La mia coinquilina Vittoria si sarebbe potuta definire come un romanzo, che appena preso in mano, avevi l’impressione di aver già letto, tanto la sua esistenza si dipanava ordinaria e prevedibile. Trentacinque anni, laureata in chimica svolgeva la sua attività presso un’importante azienda, dove era apprezzata per la sua professionalità e serietà. Voci narravano che una delusione amorosa l’avesse relegata nel suo mondo di grigia e insignificante riservatezza, fatta di abiti castigati e antichi, di capelli racchiusi immancabilmente in un severo chignon, di occhi celati dietro occhiali dalla montatura demodè, di orari e abitudini assolutamente immutabili. Questo dicevano le apparenze, ma da sempre coltivo una naturale propensione a perforare la realtà contingente, andando più in profondità per coglierne l’essenza più intima e nascosta.
Quella donna mi piaceva, esercitava in me un’eccitazione bizzarra: ero certo di poter scoprire sotto quella scorza, quel bozzolo difensivo, una farfalla splendida, un fascio di palpitanti emozioni.
Nei nostri fugaci incroci coglievo nei suoi timidi sguardi, una luce, un interesse che lei subito celava abbassando gli occhi. Quel suo riserbo, quei fugaci rossori che le imporporavano il viso mi provocavano una irresistibile attrazione.
Dovevo far breccia in quella che poteva apparire una fortezza inespugnabile. Contavo però sulle mie intuizioni che mi incoraggiavano ad aprire quella corazza gelida.
Attesi il suo ritorno a casa. Suonai alla sua porta.
Aprì l’uscio e mi guardò enigmaticamente, vestita del suo severo tailleur di grisaglia troppo pesante per quella primavera dal caldo incipiente. Ai suoi piedi slippers rosa che avevano preso il posto delle sue scarpe a tacco breve: avevo colto Vittoria mentre principiava la sostituzione della divisa da lavoro con quella domestica.
– Mi duole disturbarla ma poiché la mia TV non ha segnale, mi chiedevo se fosse un problema di antenna. Se potessi dare un’occhiata, mi toglierei alcuni dubbi.
Scusa puerile, lo capivo benissimo, ma speravo considerasse con interesse il mio approccio.
Mi fece entrare e insieme constatammo che tutto funzionava regolarmente. Fingendo perplessità ringraziai, uscii per ritornare dopo un istante tenendo in mano una bottiglia di Cartizze, appositamente tenuto in fresco.
– Volevo ringraziarla per il disturbo e bere qualcosa insieme. In fondo siamo vicini da mesi e a mala pena ci salutiamo…
Mi fece entrare nuovamente e la luce che vidi balenare nei suoi occhi, dietro le lenti, mi confermò nelle mie convinzioni. Un primo brindisi, un secondo e l’atmosfera si fece meno gelida.
Poi, Vittoria si alzò con un gesto che voleva essere di commiato e mi resi conto che non potevo più attendere. Ridussi la distanza fra i nostri due volti.
– Vittoria, sai ho pensato molto a te ultimamente. – Il passaggio al tu era il preliminare del mio attacco.
– Davvero? – Schiuse dolcemente la bocca appetitosa. Ne percepivo il caldo profumo.
In un attimo le nostre labbra si unirono e iniziammo a divorarci; la spinsi dolcemente contro la parete e, mentre il bacio appassionato si protraeva, le mie mani si spinsero a palpare il suo seno attraverso la camicetta, scostando la giacca.
– Aspetta.
L’inflessione della sua voce era mutata, divenendo una melodia erotica.
Discostandosi un po’ da me, si tolse gli occhiali, sciolse i capelli scuotendo il capo ed iniziò a spogliarsi. Quella vista splendida mi dava ragione: la farfalla era uscita dal bozzolo. Baciai i suoi seni floridi e morbidi, il ventre liscio, e la mia bocca rimase a lungo prigioniera di quelle cosce che mi stringevano; le altre sue labbra turgide e allagate di umori, mi gratificarono del loro miele. Fui dentro di lei e impazzendo dal piacere svuotai tutto il mio seme. Giacevo stanco e appagato ma il fuoco che avevo liberato pretendeva altro e rinvenni, carezzato dalle sue mani, dalla sua lingua instancabile. Il mio pene insalivato e tormentato eroticamente da quella lingua che instancabilmente si muoveva sul glande, indugiava nel solco, percorreva l’asta, lambiva i miei testicoli, la sua bocca che me lo risucchiava al suo interno, mi fecero ritrovare un’erezione invidiabile. Di nuovo un gioco bollente, le mie mani sul pelo morbido del suo pube, la mia lingua fra le sue natiche. Furono amplessi ripetuti nel buio, avvolti dai nostri odori, sospiri, mugolii. Mi sentii sfinito e, sia pur di piacere, temetti fosse la mia fine; per fortuna quella dea del sesso si ritenne soddisfatta e potei riposare tranquillo accanto a lei.
Ora noi due stiamo insieme e Vicky sfoggia quello splendore che aveva tenuto occultato, suscitando un’attenzione ammirata che talvolta mi fa ingelosire.
Ghiaccio bollente: già, per descrivere Vicky, mai ossimoro fu più appropriato.



Mi piacerebbe che qualcuno commentasse e mi desse un parere grazie.
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