse che o allora o mai.

Sollevò dolcemente la gonna della donna e gli apparve quello che definì lo spettacolo del paradiso’ o dell’inferno. Forse dell’inferno, perché era tutto nero e rosso!

Un deretano rosa e liscio, e la potta bene in evidenza, con le grandi labbra che sembravano in trepidante attesa d’essere baciate dalla cappella ardente d’un bischero.

Giocondo, alzò la tonaca e ne serrò il lembo tra i denti, poi andò ad infilare il suo poderoso uccellone tra quelle chiappe che si alzarono, per fargli comprendere che più che il buchetto nascosto era la potta che attendeva la santa benedizione di quel grosso cordone.

Era polposa, la donna, ma le dimensioni del fratacchione erano tali che dovette dilatarla ben bene per accoglierlo, e non tutto, perché Giocondo sentì d’aver toccato il fondo e, notando una certa smorfia sul volto di lei, che s’era girato a guardarlo, s’era appena tirato indietro. Non troppo, però, perché lo spingere della femmina gli fece comprendere quanto ne voleva.

Era da molto che Giocondo non incavallava una femmina, e la sua giumenta del momento ne ebbe tutti i vantaggi. Era tenero, l’omone, ed attento che lei godesse, ed era instancabile.

Una sonata del genere, così melodiosa, e di tanta durata, non aveva mai gustata la pur vigorosa potta della donna, ma l’armonia fu tale che pur sentendosi quasi venire meno, per lo sconosciuto piacere che provava, corrispose entusiasta agli assalti del maschio, e lo strizzò ben bene, quando sentì in lei un torrente ben più caldo ed impetuoso di quello in cui giacevano, negletti, i panni ancora da lavare.

Pur nell’estasi dei sensi, e non sapendo se gioire o sgomentarsi per la nuova battaglia che con rinnovato vigore quel pestello delizioso aveva ingaggiato nella sua potta, la donna pensò che il prossimo sarebbe stato veramente un bravo figliolo: un genuino figlio di frate.

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MERIDIE

Quando il sole &egrave a picco, per consuetudine si smette il lavoro e si mangia qualcosa.

Il vecchio disse che andava a sdraiarsi all’ombra dell’albero, e portò con sé il fagotto col cibo e la fiasca col vino.

La casa era troppo lontana perché invitasse ad andarci.

Poco discosto era l’antico pagliaio, ora quasi in disuso, ma che conservava ancora qualche balla di paglia. Una specie di riserva occulta. Vi si accedeva attraverso la piccola apertura, a poco più di un metro e mezzo dal suolo.

Certo era un posto riparato dal sole, e forse anche abbastanza fresco perché il legno delle pareti, e la paglia, finivano col riparare sia dal caldo che dal freddo.

Jacopo propose a Flora di andare li a consumare il loro pane e formaggio.

A Flora non dispiaceva quell’invito, anzi sperava che avesse ben altri fini, ma disse che era difficile arrampicarvisi, senza una scaletta.

Per Jacopo era uno scherzo salire nel pagliaio, e una volta lì avrebbe aiutato a farlo anche alla donna, tirandola per le mani.

Ma c’era un’altra proposta, ben più allettante.

‘O via, Flora. Ti spingo io e poi tu m’aiuti.’

Flora era curiosa in merito al tipo di spinta. S’avviò al pagliaio. Alzò le braccia e s’aggrappò con le mani al traversino che faceva da soglia d’apertura e attese.

Sentì le forti mani di Jacopo agguantarle le chiappe e sollevarla, lentamente, mentre s’accertavano coscienziosamente della compattezza di quelle procaci rotondità, inserendo ben diritti i pollicioni nel solco che le divideva. Quel contatto, oltre che i pollici, drizzava ben altro allo scalpitante Jacopo, e stimolava entrambe gli orifizi che la donna custodiva nel fessiere.

Sarà stato il lavoro, l’ora, il clima, ma entrambi erano ben caldi e necessitanti di riposo. D’un certo tipo, però.

A Flora era già da un mese che il marito era distante, al seguito obbligato del signore del maniero, e quasi un altro mese l’attendeva prima del ritorno.

Giovane ed esuberante com’era, tutto quel toccamento la scombussolava e l’eccitava. Andava pensando che se il pollice mi dà tanto, figurarsi il resto cosa mi procurerebbe.

Jacopo seguitava a sollevarla e come ella s’appoggiò col petto all’entrata, le mani scesero, dapprima sui polpacci, e poi, sotto la gonna, risalirono sulle cosce, sempre più su.

Dio bonino, si disse l’uomo, guarda che pelle, ed &egrave senza nulla sottopanni. La donna era entrata nel pagliaio e l’uomo non ebbe bisogno d’aiuto per issarvisi agilmente.

Flora s’era seduta nell’angolo, su un mucchio di paglia e poggiava la schiena sella balla. Jacopo le si mise quasi a fianco, un po’ di sbieco e l’occhieggiava, ora il volto, un po’ accaldato e roseo, ora le poppe, costrette nella veste, ora le gambe che erano un bel po’ scoperte.

Il crescione, come lui lo chiamava familiarmente, gli s’era bello che sviluppato nelle brache e insisteva prepotente per balzar fuori, rompere la prigionia. Era così evidente che Flora a mala pena riusciva a distogliere lo sguardo dal quel rigonfio, e a leccarsi le labbra, mentre sentiva il grembo contrarsi e la potta chiedersi perché aspettare ancora, perché restare affamata quando c’era tutta quella grazia di dio che poteva saziarla.

Flora aprì il fagotto, porse all’uomo un pezzo di pane e un tocco del formaggio che produceva lei stessa. Poi gli passò la fiasca.

Nel chinarsi, le belle poppe occhieggiarono dalla scollatura, una, anzi, era quasi sul punto di sfuggire tutta, ma lei indugiò nel bere alla fiasca, nel rimetterla per terra, senza curarsi di far tornare la tetta al posto suo.

Jacopo fu premurosissimo, tese la mano, ma non spostò la stoffa per far rientrare in sede la poppa, sebbene afferrò questa e la tirò fuori del tutto, la strinse un po’ e poi si chinò a suggerle il capezzolo che s’era imbrunito e drizzato. Flora mostrò d’essere sorpresa, ma nulla fece per sottrarsi a quella stretta, a quel bacio, e quando l’altra mano di Jacopo s’infilò sotto panni, e andò subito a frugarle nel boschetto tra le gambe, pensò che il non dischiuderle poteva essere segno di sgarberia, e così si trovò con due grosse dita che le titillavano il grilletto e penetravano nella vagina già ben brodolosa.

Perché contentarsi del surrogato quando c’era il prodotto genuino?

Non fu difficile calargli le brache e agguantargli il bischero rubizzo che sembrava la torre del maniero. Poi, in men che non si dica, si denudò, e lui fece altrettanto. Si riversò sulla paglia e allargò bene le gambe, alzando le chiappe mentre lui, in ginocchio, le si era avvicinato ed aveva posto la fumante cappella del suo fallo, tra le piccole labbra invitanti.

Le entrò dentro, accolto come il liberatore d’ogni male, con lei che vibrava e si torceva, e lo mungeva avida e golosa.

Era sensibile, la Flora, perché non ci volle molto che il suo sommesso mugolare iniziale si trasformasse in gemito crescente, mentre volgeva la testa a destra e manca, e agitava le braccia, quasi ad annaspare, E veniva, una volta dietro l’altra, quasi senza interruzione, e fu così fin quando la calda inondazione non le consentì di rilassarsi e giacere ansante e sudata.

Le esigenze della matura avevano avuto la prevalenza su tutto. Non avevano resistito all’imperioso richiamo dei sensi, anche se mancavano solo quattro settimane al rientro dello sposo.

Anche per Jacopo era stata incontenibile l’eccitazione che fin dal mattino stava sempre più crescendo, al vedere quel corpo giovane, quelle rotondità, il sussultare delle poppe, e gli sguardi vogliosi e promettenti della femmina.

Quel dimenarsi delle natiche, quando, curva, strappava le erbacce, non era solo spontaneo e naturale, era una promessa. Ed era stata pienamente mantenuta.

Erano rimasti così, lui sempre poggiato sulle ginocchia, lei con le gambe aperte, il seno palpitante, la potta lì, sotto i suoi occhi, sempre più invitante.

Padròn ‘bischero’ era di nuovo armato, brando snudato che anela riporsi nella suo natural guaina.

Guaina che anela il brando.

Jacopo si allontanò appena, tese la mano, la fece alzare, girarsi, porsi carponi, abbassare il capo.

Il suo fallo trovò facilmente la strada, mentre lei, sempre più smaniosa, con le mani s’industriava di agevolargli il cammino, dilatando le chiappe.

Uno stantuffare che nessun battipalo avrebbe potuto superare.

Le mani di lui stringevano le poppe e vellicavano il clitoride, e lei riprese quel suo mugolare, dimenandosi sempre più, spingendo come a volersi sentire penetrata anche laddove possibile non era.

Nell’interno, il suo grembo s’apriva sempre più. Come solco fecondo che intenda attrarre il seme.

E il seme di lui, di nuovo riempiendola, era avidamente richiamato, così le sembrava, dal suo utero, dalle sue ovaie, da tutta sé stessa. Ingordamente.

Purtroppo, l’intervallo del ‘meridie’ volgeva alla fine e non potevano tardare a tornare al lavoro, soprattutto per non destar sospetti.

Si detersero, alla meglio, con manciate di paglia, e si rivestirono.

Scesero dal pagliaio.

Avviandosi al lavoro, Flora, con volto incantevole ed incantato, lo guardò, con occhi sfavillanti.

‘Credo che il mi’ Piero, lo chiamerà Ottavino?’

‘Chi? Perché?’

‘Il figlio che tu m’ha dato adesso.

Ottavino, perché nascerà all’ottavo mese dopo che lu’ m’avrà coperta.’

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OCCASO

La Badia del Colle era un vecchio convento, dove, a quanto si diceva, le preghiere delle brave suorine riuscivano a far prodigi, soprattutto esaudendo le donne che desideravano dare un figlio al loro uomo.

Nel borgo e nel contando si scherzava grosso, intorno a questo. E si sghignazzava dicendo che non tanto l’era un’ ‘ave’ a render feconde le femmine pellegrine, quanto un ‘padre’, ma d’un altro convento!

Badia al Colle era affidata, per lunga tradizione, alle cure di una Badessa proveniente da una delle famiglie nobili del circondario. Quella che, una volta insediata la Priora, avrebbe generosamente concorso alle bisogna del convento.

Madre Balda era divenuta superiora benché molto giovane, ma nessuna delle suore aveva sollevato obiezioni perché così, almeno, si assicuravano un benessere diversamente impossibile. Balda, infatti, che aveva voluto mantenere anche nell’ordine il suo vero nome, era di famiglia ricchissima e magnanima.

Tra le stesse suore si sussurrava il motivo di quella strana ‘chiamata’ alla vita del chiostro. Una giovane donna, così bella, attraente, ricca, che rinuncia alle attrattive del laicato. Si diceva (ed era vero) di una passione travolgente per un altrettanto giovane cavaliere, d’una gravidanza nascosta e naturalmente interrotta (volontà del Signore), della destinazione al convento, da parte della famiglia, ad espiazione del peccato, anche perché il giovane artefice dell’accaduto, aveva pensato bene di morire affogato nel torrente.

Tremavano, le suorine, al pensiero che Madre Balda avrebbe fatto pagare a loro la sua rabbia repressa per quel suo ergastolo.

Balda, invece, si mostrò dolce, comprensiva, aperta al dialogo e ai suggerimenti delle anziane, ma era molto riservata, e al di fuori delle riunioni di comunità previste dalla regola, preferiva restare nella sua cella, una come tutte le altre, a leggere, a scrivere chissà cosa, o a passeggiare nel chiostro, o andare nell’orto a vedere i prodotti della terra che arricchivano la modesta mensa delle suore.

Alta, snella, indossava la veste religiosa con eleganza, ma anche con malcelata insofferenza per dovere il suo statuario corpo, restare immiserito in quelle vesti. Non aveva tagliato i capelli, come avrebbe dovuto, né indossava quella specie di cilicio che comprime il petto come fosse peccato possederlo. E quello di Madre balda era davvero affascinante.

Erano state recitate le devozioni del tramonto, nella bella chiesa annessa al convento, e quasi tutte le suore, meno quelle che dovevano attendere alla cucina o a qualche compito particolare, s’erano trattenute a pregare, anche perché dal tramonto in poi non era consentito uscire all’aperto.

Balda, però, come Badessa, era esente dal rispettare tale limitazione.

Andò nel vasto orto. Aiuole ben tenute, ben coltivate.

Menico, l’ortolano, poneva gran cura nel suo lavoro, e cercava di far crescere gran varietà di prodotti, e di curare i fiori.

Quando era l’ora, andava alla ‘ruota’ della cucina a ritirare i pasti. Dava le sue cose da lavare, e non sapeva gli sghignazzi soffocati delle suore al vedere quelle grosse brache; ritirava il pulito.

I fiori della chiesa li lasciava sul primo banco. A sistemarli pensavano le suore.

Finito il tutto, alla sera, si ritirava nel capanno degli attrezzi dove, in un canto, aveva provveduto a costruirsi un giaciglio, su tavole coperte d’un materasso di foglie, usando lenzuola e coperte fornitegli dalla suora economa.

C’era anche il caminetto, nel capanno, che serviva a scaldare un po’ di latte e a vincere il freddo d’inverno.

Menico capiva tutto, ma non parlava, non aveva mai parlato. Dalla nascita.

Comunicava prevalentemente a gesti, e qualche volta emetteva dei suoni inarticolati, come guaiti, ma non striduli. Del resto quello che doveva dire era quasi sempre lo stesso, ripetitivo, e i suoni erano un superfluo accompagnamento.

Balda, lentamente, senza affrettarsi, entrò nel capanno di Menico.

Lui era sul giaciglio. Aveva da poco finito di lavarsi con l’acqua del pozzo, ed avevo messo gli attrezzi al loro posto. Indossava solo le brache, ed era scalzo. Quando Balda entrò, si mise a sedere. Aveva acceso la lucerna, anche se la luce del giorno era ancora discreta. Guardava la donna, fissamente.

Lei andò sul tappetino chiaro che era vicino al giaciglio gli si fermò dinanzi, senza particolare espressione del volto, si voltò, dandogli le spalle.

Un rito che si ripeteva di quando in quando, senza modifiche iniziali e con fantasiose variazioni successive’ in corso d’opera.

Menico seguitava a fissarla e, intanto, aveva slacciato le brache e le aveva sfilate, ostentando un vigoroso ‘manico del diavolo’ che svettava verso il cielo più della torre del Mangia.

Balda sciolse destramente il soggolo, la fascia che copre il collo e circonda il volto, e lo poggiò sulla sedia. Disfece il cordiglio che le cingeva la vita, sbottonò la veste, la lasciò cadere per terra, mostrandosi in tutta la sua splendente nudità, con un corpo perfetto che ancor più divenne irresistibile quando si chinò a slacciare i calzari.

Menico era sempre immobile, attendeva il volere della sua signora e padrona.

La donna si alzò, alzò le braccia, stiracchiandosi, e cominciò a retrocedere.

Evidentemente era una manovra nota, perché Manico si sdraiò e attese che, sempre senza voltarsi, la donna salisse sul giaciglio, si accovacciasse si lui, proprio dove l’asta poderosa s’ergeva e cominciasse a impalarvisi, mentre lui la sorreggeva tenendola per sode e meravigliose chiappe.

Balda era raffinata anche nell’accoppiamento, e mai monotona.

Voleva sentirlo entrare gradatamente, lentamente, voleva centellinarlo e accoglierlo con i vibranti palpiti della sua potta che ben alloggiava cotanta fava, sbaccellandola golosomante. Era l’invadente capezzolone che mungeva con maestria. Si alzava e abbassava sempre più in fretta. Evidentemente lo spartito non era nuovo a loro, perché Menico aveva preso a carezzarle il ventre, tra le gambe, a strizzarle le poppe, ad andarle incontro e simular l’uscita, con i suoi piccoli e sordi guaiti inarticolati, mentre la Balda gemeva roca e smaniosa, godendo voluttuosamente, e sicura dello stallon che la chiavava.

Menico l’aveva sentita dimenarsi nel godimento orgasmico che l’aveva travolta, e ben sapeva l’epilogo che la femmina s’attendeva.

Quando fu il momento opportuno, si sfilò da lei e glielo spinse bellamente tra le natiche, infilandoglielo nel buchetto che lo attendeva ansioso. E fu ancora la Balda a tenere il ritmo, in attesa della calda invasione che si sparse in lei come un balsamo, un lenitivo che la ripagava d’ogni rinuncia e attesa.

Si diceva, nel contado, che per la legge del giglio chi il prende dietro non ha figlio, e la Madre Badessa non voleva aver figli che le sue care sorelle.

Menico comprendeva bene tutto ciò, e si prestava volentieri alla bisogna.

Peccato che non parlava.

Mentre la donna si asciugava e si rivestiva, dopo avergli data una fuggevole carezza, lui pensava che la Badessa tra il salvar l’onore o il deretano, aveva scelto l’onore.

Prima di indossare nuovamente il soggolo, si avvicinò a Baldo, gli afferrò il bischero con la mano, e andava menandoglielo teneramente, mentre lo baciava focosamente cercando con la sua la lunga e nota lingua del maschione.

Prima di uscire dal capanno, Menico, ancora tutto nudo, l’accompagnò alla porta e le baciò devotamente la mano.

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NOTTE

Lo chiamavano tutti ‘il Castello’, anche se era solo un grosso edificio, su due piani e con una bassa torre merlata che, appunto, gli aveva dato quel nome. Nessun fossato, però, intorno e, quindi, nessun ponte levatoio.

Era sul poggio, non lontano dalle prime case del borgo, e da tempo immemorabile apparteneva ai Da Moiano, gente ardimentosa, che alternava le generazioni, destinandole ora alle armi ora agli studi umanistici.

In quel tempo, signore del Castello era Baccio, uomo serio, calmo, tutto preso dai suoi viaggi che intraprendeva per ampliare la sua conoscenza, soprattutto nel campo delle lettere. Una delle sue prime passioni la poesia religiosa di qualche tempo innanzi: Bonvesin da la Riva, Giacomino da Verona. E poi gli piaceva lo studio comparato di questi cantori, ora religiosi ora laici e ridanciani, spesso scurrili. E così restava fuori anche qualche stagione, dilungandosi fino alle rive del fiume che attraversava la Lutetia Parisiorum, ed ancor oltre, attraversando l’acqua e risalendo il Tamigi.

Era li che s’era innamorato di Glady, l’aveva impalmata e l’aveva condotta nel suo Castello, accolto dalle riverenze della sua piccola corte e da qualche commento circa i quattro lustri che intercorrevano tra la sua età e quella della bionda bellezza albionica.

Monna Glady, era simpatica, dolce e, soprattutto d’una bellezza sopraffina, degna d’essere ritratta dai più delicati e insigni pittori del tempo.

Baccio aveva di molto diradato i suoi viaggi e le sue assenze erano abbastanza brevi, lasciando alle passeggiate, al disegno, al ricamo, la sua bellissima e giovane sposa.

Appena giunta al Castello, Glady aveva avuto qualche piccola difficoltà per il clima, ma Baccio pensò subito di chiedere il parere e l’opera di Messer Fosco, detto Gualco, cerusico di fama, speziale illustre ed anche alchimista e studioso della natura. Per Fosco tutto era natura, i fiori, le piante, le pietre, i metalli, gli animali, e soprattutto l’uomo, e della natura cercava di svelare i segreti, per cui si dedicava all’anatomia, alla flebotomia, alla chirurgia, ai filtri tratti dal regno vegetale, minerale e animale.

Quand’ebbe occasione di essere consultato dal Baccio, per via della sposa, restò basito da tanta bellezza e tanta perfezione. Monna Glady, o come si chiamava, era una vera perla e la natura s’era compiaciuta in essa, dandole un volto soave, trecce come l’oro zecchino, occhi più azzurri del celo, e carni ch’eran più rosee e sode del marmo del Portogallo. E lui, sia pur presente il consorte della donna, aveva avuto modo di esaminarle, auscultarle e, anche se non necessario, palparle.

Al Baccio, che attendeva ansioso il responso del cerusico, Messer Fosco assicurò che Madonna meglio non poteva stare e che appena assuefatta al clima e al cibo, sarebbe stata ancor più sana e sempre bella.

Quella femmina, certo, era la più avvenente del contando e più d’ogni altra che lui avesse veduta, visitata oppur ‘gualcata’, perché l’aggiunta di Gualco al suo nome, Fosco, era dovuta appunto alla fama che tra le donne s’era guadagnato per come le sapeva gualcare, ch’era, appunto, il comprimere, premere, pigiare la lana, follarla, per ottenerne feltro. E lui le infeltriva a modo, abbondando pure nel quanto di colloso andava posto per completare l’opera, sì che non pochi erano i ‘foschini’ sparsi nel contado.

Da quel momento Glady non uscì dai pensieri di Fosco.

Accudiva Glady una giovane fantesca, che l’aiutava in tutto: nel bagno, nel vestirsi ed adornarsi e quando il Baccio era lontano da casa, dormiva nella camera antistante quella degli sposi, a guardia della serenità della padrona.

Berta, che così si chiamava la fante, aveva assistito al consulto di Fosco, e, soprattutto fantasticato su quel chiamarsi Gualco. Lo scrutava incuriosita, gli spiava le brache, e s’era avveduta che qualcosa andava movendosi, là, mentre il cerusico s’attardava a palpeggiare la padrona.

A quel ‘qualcosa’ tornava sempre la mente, e s’era proposta che avrebbe cercato in ogni modo d’approfondire la conoscenza.

Fosco, da canto suo, riteneva che per giungere alla padrona doveva passare per la serva, il ché, poi, non era affatto disprezzabile.

Nei Carmina Priapea un distico dice: ‘a fallo dritto non manca fortuna!’

Era logico, dunque, che Fortuna l’assistesse.

Baccio dovette andare in quel di Perugia e sarebbe mancato almeno dieci giorni. Durante quel tempo Berta avrebbe montato la guardia. Fosco si proponeva ben altro montare.

Fece in modo d’incontrare la Berta, ma nulla le chiese della padrona, sibbene le fece chiaramente intendere che la bramava tanto e che di molto volentieri l’avrebbe gualcata. Non attendeva altro la giovane, e al solo udir quelle parole la potta le si inumidì, vogliosa. C’era l’ostacolo che le, Berta, avrebbe dormito proprio nell’anticamera di Madonna’

La notizia destò entusiasmo in Fosco che subito pensò che nessuna migliore occasione si sarebbe mai presentata per togliersi il grande desiderio, non della serva, ma della bionda castellana.

Sorrise alla donna.

‘Nessun impedimento, anzi’ vedi, io preparerò due pozioni, e le metterò in due ampolle. In una sarà il filtro per far dormire pesantemente la tua padrona, e tu glielo farai bere con una qualche scusa, e l’altro, invece, conterrà un nettare afrodisiaco che t’aiuterà a conoscere, con me, piaceri mai sognati, a godere come non sai.’

‘Come farò, messere, a sapere il contenuto delle ampolle?’

‘Dal colore. La rossa conterrà il fuoco della passione, la nera il buio del sonno.’

Fu convenuto che l’indomani, poco prima del tramonto lui gliele avrebbe portate. E così fu.

Berta dette alla padrona il liquido della boccia nera, e le rimboccò le coperte. Poi s’agghindò per la notte, ovvero indossò solo una leggera camiciola, bevve il contenuto dell’ampolla rossa, ed era gradevole, e andò nel letto ad attendere il suo ganzo.

Quando Fosco, adoprando la chiave avuta da Berta, entrò nella penombra dell’anticamera, la giovane, supina, con volto disteso e sorridente, ronfava pesantemente, e non si sarebbe svegliata, Fosco ben lo sapeva, che ad alba avanzata. Il contenuto dell’ampolla era d’effetto sicuro, perché in quella rubino lo scaltro alchimista aveva abbondato col narcotico.

S’accostò all’uscio di Monna Glady e lo dischiuse.

Ancorché poco fosse il chiarore della lucerna cieca che era nell’angolo, ben si vedeva la giovane agitarsi sul letto, come in preda a smania. Una frenesia nuova per lei, che l’assaliva per la prima volta in quel modo, incontenibile, e per giunta non c’era neanche Baccio. Pensò d’alzarsi, di chiamare Berta, di farsi preparare un bagno che potesse quetarla. E intanto si girava e rigirava, e nell’irrequietudine non s’era nemmeno accorta che le sue mani impazienti le avevano strappata da dosso la camicia e la percorrevano tutta, soffermandosi dove maggiore era il bramosia d’essere carezzata. E non solo,

Fosco, intanto, liberato d’ogni vestimento e, con quasi un palmo di svettante e robusto crescione per sei pollici di circonferenza, s’era avvicinato al letto sul quale era la donna, senza che ella se ne avvedesse, vi salì e si pose dietro a lei, abbracciandola dolcemente.

Glady percepì qualcosa di immensamente piacevole. Finalmente. Sentì baciarsi la nuca, una mano carezzarle il seno, una grossa verga insinuarsi piacevolmente tra le natiche.

Si voltò appena, mettendosi supina, e incontrò le labbra d’un uomo. Gli pose la mano dietro la nuca e l’attirò a sé, baciandolo con desiderio e passione.

Fosco sapeva affrettarsi lentamente, non voleva apparire irruente, impaziente. Ricambiò il bacio, frugando con la lingua in quella bocca incantevole.

Sentiva il desiderio, l’urgenza della giovane femmina palpitante.

Doveva saggiare fin dove poteva giungere, ma era convinto che l’elisir, la gioventù, il temperamento, tutto concorreva a ché Glady fosse desiderosa d’accoppiarsi, ancor più di lui. Sapeva di dover essere dolce e delicato col suo bischerone, per non provocare reazioni e contrazioni, eventuale ripulsa della potta per la dimensione del coso.

Glady era timorosa, ma nel contempo attratta, ammaliata da quel contatto. Aveva timore che la delicatezza della sua vagina, le sue piccole labbra rosa, pur palpitanti, non avrebbero retto a quello che temeva un assalto troppo impetuoso. Ma l’istinto, le pulsioni, le avevano fatto schiudere le gambe e tra esse s’era sistemato il Fosco.

Si, il sesso dell’uomo era ben grosso e vigoroso, ma lui era tenero e amorevole.

La cappella del fallo s’era timidamente inserita tra le piccole labbra, e attendeva che l’orifizio si rilassasse. Glady non solo non provava nessun fastidio, ma era desiderosa di accoglierlo, di dilatarsi per ospitarne quanto il suo grembo ne poteva contenere.

Fosco azzardò una delicata spinta.

Glady pensò che, dopo tutto, quella sia pur voluminosa varra (lei pensava soprattutto nella sua lingua natale, such a huge prick, anyway, is smaller than a baby’s head) era comunque più piccola della testa di un neonato. Respirò profondamente, e la penetrazione proseguì, trionfante, senza problemi, e molto bene accetta.

Meravigliosa e deliziosa invasione, che le contrazioni delle pareti festeggiavano entusiaste.

Aveva alzate le braccia, Glady, e s’era abbandonata al piacere.

Abbandonata, per modo di dire, perché vi partecipava attivamente, attendendo ansiosa quelle decise ma delicate spinte e sussultando per il godimento sconosciuto che le arrecavano.

La forza di due giovani corpi sprigionava voluttà ignote.

Sembrava che Galdy avesse nascosta e soffocata nel proprio grembo l’esuberante e passionale femminilità, che ora prorompeva impetuosamente e la travolgeva in un susseguirsi di squassanti orgasmi che la facevano sussultare, palpitare, dimenare.

Aveva sollevato il bacino per accoglierlo il più possibile, come l’ingordo che pur pieno vorrebbe angora ingozzarsi della sua leccornia preferita.

Non &egrave vero che la potta non abbia fondo, la sua lo aveva, e come, ma era perfino bello sentire il glande infuocato battere sul portio. Il muso di tinca, la bocca dell’utero, come a volerlo dischiudere e penetrare anche in esso, e salire sempre più.

Lo sentiva dappertutto, ne era invasa, nel ventre, nello stomaco, nella gola, nella mente oltre che nel corpo.

Quell’incontro frenetico la riempiva e nel contempo la svuotava. La infiammava ma anche la illanguidiva.

La cosa andò avanti per moltissimo tempo, instancabili amanti, ma poi la natura ebbe il sopravvento e giacquero, ansanti, disfatti, ma totalmente paghi.

Stavano per sorgere le prime luci dell’alba.

Glady stava supina, divinamente affranta, stordita, in completa estasi.

Fosco si avvicinò, la baciò sulle labbra e la carezzò voluttuosamente tra le gambe.

Si rivestì.

Uscì chetamene, s’avvicinò a Berta che, ora, era su un fianco. Introdusse una mano sotto il lenzuolo, tra le cosce della fanciulla, e giocherellò col sesso di lei. Avvicinò le labbra all’orecchio della ragazza.

‘Berta, sei stata bellissima, ora devo andare, ma tornerò, Tienmela sempre pronta, &egrave meravigliosa.’

Lei sembrò uscire dalla nebbia.

‘Cosa abbiamo fatto?’

‘Tutto, tesoro, tutto, e t’&egrave piaciuto tanto che sei quasi svenuta, non ricordi nulla. Tornerò.’

Uscì alla chetichella dalla casa dei Da Moiano, sicuro che quella dinastia non sarebbe terminata con Baccio.

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