Souk al-Mehl, il vecchio mercato del sale, era, come sempre, affollatissimo, non si riusciva a comprendere cosa facesse, dove andasse, quel fiume di gente indaffarata.
Vagavo, senza una destinazione precisa, senza uno scopo, in attesa di avere la risposta che attendevo. Malgrado l’ora, il clima era accettabile. Gli oltre 2300 metri sul mare, ai piedi del Gebel Nuqum. rendevano il posto serat, luogo fresco.
L’appuntamento era fissato per il pomeriggio, prima dell’ora del tè. In ogni caso, era preferibile tornare in albergo, pranzare, e mettersi a leggere il giornale, aspettando l’incaricato dell’agenzia.
A volte, non é facile intendersi, specie quando uno vuole venderti una cosa che tu non desideri, in luogo di quella di cui hai bisogno.
Gli avevo spiegato che non m’interessava raggiungere Hodeida, perché dovevo e volevo andare ad Aden. Se lui non aveva la possibilità di provvedere a un idoneo mezzo di trasporto, avrei cercato altrove. No, non intendevo avvalermi dell’aereo, dovevo svolgere il mio programma, e nelle mie corrispondenze non mi proponevo di descrivere cose non viste direttamente. D’accordo, sapevo anch’io che in alcuni articolisti prevaleva la fantasia, tanto più che la maggior parte dei lettori non aveva elementi per distinguere il vero dall’immaginario, ma il primo ad essere interessato al de visu ero io stesso.
Sapevo bene, inoltre, che la minaccia di rivolgermi altrove non avrebbe potuto aver seguito, perché quel tipo d’arrangiamento era prerogativa di un ben identificato monopolio. Non intendevo, comunque, cambiare programma. Era certamente stimolante imbarcarsi a Hodeida, su uno sciabbecco, sabbak, con equipaggio yemenita, e toccare i vari piccoli porti, interessati a chissà quali traffici, fino a Gibuti, ma io intendevo percorrere una parte del paese, e ad Aden servirmi di uno dei pescherecci locali, per coprire con tutta calma il passaggio dall’Asia all’Africa, attraverso Bab el Mandeb, la porta delle lacrime, dopo aver toccato Perim.
Jabal entrò sorridente nella hall, e si diresse subito al bar, dove gli avevo detto che l’avrei atteso. Mi salutò calorosamente e sedette di fronte a me. Gradì una spremuta di pompelmo. Non aveva nessuna fretta, attendeva che fossi io a chiedergli cosa avesse combinato, per valutare il prezzo del mio nervosismo frettoloso. Gli parlai, invece, delle bellezze ammirate nella sua città, mi soffermai sulle splendide case, alte fino a 20 piani, e come fossi stato attratto da Bab al-Yaman, una delle più belle porte della città, la Porta dello Yemen. Gli dissi di aver comprato una bella riproduzione d’un antico gianbiya, il caratteristico pugnale locale, e una copia, in inglese, della Storia della letteratura, di Ahmad al-Shami.
Jabal sorrideva annuendo, e si complimentò per il gianbiya.
‘Ce ne sono bellissimi esemplari a Ta’izz, la nostra vecchia capitale, centro dell’oreficeria, e lei li potrà ammirare se si contenterà di come ho potuto provvedere al suo viaggio ad Aden.’
Aveva trovato il modo d’entrare in argomento.
Mi spiegò che aveva dovuto lavorare molto per contentarmi, ma grazie al Clementissimo e Misericordioso era riuscito nell’intento. Dovevo, però, viaggiare con un altro passeggero. Non ci sarebbe stato alcun disagio, perché Il Desert Minibus era nuovo e il driver, english speaking, molto bravo. Ancora una piccola cosa, trascurabilissima, era costituita dal fatto che, per esigenze dell’altro passeggero, avremmo fatto un percorso un po’ più lungo, ma molto, molto interessante. Due piccole soste, a Dhamar, città dei cavalli, e Ibb, rinomata per i lavori in cuoio, anche per conoscere la gente e gli usi locali, poi pernottamento a Ta’izz. Sia per un controllo meccanico, che per essere sicuri che tutto andava bene. Anche il giorno successivo ci saremmo fermati in quella città che, del resto, aveva un clima discreto, essendo a circa 1500 metri sul mare e non ancora nel tihamah, la zona calda. Le attrattive di Ta’izz valevano bene la giornata. Il mattino successivo, molto presto, si sarebbe ripartiti per Moca, Ash Sha Ab e finalmente, dopo aver rasentato la raffineria di Little Aden, si sarebbe raggiunta Aden, e il centro della città, il crater. Il servizio terminava dinanzi all’albergo.
‘Lei é molto fortunato, signore, un viaggio meraviglioso, comodo con ottima assistenza, confortevoli punti di sosta e pernottamento, e un prezzo veramente chip.’
Ma non disse quanto. Sarebbe stata la sorpresa finale, dopo aver scrutato l’espressione del mio volto.
Restai impassibile.
A bassa voce, bofonchiò una cifra.
Finsi di non aver compreso, e chiesi di ripetere la somma, logicamente in dollari.
Con tono più alto, mi chiese un certo importo, lievemente minore del precedente. Rilanciai con un forte ribasso e, dopo un paziente tira e molla, concordammo per il sessanta per cento della richiesta iniziale. Pagamento: metà all’atto della partenza, il resto ad Aden, dopo aver raggiunto l’albergo e scaricati i bagagli.
Jabal sorrise e si dichiarò sicuro che avrei saputo essere generoso col driver.
Gli promisi che ciò sarebbe stato in funzione dei servizi.
Eccomi ad Adan, nome arabo di Aden, in pieno tihamah, caldo soffocante.
Aden è solo seconda a Massaua in fatto di clima. Un detto locale dice che Aden é una fornace e Massaua l’inferno. Per fortuna, in albergo c’é l’aria condizionata, e funziona.
Quando, dopo una doccia ristoratrice, scesi nella hall, al momento in cui riconsegnai la chiave, il portiere dell’albergo, molto gentile, mi chiese se avessi trovato tutto in ordine, e aggiunse che era a mia disposizione per qualsiasi necessità. A titolo di referenza, aggiunse che gli ingegneri europei o americani, spesso ospiti della raffineria, non si erano mai lamentati di nulla, e che la discrezione era la parola d’ordine della casa. Sempre con un sorriso, e quasi per caso, m’indicò un uomo, al bar, vestito abbastanza accuratamente, informandomi che era il comandante d’un piccolo ma modernamente attrezzato peschereccio. Lo ringraziai, con un cenno d’intesa, e andai a sedere sullo sgabello accanto al giovane, che indossava una specie di divisa militare.
‘Buona sera, lei é italiano?’
Ottima pronuncia, un volto abbronzato, sereno, simpatico.
‘Lei parla bene la mia lingua.’
‘Sono stato imbarcato cinque anni su un peschereccio atlantico che batteva bandiera italiana. Questo, dopo i tre anni passati su un analogo natante giapponese.’
‘Adesso?’
‘Sono tornato in patria, lavoro in proprio, con i miei fratelli e un socio.’
‘Pesca?’
‘Principalmente. Se capitano, però, anche altri trasporti che richiedono buoni frigoriferi.’
‘Lei é il comandante?’
‘Si. Ero secondo in Italia, qui ho conseguito il brevetto di lungo corso, come dite voi. So che lei sta raccogliendo elementi per una serie di articoli, vero?’
‘Esatto, ma come fa a saperlo?’
Sorrise.
‘Le notizie viaggiano più veloci del Minibus.’
‘Sa anche la tratta che m’interessa?’
‘Noi abbiamo il miglior peschereccio del Mar Rosso e un equipaggio con lunga esperienza sia di navigazione che di pesca, le nostre uscite sono varie. A volte andiamo di fronte, a Mitsiwa, Massaua, a Nora, a Dahlac Chebìr, e scendiamo fino ad Assab e Gibuti. Altre volte andiamo a Barim, Perim, attraversiamo la porta delle lacrime, Bab el Mandeb, per Gibuti, o percorriamo altre rotte. Sempre avvolti dal caldo, spesso anche dal Khamsìn.’
‘Quando andrete a Perim e Gibuti?’
‘Dopodomani.’
‘Posto per me?’
‘La cabina degli ospiti. Tavola comune.’
‘Prezzo?’
‘Io chiedo il giusto, senza contrattare. A Gibuti posso procurare, se necessita, un’ottima Land Cruiser, con autista che parla anche Italiano. Durata del viaggio da Aden a Gibuti, compresa sosta a Perim, tre giorni. Prezzo duecento dollari USA.’
‘D’accordo.’
‘Imbarco, domani sera, dopo cena. A proposito, a bordo non si mangia carne, solo pesce fresco, riso, cuscus con pesce, acqua minerale, succhi di frutta in scatola, banane. Devo comprare carne in scatola?’
‘No, grazie, solo un po’ di pane di grano, se possibile.’
‘Certo. Vengo domani sera.’
‘Non vuole farmi compagnia, a cena?’
‘Ho la mia famiglia che mi attende, moglie e tre figli. A domani sera.’
Salutò e andò via. Non gli avevo chiesto neppure il nome della nave.
Lo domandai al portiere, e venni a sapere che era la ‘Arabia Felix’, il nome era scritto in arabo e in lettere latine.
L’indomani, di buon mattino, prima che il sole cominciasse ad infuocare l’aria, un taxi mi condusse al porto. Poco distante dal mercato ittico era attraccato il natante che cercavo. A differenza del resto della flotta peschereccia, era una nave moderna, ben tenuta, pulitissima, sicuramente riverniciata di fresco. I due uomini a bordo, intenti a lavare la tolda, non avevano l’aspetto degli straccioni trasandati che avevo intravisto sugli altri scafi.
Evidentemente avvertito da uno degli uomini intenti alle pulizie, comparve il comandante. Mi fece un irreprensibile saluto militare e s’avviò verso la passerella. Scese a terra e s’avvicinò.
‘Cosa ne dice della mia barca? Soddisfatto dall’ispezione da terra? Perché non sale a bordo? Nel quadrato l’aria é fresca ed abbiamo sempre una limonata in frigo. Venga.’
Mi lasciò passare, appena misi piede sulla nave disse qualcosa e i due uomini si alzarono e accennarono ad un saluto. M’indicò la strada da seguire.
In effetti, nella sala dove mi condusse, l’aria era gradevole, e la limonata dissetava piacevolmente.
‘Non ho compreso bene il suo nome, comandante.’
‘Forse perché non glielo ho detto, signor Mantovani. Io conosco il suo. Giorgio Mantovani, inviato speciale e scrittore. Mi chiamo Hassan Abdelaziz Ben Alì. Troppo lungo. Quindi sono Hassan, per qualcuno Captain, per molti Agì, il pellegrino, perché sono stato alla Mecca.’
‘Posso chiamarla Captain?’
‘Se vuole, ma gli amici mi chiamano Hassan.’
‘Bene, Hassan, io sono Giorgio.’
Ci stringemmo la mano.
‘Venga, le faccio vedere la sua cabina.’
Era semplice, pulita, essenziale, con annesso il locale-servizi. Tutto molto funzionale. Il grande oblò affacciava a diritta, verso terra.
Tornammo sul ponte, dove la temperatura diveniva sempre più calda.
Hassan disse che se avessi portato con me il bagaglio potevo trattenermi a bordo, in ogni caso, lui sarebbe venuto a rilevarmi in albergo all’ora che avevamo concordato. Aggiunse che mi avrebbe fatto visitare gli impianti di bordo, soprattutto quelli che si riferivano alla congelazione e conservazione del prodotto.
Lo ringraziai, complimentandomi per l’imbarcazione e per come era tenuta. Scesi a terra, dove, in un angolo in ombra m’attendeva il taxi, e chiesi di fare un giro in città, di visitare il mercato e poi tornare in albergo.
L’ ‘Arabia Felix’ m’aveva piacevolmente sorpreso. Avevo immaginato di dovermi imbarcare su una specie di feluca egiziana o su un maleodorante, sgangherato e rugginoso trabiccolo, poco meno d’un rottame, e invece m’ero trovato di fronte ad una piccola ma moderna imbarcazione per la pesca industriale.
Nel caldo pomeriggio ebbi diversi incontri e potei raccogliere molte informazioni utili per il mio lavoro.
Stavamo entrando nel golfo di Tadjoura, lasciando a diritta Obock, antica capitale della Somalia Francese, e puntando su Gibuti, Djibouti.
Attraccammo ad una delle banchine centrali, con una manovra perfetta. Subito dopo che fu messa la passerella, con passo elastico, salì a bordo una donna e andò subito ad abbracciare Hassan. Abbastanza alta, snella, molto abbronzata, indossava pantaloncini kaki e una camiciola di cotone bianco, con taschini a toppa, abbondantemente scollata. Un cappellino bianco a visiera, e sandali dello stesso colore completavano il tutto. Appesa alla spalla, una piccola borsa porta documenti, di cuoio naturale. Occhiali scuri. Senza trucco. Età difficilmente definibile, intorno ai quaranta. Quando Hassan mi presentò a lei, sorrise con denti d’un candore smagliante, tra le piccole labbra scure, e mi salutò in ottimo italiano. Prima, aveva parlato in arabo.
Monique Dubois era proprietaria della MEAC, Monique East Africa Cars. Nata a Gibuti, da padre francese e madre yemenita, scuole in Francia e in Italia. Al ritorno in Africa, aveva iniziato a commerciare con l’Etiopia, Ityopya in amarico, per questo aveva imparato anche alcuni dialetti di quel paese, soprattutto l’amarico, in aggiunta al francese, inglese, arabo, yemenita e italiano. Il commercio s’era trasformato in una fiorente industria di trasporto, che aveva richiesto un notevole impegno economico per l’acquisto d’automezzi d’ogni tipo. Ora, i genitori s’erano stabiliti in Francia, e lei era a capo d’una solida e fiorente azienda che curava personalmente.
Le chiesi come potesse conciliare il suo gran lavorare agli impegni di famiglia, e, con un gran sorriso, mi rispose che, dopo un breve e deludente marriage con un ufficiale francese, era divorziata e felicemente single.
Andammo a bere una bibita, nel quadrato.
Hassan m’informò che Monique sarebbe stata in grado di fornirmi quanto mi occorreva per il mio viaggio ad Addis Abeba, e che le aveva già parlato della mia attività e del mio non voler usare aereo o treno.
‘Monsieur…’
‘Giorgio!’
‘Merci Giorgio. Sono molto interessata a conoscere il lavoro di un giornalista, soprattutto se é anche uno scrittore. Lo accompagnerei io stessa, con un’assistente, logicamente. Siamo ben attrezzati, sia per quanto si riferisce all’automezzo che per il viaggio: piccolo frigo, aria condizionata, pasti, arrangiamento per eventuali pernottamenti di fortuna.’
‘Verrebbe lei stessa Monique?’
‘Sicuro.’
‘Con una assistente, una donna se non ho capito male.’
‘Una giovane Etiope, dello Scioa, Shewa, bravissima chauffeuse, che, oltre all’amarico e ad alcuni dialetti, parla un ottimo francese e un passabile italiano. Forse lei desidera un equipaggio maschile?’
La fissai sorridendo.
‘Ho sempre preferito les femmes, Monique, a ragione de la difference.’
‘La comprendo perfettamente. Ritengo che oggi e domani le serviranno per visitare Gibuti, e il giorno seguente potremmo partire, senza affrettarci. Ha già tutti i permessi?’
‘Tutti. In quanto ad affrettarci, non ci penso. Credo che adesso mi serva un taxi per raggiungere l’albergo. E’ già prenotato.’
‘Si, Hassan mi ha incaricata di ciò. Io, però, l’ospiterei volentieri chez moi, non é una gran casa, ma é accogliente e confortevole. Potrà vivere, in tal modo, due giorni secondo gli usi franco-somali, con qualche accenno di etiopico. Sarei anche lieta di accompagnarla, più tardi, a Bender Djedìd, il quartiere indigeno, anche se oggi ha perduto molto della sua originalità.’
‘Si, mi piace simile esperienza. Ma con l’albergo?’
‘Nessun problema, ci penso io. Allora, mi dica quando vuol scendere, l’auto é al riparo in un capannone, ho solo da chiamarla.’
‘Anche adesso, devo solo prendere il bagaglio.’
‘Ci penseranno gli uomini di Hassan.’
Mi congedai dal Capitano e dagli altri, con una vigorosa stretta di mano, e seguii Monique.
Sulla passerella mi voltai.
‘Spero di rivederti, Hassan.’
‘Insh’Allah.’
L’auto era moderna, nuova. Fornita di un motore ausiliario per l’aria condizionata e il piccolo frigo. Quattro ruote motrici. La rigidità delle sospensioni era attenuata dal molleggio e dalla forma dei comodi sedili. Tre posti anteriori, divisi da braccioli alzabili. Era corredata d’impianto satellitare per telefonia e televisione.
‘Ecco il mio sei stelle, il top delle auto di tutta l’Africa orientale. Mi costa un patrimonio, anche per la manutenzione. Non s’impressioni, non lo ripagherà lei… almeno completamente. E questa’ ‘aggiunse, presentandomi la ragazza scesa dalla vettura- ‘é Mariàm, ma tutti la chiamiamo Ancì, perché così ci rivolgemmo a lei, la prima volta che la intravedemmo, ad Addis Abeba. E’ il nostro nuovo fiore, Scioana purissima, diretta discendente di un famoso Ras, fissata per la meccanica e per l’avventura. Ha lasciato le non indifferenti comodità della sua casa, e i privilegi del suo rango. E’ con me da pochi mesi, da quando ha compiuto diciotto anni. Il mio più prezioso aiuto, la mia migliore amica.’
La ragazza, che aveva compreso tutto, esclamò un sonoro bum! e mi tese la mano.
‘Monsieur.’
‘Mademoiselle. S’il vous plait, appellez moi Giorgio.’
‘Merci, Giorgio, je suis Mariàm, où Ancì, comme vous preferez. Proverò a parlare Italiano, poco poco.’
Era molto bella, giovane, tipica carnagione delle classi elevate d’Etiopia, lineamenti fini, chiaramente semitici, capelli molto ondulati, neri, raccolti da un nastro bianco che terminava con una piccola nocca, sulla fronte. Abito del caratteristico cotone bianco degli sciamma, ampio, che accoglieva un corpo splendido, con fianchi floridi e sode tettine dagli aguzzi capezzoli prepotenti. Insomma, uno schianto di donna. Fui percorso da un piacevole brivido.
Monique s’accorse del mio incantamento e mi richiamò alla realtà.
‘In auto, à la maison. Prego, Giorgio, salga.’
Sedetti nel posto centrale, Ancì al volante e Monique dall’altra parte.
Usciti dal porto, voltammo a destra, verso la periferia, senza allontanarci troppo dal mare.
Monique dichiarò che la prima cosa era prendere confidenza con la casa, sistemare le proprie cose, bere qualcosa, attendere che col tramonto il venticello mitigasse la temperatura. A volte, si abbassa anche di otto gradi. Poi avremmo fatto un giro in città e curiosato, con discrezione, a Bender Djedid, per cogliere qualcosa della vita locale.
Una villa molto bella, con caratteristiche miste, a prevalenza francese. Qualche albero e il tentativo di numerose aiuole, cercavano di conferirle un aspetto riposante.
Ci fermammo sotto la tettoia dell’ingresso principale, e venne incontro una coppia, sorridente, che salutò con grandi cenni del capo e con espressioni che non capii, poi, rivolgendosi a me, mostrarono ancor più i denti bianchissimi, e mi ripeterono più volte ‘Bienvenu monsieur, bienvenu.’
‘Sono Danak e Lebèn’ ‘disse Monique- ‘i più bei Somali di Gibuti.’
Danak era veramente bella, statuaria, con una pelle d’ebano lucido, che sembrava unta. Quando lo dissi, Monique m’invitò a toccarla, e rivolgendosi alla donna le disse che monsieur doveva accertarsi che la luminosa lucentezza non era dovuta ad unguenti. La ragazza, ridendo, mi tese il braccio, lo carezzai lievemente, era come seta, delicata e deliziosa al tatto.
Lebèn, alto e atletico, non era da meno della donna.
Presero il mio bagaglio, ed entrarono in casa.
Era stata una giornata abbastanza varia.
Gibuti non presentava nulla di particolare. Il quartiere indigeno era discretamente pulito. Sopravviveva ancora qualche vecchio petromax con la sua luce lattiginosa, più per tradizione, forse, che per altro. Da molte case usciva della musica, soprattutto africana.
Dopo cena, avevamo fatto una capatina in una specie di Club, poi eravamo tornati a casa. Monique disse che era stanca e si ritirò nella sua camera. Io rimasi sulla panchina della veranda, al buio, a guardare il cielo.
Sentii un lieve fruscio e fui colpito da un profumo alquanto strano, un mix di piacevolmente aspro e nel contempo attraente. Come quando vedi qualcuno che mangia il limone e senti l’acquolina in bocca e il forte desiderio di addentarne uno. Era Mariàm, avvolta nello sciamma.
Le feci segno, con la mano, di venire accanto a me. Sorrise e sedette al mio fianco. Cominciai col solito banale argomento, il tempo. In un misto di italo-francese, le chiesi se soffriva il caldo. Mi rispose in un buon italiano, inframmettendo qualche parola d’Amarico.
‘No, Giorgio, non sento caldo, anche se sono figlia dell’altopiano. Tu parli Amarico? Amarignà tnegarellég?’
Scossi la testa, sconsolato.
‘Tu parli bene Italiano, come mai?’
‘Mio nonno parla Italiano, lui é stato sei anni con governo italiano. Io ho imparato un poco.’
‘Brava Mariàm.’
‘Grazie, che mi chiami Mariàm. Ancì non é il mio nome. Ad Addis Abeba, quando non si conosce il nome di una donna, una donna di modesto ceto, ci si rivolge a lei chiamandola Ancì, ma questo non é elegante.’
‘Sei stanca?’
‘Aidellèm, no.’
‘Ti piace il lavoro che fai?’
‘Aò, si. Conosco gente, imparo lingue, viaggio.’
‘Monique, invece, é molto stanca.’
Nascose un risolino malizioso dietro la piccola mano affusolata.
‘Perché ridi?’
Disse di non far rumore. Si levò i sandali e m’invitò a fare altrettanto. Si alzò, mi prese la mano, col dito vicino al naso mi fece il gesto di star zitto. Mi condusse sul retro della casa, sotto una finestra socchiusa. Era la camera da letto di Monique, dalla quale trapelava un tenue chiarore, e giungeva un gemito, lungo, insistente. Mariàm indicò la finestra. Mi alzai in punta di piedi, per guardare nella camera. Non appena gli occhi superarono il davanzale, scorsi, dapprima confusamente, poi sempre più nitida, la figura scura e lucida del poderoso sedere di Lebèn che s’alzava e abbassava ritmicamente tra le gambe di Monique che gli imprigionavano la schiena nera. Dalle labbra della donna veniva un mugolio voluttuoso, sempre più profondo, sempre più roco. Quando Lebèn affondò una poderosa spinta conclusiva, lei esplose in un lungo grido di completo appagamento, appena soffocato.
Ancì s’era accoccolata, con le labbra strette.
Le tesi le mani e l’aiutai a rialzarsi, mi misi al suo fianco, tornammo sulla panchina.
‘Ti piace Lebèn, Mariàm?’
‘No, non farei mai nik nik con lui.’
‘Nik nik?’
Sorrise.
‘Raccontano i nostri vecchi che quando Italiani volevano fare amore con donna di Addis Abeba, dicevano in cattivo dialetto Ancì nik nik alle? Volevano intendere: donna c’é fottere?’
‘E cosa succedeva?’
‘Donna rispondeva yellem, non c’é, marito ascari Makallè!’
‘Tutto finiva così?’
‘No, uomo insisteva: Ancì, ant carta, alle?’
‘Che significa?’
‘Per una carta, cinque lire, ci stai? Lei rispondeva, Aò, si, marito morto Makallé. Tutto durava solo qualche minuto.’
‘Molto squallido, vero Mariàm?’
‘Che significa squallido?’
‘Misero, senza piacere, senza soddisfazione.’
‘Forse a uomo piaceva, o forse no. Italiani molto strani. Volevano che donna succhiasse il loro sesso, dicevano: Ancì fare cazz-caramell. Donne abissine hanno imparato da Italiani. Tu hai visto Monique? Anche lei vuole fare quello con Lebèn, ma lui ficca subito, e basta. Lei molto, come dire, molto nikeuse, capisci? Lei lo farà anche con te prima di finire il viaggio. Andiamo a vedere ancora. Vieni, Giorgio.’
Andammo di nuovo sotto la finestra di Monique. Mariàm si sollevò sulla punta dei piedi per spiare, ma non giungeva al davanzale. L’afferrai per i fianchi e la sollevai. Era quasi seduta sul mio petto, ne sentivo il tepore, il tremito che mi trasmetteva. Per sorreggerla meglio, spostai le mani sulle cosce, sul grembo sodo. Non riusciva a star ferma. M’accorsi che indossava solo lo sciamma. Mi fece capire di voler scendere. Scivolò pian piano, carezzandomi col corpo, mentre le mie mani scorrevano sul suo seno. Sbirciai anch’io. Monique, carponi sul letto, volgeva le natiche a Lebèn, e lui aveva ripreso a stantuffare con rinnovato vigore, lucido, questa volta di sudore, mentre la donna si dimenava freneticamente.
Stavo alle spalle di Mariàm, eccitatissimo. Lei era in preda a un tremito incontenibile. La circondai col braccio, cercando di infilare la mano nello sciamma. Sentii i capezzoli rigidi, scesi in basso, incontrai il rado crespo del pube, il pulsare incontenibile dell’esuberante prominenza che s’ergeva tra le turgide labbra del suo sesso. La titillai dolcemente, mentre si strofinava a me, con le labbra socchiuse, gli occhi estatici, le mani sulla mia mano a guidarne il muoversi sempre più convulso. Fu un orgasmo lento, lungo, liberatorio.
‘Vieni a letto con me, Mariàm.’
‘Aidellem, no. Non adesso. Se vuoi ti mando Danak.’
‘Danak?’
‘Lei non proprio sciarmutta, ma va con bianchi. E’ bella, hai visto? E’ brava a letto.’
‘Io non voglio Danak, voglio te.’
La strinsi a me, forte, perché comprendesse il mio desiderio.
‘Tu, Giorgio, adesso non dolce, come Mariàm vuole. A domani. Arrivederci, tienà unù.’
Rimasi solo, pensando a Danak, al suo corpo statuario, immaginando il suo sesso, rosa scuro tra gambe d’ebano. Decisi di andare in camera. Forse, una doccia avrebbe riportato in me l’equilibrio che cercavo. Non fu facile addormentarmi, e nel sonno agitato m’assaliva la visione di Monique, Mariàm, Danak, nude, invitanti e sfuggenti. Soprattutto Mariàm.
Dopo un nuovo rapido giro in città, e alcuni interessanti incontri procuratimi da Monique, con esponenti locali della finanza, della politica, dell’informazione, ci trovavamo di nuovo a cena, la sera precedente la partenza.
Quelle donne mi turbavano, ognuna a suo modo. L’elegante figura di Mariàm, e la sua desiderabile freschezza. La carnalità di Monique e la cupidigia che sfavillava nei suoi occhi. L’ambiguità di Danak e l’allettante lusinga dei suoi fianchi le cui movenze erano eccitante promessa.
Monique m’invitò ad andare verso il mare, dal quale ci saremmo allontanati velocemente l’indomani. Indossava un leggero vestito avana, con gonna ampia e generosa scollatura, sandali bassi dello stesso colore. C’era una grossa luna bianca, velata dall’umido della sera. Mariàm mi guardò con un lieve sorriso sulle labbra. Danak era intenta a sparecchiare, con andatura felina, ostentando sotto il mio naso le floride tette nere che erompevano provocanti dall’ampia blusa. Lebèn non s’era visto. Era andato a visitare la sua fidanzata, in un villaggio vicino.
‘Andiamo, Giorgio?’
‘D’accordo, andiamo.’
Salimmo in auto, uscimmo dal cancello, percorremmo alcune centinaia di metri, e ci fermammo vicino all’acqua, su un tratto deserto, dov’era solo una vecchia baracca per riporre, forse, degli attrezzi. Monique spense il motore. Scendemmo. L’aria era immobile.
Monique tirò fuori dalla vettura una sedia pieghevole, con fondo e spalliera di tela, la portò vicino a me, l’aprì.
‘Siedi, Giorgio.’
‘E tu?’
‘Preferisco la terra.’
Sedetti, lei si mise vicina, poggiando le braccia sulle mie gambe.
‘E’ tanto, sai, che non sto così.’
Mi carezzava, piano. Parlava adagio, sottovoce, come in un confessionale, interrompendosi di quando in quando.
‘A volte non resisto alla tempesta dei sensi, devo placarla. E’ come attaccarsi, avida, assetata, ad una bottiglia qualunque, alla prima che capita, senza scegliere. Me la scolo tutta, d’un fiato, spesso me ne faccio un’altra. L’arsura si quieta, ma resta l’amaro di una sbornia presa con qualcosa di disgustoso, e si sta male per giorni.’
Era seduta in terra, di fronte a me, con le mani bollenti che m’esploravano teneramente. S’alzò, si mise sulle mie ginocchia, e mi circondò con le braccia posando il capo sul petto. Sospirò profondamente.
‘E’ dolce, Giorgio. Tienimi così, come se fossi la tua bambina, ta petite. Berce moi. Cullami.’
La strinsi a me, dondolando lentamente, canticchiando un’antica berceuse che ricordavo. Mi carezzò il volto, mi baciò sulla guancia, come una bimba. Aveva, certo, qualche anno più di me, era abituata ad un’attività dura, faticosa, impegnativa, a difficoltà d’ogni genere, ma in quel momento era solo un esserino indifeso, desideroso d’affetto, di tenerezza.
S’addormentò tra le mie braccia, col pollice in bocca.
Rimase così a lungo, forse sognando perché sul suo volto s’alternavano mille espressioni.
Quando riaprì gli occhi, mi guardò come se non mi avesse mai visto, tolse il dito dalle labbra. Mi guardò ancora.
‘Oh, Giorgio. Merci, Giorgio, merci. Ho sognato d’essere bambina, di dormire sul cuore del mio papà. Che giovane papà sei, mon petit trésor.’
Guardò l’orologio.
‘Mon Dieu, quanto ho dormito. Ti ho stancato, vero?’
La carezzai.
‘E’ stato bellissimo, Monique, averti tra le braccia, ascoltare il tuo respiro, sentire il tuo profumo, cullarti come una deliziosa bambola palpitante di vita.’
‘Forse non avevo dieci anni l’ultima volta che sono stata così, che mi sono sentita così sicura, protetta, che mi sono abbandonata come questa sera. E’ un regalo che non potrò dimenticare mai, Giorgio. Grazie.’
Mi baciò con slancio.
La mia mano era sotto la sua gonna, sulla carne liscia, serica, e la carezzava, quasi inavvertitamente. La bambina stava cedendo il posto alla donna, alla femmina. Le ricambiai il bacio con calore, che divenne ardore, piacere, desiderio. Sentii le sue natiche contrarsi.
‘Giorgio, al Djibouti Hotel, ho una suite per gli ospiti che non voglio a casa mia. Fammi dormire ancora tra le tue braccia, questa notte, come non ho mai dormito da quindici anni.’
Tornammo a casa che iniziava ad albeggiare.
Tutto era avvolto dal massimo silenzio, e per non turbarlo eravamo entrati a motore spento. Ci attendeva una lunga faticosa giornata. Dopo una non meno spossante nottata.
Monique era attaccata al mio braccio, col viso incantato, lo sguardo svagato, sognante. Le sfiorai le labbra con un bacio.
‘Volevi dormire tra le mie braccia, ma non l’hai fatto.’
‘Qui dort ne gagne rien, chi dorme non piglia pesci. Credo che tra le tue braccia non sia facile dormire e, soprattutto, non ne valga la pena.’
‘Fra poco partiremo insieme, andremo insieme, Monique, é bello.’
‘C’est plus beau … arriver ensamble. E’ più bello… arrivare insieme, venire insieme. Ne ho appena fatta l’esperienza. Non é pour t’aduler, mon cheri, ma non avevo mai, mai, provato sensazioni del genere. Minette est voluptueusement heureuse et satisfaite, pour la première fois dans sa vie. Si, Micetta é felice e soddisfatta, per la prima volta nella vita.’
Mi baciò appassionatamente, portando la mia mano su Minette.
S’udì una porta che s’apriva. Ci ritirammo nelle nostre camere.
Dopo poco, mentre ero ancora sotto la doccia, Mariàm, che non avevo sentito bussare, comparve già pronta per il viaggio.
‘Ora della partenza, monsieur.’
E gettò uno sguardo sul letto, che avevo avuto l’accortezza di disfare.
Una rapida colazione, e prendemmo la lunga strada per Nuovo Fiore. Solo dopo lunghi chilometri d’assolata pianura, passata Aiscia e il confine con l’Etiopia, affrontammo il resto della strada che ci avrebbe condotto a Dire Dawa, a 1200 metri sul mare.
Un grosso centro, con qualche interessante attività, come un moderno cementificio, e fiorente commercio di caffè e cotone. L’albergo era discreto, abbastanza pulito e confortevole. Ci attendeva un uomo di colore, che indossava una specie di divisa coloniale, e che, in un angolo della hall, ebbe un lungo e concitato colloquio con Monique. La donna venne verso il divano dove attendevamo Mariàm ed io. Era visibilmente seccata. Disse di non aver neppure il tempo per lavarsi il volto. Doveva subito andare a Harar, la terra di Ras Makonnen, del Cardinale Massaia, l’Abuna Messia degli Etiopi, per tentare di rimuovere gli ostacoli burocratici che tenevano fermi mezzi e merci, per un notevole valore. Chi aveva bloccato tutto pretendeva un certo compenso. Lei era sicura che il suo biglietto da visita, sa carte, avrebbe sistemato tutto. Se l’altro aveva qualche esigenza particolare, non aveva che spedire la richiesta. Sperava di essere di ritorno entro quattro o cinque ore. Noi potevamo cenare senza lei, ovviamente, perché, in ogni caso, si sarebbe fatta notte inoltrata. Si allontanò con l’uomo che era venuto ad attenderla.
Mariàm sorrise scettica, e osservò, ironica, che l’assenza di Monique sarebbe stata abbastanza lunga, almeno tutta la notte. Osservò, sarcastica, che Monique si sarebbe spogliata e avrebbe detto all’interessato ‘voici ma carte’, e se quello avesse evidenziato il suo desiderio lei lo avrebbe invitato a ‘le mettre à la boite’, a impostarlo. Fece una risatina significativa.
Mi avvicinai a Mariàm, le passai il braccio intorno alla vita.
‘Chose promise, chose due. Ogni promessa é debito. Tu mi hai promesso…’
‘Non ti é bastata la scorsa notte? Devi essere stanco, hai dormito durante tutto il viaggio. Anche Monique ha dormito. Mindfalligall anté? Cosa vuoi?’
Le lambii l’orecchio. La sentii pervasa da un brivido. Le sussurrai:
‘Voglio te… Mariàm alle?’
La sua voce era esitante, tremante, affannosa, roca.
‘Aò, si. Je tiendrai ma parole. Manterrò la promessa. Aspettami, dopo cena, nella tua camera.’
Avevo lievemente attutita l’illuminazione della stanza. Il biancore del letto era riflesso dagli specchi, in un gioco caleidoscopico di forme. Dalla finestra semichiusa filtravano i rumori della città.
Nell’albergo non c’erano accappatoi, né io ne avevo nel mio ridotto bagaglio. Rimasi in shorts. Mi sdraiai sulla poltrona. Accesi la radio. Trasmetteva una caratteristica nenia locale. Lenta, struggente, come un’invocazione.
La porta s’aprì lentamente, Mariàm sgusciò dentro, senza far rumore, avvolta nello sciamma candido. Venne a sedersi di fronte a me, su una specie di panchetta ricoperta di cuoio.
Le tesi le mani. Le prese. L’attirai sulle mie ginocchia. Mi guardò con una certa apprensione negli occhi.
‘Giorgio, devo darti una delusione.’
Aggrottai la fronte, interrogativamente.
‘Non sono quella che tu pensi. Ti chiederai perché sono qui. Perché mi sei piaciuto subito, mi hai attratto, affascinato. Le tue carezze, inattese ma desiderate, mi hanno portato nel più alto dei cieli del piacere e nei miei occhi é rimasto l’arc-en-ciel, l’arcobaleno. Sono felice d’essere con te, ma tu non sarai contento di me.’
‘Perché dire una cosa simile? Io sono in paradiso solo a sentirti così. Sei una ragazza di sogno, incantevole. Sei il dono più sospirato che si possa sognare.’
‘Giorgio, io voglio donarti, dedicarti, quello che una donna può dare, offrire, una sola volta nella vita. Je suis vierge. Sono vergine, e non sono infibulata…. le tue dita deliziose lo hanno constatato.’
Le presi il volto tra le mani e la guardai intensamente.
Annuì con la testa. Aveva gli occhi pieni di lacrime.
‘Mariàm, bambina bella, se non vuoi…’
Si strinse a me.
‘Giorgio, io voglio, io ti voglio, ti desidero, non vedo l’ora d’essere tua, di averti in me, di sentirmi invasa, fecondata da quello che rimarrà il mio uomo per tutta la vita. Voglio essere Debra Gheorges, la casa, la chiesa, di Giorgio. E porterò in me, per sempre, il tuo sigillo. Sii dolce, sii latte e miele.’
Mi baciò voluttuosamente, lasciando cadere lo sciamma.
‘Mariàm…’
‘Non mi vuoi?’
‘Sei bellissima, ma desideri proprio quello che hai detto?’
‘Si, un’impronta tua, per tutta la vita.’
Fu qualcosa d’indescrivibile. Luna di miele. Bianchezza di luna, negli occhi estatici di Mariàm. Dolcezza di miele, linfa di vita, che scivola soave nella paradisiaca valle delle delizie. La nostra prima notte.
Era docile, attenta, lasciò che la adagiassi sul letto.
‘Solo un momento’prego.’
Allungò la mano per prendere lo sciamma che giaceva da una parte e lo pose, ripiegato, sotto le sue eccezionali natiche.
‘Lo serberò per tutta la vita.’
Mi chinai a baciarla tra le gambe, a lambirle le sue piccole, rosee, frementi labbra. Che andavano schiudendoci come un bocciolo ai primi raggi del sole. Feci in modo che alzasse le gambe, le poggiasse sui talloni. Strisciai lentamente e leggermente su di lei, seguitando a lambirla con la mia lingua, accolsi tra le labbra il lungo capezzolo scuro, e succhiai delicatamente. Il suo grembo si sollevava, palpitava’ poggiai il glande all’apertura umida e scorrevole della sua ardente vagina e spinsi con dolcezza. Ci fu una lieve resistenza, cosa d’un attimo, poi, sempre delicatamente, entrai in lei, accolto come una bocca assetata e golosa accoglie il ghiacciolo che appaga la sua arsura.
La natura le suggeriva le movenze, il piacere crescente le regolava, e sentivo che mi serrava in lei, mi attanagliava, mi suggeva, poppava, mungeva freneticamente, con un’espressione estatica nel volto, beata, mentre un lungo sibilo, roco, le sfuggiva dalle labbra. Il suo ventre non aveva sosta, le sue gambe erano incrociate sul mio dorso, mi stringeva a sé, possessivamente, e sembrò volermi strappare il sesso quando si sentì invadere dall’irrefrenabile conseguenza del suo piacere, mentre l’orgasmo la travolgeva, sconvolgeva.
Non immaginavo che la ‘prima volta’ d’una fanciulla potesse essere così conturbante, coinvolgente.
Quando sgusciai da lei, raccolse lo sciamma tra le gambe, strettamente, si alzò e con la massima naturalezza, spontaneità, semplicità, raccolse in esso quanto stillava la sua vagina. Si asciugò delicatamente, avvolse il tutto e lo ripose nella borsa da dove trasse un altro sciamma.
Ero rimasto sul letto, supino, e quello spettacolo m’aveva nuovamente eccitato.
Le tesi la mano.
‘Mariam”
Mi raggiunse. Mi comprese, salì su me, a cavallo, con le sue splendide natiche all’altezza del mio pube, e si lasciò penetrare, impalare, con ancor più voluttà di prima.
Scrivo questi brevi e sempre attuali ricordi, mentre, nella camera accanto, nella sua culla celeste, dorme il piccolo Georghes, succhiandosi il pollice.
Mariàm, appena alzatasi dal letto, con la sua cortissima, velata camicia da notte, é venuta a darmi il buongiorno. Seduta sulle mie ginocchia, la sua lingua provocante lambisce la mia bocca, vi s’intrufola, prepotente, cerca la mia, l’avvolge, la trascina tra le sue labbra bramose, succhiandola avida. Percepisco il suo agitarsi desideroso, i suo fianchi inquieti, la prensilità delle sue natiche invitanti, il calore della sua carne. La carezzo tra le gambe.
‘Ancì, nik nik alle?’
‘Aò ghietà, si signore, io voglio busù nik nik. Tanto.’
Dalla finestra ci protegge l’ombra del Cupolone.
Mariàm, con suo marito, torna nel grande letto che chiamano Dire Dawa.
Ed é sempre come allora.
grammaticalmente pessimo........
Ciao Ruben, sei un mito! Hai un modo di scrivere che mi fa eccitare! La penso esattamente come te. Se…
Ti ringrazio, sono felice che ti piacciano. Vedremo cosa penserai dei prossimi episodi, quando si chiuderà anche la sottotrama di…
Davvero molto bello. Piacevole come gli altri e decisamente pregno di sentimenti espressi senza risultare melensi o ripetitivi. D'impatto leggiadro,…
Come ti ho detto, in pochi e poche sanno sa scrivere in maniera così eccitante sia dare un senso ad…