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Racconti Erotici Etero

L’arrampicatore

By 12 Febbraio 2004Dicembre 16th, 2019No Comments

Si crede di ricordare, a volte, invece, si inventa, anzi si crea. L’immaginazione suggerisce quello che potrebbe essere accaduto, la fantasia fa costruire eventi vagheggiati ma mai verificatisi.

O, forse, da sconosciuti angoli remoti della mente, emergono episodi inconsciamente registrati? O si tratta di racconti ascoltati e criptoricordi che si fondono e confondono per sostenere che siano realmente accaduti tali eventi, verosimili, forse anche veri?

Credo che ciò accada prevalentemente quando ci si riferisce al sesso.

In materia &egrave un continuo ‘arrampicarsi’. Si parte da una base e si cerca di salire sempre più in alto. Ciò si verifica anche nell’elevarsi socialmente.

Chi non conosce qualche ‘arrampicatore sociale’?

Allora, perché non parlare anche di ‘arrampicatore sessuale’?

*** * ***—

Primi incontri’
Il primo incontro con la femmina &egrave stato con Angela, la balia. Aveva tette magnifiche, turgide, e capezzoli, lunghi e duri come ulive appena colte, dai quali stillava un latte tiepido e dolce che mi inebriava. La notte mi metteva a dormire sulla sua pancia, con i piedini che, movendosi in continuità, la titillavano tra le gambe, nel suo folto e setoso boschetto di riccioli scuri. Si agitava, ogni tanto, gemeva, stringeva e allargava le gambe, si chinava a baciarmi sul capo, a lambirlo con la sua lingua guizzante. Poi, emetteva un lungo respiro, e potevamo dormire.

***

Serico grembo, petto sodo, mani che carezzavano, gemiti soffocati. Tutto nel letto di Franceschina, la rossa, quando, di nascosto dai miei genitori, andavo a rifugiarmi da lei. Anche sulla sua pancia mi piaceva stare, ma questa volta non erano i piedini a vellicarla tra cosce beanti e beate, ma il mio piccolo pistolino che andava a rifugiarsi, irrequieto, deliziosamente, in quel caldo accogliente. Franceschina stava bene attenta che non m’intrufolassi troppo, ma a un certo punto smaniava come presa da leggere convulsioni, stringendomi a lei e soffocando i gemiti che le urgevano in gola. Qualche volta si divertiva ad afferrare il cosino e a carezzarlo tenendolo stretto nella sua mano. Altre volte lo scambiava per il capezzolo d’una mucca. Io la lasciavo fare, perché mi piaceva molto. Era bello quel suo fuoco di pelo rosso, tra le gambe. Ed era strano com’era fatta. Io ero curioso, e lei si lasciava esplorare, con lo sguardo, con le dita, con la lingua.

Ma dovette tornare al paese, Franceschina, e mi mancò molto.

***

Ero curioso di sapere se anche Liliana era dotata degli stessi attributi che aveva Franceschina. Tra le gambe c’era più o meno la stessa cosa, ma di dimensioni più ridotte e senza tutti quei peli. Le tette, poi, erano appena accennate. Non le dispiaceva quando gliele carezzavo. Più diffidente era quando le passavo la mano tra le gambe. D’improvviso si alzava e se ne andava. Quando le proposi di farmi mettere il mio cosino vicino alla sua cosetta, dapprima rifiutò, poi disse che andava bene, ma solo per una volta, infine era lei a chiedermi di farlo, ma con garbo, e baciandola nel contempo. Intanto, andavo apprendendo quello che normalmente interveniva tra un maschio e una femmina, e come utilizzare le differenze che li distinguevano. Notizie, comunque, sommarie, lacunose, incomplete, non sempre esatte.

***

Doveva passare del tempo prima di tornare sull’argomento. Con l’altro sesso, intendo.

Tra compagni di classe, invece, le dissertazioni sul proprio organo genitale erano pluriquotidiane. Ogni occasione era buona. Ognuno ne parlava come esperto della materia, e speso erano solo fantasticherie. Non diciamo, poi, quando si trattava del rapporto con le femminucce. Se Casanova ci avesse ascoltato sarebbe andato a nascondersi per la vergogna. Al nostro confronto era un dilettante. Per allontanare gli altri dalle nostre disquisizioni, stabilimmo di usare una specie di gergo. Per cui, il sesso maschile era Garibaldi, invincibile eroe dalla camicia rossa, e quello femminile era Roma, nella quale, come si sa, Garibaldi entrò trionfalmente. Un altro gruppo, avevamo saputo, aveva usato Topolino e Topolina, dimostrando scarsa fantasia. Ormai eravamo ‘anziani’, il ginnasio ci aveva fatto entrare nelle classi miste, e il giudizio sulle compagne, spesso smorfiosette, era sempre su base estetica, e ipotetica valutazione sessuale. Per non farci capire da loro invertivamo le sillabe. Invece di dire ‘bona’ dicevamo ‘nabo’. Ma le fanciulle lo sapevano perfettamente, perché il loro più lusinghiero giudizio su uno di noi era ‘cofi’ o, addirittura, ‘coficira’, arcifico. L’insegnante era giovane, prosperosa, e risparmiava moltissimo sulla stoffa, sia in lunghezza che per le scollature. In una delle nostre assemblee estemporanee l’avevamo battezzata la ‘topona’. Qualche dissidente (non mancano mai) la chiamava più dialettalmente ‘sorcona’ o anche SPQR che, poi, stava per Sorcona Paola Queri Romana, utilizzando nome, cognome e luogo di nascita della prof.

Rosetta prometteva bene. Alla sua età era già un tipino che attirava l’attenzione dei più grandi, dei licealisti, e anche di qualche prof pomicione. Lei lo sapeva e, quando lo riteneva necessario, sculettava più del solito. Durante la gita scolastica, una di quelle brevi che durano una giornata, feci in modo di sedermi vicino a lei, e non appena l’autobus partì mi feci prendere da tale sonno che caddi con la testa sul suo petto, sulle sue tettine precoci. Lei mi circondò il capo col braccio morbido, e teneva la sua mano sulla mia guancia. Ogni tanto respiravo più profondamente, muovevo il viso e le sfioravo il capezzolo che le labbra dischiuse. Lei mi stringeva ancor più. Garibaldi non era insensibile a tutto ciò. Rosetta stese il soprabito sulle nostre gambe, vi infilò la mano sotto e si accertò che l’eroe dei due mondi non evadesse, tenendolo ben stretto.

Viterbo apparve troppo presto.

Al ritorno fu Rosetta a cercarmi. Rimise il soprabito nella stessa posizione, e mi raccomandò di non dormire. Fu la mia mano a cercarla. Ecco Roma’ ed ecco Porta Pia’ che tepore, che deliziosa lanugine, mentre i provvidenziali sobbalzi dell’autobus nascondevano i sussulti di Rosetta che sembrava volersi impadronire del povero Garibaldi che si agitava nella sua prigione.

***

Certe cose accadono nella realtà, ma se le leggi in un romanzo sorridi per la incredibile fantasia del narratore.

Mio padre doveva andare a Parigi per un convegno di lavoro. Erano invitate anche le mogli. La mamma non conosceva la ville lumi&egravere, e si rammaricava di non poterlo accompagnare. Una tale occasione, forse, non si sarebbe più ripresentata. Il programma era allettante: ospitati al ‘George V’, gite organizzate per le signore, spettacoli raffinati, cene di gala’ L’intoppo ero io, a chi affidarmi?

Zia Lisa salvò la situazione.

La chiamavo ‘zia’, ma non sapevo bene perché. Mia madre era figlia unica, mio padre aveva solo fratelli. Comunque, molto spesso zia Lisa compariva, restava a pranzo da noi, accompagnava la mamma a fare shopping. Non sapevo bene cosa facesse. Forse, anche per l’età, non era ancora laureata, non mi sembrava che avesse un’occupazione. Viveva da alcuni parenti, ed era sempre fresca, allegra, briosa. Ogni volta che veniva a trovarci, dopo avermi calorosamente baciato, mi guardava e mi diceva: ‘Come sei cresciuto, ma sai che se proprio un bel giovanotto?’ E via ancora un suo umido bacio, con le labbra rosse e carnose. Era proprio una bella donna, zia Lisa, con un corpicino che attirava attenzione e desideri, con delle splendide gambe che avevo potuto ammirare in tutta la loro bellezza quando venne a trovarci al mare.

Mia madre poteva accompagnare il marito, a Parigi. Lei si sarebbe trasferita da noi e avrebbe pensato a me durante l’assenza della coppia. Mirka, del resto, l’avrebbe aiutata durante il giorno.

Partirono il pomeriggio del sabato, così avrebbero avuto la domenica a loro disposizione.

La sera la casa mi sembrava vuota.

Zia Lisa mi chiese se volessi andare al cine.

Preferivo non uscire, vedere un po’ di televisione. Ero triste. Mi sentivo solo, abbandonato. Mi tenne vicino a lei, abbracciato, per tutto il tempo dello spettacolo. Quando fu il momento di andare a riposare mi guardò con dolcezza. Lei, certamente, o forse, si sentiva tanto mamma. Conoscendomi dalla nascita e pur dicendomi ogni volta che diventavo sempre più ‘giovanotto’ non considerava il momento né i turbamenti della mia adolescenza.

‘Non essere triste, Piero, vedrai che domani ci divertiremo. Vuoi dormire nel lettone con me?’

Sgranai gli occhi per lo stupore, ma seppi bene celarlo. Dormire nel letto con quel tocco di figliola! Sicuramente era uno scherzo.

‘Davvero, zia Lisa?’

‘Sicuro, bambino mio. Se ti senti più sicuro, meno solo, se ti fa passare la tristezza”

Ero nel letto della mamma, al posto di mio padre. Zia Lisa era andata al bagno. Rientrò indossando una cortissima e abbastanza trasparente camicia da notte. Rosa, scollata, con ampio giro manica che lasciava generosamente scorgere il bellissimo seno. Mi sorrise, entrò nel letto. Spense subito la luce.

‘Buonanotte, Pierino.’

Quasi si distese su me, dandomi il bacio della buona notte.

Che profumo delizioso.

Doveva essere stanchissima, perché dopo qualche minuto si sentì il suo respiro profondo. Un lieve ronfare, come una gattina che fa le fusa. Allungai guardingo la mano, ne percepii il calore ancor prima di sfiorarla. Era su di un fianco, e mi dava il dorso. Scesi un po’. La corta camicia era al di sopra dei fianchi.Non indossava altro. La pelle vellutata era calda e morbida. La perfetta rotondità della natica diceva che aveva raccolto le ginocchia sul ventre. Cominciai ad avvicinarmi lentamente, impercettibilmente. Mi fermai per sfilarmi i pantaloni del pigiama, con gesti inavvertibili, per tema di svegliarla. Le fui accanto. Non seppi resistere all’imperiosa tentazione di esplorare il solco allettante che divideva i suoi glutei. Era tiepido, meraviglioso. Mi accostai ancora, vi introdussi la testa del mio fallo spasmodicamente eretto. Una sensazione mai provata, paradisiaca. Spinsi appena. La sentii muovere. Mi spaventai. Ma lei si avvicinò ancor più a me, senza che il ritmo del respiro variasse. Stavo impazzendo per il piacere. Allungai la mano verso il grembo, stese appena le ginocchia. Scesi nel folto del pube, più giù. Ebbi la sensazione che aprisse le gambe per accogliere la mia mano. Non era solo impressione. Il mio sesso le pigiava il fondo schiena, tra le natiche che avevano preso a ondeggiare lentamente, avanti e indietro, stringendosi e rilassandosi nel contempo. Le mie dita vellicavano la protuberanza che s’era inturgidita tra le sue gambe, scendevano a lambirne le contrazioni, mentre l’altra mano le tormentava il seno, il capezzolo. Così, fino a quando fui invaso dal primo vero godimento sessuale della mia vita. Con zia Lisa. Le carezze sfumarono pian piano, s’arrestarono.

Zia Lisa si voltò verso di me, mi prese il volto tra le mani, posò le sue labbra sulle mie, le fece dischiudere, e sentii la sua lingua guizzare come una dardo infuocato. Si allontanò appena.

‘Non avevo capito quanto fossi diventato uomo, e quali fossero le tue pulsioni. Scusa. Non dovevo provocarti, facendoti venire a letto con me.’

‘Scusa tu’ sei così bella’ non ho saputo resistere’ &egrave stata una cosa che non immaginavo’ grazie’ e’ scusami.’

Accese la luce, mi scrutò nel volto. Esprimeva beatitudine, estasi.

‘Sei affascinante, Piero. Ti rincresce?’

‘Rincrescermi? No, assolutamente. Sono a disagio per essermi comportato così’ provo un senso di vergogna, di turbamento verso di te. Forse ho distrutto tutto, mi sono comportato indegnamente. Ho rovinato tutto, vero?’

‘Non hai rovinato nulla. Ora c’&egrave un piccolo segreto tra noi, solo nostro.’

‘Mi perdoni?’

‘Cosa dovrei perdonarti?’

‘Quello che ho fatto.’

‘Perdonarti per avermi dimostrato la tua ammirazione, che ti piaccio, ti attraggo, ti eccito? Una donna &egrave sempre lusingata da tutto ciò. Sei stato contento?’

‘Infinitamente.’

‘Lo rifaresti?’

‘Come faccio a risponderti”

‘Sii sincero. Lo rifaresti?’

‘Come potrei negarlo”

‘Anche subito?’

Annuii con la testa.

Tolse la camiciola che indossava, spense la luce.

‘Vieni su di me’ così’ lasciati guidare”

Le sue dita avevano tocchi lievi. Condussero il mio sesso vicino al suo, si fece penetrare lentamente’.

Concordammo che una lieve influenza mi aveva impedito di andare a scuola. La maggior parte del nostro tempo la trascorrevamo a letto. La settimana volò in un attimo.

Non potrò mai dimenticare quella gita dei miei genitori.

***

‘e così’

‘Sicché, l’anno venturo sei di maturità?’

Anna Raab era stata compagna di scuola di mia madre. Ogni tanto veniva a trovarla, quasi sempre senza preavvertirla e senza far caso all’orario. Qualche volta si fermava a pranzo. Aveva infinite cose da raccontare, ma le diceva, quasi bisbigliando, solo alla mamma. Era stata la più piccola della classe, e la più minuta fisicamente. Anche adesso dimostrava molto meno dei quasi quaranta. Con i suoi abiti leggeri, un po’ scampanati, dalle ampie scollature incrociate, sembrava più una studentessa che una prof.

Da quanto la mamma aveva detto a mio padre, Anna non andava molto d’accordo col marito. Un austero avvocato, dall’aria compassata, che non avevo mai visto sorridere. Molto gentile, di poche parole, interveniva sempre con calma e profondi ed equilibrati pareri. Oltre l’avviata e lucrosa professione, occupava ogni spazio del tempo libero nello studio della civiltà ebraica, che, da buon giudeo, riteneva, e non del tutto a torto, tra le più antiche della terra. Certo che non era facile vederli uniti dagli stessi interessi, dallo stesso modo di concepire la vita. Anna era effervescente, brillante, esuberante. Forse anche troppo per la sua età, e per essere docente nel liceo israelita.

‘Si, l’anno prossimo, di questi tempi, sarò ‘sotto esami’. Speriamo bene.’

‘Vedrai che sarai tra i primi. Sei preparato, intelligente, simpatico. Se ti posso essere utile in qualcosa, specie nelle materie che insegno, considerami a tua disposizione.’

‘Grazie. Sicuramente ne profitterò.’

‘Non fartene scrupolo. Ho molto tempo a disposizione, e, in ogni caso, per te ne troverei sempre.’

Anche quella volta era capitata all’improvviso. Mamma era fuori per delle compere, con Mirka. Non avrebbe tardato. Infatti, dopo poco s’udì aprire la porta e apparve.

Affettuose accoglienze, come al solito.

Io salutai e tornai nella mia stanza, a mettere a posto i libri scolastici. L’anno era finito. Mi attendevano le vacanze.

Mia madre venne a chiamarmi.

‘Piero, vieni. Anna ti deve chiedere una cosa.’

‘Cosa?’

‘Vieni, te lo dirà lei. Sii gentile.’

‘Sono sempre gentile.’

Il ‘mmmmm’ della mamma non condivideva tale mia affermazione.

Anna era seduta sul divano, con in mano la tazza del te. La depose sul tavolino, mi guardò.

‘Siedi un momento, Piero, devo chiederti un favore. Spero che vorrai farmelo.’

Feci un eloquente segno col capo. Voleva dire tutto e nulla.

‘Devo andare nella nostra casa di montagna, per annotare cosa far fare in attesa di riaprirla per le vacanze. Elia, mio marito, non può allontanarsi neppure per un’ora dal suo lavoro, e le cose non sono prorogabili. Ti chiedo la cortesia di accompagnarmi. Tua mamma &egrave d’accordo, manca solo il tuo placet. Non ti allontanerò a lungo dalle tue amicizie. Al massimo due giorni. Partiamo al mattino e torniamo la sera successiva.’

La cosa non mi entusiasmava, ma non avevo solidi e validi argomenti per rifiutarmi. Pensai che, visto che dovevo subire, tanto valeva apparire gentile e disponibile.

‘Certo, ne sono felice. Poterle essere utile mi fa sempre piacere.’

‘Allora, domattina alle nove. Va bene?’

‘Benissimo.’

Anna ringraziò, baciò la mamma, per dimostrarmi quanto mi fosse grata baciò anche me, e se ne andò.

La mamma si disse soddisfatta e che mi ero comportato da vero gentiluomo, quale dovevo sempre essere.

Erano le nove in punto quando si udì la voce di Anna, al citofono. Mi attendeva giù. Il tempo di salutare l’onnipresente genitrice, di prendere la sacca, e la raggiunsi subito.

Aveva una bellissima automobile, Anna, una Jaguar coupé ultimo modello. A me, in effetti, piaceva molto. Era un po’ l’auto dei miei sogni.

‘Ciao, Piero. Metti dietro il bagaglio e sali.’

Dentro era ancor più bella. Comoda, accogliente, rifinitissima. Mi guardavo intorno, compiaciuto. Glielo dissi.

Tutto preso dall’auto, non m’ero soffermato su Anna. Quando la guardai era tale la mia espressione che mi sorrise.

‘Cos’&egrave, hai visto uno spettro?’

‘Un’apparizione. Quasi non ti riconosco. Sembri la sorella minore, molto minore, di Anna. Cosa hai fatto?’

‘Deve dipendere dall’auto nuova. Un auto bella mi fa apparire meno brutta.’

‘Non dire sciocchezze.’

‘Ricorda che sono stata compagna di classe di tua madre.’

‘Si, ma hai un’aria così sbarazzina. Con quella vorticosa mini, poi. Ma tuo marito non dice niente?’

‘Ne profitto quando sono lontana da lui.’

‘E quella maglietta che sembra ti sia stata spruzzata addosso con la bombola spray.’

‘Sei in vena di galanterie oggi?’

‘Constato, solamente constato. Posso essere indiscreto?’

‘In che senso?’

‘Sono curioso.’

‘Se &egrave una curiosità lecita, va bene. E’ una cosa che chiederesti anche a una tua compagna?’

‘Certo.’

‘Allora, fuori!’

‘Scusa, ma esaminando il tutto, devo dedurre che non usi reggiseno.’

Mi guardò con finta severità.

‘Deduzione esatta. Contento?’

‘Contentissimo della risposta, ammiratissimo per il resto. Sembra che sotto quella maglietta ci siano le forme d’una venere greca.’

‘Ci siamo con la galanteria. C’&egrave altro?’

‘Non per il momento. Anzi, guardando bene’ anche le gambe sono della stessa modella.’

‘Grazie.’

L’auto si disimpegnava egregiamente nel traffico, senza strappi, senza sussulti. Merito della perizia della guidatrice. S’avviava alla periferia.

‘La tua casa &egrave a Roccaraso?’

‘Si. Ci sei mai stato?’

‘Mai. Quanto &egrave distante?’

‘Duecento chilometri. Speriamo di arrivare per il pranzo.’

Le guardavo insistentemente le gambe, snelle, nervose ma non magre, con ginocchia soavemente rotonde e cosce affascinanti. Mi ricordavano quelle di zia Lisa, meno carnose, forse più sode. Ero tentato di accertarmene. Il pensiero di zia Lisa trascinò altre considerazioni, suggerì idee affascinanti. Fantasie, solo fantasie d’un giovane sempre eccitato e presuntuoso.

Alla stazione di servizio, mentre l’addetto avrebbe provveduto al pieno, andammo a prendere un caff&egrave. Anna sembrava una ragazzina. Ancheggiava provocante, forse inconsapevole di suscitare tante voglie in un adolescente. Prima di risalire in auto, si chinò a controllare una gomma. Fu spontaneo osservare che aveva veramente un bel culo. Io non avevo mai dimenticato quello di zia Lisa e di quanto fosse accogliente.

Riprendemmo la strada, a velocità sostenuta, senza correre troppo, però.

‘Un soldo per i tuoi pensieri, Piero.’

‘Scusa. E’ vero, sono un pessimo conversatore.’

‘Cosa rimugini, nella mente?’

‘Sai bene che una piccola scintilla provoca un grosso fuoco.’

‘Cio&egrave?’

‘Miraggi, sogni irrealizzabili, aspirazioni irrealizzabili.’

‘Aspirazioni?’

‘Forse &egrave più esatto dire desideri.’

‘Assolutamente irrealizzabili o poco probabilmente?’

‘Cambia?’

‘Sostanzialmente.’

Scossi la testa, in silenzio.

‘Allora?’

‘Vedi, qualche volta dimentico la mia età e rischio di divenire ridicolo, di guardare troppo in alto.’

‘Prova a volare alto.’

‘Ma posso bruciarmi le ali.’

‘Bisogna vedere se il rischio vale la candela.’

‘Non lo so. Io sfiderei il rischio, ma temo di essere deriso.’

‘Chi non osa non raggiungerà mai la vetta. Non devi mai temere la derisione, &egrave un basso sentimento che dimostra la pochezza del dileggiante.’

‘Hai ragione, devo rifletterci.’

‘Proviamo a fare un esperimento. Parliamo di qualcosa cui aspiri e non osi tentare. Qualsiasi cosa.’

Le guardai insistentemente le belle cosce.

‘Rischio una sberla.’

‘Ne vale la pena?’

‘Assolutamente si.’

‘Azzarda, allora.’

Cercai di sorridere, di assumere un atteggiamento scanzonato.

‘Vorrei sentire se le tue gambe sono sode come immagino.’

Mi scansai, istintivamente, per evitare la sua mano che avevo visto muovere.

Prese la mia e la poggiò sulla sua coscia.

‘Accertati e giudica.’

Strinsi le dita, carezzai, scesi sul ginocchio, sul polpaccio, risalii, sotto la minuscola gonna, fin dove piccoli peluzzi serici fuoriuscivano dal bordo delle mutandine. Rimasi con la mano sulla sua carne calda e gagliarda.

‘Mi sembra che la tua ispezione sia stata abbastanza approfondita. Qual’&egrave il verdetto?’

‘Non prendermi in giro, sono sconvolto. Non immaginavo una tale soda bellezza.’

‘Quindi, per quanto riguarda le gambe non sono da buttar via?’

‘Ti prego, non burlarti di me. Se vuoi, fammi scendere, tornerò a casa per conto mio. Sono stato uno sciocco. Lo sapevo.’

Mi guardò con gli occhi pieni di lacrime.

‘La sciocca sono io, Piero, che ‘tardona’ come sono ‘ci chiamate così, vero?- accetto, provoco, le carezze d’un giovane come te. Ma sei un metro e ottanta di giovane, Piero. Cerca di capire.’

In effetti stentavo a capire.

Le sfiorai la guancia con la mano.

‘Non farlo, Piero, non farlo. Non voglio la tua compassione. Torniamo a casa?’

‘No. Ora, più che mai no.’

Le posi una mano sul petto.

‘Piero, andiamo fuori strada”

‘Si, cerca una laterale e infiliamoci in qualche posto. Almeno per un momento.’

Uscì appena possibile e s’inoltrò in una stradetta laterale, andandosi a fermare sotto un grosso e fronzuto albero.

Fu un bacio fremente, tra il violento e il tenero. Le labbra si cercavano, le lingue si lambivano, golose. Le brancicavo le splendide dure tette, sollevai la maglietta, succhiai i capezzoli protesi. Con un gesto rapido tolse le mutandine, si mise a cavalcioni, guardandomi negli occhi, slacciò i miei pantaloni dai quali si erse prepotente il mio sesso, ci s’infilò sopra, iniziando una galoppata sfrenata. Come una walchiria scatenata che non conosce ostacoli. Si chetò solo quando raggiunse, esausta, gemente, la sua meta. E la mia.

Rimase avvinta a me, incurante della possibilità che qualcuno potesse vederci. Riprese a baciarmi, a ondeggiare, insistentemente, ancor più quando sentì che rifiorivo in lei, e tornò a possedermi, con avidità, con voluttà, ardore. Pur nel piacere che sapeva darmi, pensai che le ebree erano veramente maestre nell’amore. Un incontro così non si può scordare. Con le mani le stringevo le natiche nervose che si dimenavano lascivamente.

Pian piano, sembrò ritornare in possesso della sua calma. Aveva indossato di nuovo mutandine e maglietta. Era seduta, immobile, al posto di guida. Mi guardò con ancora il rapimento negli occhi, le narici frementi.

‘Non era mai stato così bello. Mai. E da tre mesi non ho rapporti con mio marito. E’ sempre indaffarato, soprappensiero, meditabondo. Ti nauseo?’

La baciai sulla guancia.

‘Mi esalti, mi doni le delizie del paradiso.’

‘Deluso?’

‘Entusiasta.’

‘Appena a Roccaraso, andremo a pranzo, in un locale caratteristico, e poi’.’

‘Perché non prima?’

Fece un profondo sospiro, accese il motore, ingranò la marcia e ripartì.

***

‘ancora’

Mirka era tornata al suo paese.

L’aveva sostituita Ligg Ancì, proveniente da un villaggio non troppo lontano da Addis Abeba, il Nuovo Fiore.

Ancì, che poi &egrave l’appellativo con quale, di solito, ci si rivolge a una donna di ceto non elevato, nella sua terra, parlava qualche parola di Italiano e aveva deciso di cercare un lavoro che la strappasse dagli stenti che attanagliavano la sua famiglia. Era abbastanza alta, ben proporzionata, con i bei tratti della sua gente, che &egrave semitica e si vanta di essere della stirpe di Salomone. Era di religione Copta, appunto quella importata dall’Egitto. Decisi di chiamarla Aba (la sigla di Addis Abeba), fiore, perché, in effetti, era un fiore di ragazza, nello splendore dei suoi diciotto anni. Fianchi ben modellati, petto superbo, andatura regale.

Mia madre mi aveva detto di stare lontano da Ancì, per me Aba. Per tanti motivi, anche per le malattie che poteva aver ereditato dai suoi avi. E le cose potevano anche andare nel senso desiderato, tenendo conto che Anna era sempre avidamente disponibile. Mi venne da sorridere: l’Ebrea e la Copta. L’uomo propone, però, e il destino seguita a fare la sua strada.

Aba girava per casa con un leggero ‘sciamma’, l’ampia veste bianca stretta alla vita, sotto alla quale, di solito, non s’indossa niente. Metteva vesti europee solo quando usciva di casa.

Quella mattina faceva molto caldo. Mio padre era andato a studio, la mamma aveva un impegno alla Caritas. Una delle sue fissazione. Era lì che aveva trovato Aba. Io mi crogiolavo nel letto. Mi alzai per andare a prendere qualcosa in cucina. Del latte freddo, possibilmente. Passando dinanzi alla porta della doccia sentii l’acqua scosciare. La porta era semichiusa, la spinsi piano e’ Aba, con gli occhi chiusi, le braccia al cielo, le tette protese, le gambe appena divaricate, godeva il refrigerio dell’acqua che le scorreva sul corpo. La fissavo incantato. Quella era ‘the black Rome’, Roma la nera, quasi del tutto glabra. Una Roma a me sconosciuta, e Garibaldi era più impaziente che mai. Ricordai una scena cinematografica che m’era rimasta impressa nella mente. Decisi di ripeterla io, senza indugio. Via giacca e pantaloncini del pigiama, e la raggiunsi. Aba sbarrò gli occhi, ebbe un moto quasi istintivo, di respingermi. Io, intanto, l’avevo abbracciata, e Garibaldi premeva naturalmente alle porte di Roma’ Mi saltò quasi in braccio, intrecciò le gambe dietro la mia schiena e s’acconciò per aiutarmi a penetrarla. Garibaldi, più baldanzoso che mai, cantava vittoria. Io dovevo tenermi per saldo sulle gambe, per sostenere le deliziose e decise spinte dell’Etiope. Aveva un modo particolare di fare l’amore, il suo ventre si contraeva e rilasciava provocando una inebriante peristalsi della vagina che mi mungeva deliziosamente. A lungo, fino a che non stavamo per cadere, esausti, sempre sotto l’acqua che ci irrorava.

Si avvicinava il giorno della laurea. Le colleghe d’università a volte mi guardavano con curiosità. Forse avranno anche fatti cattivi pensieri su me. Ma ero preso dallo studio, e il tempo libero non era sufficiente per dividermi tra zia Lisa che, pur sposata, non tralasciava occasione per stare insieme a me, e la spumeggiante Anna che, allo scopo, aveva arredato con elegante civetteria un piccolo appartamentino, in un luogo elegante e discreto della periferia. Anna era imprevedibile in tutto, sempre piena di fantasia, e di fantasie. Gli oltre vent’anni che ci dividevano non erano mai affiorati. Così deliziosamente minuta e stupenda in ogni sua divina proporzione, si rifugiava tra le mie braccia, mi sedeva in grembo, nuda, nel grande letto, e mi accoglieva nel solco della sua voluttuosa pesca. Restava quasi immobile, solo le sue natiche si muovevano in una maniera che mai più in nessun’altra ho conosciuto, fino a farmi raggiungere il piacere, e lei a gemere di voluttà. Meravigliose chiappette prensili, indimenticabili.

Lo studio e le distrazioni, diciamo così, sentimentali del giorno, trovavano epilogo in ‘black Rome’, che mi cingeva sempre con le sue gambe intrecciate sulla mia schiena, e mi baciava sussurrando ‘ghieta’ ghieta’. Aveva detto che significava ‘signore’, ‘padrone’. Da quando le avevo detto che quel coso li si chiamava Garibaldi, mi sussurrava Garibaldi’ Garibaldi.

E trascorsero alcuni anni, quasi sempre senza grossi pensieri.

Ero partito la sera, in treno, dal Nord, per raggiungere la mia città. Dopo due giorni mi sarei sposato. Nella mente scorrevano i ricordi come una pellicola. Angela’ Franceschina la rossa, Liliana, Rosetta, zia Lisa, Anna, chiappette prensili, Aba il mio più recente fiore.

Pensavo che avrei trascorso da solo gli ultimi giorni di celibato. Da solo? E come avrei potuto evitare di salutare Lisa e Anna, di trascurare Aba?

Nello scompartimento c’era solo una giovane signora che andava a sollecitare, al Ministero, una pratica riguardante la pensione del padre. Il marito le aveva raccomandato di non stare troppo lontana da lui. Intanto, era vicina a me. E’ inutile ripercorrere le battute, gli approcci. Finimmo nel gabinetto, per una sveltina, in piedi, aiutati dal sobbalzare del convoglio. Prima dell’alba, e della fine del viaggio, ripetemmo l’esperimento, con reciproca piena soddisfazione

***

‘un passo indietro’

Era veramente un tormento. Non tralasciava occasione per infastidirmi. Quasi una persecuzione. Tutte le scuse erano buone: I compiti scolastici’ se avevo una certa rivista settimanale’ cosa ne pensavo del vestito che indossava ieri, durante lo struscio serale nel corso della cittadina. Credo che mi facesse la posta per sapere quando andavo al cine. Appena si riaccendeva la luce la scorgevo nel posto più vicino a me che avesse trovato: E tanto faceva, chiedendo ‘scusa’, ‘permesso’, e così via, che finiva con l’essermi a fianco, salvo che non mi fossi protetto circondandomi di amici fedeli e irremovibili. Se riusciva a sedersi a fianco, era tutto un muoversi, un agitarsi. Avvicinava la sua testa alla mia. Si metteva sottobraccio. Manifestava finte emozioni, guardando il film, stringendomi il ginocchio. O più su. Data l’amicizia dei nostri genitori, mi piombava a casa, sempre per farsi spiegare qualcosa che diceva di non aver ben compreso, a scuola. E finiva, in un modo o in un altro, che s’alzava la gonna e si sedeva sulle mie ginocchia, agitando il magro culetto di bambina. Sentivo che dilatava e stringeva le natiche, ma non riuscivo ad eccitarmi. Era proprio una bimba, e dimostrava perfino meno dei suoi anni. Una tabula rasa, niente petto, niente fianchi, due gambette infantili, e il volto non eccessivamente attraente. Capelli biondastri, tendenti al capecchio. La chiamavo ‘Maki’, da quando avevo visto l’immagine di quel lemuride del Madagascar. Oddio, era solo un nomignolo scherzoso. Dal punto di vista sessuale non mi diceva niente. La pensavo completamente glabra e del tutto infantile anche tra le gambe. Alla vigilia dei miei diciannove anni era quel sorcone della professoressa di musica delle magistrali, pensionante presso la vecchia zia Nilla dalle vocazioni ruffianesche, che m’attizzava. Andavo a trovare spesso quella che senza essermi parente chiamavo zia. Gisella girava per casa sempre in succinta sottoveste, con i capelli corvini sulle spalle nude, e rigogliosi ciuffi scuri che le spuntavano dalle ascelle. Era sempre profumata. I capelli, quel pelame, mi eccitavano. Non vi dico, poi, quando mi dava lezioni di ballo. Il suo ventre aderiva a me come una ventosa, le tette sembravano volermi avvolgere, e non sgradiva le mie mani che le artigliavano le robuste chiappe appena coperte dalla sottoveste di raso. Quando’ distrattamente’. le mie mani le lambivano il ventre, sentivo, o almeno mi pareva di sentire, i riccioli aggrovigliati che le guarnivano il pube, e se indugiavo, curioso, si stringeva a me. Comunque, anche se era evidente e manifesto il desiderio che avevo di lei, e pur lasciandosi spesso carezzare lascivamente, mostrando di godere al mio tocco sempre più invadente, non permise mai di oltrepassare quello che nell’avanzata adolescenza dell’epoca chiamavamo ‘fracosce’, che pur ci procurava voluttuosi orgasmi. Gisella proteggeva la sua verginità fisica.

Quando tornai nella cittadina dei miei studi liceali, dopo alcuni anni, mi venne incontro, nella piazza principale, dov’era il ‘circolo’, una splendida fanciulla, dai capelli d’oro e dalle forme scultoree.

‘Ciao, Piero. Sono Maki.’

‘Maki?’

La squadrai sbalordito.

‘Si, Maki, la scimmietta’.mi chiamavi così, vero?’

Aveva un’aria civettuola e provocatoria. Mi guardava sorridendo.

Le tesi la mano, mi si rifugiò tra le braccia, con un bacio che oltrepassava i limiti che normalmente, all’epoca, erano ammessi in pubblico, perfino tra coniugi. Non mi sembrò, però, che i radi passanti fossero troppo curiosi.

‘Sei tornato, finalmente, Piero. E io ti infastidirò, come al solito.’

Con la migliore ipocrisia che seppi sfoggiare, le assicurai che non mi aveva mai infastidito, che mi era stata ,e mi era, tanto cara, che avevo sempre pensato a lei, ma che non immaginavo di trovare tale splendida fanciulla.

Girò su sé stessa, lentamente, offrendosi alla mia ammirazione.

‘Che ne dici?’

Fui tentato di prenderla sullo scherzoso.

‘Potenza dell’evoluzione della specie”

‘Allora, sono sempre Maki ?’

‘Sei più bella di Venere”

Divenne seria.

‘Ti prego, chiamami Maki, mi piace tanto.’

‘Allora sei la mia Maki”

‘Tua?’

‘Scusa, non voglio prendere il posto di qualcun altro.’

‘Nessun posto da prendere, perché non c’&egrave nessun altro. Ma ‘tua’ &egrave un possessivo impegnativo. Molto vincolante. E mi sembra del tutto prematuro.’

‘Dipende tutto da te”

‘Ti trovo cambiato, Piero, sei gentile, galante, lusingatore.’

‘Ti dispiace?’

S’era messa sottobraccio, e ci avviavamo verso la grande villa comunale, sulla parte alta della collina.

‘Sciocco!’

Ci accolse il frondoso viale, girammo verso l’estremo opposto, dove una panchina isolata, nascosta da una fitta siepe, guardava la valle.

Che trasformazione. I lunghi capelli dorati le cadevano sulle spalle divinamente disegnate, sul seno eretto che sembrava stesse per esplodere dalla camicetta. I fianchi, voluttuosamente dondolanti, mi carezzavano. Aveva preso la mia mano, ogni tanto mi guardava con occhi limpidi e profondi. Sedemmo sulla panchina.

Mi prese il volto tra le lunghe dita affusolate e pose le sue labbra sulle mie, cercando avidamente la mia lingua in un bacio appassionato, incurante della possibile intrusione di qualche estraneo. Ebbe un moto improvviso, alzò la gonna e sedette sulle mie ginocchia’ come una volta’ solo che ora percepì chiaramente la mia eccitazione.

Mi sussurrò con voce rotta dal respiro affannoso.

‘Ti aspetto da sempre. Ho sognato sempre’ essere tua, si, la tua Maki, perché non voglio essere d’altri, &egrave la sola cosa che posso offrirti, che desidero, ardentemente, appassionatamente donarti. Tu, per me, sei la divinità alla quale sono votata’ non ridere, però!’

‘Non rido, bambina, sono felice come non puoi immaginare. Desidero quanto te, più di te, aver motivo di poterti davvero chiamare la ‘mia’ piccola Maki.’

Fu un troppo breve periodo di ebbrezza voluttuosa. Per lei era la prima volta. La sua esuberante passione scoppiò senza freno, ne fummo travolti entrambi, senza pensare a possibili conseguenze.

Quei giorni sono rimasti la più bella pagina della mia vita. Ci donammo generosamente, forse sapendo che non lo avremmo fatto mai più.

‘Il tuo sigillo rimarrà per sempre nella mia carne, Piero. Grazie.’

*** *** *** *** *** *** ***

‘la vita cambia (?)’

Lo status d’uomo sposato ha, logicamente, modificato alcune cose nella mia vita.

Mi &egrave stato spesso richiesto perché mi sono sposato. Amore irrefrenabile? Sesso?

Considero prima il sesso. Per me &egrave un indispensabile elemento vitale, come l’aria. Ma non mi serviva una moglie, per fare sesso. Avevo di che appagarmi intra et extra moenia. Lisa, Anna, le deliziose nottate con Aba’.

Imperatività dell’amore? Sono legato a mia moglie, le voglio bene, ci sto bene insieme, ma non avrei fatto pazzie per poterla avere. C’&egrave aria e aria, d’accordo, ma non me ne &egrave mancata mai, di respirabilissima.

Perché mi sono sposato? Lasciate che vi pensi.

C’erano molti invitati, e bellissimi regali. Quello che mi ha colpito, ed ancor più ha meravigliato mia moglie, &egrave stata la magnifica Jaguar coupé, da parte di Anna. Quando la baciai, per ringraziarla, pregandola di ringraziare anche il marito che era impegnato fuori sede, mi fece scivolare un biglietto nella tasca.

‘E’ riservato a te, solo a te.’

Mi diceva che voleva farmi ricordare il nostro viaggio a Roccaraso, il primo, e che lei stava per trasferirsi in Israele, col marito. Il suo cuore, però, restava qui, da buona Italiana, dove era il suo Garibaldi, perché non si doveva dimenticare la donna di Garibaldi era Anita, come lei. Sperava che io non dimenticassi troppo presto le sue doti’ prensili.

Come avrei potuto?

Anche Aba stava per tornare nella sua terra.

Lisa mi sussurrò che mi aspettava presto, e che non voleva trovarmi troppo consumato.

Renata, mia moglie, era abbastanza affettuosa, a modo suo, e a letto non deludeva. Mi sembrava, però, di percorrere sempre la stessa strada, senza sorprese. Perché, mi chiedevo, con Lisa, Anna, Aba, non era sempre la stessa cosa? Non lo so. Con loro era tutto un po’ diverso.

La prima volta che tornai da Lisa respirai aria finissima, di montagna, di altissima montagna, quella che inebria, fa girare la testa. Lisa mi guardò incantata, non voleva smettere. Non voleva’ lasciare niente per Renata. Ne era gelosa.

***

Sono a disagio con me stesso nel notare che per quanto il sesso mi attragga, ne senta la necessità, completi la mia esistenza quotidiana, costituisca per me un elemento essenziale, non riesca a legarlo alla parola ‘amore’, salvo che nell’accezione di concupiscenza, eccitazione, voluttà.

Se passo dinanzi ad una pasticceria ben fornita, al vedere le leccornie esposte mi viene l’acquolina in bocca, desidero ardentemente gustarle. Lo stesso mi capita con una bella donna. Mi eccita, mi infiamma’. la desidero. Poi, assaporatala, la squisitezza del dolce o della femmina, il desiderio realizzato placa la voglia’ fino alla prossima volta.

Non sono cinico. Purtroppo sono fatto così, forse male, ma non agisco mai in mala fede o premeditatamente.

Un volto splendido, forme armoniche, un seno eretto, labbra turgide, fianchi maliosi’ Come non ammirare, desiderare di carezzare’ godere, almeno una volta, quanto tutto ciò promette?

Mi capita, così, di non ricordare ‘forse non l’ho mai saputo- il nome di lei. E’ stata una cosa deliziosamente appagante’ E vi par poco? A volte, proseguire nelle manifestazioni che spesso si desiderano dopo un voluttuoso rapporto, mi costa fatica. Soprattutto farle credere che mi piaccia continuare. Non vi dico, poi, se pretende di volgermi le spalle, raggomitolarsi così, nuda, sulle mie ginocchia e dormire mentre l’abbraccio. Capita che anch’io lo desideri, ma molto di rado.

A ben pensarci, io sono una persona normale.

Come quelle che vengono con me, pur sapendo che non potrà esserci un seguito duraturo al nostro incontro. Attrazione fisica, forse, curiosità, convincimento di poter placare il proprio desiderio sessuale, o semplicemente noia. Attesa di nuove emozioni, sensazioni, turbamenti. Un momento di particolare eccitazione, calore, fregola, foia. Chissà!

***

‘non cambia nulla’

Bruna portava il nome della protettrice della città.

Una festa che sapeva di barbaro, quella che si celebrava ogni anno, in onore della patrona del luogo. La processione attraversava le strade principali trasportando, su di un carro addobbato con multicolori figure di cartapesta, la santa immagine della festeggiata. Giunto nella piazza principale, dinanzi alla chiesa, il carro veniva assalito dai’ fedeli, e ognuno cercava di impadronirsi d’un pezzo di quella cartapesta. Un gesto di intensa religiosità perché quel cimelio sarebbe stato conservato, e bene in vista, nella stanza migliore della propria casa, certi della protezione divina.

In quella occasione, negli alberghetti e locande della cittadina non si trovava posto. Tutto era prenotato anno per anno. Io, grazie alle premurose attenzioni d’un mio prezioso e attivo collaboratore, ero ospite ‘a pagamento, s’intende- d’una modesta e simpatica famiglia, in una delle nuovissime abitazioni consegnate, solo per meriti politici, ai fortunati assegnatari delle case realizzate dal ‘piano rinascita’.

Il marito era uscito coi bambini, per condurli a vedere i preparativi della festa, le bancarelle con giocattoli, dolci, frutta secca, i mangiatori di fuoco, l’uomo ‘forzuto’ che si liberava dalle catene’

Io ero rimasto a letto, a poltrire, a leggere il giornale che Mimmo, il marito, mi aveva portato insieme a una fumante tazzina di caff&egrave. Lo ringraziai e dissi di ringraziare anche la signora Bruna. Quando uscì dalla camera, il pensiero andò a quella famiglia, così cordiale.

Due bimbi ‘lei, la più grandicella, frequentava la prima elementare, lui, il discoletto, non sempre gradiva di andare all’asilo tenuto dalla suore.

Il giovane marito, capo-operaio in una delle più prestigiose imprese locali.

E Bruna, una donnina tutto pepe che non stava ferma un momento. Non molto alta, con belle gambe, seno e fianchi ben evidenti e ancor meglio fatti risaltare dai vestiti e dalle movenze.

Sarei stato ospite per pochi giorni, ma mi avevano accolto come uno di famiglia. Forse non avrebbero mai sperato di avere in casa loro uno che, in qualche modo, faceva parte delle autorità locali, anche se temporaneamente. Ma forse &egrave solo mia immodestia.

La porta s’aprì e apparve Bruna, in vestaglia, coi lunghi capelli neri che le avvolgevano le spalle, e un trucco lievissimo sulle guance e sulle labbra. Mi guardò con uno strano sorriso, senza parlare, s’avvicinò al letto, lasciò cadere sul pavimento l’unico indumento che indossava, scostò la leggera copertina, s’infilò stringendosi a me, fremente. Con dita lievi sbottonò la mia giacca del pigiama, mi aiutò a toglierla, lo stesso fece coi pantaloni. Mi abbracciò stretto, e con la gamba sul mio ventre tormentava la testimonianza della mia eccitazione. Le carezzai la natica, si mise supina e accolse la mia mano intrigante che frugava tra le gambe. Fu lei a prendermi, con un misto di frenesia e languida dolcezza che le trasfiguravano il volto. Gli occhi socchiusi, il respiro pesante, roco, un lungo gemito che le sfuggiva dalle labbra, mentre mi cavalcava sempre più vogliosa.

E questo era solo un timido anticipo di come si sarebbe comportata nelle notti in cui Mimmo era di turno.

Il giorno che partii, mentre il marito era in fabbrica, mi accompagnò fino all’auto e, non so se per sconvolgermi od altro, mi disse di essere sicura, era incinta di me, felicissima, perché era quello che voleva, il ricordo per tutta la vita d’aver avuto un uomo che lei non avrebbe mai immaginato di poter avvicinare.

A suo tempo ricevetti una partecipazione di nascita: Romano era venuto al mondo.

Non risposi.

‘l’eterno dubbio’

Ho seguitato a interrogarmi sul perché prediliga sempre più gli incontri occasionali, per le mie necessità sessuali, quando la comodità del talamo coniugale potrebbe pienamente appagarle. Ho anche considerato che preferisco relazioni non prolungate nel tempo. Non &egrave mania di cambiare. In fondo, una donna vale l’altra per quella cosa li. Certo, deve rispondere alle mie esigenze estetiche e comportamentali, ma il mondo &egrave pieno di splendidi esemplari femminili che hanno le mie stesse problematiche.

Sento subito chi mi domanda: ‘Ma allora, perché non con tua moglie?’

Perché un rapporto sessuale, almeno per me, richiede una certa atmosfera, la giusta tensione, la cosciente disposizione a compiere un atto che deve donare piacere, distensione, quello che si definisce relax, il riposo del guerriero, la pace dei sensi, la dolce soddisfazione del proprio desiderio. I cosiddetti ‘preliminari, sono solo esercizio fisico per provocare o favorire una sempre più incontenibile bramosia di congiungersi sessualmente. Nessun ‘preliminare’ riesce ad attenuare le tensioni che troppo spesso si stabiliscono nella coppia, anche per i più futili motivi. Diciamolo in termini volgari, quando uno &egrave incazzato con una persona non pensa certo a farle le coccole e a scoparla!

Con la compagna occasionale non hai avuto il tempo per creare tensioni, non v’&egrave stato motivo per scontri di carattere, per divergenze, od altro. Le difficoltà relazionali sorgono, appunto, col prolungarsi della relazione. Quindi, basta darci un taglio in tempo utile.

La compagna occasionale non ti criticherà per come sei vestito, né ti rimprovererà perché pensi più al lavoro che a lei (salvo, poi, a pretendere da te ciò che solo il tuo lavoro può consentirle di avere), non ti perseguiterà con la solita cantilena che non la porti fuori, a divertirsi, con la frequenza che lei desidera. Non ti riferirà le pettegolate con le amiche, né i quotidiani conflitti con i vari fornitori.

Lo stesso autore della prima domanda, certamente aggiungerà che anche mia moglie, per motivi analoghi, potrebbe comportarsi come me.

Ne sono perfettamente cosciente. Quello che mi scoccia, soprattutto, &egrave che comunque sono sempre io a doverla mantenere. Lei, certamente, con gli altri non sarà infastidente come con me, altrimenti l’altro la scaricherebbe a gran velocità.

Che bello quando non esistono complicazioni tra lui e lei che vogliono solo stare un po’ insieme.

***

Per sfuggire ad una delle solite tiritere su non ricordo bene quale argomento, le dissi che sarei andato a fare un breve giro in auto.

Eravamo in montagna, in uno chalet ospitale e civettuolo, non lontano da uno dei più rinomati centri di villeggiatura.

Presi l’auto, mi avviai lentamente lungo la discesa che portava alla strada provinciale. Stavo girando a destra, quando, dal paracarro dov’era seduta, s’alzò una giovane ragazza, con un aderente maglietta e cortissimi pantaloncini, che allora si chiamavano ‘hot pants’; ai piedi, con unghie leggermente laccate, eleganti e costosissimi sandali. Mi fece segno di fermare.

‘Se vai in paese, mi porti con te?’

Tono confidenziale, deciso, non molto cortese. Sguardo serio, poco dolce.

L’auto era una decapottabile. Si era appoggiata sullo sportello e il vento leggero portava sul mio viso i lunghi capelli biondi e lisci.

Feci segno di salire. Passò dall’altra parte, aprì lo sportelli, si accomodò nel sedile allungando le lunghe gambe. Erano veramente belle. Le gettai uno sguardo. Due braccia mirabilmente tornite, e due procaci tettine che non dovevano avere bisogno di alcun sostegno.

‘Che dici, supero l’esame?’

Abbozzò un sorriso, ma la voce era sferzante.

Risposi abbastanza secco.

‘Trenta e lode?’

‘Che, sei un professore? Ci mancava solo questo. Incontrarne uno prima ancora di entrare all’università. Almeno aspettare novembre”

‘Niente professore. Tu che fai?’

‘Che vuoi che faccia, sono appena ‘matura’, come ha detto la commissione. Se non sei professore, che fai?’

‘Diciamo che faccio l’avvocato.’

‘Anche io vorrei farlo. Penalista.’

‘Come me.’

Avevamo preso la strada per il paese, lentamente. Sembrava un po’ meno tesa. Le chiesi cosa faceva li, a quell’ora.

‘Ho litigato con tutti. Sono uscita dall’albergo mentre erano ancora a tavola, ho chiesto un passaggio alla prima auto che ho incontrato, sono scesa al bivio senza sapere perché. Sono incavolata nera, devo sfogarmi, fare dispetti”

‘Perché?’

‘Che ti frega? Sono affari miei”

‘Scusa.’

‘Scusa tu, ma sono fuori di me. Posso chiederti quanti anni hai?’

‘Quaranta fra pochi giorni.’

‘Te ne davo di meno. Sei sposato?’

‘Si.’

‘Hai figli?’

‘No.’

Eravamo arrivati all’ingresso del paese. Le chiesi dove volesse che la portassi. Mi disse il nome del più lussuoso Hotel della zona. Luogo per vip e ricchi.

‘Sei con la famiglia?’

‘Certo. Il solito gruppo. C’&egrave anche la famiglia di quello stronzo del mio ragazzo. Non lo reggo più. E’ lui la causa di tutto, e i miei lo difendono”

Eravamo in vista del magnifico albergo.

‘Gira dietro e porta la macchina in garage.’

Entrai piano.

‘Parcheggia al numero 423.’

Era proprio di fronte all’ingresso.

‘Scendi, voglio farti vedere dove sono alloggiata.’

Senza parlare, mi prese la mano e mi condusse verso l’ascensore. Quarto piano. La camera era ampia, elegantissima, con un grande balcone che dominava la vallata.

‘Vieni.’

Mi sospinse verso l’ampio letto, lo scoprì. In un baleno rimase completamente nuda. Splendida. Le tettine erano proprio come le avevo immaginate, i fianchi meravigliosi, seducenti. Si stese sul letto. Era bionda naturale.

‘Vieni.’

Tutto era così inaspettato che ebbi un momento di esitazione.

‘Dai’.’

Era un vulcano di passione, e, data l’età, il suo comportamento era più dovuto alla sua natura, che non ad abile esperienza. In un momento di massima intimità, di intensa voluttà, io, ingenuo quarantenne, ebbi la dabbenaggine di chiedere se mi volesse bene.

‘Dai’ scopa’ stronzo’ scopa.’

E seguitò a dimenarsi.

***

‘vecchie scintille’

Quella era Jucci.

Gli anni le erano scivolati addosso senza lasciare alcun segno. Anzi, era più bella e attraente che mai. Eppure, di tempo ne era trascorso tanto.

Avevo desiderato d’impiegarmi, pur comprendendo che lavoro e studio avrebbero richiesto un certo sacrificio. Del resto, ero abituato a occupare gran parte del tempo impegnandomi in quello che allora era il mio dovere di studente liceale. Ora, universitario, non sarebbe stato diverso. Questo lo potevo fare perché la facoltà scelta non comportava l’obbligo della frequenza.

Era Jucci.

La mia giovanissima collega con la quale condividevo la stanza. Unitamente a Gloria che, avendo trent’anni, per me era una tardona. Bona, indubbiamente, un gran bel pezzo.., ma sempre tardona. E c’era anche Grazia, col visetto capriccioso, i capelli lunghi sulle spalle, e un corpicino delizioso. Ma Jucci attirava tutta la mia attenzione, il mio interesse, la mia curiosità. Specie quando, curvandosi, la scollatura lasciava intravedere il merletto del suo reggiseno, o, accavallando le gambe deliziose erano le giarrettiere a farmi pensare a un passo d’un salmo: ‘Il paradiso &egrave più in alto!’

Non le ero del tutto indifferente e questo reciproco feeling non era sfuggito alle altre. Gloria sculettava provocante nella sua aderentissima minigonna, e non perdeva occasione per poggiare su di me le sue prosperose tette trovando sempre mille scuse per farmi vedere un incartamento o leggere qualcosa. Grazia era sempre sorridente, cordiale, e spesso uscivamo insieme, dall’ufficio, e prendevamo gli stessi mezzi per tornare a casa. Abitavamo non distanti l’uno dall’altra. La folla e gli sbalzi favorivamo contatti che non ci spiacevano affatto. I corpi indugiavano a sfiorarsi, le mie mani non le sembravano sgradite. Anche a vettura vuota restavamo in piedi, sulla piattaforma, lei con la schiena al finestrino, io di fronte. Certamente non le sfuggiva la mia eccitazione, e non le imbarazzava, anzi.

Avevo cercato di andare un po’ oltre, con Jucci. Mi disse, con molta carezzevole e struggente dolcezza, che era fidanzata. Sembrava quasi che ciò la rattristasse. In ascensore, quando azzardai una lieve carezza sul volto, prese la mia mano e la baciò. Ne seguì un bacio sfuggente, appena il tocco di due labbra roventi.

Eccola Jucci. Più bella e attraente che mai, nel fulgore della sua maturità. Era intenta a leggere, seduta sulla panchina lambita dal sole. Mi guardai intorno, non c’era nessuno, Andai a sedermi al suo fianco. Non alzò gli occhi dal giornale.

‘Scusa, sei la figlia di Jucci?’

Ebbe un sobbalzò, mi guardò quasi spaventata. Il suo volto s’illuminò.

‘Piero, sei tu?’

Mi tese le mani, gliele baciai con trasporto.

‘Come hai fatto a riconoscermi, dopo tanti anni?’

‘Perché sei più bella di allora.’

‘Anche tu non sei cambiato, solo che hai acquisito l’aspetto d’una persona importante. Ogni tanto leggo di te”

‘Sciocchezze, cose di nessun rilievo. Parlami di te’. Che ne diresti di andare in quel caff&egrave sul laghetto?’

‘OK, andiamo.’

Si alzò. Che donna bella ed elegante, raffinata, maliosa.

Quando fummo seduti, chiesi due coppe di champagne, dovevamo brindare all’incontro. Mi sorrise con gli occhi lucidi, le labbra vermiglie lievemente tremanti.

‘Come mai da queste parti, Piero?’

‘Esco da una pesante e noiosa riunione, da quel grosso palazzo di vetro, e mi sono messo a camminare senza meta. E tu?’

‘Io vengo spesso in questi vialetti. Qualche volta incontro un’amica. Desidero allontanarmi dalla zona dove abito, verso il mare.’

‘Abbiamo almeno vent’anni da raccontarci. Cosa fai?’

‘La moglie.’

Alzò le spalle, con una cert’aria rassegnata.

‘Anche mamma?’

Scosse il capo.

‘Neanche io sono padre. Ma sono marito. Hai notizie delle nostre colleghe?’

‘Gloria &egrave morta. Da tempo. Un male che si ritiene ancora incurabile. Grazia ha sposato un uomo brutto, insopportabile, credo che non lo ami. Ha un figlio e trascorre i giorni tra città e campagna, annoiandosi a morte.’

‘Mi sembra che anche tu ti annoi.’

‘Abbastanza, ma non so reagire. Sono un po’ indolente. Vado spesso da mia madre o dalle mie sorelle. Mi distraggo coi miei nipoti. Sempre meno, perché, crescendo, non sanno che farsene della vecchia zia.’

‘Tuo marito?’

‘Spesso fuori, e a volte per periodi non brevi. E’ ufficiale dell’aeronautica militare e cura i rapporti con la NATO.’

La guardavo intensamente. Riandando a qualcosa di delizioso.

‘Cosa pensi, Piero?’

‘Un giorno’ in ascensore”

Sorrise con aria sbarazzina.

‘Che fai, ci provi?’

Annuii con la testa.

‘Ci ho sempre pensato, Jucci. E ci penso sempre.’

Divenne seria.

‘Anche io”

‘Sei sola? Voglio dire, tuo marito &egrave fuori?’

‘E’ in missione, in Australia. Tornerà la prossima settimana.’

‘Ti telefona spesso?’

‘Quando può si. Ora &egrave tagliato fuori per ragioni di riservatezza.’

‘Senti. Io sto per andare a Milano. Perché non vieni con me? Torneremo domani sera.’

Mi guardò come se fossi matto. Poi i tratti del suo volto si distesero.

‘Non posso, non ho niente con me.’

‘Andando all’aeroporto passeremo per casa tua. Io ho tutto in auto.’

‘Mi sembra un racconto irreale, Piero, un’ora fa quasi non ricordavamo l’esistenza dell’altro.’

‘Io la ricordavo’ ti ho sempre cercata.’

‘Milano?’

‘Milano.’

‘Si torna domani?’

‘Domani.’

‘Ci rincontreremo dopo altri vent’anni?’

‘Lasciamo fare al caso.’

Credo che sia stata la più bella notte d’amore ella mia vita.

Jucci, sognata da sempre.

L’indomani mattina, uscendo dall’albergo, chiesi all’autista del taxi di accompagnarci a una gioielleria che conoscevo. Vendevano degli elegantissimi portachiavi per auto: una cornicetta d’oro, impreziosita con brillanti, nella quale si poteva comporre la targa. Ne scelsi una tra le più belle. Vi feci includere, in platino, lettere e numeri che potevano individuare un’auto, ma che per noi indicavano un accadimento e una data: ‘MIA6.21.07.65’. La regalai a Jucci, che mi guardava trasognata. L’orefice non capì i punti e scosse il capo. Ma il cliente ha sempre ragione.

***

‘casablanca’

‘El Mansùr’ era, all’epoca, il più moderno ed elegante albergo della città. La gente, in genere, ci accoglieva con una cordialità che a volte mi dava l’impressione d’essere mellifluo e falso modo di rendersi interessatamente simpatici. Portavamo lavoro e benessere attraverso cospicui investimenti che, come di consueto, andavano a tutto beneficio dei ricchi, cio&egrave del ceto dominante. Il personale dell’hotel era cerimonioso, esteriormente premuroso, sempre in attesa del ‘bacscisc’ che li rendeva ancor più ossequiosi. E dire che solo pochi anni prima, forse quello stesso uomo che mi puliva le scarpe, aveva rapinato e stuprato nelle nostre contrade dove era stato mandato a combattere. Esercitando, così, il suo diritto di vincitore, ‘El Mansùr’, come era scritto sulla sua giacca rossa. Non risparmiavano nemmeno le decrepite vecchiette, e si sentivano benemeriti della loro fede sodomizzando il venerando curato di campagna che non aveva avuto la forza di nascondersi. Ognuno &egrave ‘El Mansùr’, vittorioso, a modo suo.

Fuori del cancello, a Mohamedhjà, eravamo accolti ogni mattina da una schiera vociante. In genere, fellahìn in cerca di lavoro, o di materiale di scarto, o anche semplicemente di cibo. Uno, in particolare. Correva dietro all’auto, fino a quando il cancello si richiudeva, e agitava qualcosa che, poi, riponeva sotto il suo ampio qaftàn bianco.

Decidemmo di parlargli. Lo facemmo entrare, accompagnato dall’interprete.

Si inchinò più volte, e raccontò che nella sua terra, non molto distante dalla sua piccola casa, a meno di due ore di cammino dalla raffineria, aveva trovato il petrolio. L’interprete e alcuni altri impiegati locali, che erano presenti, stentavano a restare seri, cercando di mascherare il sorriso. Lui era pronto a cederci la concessione per pochi dirham. Il petrolio era di ottima qualità, assicurava, ed a conferma di ciò tirò da sotto la veste una piccola bottiglia bianca, che già aveva contenuto la coccola, e ce la mostrò. In effetti il petrolio era limpido, trasparente, di quelli ottimamente raffinati, che non avrebbe certo intasato l’iniettore del petromax. L’uomo era raggiante, si guardava intorno, quasi a voler riscuotere un applauso, e ci garantì che, cercando bene, se ne poteva trovare più d’una bottiglietta al giorno, perché nella sua terra il petrolio scaturiva così, lampante e in bottiglia! Tutt’intorno fu un coro di risate. Lo congedammo e gli assicurammo che avremmo fatto sapere qualcosa. Doveva tornare a casa e attendere la risposta.

L’interprete tornò a svelare il mistero.

Un astuto haji, rispettato da tutti da quando era tornato dalla Mecca, nascondeva quelle bottigliette, incitava l’uomo ad andare a cercare la sua ricchezza e, nel frattempo, lui si godeva la giovane e bella moglie dell’ingenuo credulone. Un bidone da venti litri riempiva più di cento bottiglie. Gli bastava per più di tre mesi!

La segretaria avvertì che Marika Kovac al telefono, dall’Italia, voleva parlare con me. Fu cordiale, come sempre, e mi disse che l’indomani sarebbe giunta anche lei, per un incontro ad alto livello.

Marika Kovac, ungherese, ingegnere, cittadina italiana, era il vice presidente per le relazioni esterne. Bella donna di età indefinita, anagraficamente aveva superato i cinquanta, d’aspetto ne dimostrava meno di quaranta. Sempre irreprensibilmente vestita, con sobria eleganza, perfetta in ogni particolare. Doveva curare molto la sua persona, anche in palestra, ma tutti ci chiedevamo dove ne trovasse il tempo. Della sua vita privata si sapeva poco o nulla. Forse c’era stato un marito, un uomo, ma nessuno ne era certo. Comunque, viveva sola, in un Grande Albergo del centro, e conduceva una esistenza riservatissima. La chiamavamo Minerva: pozzo di scienza, straordinaria capacità manageriale, sapeva mettere tutti a proprio agio senza indulgere in confidenze. Era stata lei ad affidarmi alcuni contatti, ma non mi aveva detto che era in procinto di avere importanti incontri. Credevo, anzi, che mi attendesse per conoscere l’andamento delle cose e poi decidere di conseguenza. Minerva stava per arrivare, e in gran segreto, perché mi aveva raccomandato di tenere per me la notizia, di andare da solo a rilevarla all’aeroporto, di riservarle una suite a ‘El Mansùr’. Voleva una relazione verbale dettagliata sugli elementi e le informazioni raccolti in quei giorni, la sera stessa del suo arrivo. L’indomani la sua presenza sarebbe stata ufficiale.

Un arrivo parzialmente segreto, perché le autorità aeroportuali sapevano del volo, regolarmente segnalato, e ne avevano informato la polizia. Il Ministro del petrolio era al corrente di tutto, e anche lui voleva la massima riservatezza. Il servizio di vigilanza era discreto, ma non sfuggiva a una attenta osservazione. Appena giunsi al terminal, fui avvicinato da un funzionario in borghese, della sicurezza, e invitato ad entrare nella zona riservata, dove l’autista avrebbe potuto parcheggiare l’auto.

L’atterraggio dell’aereo era previsto tra dieci minuti. E fu in perfetto orario. L’ingegner Kovac scese, elegante e ineccepibile, con i neri capelli perfettamente in ordine, la persona eretta, sorridente. Tacchi sui quattro centimetri, tailleur inappuntabile. Non era molto alta, ma tutto era deliziosamente proporzionato. Gli occhi splendevano come sempre, con riflessi metallici iridescenti, purissime pietre di profondo azzurro.

Quanti anni aveva più di me? Quindici, dieci. A vederla così sembrava appena uscita dal più esperto dei visagisti, dopo un tonico bagno ristoratore. Quanti anni? Scossi la testa. Era inutile indagare. Sembrava appena entrata nel rigoglio della maturità. Una quarantenne, al massimo. Ma sapevo che li aveva superati da molto. Forse, i quarant’anni li aveva quando ero stato assunto, dopo un lungo colloquio con lei, quindici anni prima.

Mi tese la mano, affabile, resisté un po’ prima di lasciare che prendessi la sua borsa piena di documenti. Ci avviammo verso l’auto. Sorrise a chi la salutava con lievi cenni del capo. Le assicurai che il suo bagaglio l’avrebbe raggiunta immediatamente in albergo. Filammo via rapidamente, entrammo in garage e da lì, in ascensore, l’accompagnai alla sua suite.

‘Venga da me tra mezz’ora, per favore. Bene?’

‘Certamente.’

Le consegnai la borsa. Un lieve inchino. Attesi che entrasse nel suo alloggio. Il bagaglio stata giungendo.

Bussai delicatamente alla porta. La sua voce, calda, gioviale, m’invitò a entrare.

‘Venga, Piero!’

Era la prima volta, mi sembra, che mi chiamava per nome e non usando il mio cognome, facendolo precedere dal titolo accademico.

Era seduta nel salotto-studio della suite, su un divano color turchese. Il basso tavolino era ingombro di carte. Di fronte, due poltrone dello stesso colore.

Tolse gli occhiali, depose sul tavolo il documento che stava leggendo, mi tese la mano. Notai che s’era cambiata, indossava uno chemisier semplice ed elegante.

‘Non le dispiace se la chiamo Piero?’

‘Tutt’altro. Grazie.’

‘A me piace molto essere informale, ma spesso sono costretta, invece, ad assumere una esteriorità che non mi &egrave congeniale. Sono di origine ungherese, come sa, e noi siamo gente cordiale, a volte chiassosa. Basta ricordare la nostra danza popolare più nota, la czarda. Si ballava nelle osterie. Czarda, infatti, significa proprio osteria.’

‘Un paese splendido, il suo.’

‘Lo conosce?’

‘Ho avuto occasione di andarvi alcune volte, e ne sono rimasto incantato. Paesaggio ammaliante, popolo ospitale e caloroso, cucina eccellente, vini inebrianti”

Sorrise.

‘Mi sta facendo insuperbire”

‘Ne ha ben ragione.’

‘Noi ugro-finnici, asiatici, siamo orgogliosi delle nostre radici. Abbiamo sempre vivo il concetto tribale. Scusi, sto divagando”

‘L’ascolto con molto interesse, anche perché mi consente di apprezzare un affascinante lato della sua personalità che non conosco, e non potevo conoscere.’

‘E’ vero. Lavoriamo per anni insieme, ma i nostri rapporti rimangono purtroppo nei limiti di stereotipi convenzionali. Non &egrave solo il tempo che ci manca, e che ognuno teme di lasciarsi andare, di mettere a nudo le proprie debolezze. Per questo assumiamo troppo spesso la corazza dei ‘duri’.’

‘Ha perfettamente ragione, ma non crede che faccia parte del ruolo di ciascuno?’

Mi guardò intensamente.

‘Per me il problema &egrave proprio l’equivoco dei ‘ruoli’. Perché ognuno di noi, a volte, crede di dover rispettare un ‘ruolo’, uno e uno solo, e dimentica che, invece, ogni situazione richiede il suo ruolo. Lavoro, società, famiglia, affetti, passioni’ sono momenti diversi di una stessa vita che richiedono atteggiamenti differenti.’

‘Non per adulazione, ma sono pienamente d’accordo con lei. Non &egrave facile, però saper cambiare atteggiamento a seconda della circostanza.’

‘Forse &egrave meno complicato di quanto si immagina, se si &egrave capaci di non trascinare lo ‘status’ richiesto da una situazione in altri contesti.’

‘Mi sembra di comprendere.’

‘Non voglio tediarla con queste elucubrazioni. Desidero chiederle se gradisce di cenare con me. In tal caso non modifico quanto ho detto al Maitre. Una cosa abbastanza leggera: filetti di pesce in bianco, con patate al vapore, molta frutta, un gelato, vino bianco. Ungherese, of course”

Sorrise.

‘Per me va benissimo.’

‘Allora, mi dica qualcosa che possa essermi utile per l’incontro di domani col ministro del petrolio.’

Aprii la borsa e ne estrassi una cartella con alcuni fogli.

‘Venga a sedere vicino a me. Potremo leggere insieme.’

Che profumo delizioso.

La sua testa era vicinissima alla mia, i capelli mi sfioravano il volto. Sentivo il tepore del suo corpo. Non m’era capitato di considerare il compassato ingegner Kovac come femmina. E lo era, fortemente. Sbirciavo nella sua scollatura, chiedendomi se indossasse o meno il reggipetto. Credo che alla sua età dovesse portarlo. Chissà se aveva le tette ‘appese’. Forse no, dava la sensazione d’essere ben soda. E poi, non era una tettona. Scesi alle gambe che venivano fuori dallo chemisier. Snelle, ben tornite. M’ero avvicinato a lei, con avvedutezza, pronto ad allontanarmi ad ogni suo piccolo cenno. Le cosce si toccavano. Rimase a lungo a leggere la stessa pagina, troppo a lungo. Girò il foglio e posò la mano sulla gamba, sfiorando la mia con le dita. Ma tu guarda se dovevo eccitarmi proprio col mio vicepresidente! Con una donna bella ma non certo giovanissima, e con le bellissime ragazze che attendevano solo un cenno per venire a scaldare il mio letto in cambio di pochi dirham. Se le cose andavano avanti così, sarei certamente sceso al bar, dopo la cena, e ne avrei rimorchiata qualcuna, per farmi passare la smania che m’aveva preso. Aveva dei bei lineamenti, Marika, occhi meravigliosi, labbra attraenti. Chiuse l’incartamento, si volse appena verso me, col ginocchio che premeva fortemente sul mio. Tolse gli occhiali.

‘Ottimo lavoro, Piero. Complimenti. Ci sono tutti gli elementi per insistere nel nostro punto di vista. Anche se l’incontro col ministro &egrave del tutto riservato e non ufficiale, gli chiederò di consentire che anche lei vi partecipi. Mi saranno di prezioso aiuto le sue osservazioni, e nello stesso tempo io potrò concentrarmi di più su quello che dovrò dire, senza preoccuparmi dell’espressione del ministro e del suo assistente.’

Guardò l’orologio.

‘Credo che stiano per portare la cena. Non le ho detto che ho chiesto di servirla in camera. Non le dispiace, vero?’

‘Tutt’altro. Così non ci allontaneremo dalle scartoffie.’

‘No, caro Piero, queste le lasciamo. Adesso cerchiamo di assumere un ruolo salottiero, magari con qualche pettegolezzo. Non dimentichi che sono sempre una donna.’

‘Lo &egrave splendidamente.’

Mi prese le mani, sorridendo.

‘Lei &egrave piacevolmente amabile, ma i miei anni li ho tutti”

‘Non vorrei apparire un adulatore, ma le assicuro che il suo fascino &egrave veramente ammaliante, irresistibile.’

‘Non dica cose del genere, Piero. Un giovane come lei che parla a me di ‘fascino’, di irresistibilità’. Di che altro?’

‘Di sex-appeal!’

Sorrise divertita.

‘Che caro. Come sa deliziosamente prendere in giro una tardona. Del resto le ho proposto io di essere salottiero. Bravo.’

‘M’accorgo che sto forse abusando della confidenza che lei mi concede, ma le assicuro che non ho detto nulla più di quello che penso. Che sono serio come non mai. Sincero.’

‘Ragazzo, non mi lusinghi. Anche io ho le mie debolezze, pur non essendo più giovane. Sa che lei mi sta causando una certa inquietudine?’

‘Mi perdoni”

‘No, &egrave piacevolissima. Un vellichio che avevo quasi dimenticato”

Mi guardava negli occhi, con una espressione tra il sorpreso e l’estasiato, scuotendo leggermente la testa.

‘Piero, sarà il profumo di jasmine, l’essere in questa terra, o qualcosa d’altro, ma sento che il nostro salotto &egrave un po’ troppo frivolo.’

‘Scusi, se permette la lascio.’

Strinse le mani. Si rabbuiò.

‘No, che dice. Non adesso’. Dobbiamo cenare’ ci attende il tocai”

Bussarono alla porta, entrò il cameriere col carrello.

‘Posso apparecchiare, Madame?’

Marika assentì, in silenzio.

Preparato il tutto l’uomo chiese se volevamo essere serviti.

‘Grazie’ ‘disse Marika- ‘faremo noi. Ripassi più tardi.’

L’accompagnai vicino al tavolo, scostai la sedia, l’aiutai a sedere. Mi carezzò la mano. Mi chinai e le sfiorai il collo con le labbra. Sentii che s’irrigidiva. Si voltò e mi porse le labbra. Deliziose. Un bacio sconvolgente. Non sapevo se seguitare o’

Prese lei l’iniziativa.

Si alzò. La cena poteva attendere. Mi prese per mano, s’avviò nel vano adiacente, dov’era il letto. Si voltò verso me, mi tolse la giacca, la cravatta, sbottonò la camicia’. S’interruppe per lasciar cadere a terra il vestito. La strinsi a me, ancora un bacio, mente indietreggiava verso il letto. Con le mani le slacciai il reggiseno. Belle tette, ancora sode e tonde. Via le minuscole mutandine. Magnifico e prosperoso sesso ornato di folti riccioli biondo scuri. Mi slacciò la cinta. Via i pantaloni, il boxer’

Sul letto le baciai i capezzoli, la carezzai tra le gambe, profondamente. Incontrai il prepotente ’bouton d’amour’ che vibrava frenetico.

‘Adesso’ adesso”

Volle essere penetrata, subito, venendomi incontro col bacino, e serrando le gambe sul mio dorso, mentre le mani, stringendomi le natiche, ne guidavano i movimenti’

‘Si’ così’ così’ coooooooosìììììì!’

E giacque sfinita.

Fu una notte di passione indicibile. Non immaginavo tanto fremere, tanto ardore, in una donna non più giovanissima, né pensavo che potesse essere così bella, che il suo corpo fosse così eccitante, sodo, palpitante. Una voluttà che non conoscevo.

Diavolo d’un ingegnere!

***

‘sunset boulevard’

Mi accorgo che, tutto sommato, anche se variano i particolari, la sostanza &egrave sempre la stessa. Un uomo e una donna, o meglio un maschio e una femmina, che ripetono, vogliosi, ciò che &egrave all’origine della loro stessa esistenza.

Esseri che respirano, mangiano, devono e desiderano accoppiarsi.

E’ un piacere, un godimento, alla portata di tutti. Belli o brutti, ricchi o poveri e, entro certi limiti, giovani o meno giovani.

Non credo che ci sia appagamento più completo ‘usiamo termini asettici- d’un rapporto sessuale.

‘Sentirlo dentro’, mi disse una giovane contadinella.

‘Sentirlo dentro’, confermò il suo ragazzo.

Il problema &egrave quando ‘vorresti’, ma l’ingravescente età nol consente.

In questo la natura non &egrave stata equa.

Lei può ricevere sempre, ad ogni età e ad ogni età finisce col godere.

Lui può raggiungere qualcosa, uno scolorito piacere, stimolando soprattutto la fantasia, ricordando e risentendo gli altrui fremiti sotto l’ancora esperto tocco di rinsecchite ma sensitive dita. Ma’ con chi?

Meglio non pensarci. Si rischia un’ossessione, il ridicolo con sé stessi.

Ecco, allora, che ti sorprendi a fissare forme che ricordi, immagini, attraverso le vesti, od anche senza. Fianchi ondeggianti, seni sussultanti. Volti nei quali cerchi, e soprattutto imprimi, lineamenti che affiorano dalla memoria.

Devono essere eloquenti gli sguardi, devono svelare il malinconico lavorio della mente, se quelle giovani forme indugiano in atteggiamenti eccitanti, provocatori. Piccole perfidie. Come offrire coriacee leccornie a chi non ha più denti. Oppure &egrave un senso di generosa bontà: aiutarti a sognare, a rivivere nella fantasia la deliziosa realtà d’un tempo.

Lilly, a volte m’appariva splendida.

Ma lo era?

Non lo so.

Forse m’inebriava la sua giovane età, e prevaleva su tutto.

Ma era veramente giovane?

Per me si.

Mi soffermavo a contemplarla cercando di pensare se, a suo tempo, l’avrei ammirata e concupita come ora mi sorprendevo di fare.

Avrei desiderato di averla? Di carezzare il suo seno, di insinuarmi in lei, bramoso di sentirla mia?

Concludevo affermativamente, ma era una conclusione, comunque, del momento attuale.

Lilly aveva ben altro da pensare.

Quando mi giunse l’invito della Fondazione, scossi il capo, mestamente rassegnato. Ancora una rinuncia. Come avrei potuto presenziare alla cerimonia d’apertura? Viaggiare da solo non era pensabile, e nessuno sarebbe stato disposto ad accompagnarmi.

Lilly s’accorse della mia amarezza.

‘Qualcosa non va?’

Le accennai il fatto e le difficoltà.

‘Dov’&egrave la Fondazione?’

‘A Venezia.’

‘Che bello. Però &egrave lontano”

‘Con l’aereo in un’ora ci si arriva.’

‘Quanto starà via?’

‘Neanche un minuto, perché da solo non ci posso andare.’

‘Altrimenti, quanti giorni rimarrebbe a Venezia?’

‘Non più di due giorni. La cerimonia cui desidererei partecipare, anche per rivedere amici di tanti anni, &egrave nel pomeriggio. La sera il solito ricevimento inaugurale, e l’indomani potrei già tornare”

Lilly era di fronte a me, in piedi, pensierosa. Sorrise e s’allontanò per sbrigare le solite faccende. Sentii che parlava al telefono. Strano, di solito non mi chiedeva se attendevo qualche comunicazione. Dopo un po’, non ricordo più con quale pretesto, mi tornò di fronte, mentre leggevo il giornale.

‘Potrei accompagnarla io.’

‘Tu?’

‘Se si tratta solo di due giorni, mio marito &egrave d’accordo. Per il resto penso io. Predispongo tutto per bene. Quando sarebbe?’

‘Sabato prossimo.’

‘Benissimo, proprio quando mio marito &egrave anche libero dal lavoro.’

‘Sei sicura di volerlo fare?’

‘Certo’ non sono mai stata a Venezia, e tanto meno in aeroplano.’

La guardavo tra l’incantato e il sorpreso. Lilly che s’offriva di accompagnarmi in un viaggio, sia pure brevissimo, di ore.

‘Ti ringrazio, Lilly. Adesso penso alle prenotazioni e confermo la mia presenza.’

Ero felice. Forse tornavo in Fondazione per l’ultima volta. Ero ansioso e commosso. In pochi minuti prenotai l’aereo e due camere al Danieli, parlai col segretario del convegno. Chiamai Lilly.

‘Tutto a posto. Sabato mattino, però, dobbiamo partire da qui abbastanza presto perché l’aereo parte alle nove.’

‘Nessun problema, alle sette e mezzo vengo a prenderla. Andiamo con la mia auto”

‘No, meglio il taxi. Non ci sono problemi di parcheggio.’

‘Credo che dovrò comprarmi qualcosina per non farla scomparire”

‘Pensaci tu, sarà il mio regalino per la tua disponibilità.’

‘Non c’&egrave bisogno.’

‘Lo sai che sono cocciuto. Devi contentarmi anche in questo.’

‘Venerdì pomeriggio andrò dal parrucchiere.’

‘Brava. Giovedì shopping, venerdì parrucchiere, sabato e domenica Venezia.’

‘Creda che sto tremando’ forse sono una sfacciata.’

‘Ma che sfacciata. Sei la mia salvatrice, mi permetti di realizzare un mio vivo desiderio.’

Tornò al suo lavoro. Presi il libretto degli assegni e lo riempii, a suo favore, con una generosa cifra.

Quando tornò, prima di andar via, glielo consegnai. Lo guardò, spalancò gli occhi.

‘Con questo mi compro un corredo’ ma &egrave troppo’ ‘

‘Va bene così, Lilly.’

‘Tanto lo so che con lei non si discute. Arrivederci a domani.’

Io ero già pronto. In una valigetta avevo posto il minimo necessario per la breve assenza. Sentii aprire la porta d’ingresso. Non la riconoscevo. Lilly era veramente bella, indossava una semplice tenuta da viaggio, sobria ed elegante. Le stava benissimo. I capelli in perfetto ordine, un lieve trucco ne esaltava la grazia.

‘Ho lasciato una borsa da viaggio dal portiere. La prenderò quanto scenderemo.’

‘Non chiamarmi un vecchio patetico ma sei veramente uno schianto!’

‘Che dice. Con tutte le belle donne che lei ha certamente conosciuto!’

Il portiere annunciò che era arrivato il taxi.

Lilly guardava tutto con molta attenzione. Fu felice quando le dissi, sull’aereo, di sedere accanto al finestrino. Cercava di darsi un contegno, di apparire disinvolta. Quando iniziò il decollo poggiò la sua mano sul mio braccio e strinse finché non fummo in quota. Poi restò così. Ogni tanto mi guardava, felice, come una bambina. Mi disse che avrebbe raccontato tutto, appena tornata a casa. Angelo, suo figlio, di diciassette anni, desiderava tanto volare. Aveva in mente di fare il pilota, per questo aveva scelto l’istituto aeronautico.

La discesa verso Venezia l’incantava, ma s’aggrappava a me come per proteggersi dalla sensazione di vuoto che le dava l’atterraggio.

Altra sorpresa, appena sottolineata da un gridolino di gioia, quando s’accorse che ci aspettava il motoscafo dell’albergo. Ancora una nuova sensazione che, però, fu superata, poco dopo, nell’entrare nella maestosità del Danieli.

Le due camere erano adiacenti.

Rimase letteralmente incantata dalla vista che si godeva dai balconi. Di fronte, San Giorgio Maggiore, a sinistra il Lido, sotto, attraccati alla riva, i vaporetti, le motonavi per il Lido, le gondole, i motoscafi. La gente che camminava verso San Marco o ad ammirare il Ponte dei Sospiri. I piccioni che volavano in cerca di cibo. Mi guardò estasiata.

‘E’ tutto così bello’ come potrò sdebitarmi?’

L’avevo presentata come la mia assistente, e avevo curato che la conversazione non la coinvolgesse su temi che certamente ignorava. Si era comportata in maniera esemplare. Al ricevimento fu garbata e riservata. Aveva con sé la piccola pochette che al mattino, dopo la visita a Piazza San Marco, le avevo comprato in Merceria, prima di giungere a Rialto. Tornammo in Albergo abbastanza tardi, con qualche coppa di spumante che ci rendeva più allegri del solito.

Lilly era l’espressione della felicità ne sprizzava da tutti i pori, dagli occhi, dal suo muoversi. Ci demmo la buonanotte. Mi guardò a lungo, con una certa espressione di devota gratitudine.

Ero con gli occhi aperti, nel buio della camera appena interrotto dal chiarore che filtrava dal balcone. La tenda sul fondo ‘non sapevo che nascondesse una porta di comunicazione- si mosse, Lilly apparve in vestaglia. Socchiusi gli occhi, facendo mostra di dormire, volevo proprio vedere cosa stesse cercando. Si avvicinò al letto, lentamente, con gesti lievi scostò le coperte, lasciò cadere la vestaglia e, nuda, s’infilò accanto a me.

‘Mi faccia dormire tra le sue braccia’ Ho sempre compreso i suoi sguardi’ Sono qui’ Mi baci’ m’accarezzi’ mi stringa a sé’ così’ Grazie!’

Si mise in braccio a me. Portò una mia mano sul suo piccolo, delizioso seno, sui suoi turgidi capezzoli. L’altra la rinchiuse tra le gambe.

Mi sentii travolto da una valanga di sensazioni, pervaso da turbamenti perduti nella memoria, il cuore balzarmi in gola, le labbra, le mani, cercare bramosamente i sentieri del piacere, i meandri, le sinuosità, la serica accoglienza del suo ventre. Mi parve sentirla vibrare, fremere, palpitare’ In effetti accoglieva le mie carezze, sempre più sensuali, col crescente ondeggiare e sussultare delle natiche che forse credevano, speravano, di risvegliare il letargo del mio sesso. Vissi, in quel momento, il tormento della debolezza, della senescenza’ per un attimo ebbi la sensazione di essere in lei, di liberarmi d’una forzosa astinenza troppo a lungo subita.

Non avrei mai immaginato di provare ancora quello che, malgrado tutto, Lilly seppe donarmi. Forse per l’ultima volta.

***

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