La benda scura sugli occhi stringeva terribilmente, tanto da tendere la pelle del viso in modo innaturale, fino a farla dolere. Sentivo gli occhi bruciare ed inumidirsi spontaneamente di lacrime. Aggrottavo la fronte e stendevo il viso allo scopo di sistemare la costrizione che avevo accettato di indossare. Non avevo nemmeno l’ausilio delle mani, imprigionate in fredde manette d’acciaio, sistemate alla testata del letto. Mi accorgevo di muovere i polsi tentando, invano, di avvicinare le braccia al mio corpo quasi nudo, mentre in realtà non facevo che procurarmi un dolore che aumentava ad ogni tentativo di proteggere la mia nudità. Le braccia, sempre più dolenti e fredde, rimanevano divaricate e bloccate sopra la testa. Nonostante fossi in quella posizione da qualche minuto appena, cominciavo ad avvertire il formicolio tipico dell’immobilità che avanzava dalla punta delle dita, già insensibili, gradualmente verso le mani.
Muovevo la testa da una parte all’altra come se avessi bisogno di ambientarmi. Il buio era totale, dovuto non solo alla benda sugli occhi, ma anche alla penombra che avevo notato, poco prima, accedendo alla stanza. Scioccamente non mi ero soffermata sui particolari dell’arredamento, così mi sforzavo invano di focalizzarli, come se avere comunque la visione del luogo nel quale mi trovavo potesse rassicurarmi un poco. Annusavo il cuscino che sapeva di bucato, ma non riuscivo ad avvertire nessun altro profumo.
L’assoluta anonimità del luogo mi provocava un crescente stato di agitazione. Non avvertivo più rumori, né odori. Il silenzio era assoluto tanto da attanagliarmi l’anima. Mi chiedevo dove fosse in questo momento. Mi chiedevo perché avessi accettato questa assurda proposta. Perché ancora una volta avevo assecondato le sue richieste assurde, perché ogni suo desiderio diventa sempre un ordine per me, perché riesce ad eccitare i miei sensi al limite della sopportazione.
E’ sempre stato così, fin dalla prima volta.
Avevo ottenuto l’autorizzazione ad intervistare il primario del reparto di cardiochirurgia dell’ospedale. Lavoravo per la redazione di un giornale locale e, grazie alla mia intraprendenza, riuscivo spesso in imprese impossibili. Questa era una di quelle. Fui ricevuta dal famoso luminare nello studio all’ultimo piano dell’ospedale, una sera di novembre, verso le 18. Le stanze erano avvolte dalla penombra, rischiarata solo dalla piccola luce da tavolo : chino sulla scrivania era intento a studiare la cartella di un paziente. Lo studio era sobrio, ma elegante. In netto contrasto con le corsie caotiche e disordinate del reparto. La lunga libreria che riempiva l’intera parete alle sue spalle era colma di libri, sistemati in elegante disordine. Dalla grande vetrata sul lato sinistro della stanza si poteva ammirare il magico panorama offerto dalle luci della città. Udendo i miei passi avvicinarsi sollevò lo sguardo, senza muovere la testa, ma regalandomi ugualmente un caldo sorriso di benvenuto. Avrei scoperto dopo che quello era il suo infallibile sistema per mettere a proprio agio chiunque si trovasse al suo cospetto. Anziché sentirmi imbarazzata o intimidita mi sistemai immediatamente sulle poltroncine in cuoio rosso posizionate davanti al tavolo di cristallo che fungeva da scrivania, dando così inizio all’intervista. Edward aveva origini anglosassoni, ma aveva completato gli studi in Italia e, successivamente, perfezionato le specializzazioni negli Stati Uniti. Aveva sempre esercitato in Italia dove aveva svolto gran parte della sua vita, dove si era costruito l’attuale posizione e dove viveva la famiglia. Rispondeva ad ogni mia domanda con semplicità e disponibilità, senza tracce di supponenza, né arroganza. Io ero una ragazzina appena laureata che recitava la parte della grande giornalista, senza, in realtà, sapere nemmeno come condurre la serie di quesiti che intendevo rivolgergli. Il mio scopo era quello di scoprire qualcosa dell’uomo affascinante che mi sedeva di fronte, qualcosa che il pubblico non conoscesse; non riuscivo però a trovare alcun varco per strappargli segreti o confidenze. Piuttosto mi sorprendevo a fissarlo, ad ammirare le sue movenze, a lasciarmi incantare dalla sua dialettica, tanto da essere io a rispondere alle domande che mi rivolgeva e non il contrario. La schiena poggiata allo schienale della poltrona in pelle, le gambe accavallate, il braccio poggiato sul bracciolo a sostenere il viso leggermente inclinato a destra, mentre l’altra mano giocherellava con la Mont Blanc nera, sulla quale brillavano le iniziali incise in oro. La poca luce nella stanza si rifletteva sul tavolo ed ancora nei suoi occhi verdi; la pelle abbronzata del viso faceva risaltare ancora di più il sorriso, ma nonostante la cura meticolosa della sua persona Edward non era quello che si può definire un uomo bello: senz’altro era estremamente affascinante. Ben presto mi accorsi che stavo subendo l’intervista anziché rivolgerla a lui, ma non riuscivo ad uscire dalla situazione. Rispondevo a tutto ciò che mi chiedeva avvertendo realmente il desiderio di fargli sapere di me, di aprimi alla sua curiosità, di mostrarmi come ero, senza recitare. Forse è stato questo, forse la mia trasparenza, la mia assoluta incapacità di fingere, la mia mancanza di malizia a spingerlo a chiedermi di vederci ancora. Solo qualche tempo dopo ho realizzato che nemmeno in quell’occasione Edward mi ha mai rivolto alcuna domanda. Non ha mai proposto aspettando il mio consenso; lui ha sempre saputo che io avrei accettato, lui ha compreso sin dall’inizio che io aspettavo i suoi desideri affinché divenissero i miei. Ed anche quella sera mi disse che ci saremmo rivisti la sera seguente. Non c’era bisogno di acconsentire: era così e basta.
Nemmeno oggi, dopo che é passato tanto tempo, riesco a capire perché il soddisfacimento del suo desiderio, l’obbedienza ad ogni sua voglia, la sottomissione totale della mia persona alla sua volontà riesca a darmi così piacere. Ancora non comprendo perché provi un senso così prepotente di possedermi, così come io sento il bisogno vitale di essere sua, un oggetto nelle sue mani, un giocattolo da usare a suo esclusivo piacimento. Ancora non so perché possa provare piacere da questo annullamento.
La sera successiva all’intervista, mai pubblicata, ci incontrammo di nuovo nel suo studio, ad un’ora più tarda. La segretaria aveva già abbandonato la postazione abituale, davanti all’ingrasso dello studio del professore. L’ultimo piano dell’edificio era avvolto dal buio e dal silenzio. Solo dalla porta chiusa di Edward filtrava una luce fioca. Entrai senza bussare: a differenza della sera prima lo trovai senza camice, seduto sulla poltroncina rossa che prima occupavo io. Era rivolto alla porta, con la scrivania alle sue spalle. Dominava perfettamente l’intera stanza ed anche me. Appena entrata mi sentii immediatamente sola; una strana sensazione di solitudine ed abbandono mi pervase. Mi resi conto subito di essere davanti ad un bivio: avrei potuto scappare o seguirlo. Nel primo caso però non avrei mai soddisfatto la mia curiosità di comprendere le ragioni dell’attrazione fortissima che sentivo verso l’uomo che avevo di fronte: un’attrazione forte, vera e non dichiarata apertamente, né da me né tanto meno da lui, eppure così violenta da impedirmi qualsiasi atto di fuga. Al contrario avanzai verso di lui. Posai la borsa ai suoi piedi, lasciando che il suo sguardo corresse lungo la mia persona. Non aveva ancora pronunciato una parola, eppure sentivo crescere dentro di me l’eccitazione: mi osservava ripetutamente, soffermando volontariamente lo sguardo sulla bocca, che involontariamente inumidivo con la lingua e morsicavo nervosamente. Guardava i miei seni sporgenti che divenivano duri e gonfi man mano che l’attesa perdurava: avvertivo i capezzoli indurirsi, sapevo che li scorgeva dalla camicia bianca e mi stuzzicava l’idea che avvertisse i miei stessi brividi di piacere correre lungo la schiena. Mi guardava e mi sentivo nuda. Ad un tratto mi chiese di accomodarmi sul divanetto alle mie spalle e di spogliarmi lentamente. Non lo avevo notato la sera prima: alla destra della porta si trovava un divano. Mi diressi dove aveva chiesto, mi girai verso di lui e piano piano cominciai ad ubbidire. Lasciavo scivolare i miei indumenti con estrema lentezza. Posai il golfino sul divano ed aprii la cerniera lampo della gonna; aspettai che con il solo movimento del bacino scivolasse lentamente fino alle caviglie, rivelando alla sua vista le mie gambe, fasciate dalle autoreggenti velatissime. Rimasi così per qualche minuto, chinata ad accarezzarmi le gambe, dalla punta delle scarpe a tacco alto, lungo il polpaccio, il ginocchio fino ad arrivare al prezioso pizzo sulle cosce. Il suo sguardo seguiva ogni mio movimento, sobbalzando ogniqualvolta gli rivelavo qualcosa di me: così fece quando terminai di slacciare i bottoncini in madreperla della camicia. Non indossavo reggiseno, non l’aveva notato, così i miei seni nudi, lo investirono con la bellezza dei capezzoli sporgenti, scuri ed eccitati. Rimase ancora seduto mentre infilavo le dita sotto il perizoma trasparente che imprigionava la mia voglia: osservava la mia mano accarezzare il clitoride, faticando per giungere ad intingere la punta delle dita nel desiderio insopprimibile che ormai scaturiva tra le mie gambe. Solo in quel momento si alzò, si inginocchio davanti a me, e sfilò il perizoma, lasciandolo cadere alle caviglie. In quella posizione sentivo il soffio del suo respiro caldo sul mio morbido nido. Desideravo che mi toccasse, che mi prendesse, ma non mi era concesso avanzare alcuna richiesta. Così mi sedetti sul divano, divaricai le gambe e cominciai a toccarmi, mentre il suo sguardo ancora si riempiva di me, mentre il suo membro rispondeva alla meravigliosa visione che gli offrivo. Mi toccavo per lui, godendo sola di un desiderio condiviso. Le mie dita sparivano dentro di me, accompagnate dai suoi occhi, nella sua assoluta immobilità. Lo guardavo mentre lo sentivo godere ed ansimare. Posai la testa sullo schienale del divano, stuzzicando il clito sempre più forte, strofinandolo con le mie stesse dita, fino ad esplodere in un grido liberatorio, in un desiderio che non potevo più trattenere. Spossata mi lasciai andare sul divano, mentre il professore impugnava il suo giocattolo e cominciava a divertirsi. Mi fece girare, inginocchiata sul divano e cominciò a leccare ogni goccia, ogni stilla del mio dolce sapore. La sua lingua mi leccava le cosce, risalendo fino alla fonte da cui poco prima era sgorgato il mio desiderio. Sentivo la sua lingua entrare ed uscire da me, da ogni fonte di piacere. In quella posizione non avevo alcuna protezione, alcuno schermo: ero già sua.
Lo sono sempre stata fin dall’inizio.
Mi chiedo solo per quanto lo sarò ancora.
Edward mi chiamava alle ore più impensate solo per soddisfare il suo bisogno di toccarmi o di avermi a sua disposizione. Passavo ore, sola, ad attenderlo in ufficio, masturbandomi nell’attesa per farmi trovare bagnata ed eccitata. Spesso non arrivava nemmeno. Desiderava che indossassi il cappotto e nient’alto sotto: così mi recavo agli appuntamenti con lui. Quando mi telefonava non esisteva nulla di più importante per me: sempre, a qualsiasi ora e qualsiasi cosa stessi facendo rispondevo ai suoi desideri, di qualsiasi tipo. Mi chiedeva foto mentre ero in bagno, mentre mi masturbavo, mentre mi lavavo.
Ma le sue attenzioni erano per me. Leggevo in questo suo desiderio di possedermi il sentimento che invece non c’era. Il grande professore, il rispettato e stimato luminare della medicina si perdeva con me alla ricerca del piacere. Spingeva la mia testa sul suo membro fino a farmi soffocare con i suoi orgasmi, per poi bere dalla mia bocca il sapore del suo stesso piacere. Amava mangiare su di me, leccare il miele sul mio corpo. Adorava conservare gli indumenti intimi che mi regalava dopo avermi fatto eccitare e dopo che li avevo impregnati del mio profumo, del mio sapore, della mia voglia. Voleva che lo guardassi mentre li leccava, voleva che indossassi sempre le scarpe, voleva che gli sfiorassi il membro con la punta degli stivali, fino a farlo crescere, per poi leccarlo e farlo impazzire: lui vestito, io nuda in ginocchio a supplicarlo di prendermi.
Voleva giocare.
L’ha sempre fatto, fin dall’inizio.
E poi la richiesta: non chiedermi nulla, ti ho preparato una sorpresa che ti piacerà. Fidati. Ed io ancora una volta gli ho creduto. Perché non fidarsi dell’uomo che amo e che mi sa rendere felice. Perché non credere che lui voglia solo il meglio per me. Il grande professionista, affermato e riconosciuto che si preoccupa di me. Non avrei potuto chiedere altro dalla vita.
Così sono qui, bendata e legata ad un letto, nel silenzio assoluto. Ho sentito il rumore dei suoi passi abbandonare la stanza, dopo avermi sistemata sul questo letto, dopo avermi baciata sulle labbra ed avermi rassicurato dicendo di non avere paura. Perché dovrei? Lui mi ama ed io amo lui, no? Ma allora perché sento crescere l’angoscia dentro di me? Perché strattono i polsi bloccati nelle manette, perché mi agito senza poter controllare freddamente le mie reazioni’perché?
D’improvviso lo sento tornare. Sento il suo profumo avvicinarsi a me, chinarsi sul mio viso e baciarmi. Gli ho promesso che non avrei parlato, né avrei chiesto spiegazioni. Gli ho promesso che avrei accettato tutto. La sua lingua si intrufola nelle mie labbra, succhia la mia bocca avidamente, impugnandomi il viso tra le mani. Mi lascio andare, mi distendo, mi tranquillizzo. Mi accarezza il volto, mentre il suo respiro è il mio, mentre assaporo la sua lingua morbida e calda, mentre sento un’altra lingua intrufolarsi tra le mie gambe. Sobbalzo istintivamente. Lo sento dire di stare tranquilla di rilassarmi, di pensare solo a godere, al piacere. L’altra lingua si fa spazio tra le mie gambe, intrufolandosi vilmente dentro di me. E’ una bocca che non conosco, rude, forte, prepotente. La sento violarmi senza dolcezza, senza desiderio di regalarmi il piacere, ma al solo scopo di possedere ciò che non è suo. Mani sconosciute mi divaricano le gambe fino a farmi male, mentre delle dita spingono dentro di me. Non posso parlare, l’ho promesso, ma sento Edward ancora al mio fianco. Lo sento accarezzarmi la testa, mentre altre mani si posano sui miei seni, stringendoli fino a farmi inarcare la schiena dal dolore. Le mani tanto amate mi spostano i capelli dal viso, continuando ad accarezzarmi: una bocca succhia i capezzoli, li morde, li strapazza, mentre un’altra lingua beve il mio sapore che sgorga tra le gambe. Edward silenzioso posa la testa sul cuscino: avverto il suo respiro vicino a me, non roco, non affannoso. Non c’è piacere in lui, come in me. Mi sento violare, ferire. Dita che non conoscono entrano ed escono da me. Sento un dolore atroce mentre un membro duro spinge dove non ho mai voluto accettare nessuno. Sento il mio amore rimproverare qualcuno per aver violato anche ciò che lui aveva proibito. Calde lacrime cominciano sgorgare dalla benda scura che mi copre la vista di uno scenario atroce. Le mani morbide e calde asciugano il mio dolore, mentre qualcuno posa un membro sulla mia bocca. Succhialo amore, fallo per me. Si, si, per te anche questo. Così mi trovo ad offrire il caldo ricovero della mia bocca ad un altro uomo non voluto, non desiderato: succhio, lecco regalando la mia lingua al suo piacere. Lo sento spingere il suo desiderio dentro di me, fino in gola, per poi uscirne e rientrarvi di nuovo. Brava amore, brava. La voce di Edward mi rassicura. Mi ama anche adesso. Faccio ciò che desidera lui, ubbidisco anche a questo, è per questo che mi ama. Il dolore tra le natiche è diventato insopportabile, ma sento qualcuno gridare e godere dentro di me. Finalmente la prima violazione ha fine e poco dopo il sapore di un piacere sconosciuto mi invade la bocca. Ora tocca a te, sento qualcuno ordinare a Edward. Per la prima volta è lui ad ubbidire ad un ordine. Sale sul letto infilando il membro turgido tra le mie gambe. La scena cui ha appena assistito deve averlo incredibilmente eccitato, perché con solo pochi movimenti esplode in un orgasmo incontenibile.
Nemmeno lui si è preoccupato di me.
Di colpo il silenzio torna ad invadere la stanza. Avverto solo i rumori sommessi di chi si ricompone prima di uscire. L’aria odora dell’essenza dolciastra del piacere appena vissuto da qualcuno, non da me; odora della mia disperazione, di angoscia e frustrazione. Grido silenziosa, nessuno mi sente. Le mie lacrime hanno ormai impregnato la benda e scendono copiose rigandomi il viso. Ancora non comprendo cosa è stato.
Tendo l’orecchio per percepire i discorsi di commiato dei due sconosciuti che hanno appena distrutto il mio amore. Edward deve averli accompagnati alla porta, senza nemmeno preoccuparsi di me, legata, bendata, dolorante, umiliata, sporca e sconfitta.
‘Hai pagato il debito, bravo, sei di parola’e impara a giocare a poker’.’
grammaticalmente pessimo........
Ciao Ruben, sei un mito! Hai un modo di scrivere che mi fa eccitare! La penso esattamente come te. Se…
Ti ringrazio, sono felice che ti piacciano. Vedremo cosa penserai dei prossimi episodi, quando si chiuderà anche la sottotrama di…
Davvero molto bello. Piacevole come gli altri e decisamente pregno di sentimenti espressi senza risultare melensi o ripetitivi. D'impatto leggiadro,…
Come ti ho detto, in pochi e poche sanno sa scrivere in maniera così eccitante sia dare un senso ad…