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Racconti Erotici Etero

Gli assorbenti che porto

By 11 Febbraio 2004Dicembre 16th, 2019No Comments

Si spiegano albe sopra questo mare di pesto,

sopra quest’infinita follia di scurire il riflesso,

prima che venga domani,

prima che il chiarore m’invada lasciandomi solchi.

Sono tenebre sbiadite ancora prive di luce

avanzano e tremano sulla cresta dell’acqua,

come controcanti d’estate portati dal vento

che caldi s’appiccicano come sabbia alla pelle.

Le trattengo gelosa come se fossero ore,

come se fossero sessi, e sola potessi fermare la luce

per farmi riempire di ciò che ho bisogno

in un intarsio impreciso che chiamano anima.

Si spiegano albe sopra i tavolini increspati d’umido e notte,

sopra bottiglie appannate che vuote qualcuno stanotte

ha usato per sentirsi più uomo.

M’ha voluta sopra questo bagnasciuga,

che bagnassi i capelli di acqua di mare.

M’ha voluta perché ero bella,

convinto che il suo sesso di carne

mai avrebbe potuto saziarmi.

Ma sarò capace d’essere femmina normale?

Di sedermi e coprire quei pochi centimetri di coscia

quando sale la gonna?

D’offrire questo tesoro

senza per questo sentirmi chiamare puttana?

Perché non mi ci sento,

perché non può essere puttana chi ha il padre avvocato,

chi in ingresso dentro una cassapanca, che dicono antica,

fa muffa e ingiallisce un corredo da vomito.

Sorrido pensando a mia madre

che fa le prove di pianto, come se fosse domani,

come se già avessi un pretendente

o una pancia da nascondere a parenti e vicini.

Chissà se davvero mi sposo?

Se nel mio destino c’è la favola del cliente straricco

che s’innamora della bella puttana.

Perché non vedo altro luogo

dove possa spuntare la fiamma di questo sogno d’amore,

oltre queste cabine che conoscono a memoria

dove metto la lingua quando mi chiedono un bacio.

Sorrido pensando a mia madre,

m’ha chiesto consigli come se fossi esperta di cuore,

come se l’amore che offro fosse distante da queste mutande

che stranamente porto

perché quest’alba a breve mi ricorderà d’essere femmina normale,

almeno una volta ad ogni luna che cresce.

Mi chiedo se oltre quest’alba sarò capace di provare piacere

se queste tette che porto possano avere l’istinto di madre,

le guardo e sanno di mignotta,

sanno di sesso a portata di mano.

Sono trote di fiume, spigole di mare

che nude sopra un banco di pesce annaffio ed addobbo

con foglie di vite per farle apparire più fresche.

Le stringo perché siano più sode,

le raccolgo dentro le mani per illudermi

che sfameranno per sempre qualsiasi bocca anche quando,

a forma di pere, caleranno senza riguardo.

Perché nulla ora serve degli anni che porto,

degli uomini che mi cercano con una bottiglia vuota di birra,

che mi baciano frantumandomi l’anima come se fosse una fica,

come se delusi si rendessero conto che non è altro che un buco,

un misero squarcio che nessuna bellezza potrà mai affinare.

Eppure questi stivali che indosso

mi fanno sentire più bella

di quanto non faccia tutto l’Inferno a memoria

ed il latino che ostento parlando da sola.

Mi chiedo davvero se sarò all’altezza,

se quest’alba che spiega possa ridarmi la luce,

che questa paura che sento m’aggrovigli la faccia

come dentro ad un sentiero tra la tela di ragno.

Chissà se quello che ora sto provando sia davvero l’amore

o qualcosa d’informe che chiamano tale,

ma ho paura che, se davvero lo fosse, svanisca e m’illuda,

che quando avrò smesso non ci saranno più rose

e gli occhi di Luca non vedranno che seni, che carne.

Mi chiedo davvero se sarò all’altezza,

se dopo mesi di fitto lavoro non siano rimasti che calli

capaci d’accogliere sessi di vetro e non sentirne il dolore.

Davanti a questa luce che implacabile incombe

vorrei che qualcuno mi bendasse perché sia buio di nuovo,

che urlo come stanotte a carponi riempita

nel punto preciso dove Luca ci scrive poesie.

Perché di nulla sarei più sicura!

Dentro questa luna che sbiadita mi regola l’umore,

dentro questa notte che passa,

dentro questo cuore scarnito che confonde l’amore col sesso

e vuoto difendo coi soli assorbenti che porto.

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