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Racconti Erotici Etero

Mariam

By 14 Febbraio 2004Dicembre 16th, 2019No Comments

Qualcuno penserà che sono fissato con l’Africa

Ha perfettamente ragione.

Ho l’Africa nella mente, nel cuore, negli occhi, nel sangue.

E’ quella che qualcuno ha definito la spirocheta nera.

Non credo che, almeno per me, esista terapia che potrà farmi guarire da tale smania.

Non vedo proprio, inoltre, perché ne dovrei guarire.

Io sono stato nutrito da una donna di colore. Si, ho bevuto il latte di una negra. Se vi piace chiamare così quelle splendide e dolci creature.

La prima femmina che si &egrave offerta a me, aveva la pelle come l’ebano, e certe tette che puntavano al cielo. I suo fianchi erano stati creati per farsi cavalcare, le sue natiche erano scure montagne di voluttà.

Altra piccola cosa.

In quella terra ci sono le ceneri della madre di chi mi ha messo al mondo.

Ogni volta che la mia mente torna lì ricordo i versi di Rupert Brooke:

that there’s some corner of a foreign field

that is for ever England There shall be

In that rich earth a richer dust concealed;

C’é qualche angolo di terra straniera

Che &egrave per sempre Italia. Li vi sarà,

In quella ricca terra, nascosta una polvere ancora più ricca.

Basta cambiare England con Italia.

^^^

Il 23 luglio 1924 con l’arruolamento degli uomini più prestanti e coraggiosi della Somalia furono costituite le “Bande Armate” i cui componenti vennero chiamati Dubat (Dub=turbante; Ad=bianco). Per il loro ardimento, la grande mobilità e l’impeto nell’assalto ebbero l’appellativo di “Bersaglieri Neri”, parteciparono a tutti gli eventi bellici nell’Africa Orientale Italiana (Eritrea, Etiopia, Somalia) fino alla sconfitta bellica che portò all’occupazione di quei luoghi da parte degli Alleati.

Garbaha, chiamato Garbà, aveva diciotto anni quando, nel 1935, fu arruolato, addestrato rapidamente, dotato della divisa, delle armi, di quanto necessitava, e inviato al confine, poco distante da Dolo che era in territorio etiopico.

Ad arruolarsi lo avevano spinto diversi motivi: lasciare il suo povero mondul, la capanna all’estrema periferia di Dujuuma, la piccola capitale del Jubbada, il medio Giuba; imparare a leggere e scrivere; avere un’arma. Lo attiravano anche i gradi che campeggiavano nel manifesto a colori che gli avrebbero dato al momento della nomina a Dubat. Poteva divenire Muntaz, o addirittura Sciumbasci, perfino Bulucubasci!

Era in gamba, intelligente, volenteroso, diligente.

Si distingueva sempre, per perspicacia e coraggio.

Quando le truppe italiane entrarono in Addis Abeba, maggio 1936, lui, con la sua banda, era nei dintorni di Awasa, dopo aver risalito il Giuba e percorso circa 1000 chilometri.

Gli avevano promesso che sarebbero andati tutti in quella capitale, ma impiegarono quasi altri sei mesi per coprire gli ultimo 300 chilometri. Era Natale quando si accamparono lungo le rive delle calde acque di Finfinni.

Garbà era uno dei pochissimi cristiani del medio Giuba. La madre aveva subito abbracciato quella religione soprattutto perché vietava l’orrenda pratica dell’infibulazione delle bambine..

La notte di Natale andò alla Missione della Consolata, il giorno dopo riuscì a visitare la Chiesa Copta di San Giorgio.

Studiava sempre, Garbà, curava i contatti con le genti locali, era interessato alla loro lingua, agli usi, ai costumi. Era stato addetto al centro comunicazioni. Sapeva usare il telefono, aveva appreso discretamente l’italiano, e stava rapidamente imparando, oralmente, l’amarico.

Aveva un’idea fissa: insediarsi ad Addis Abeba, farsi raggiungere dalla madre, e sposare una ragazza della sua gente. Begli esemplari quelli dell’etnia cui apparteneva Garbà.

Chiese di parlare col Capitano che comandava la numerosa banda.

L’ufficiale lo ascoltò attentamente. Lui stimava quel giovane forte e robusto, e molto in gamba.

Gli promise che avrebbe veduto se e cosa avrebbe potuto fare per contentarlo.

Il mese dopo il Capitano Tenca lo convocò. Gli disse che avrebbe potuto concedergli una licenza straordinaria di un mese, viaggio compreso, e che al ritorno lo avrebbero assegnato al magazzino dell’Intendenza Militare, sull’aria contigua del quale, erano in corso di realizzazioni alcune abitazioni per militari indigeni. Per i graduati, però, con famiglia. E Garbà, al ritorno, sarebbe stato graduato: lo attendevano i galloni di Muntaz.

Tenca era anche riuscito a fargli rilasciare un permesso per viaggiare su mezzi militari, e ciò valeva anche per madre e sposa, i cui nomi dovevano essere inseriti negli appositi spazi, a cura di un Comando Italiano.

Grabà aveva gli occhi lucidi, scattò sull’attenti, salutò con commozione.

Quando il Capitano, amatissimo dai suoi uomini, gli tese la mano, si chinò come volesse baciarla, non per servilismo, no, per gratitudine, ma Tenca la ritirò e gli dette un cordiale colpo sulla spalla.

‘Va, Garbà, e rientra in tempo. Un ritardo significa diserzione, perdita dei gradi.’

‘Garbà va, sposa, e torna signor capitano.’

Ancora un saluto, e via.

Alcuni automezzi partivano pochi giorni dopo per Mogadiscio, di li a Chisimaio il trasporto era assicurato, per il resto si sarebbe veduto.

^^^

Era la primavera del 1937 quando Basma, suo marito Garbà, e la suocera giunsero ad Addis Abeba e presero possesso dell’alloggio loro assegnato.

Non tutte le casette del gruppo erano ancora ultimate. Qualcuna già ospitava le famiglie dei graduati. Si era cercato di raggruppare gli abitanti per etnia: i Somali tutti in una zona, e così anche per gli Eritrei. Non era previsto che i non numerosi ‘zaptié’ libici potessero farsi raggiungere dalle famiglie.

Il mattino successivo all’arrivo, Basma, ancora pensando d’essere nel mondul isolato del suo piccolo e sperduto villaggio, pensò di lavarsi accuratamente.

Subito fuori l’alloggio c’era un fusto di benzina, vuoto, dove cadeva l’acqua da un tubo sostenuto da un paletto conficcato nel terreno. Il rubinetto perdeva un poco. A terra un barattolo vuoto.

Nella sua semplice spontaneità e candida naturalezza, Basma cominciò a lavarsi, senza curarsi se e chi potesse vederla. Il suo corpo, in fondo, era come quello degli altri, pensava. Alcuni soldati bianchi, che lavoravano in cantiere, i Guraghe che li aiutavano, e qualche uomo delle abitazioni già occupate, restarono incantati, e la guardavano con bramosa ammirazione, concupendola, e mormorando tra loro cosa avrebbero potuto farne di quel corpo sodo e carnoso.

Garbà che era già tornato in servizio, sentì parlare, da due soldati dell’intendenza, che c’era una ficona nera che faceva il bagno nuda. Due tette e un culo da campionario. E certamente idonea a incondizionato servizio.

Gli venne il sospetto che si trattasse di Basma.

Chiese il permesso di allontanarsi un momento.

Corse a casa. La moglie era intenta al fuoco.

Le chiese dolcemente se si fosse lavata, dove, come’

Basma non capiva quell’interrogatorio, ma rispose, sinceramente, del resto non c’era nulla da tacere, nulla di male, aveva fatto quello e come faceva al villaggio.

Garbà le raccomandò di non ripetere la cosa. Lì, ad Addis Abeba, non si usava.

C’era quel vano, in casa, dove poteva fare la doccia in piena libertà

Basma lo ascoltava, sorpresa, ma disse al suo uomo che se voleva così avrebbe fatto così.

Garbà tornò al magazzino.

In effetti, Basma era una gran bella donna.

Non erano trascorsi dieci mesi e dette alla luce un batuffolo scuro, bello come i genitori: Habiba. La battezzò il cappellano militare.

1938, si stava bene ad Addis Abeba, clima ottimo, gente simpatica, mangiare assicurato. Gli Italiani erano cortesi, e sapendo che Basma era la moglie, regolarmente sposata in chiesa, del Muntaz, seguitavano a guardarla, a desiderarla, a farci sopra mille pensierini, ma tutto restava li.

Le loro pressanti esigenze le soddisfacevano con una delle tante sciarmutte che si negavano per cinque lire ma accettavano per ‘ant cartà’, dieci lire, in quanto il marito era ‘mato’, morto, a Macallé. Gli eventuali mariti non erano mai andati al di là di pochi chilometri dalla città. L’unica cosa che non accettavano, salve poche eccezioni, era fare ‘cazz caramel’, non lo volevano ciucciare.

Garbà studiava, ormai parlava abbastanza bene l’italiano e l’amarico, scriveva e leggeva in italiano, sapeva usare la macchina da scrivere, aveva conseguito la patente di guida’

Il lavoro all’intendenza militare era abbastanza febbrile, anche se non sempre ordinato.

Lui s’era fatto trasferire in officina, stava impadronendosi della meccanica degli automezzi.

Perfino il Viceré gli aveva stretto la mano, durante una visita ai reparti motorizzati.

Riusciva a fare economie, ampliava la rete di conoscenze. Sempre in divisa, ma con lucide scarpe d’ordinanza.

Due bimbe, ormai erano due, spesso coccolate dalle Suore della Consolata.

Si era al 1940, situazione pesante, sapevano tutti che l’isolamento dall’Italia non poteva concludersi che con l’occupazione degli Inglesi e dei Francesi (da Djibouti).

C’era clima nervoso, di smobilitazione. Molti militari italiani studiavamo la maniera possibile per svignarsela. Solo il Viceré rimaneva imperterrito al suo posto.

Garbà e famiglia cercarono un alloggio fuori dalle casette dove erano alcuni militari indigeni, e qualche raro nazionale.

Sull’altro lato del viale che dal centro conduceva alla stazione ferroviaria, s’era liberata una specie di bungalow che era stato abitato da un akìm egiziano. Riuscì a farselo dare in fitto. Alle spalle dell’edificio, dove il terreno scendeva verso il ruscello, un ampio spazio, con qualche albero, tutto recintato di filo spinato, anche per proteggerlo dalle intrusioni degli zebù.

Garbà era anche astuto e ingegnoso, oltre che intelligente.

Subito dopo l’inizio delle ostilità, si diede da fare per essere assegnato all’autoreparto cella Croce Rossa Internazionale, affidata a un Indiano, medico, ex appartenente alle truppe dell’Impero Britannico, ma da oltre dieci anni ad Addis Abeba, il Maggiore Gupta, un tipo simpatico e cordiale.

L’istinto tribale suggerì a Garbà di contornarsi di altri appartenenti alla sua banda. Non gli fu molto difficile, e così si trasferirono all’International Red Cross, altri quattro Dubat, aiuto meccanici ed anche discreti autisti.

C’era un po’ di tutto in quei magazzini: medicinali, viveri, vestiario, attrezzature da campo.

I documenti, sempre sotto l’insegna dell’organizzazione internazionale, era scritti in Italiano, Inglese, Amarico, e firmati da Agra H. Gupta, MD Major.

Il nervosismo cresceva sempre più, e il caos dilagava,

Garbà manteneva sempre i contatti con l’intendenza.

Convinse Gupta a richiedere nuovi autocarri, tanto gli Italiani li avrebbero dovuti distruggere per non farli cadere in mano al nemico. Andò lui stesso a scegliere i migliori, li sottopose ad accurata manutenzione e li tenne sempre riforniti di tutto, carburante, lubrificante, ricambi, viveri, acqua, e generi vari. Sui tendoni, nuovissimi, aveva fatto verniciare una vistosa croce rossa, e così pure sul cofano. Anche i documenti erano perfetti, e per ogni autocarro indicava il nome dell’autista incaricato alla guida. Gabrà curò personalmente che non venisse indicato il loro essere Dubat, appartenenti alle forze armate italiane.

Il giorno stesso che Addis Abeba fu liberata (per gli Abissini, e non per tutti) una colonna di tre autocarri della Croce Rossa Internazionale usciva dalla città, carica di tante cose, e degli effetti caserecci di Garbà, nonché della sua famiglia: moglie, figlie, madre.

Non fu semplice raggiungere Harar, ma con molta fatica, e con un viaggio estenuante, riuscirono ad entrare in quella vecchia città, a 1830 sul livello del mare, e Garbà aveva avuto anche una lettera di presentazione, da parte dei missionari della Consolata, per quella Diocesi, il cui primo vescovo era stato Massaia, che gli etiopi chiamavano Abuna Messia.

La croce rossa, il carico, i lasciapassare, la presentazione alla Diocesi, favorirono l’insediamento di Garbà e della famiglia, nonché dei suoi amici.

Caff&egrave, cotoni, cereali, furono le merci con le quali iniziarono un commercio che divenne sempre più florido.

Gli anni ’60 furono salutati da una grande festa alla Garbà Import Export, dai suoi numerosi dipendenti, e dalle rispettive famiglie.

Aisha, la bellissima figlia di Habiba, non aveva ancora un anno,ed era la preferita del giovane nonno Garbà (poco più di 43 anni) e della sempre bella e prosperosa nonna Basma.

Habiba aveva sposato uno Scioano, Leben Asfauossen, abile commerciante e buon poliglotta.

Il suocero aveva molta fiducia in lui, e decise di affidargli le redini dell’azienda durante la sua assenza.

Il Giuba era la sua grande attrazione.

Un periodo a Kismaayo, Chisimaio.

Non fu facile raggiungerla, ma il pesante e attrezzato fuori strada lo portò fino a Gibuti. Il cargo imbarcò il tutto, e riuscirono a trovare una nave che dopo Mogadiscio faceva scalo proprio nella città dove era diretto.

Era con lui la buona Basma e Muham,un fedelissimo amico, ex Dubat, proprio di Kismaayo.

Appena sbarcati furono ospiti della catapecchia del fratello di Muham, e della giovane moglie, ma già il giorno dopo lui aveva trovato qualcosa di meglio.

Il logo della Garbà Imp-Exp, significava qualcosa anche a Kismaayo.

Garbà ascoltò i racconti delle vicissitudini di quella città.

Era stata sede di un Comando Marina Italiana, durante la guerra.

Erano seguiti, disordini, carestie violenze.

Un giovane Maresciallo dei Carabinieri Italiani, Flavio Salacone, era stato ucciso alcuni anni prima, nell’agosto del 1952.

Garbà riuscì a trovare una bella casetta, la fece rapidamente ristrutturare, arredare con quanto riuscì a farsi portare da Harar e Gibuti, e Kismaayo ebbe la Garbà Imp.Exp., Somali Branch.

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Aisha, andata a passare un po’ di tempo con nonno Garbà, al termine dell’ultimo anno di scuola dalle suore di Addis Abeba, aveva incontrato sulla spiaggia, e subito sposato, Amin il figlio di Muham. Aveva deciso di restare a Kismaayo e fece nascere li la sua primogenita, Mariam.

Era il 1979.

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Diciotto anni dopo, proveniente da Asmara, dove avevo deposto un fiore sull’ossario nel quale erano raccolti i resti mortali di mia nonna, e dopo essere stato ad Addis Abeba e Mogadiscio, il tentativo di allacciare rapporti con quella zona della Somalia, mi portò a Kismaayo, nell’ufficio di Garbà, dove, nell’ingresso, campeggiava la statua di un Dubat.

Garbà, che malgrado i suoi ottantadue anni era a capo della sua azienda che dirigeva tirando le file che da Kismaayo raggiungevano tutto il mondo, si mostrò visibilmente commosso.

Mi parlò della sua mai dimenticata parentesi militare, dalla quale, in fondo, scaturiva la sua fortuna Quando seppe che ero stato ufficiale dell’esercito, di complemento, ed ero esperto di impianti meccanici, non la finiva più di parlare.

Mi invitò a casa sua, mi avrebbe presentato la vecchia moglie, la nipote, e la giovanissima pronipote che era venuta a trovarlo:Mariam.

Ho sempre parlato dall’effetto dell’Africa e delle Africane su di me, ma non avevo mai visto una creatura, bianca o di colore, incantevole come Mariam,.

Attrazione, fisica, spirituale.

Desiderio di averla, ma anche di coccolarla teneramente.

Avevo il doppio della sua età, ma per me non significava niente.

E per lei?

Mariam, visione che incanta.

Non volevo più lasciare la sua piccola curatissima mano.

Non voleva che la lasciassi.

La guardai ammaliato.

Sembrava che avesse visto un’apparizione.

Dovetti trattenermi dallo stringerla a me.

Fece un passo verso me, si arrestò.

Tu sei mia.

Glielo dissi con lo sguardo.

Nei suoi occhi lessi che ero suo.

Fantasie da adolescente s’erano impadronite d’un trentacinquenne.

Non era la lontananza da casa, la prolungata astinenza’ Tutto questo non c’entrava.

Era l’imprevedibile e incredibile incontro col proprio destino.

L’improvvisa insperata scoperta delle sorgenti della propria felicità.

Era come imbattersi improvvisamente in un diamante che ti cambierà la vita.

Mariam.

Il nome mi carezzava, mi eccitava.

Non mi fu facile tenere desta la conversazione, seguire i racconti di Garbà, rispondere alle sue infinite domande.

Quello che mi rendeva possibile tutto questo era l’attenzione di Mariam.

Mi fissava continuamente.

Decidemmo, dopo, di prendere un po’ di fresco in giardino.

Mariam s’offrì di farmi compagnia.

Aveva letto nel mio pensiero.

La sua voce era bassa, carezzevole. Il suo italiano perfetto.

Fu naturale che le cingessi la vita.

Ancor più spontaneo che la baciassi, che ci baciassimo.

C’eravamo conosciuti allora e ci cercavamo con antica impazienza.

Io volevo fare l’amore con lei.

Il suo grembo cercava la mia eccitazione, la faceva sua.

Non m’era mai capitato.

Sì, ero stato attratto, eccitato da altre donne, le avevo desiderato, ma mai nessuna aveva destato simile impetuoso e irresistibile desiderio.

Forse era il mio momento, avevo incontrato non una femmina, ma la mia femmina, e per di più in smanioso calore.

Non fu facile rientrare.

Mi fu indicata la mia camera.

Dovevo essere loro ospite.

Lo voleva Garbà.

Io lo desideravo, con tutte le mie forze.

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Non dovetti attendere molto il cigolare della porta, lo svolazzare della impalpabile camicia, sulla quale ondeggiava una serica vestaglia.

Mariam entrò, senza far rumore. Chiuse la porta, s’accostò al mio letto.

Era una parte già scritta.

Chissà dove.

Ma la sapevamo a memoria.

Lasciò vestaglia e camicia sul bianco del lenzuolo, rimase così, baciata dalla pallida luce che filtrava dalla finestra.

Era bellissima, un corpo che neppure Prassitele avrebbe mai sperato di scolpire.

Gambe snelle, affusolate, che s’arrotondavano salendo, ventre piatto, vellutato, con piccoli ricci che impreziosivano dove nascondevano il più voluttuoso scrigno che mai si potesse sognare. Natiche alte, tonde, sode, disegnate da un nume, e il seno che guardava il cielo, sormontato da piccole more adescatrici.

Si sdraiò, senza parlare.

Mi sussurrò, fissandomi.

‘Non conosco uomo”

Quando la penetrai con infinita dolcezza e mi sentii accogliere con sconosciuti fremiti, compresi che era l’incontro di due esseri nati per unirsi.

Tenerezza e passione, carezze e impazienze, orgasmi e voluttà travolgente.

Poco prima che l’alba irrompesse, si alzò, nuda. Mise la vestaglia, mi porse la camicia velata, arrossata di lei.

‘E’ tua, per sempre.’

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Attesi che Garbà si alzasse, sedesse nella sua ampia poltrona patriarcale.

‘Debbo parlarti, Garbà.’

‘Lo so.’

Voglio sposare Mariam.’

‘So anche questo.’

‘Desidero portarla con me, in Italia.’

‘Porterai con te un pezzo del mio cuore.’

‘Mi aiuterai?’

‘Ti aiuterò.

In rada c’&egrave un carico italiano, il capitano, a bordo, &egrave ufficiale di stato civile. Il prete della missione può officiare.’

Come nelle più belle e fantasiose favole, quel pomeriggio, padre Alessio ci unì in matrimonio, il comandante Barbieri stese l’atto civile. La’ tribù di Garbà applaudì, le donne trillarono stridule la loro gioia.

Mariam ed io dormimmo nel grande letto apprestato per gli sposi.

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Ecco perché, qui, in Italia, dove viviamo, tutti ammirano la mia giovanissima e meravigliosa sposa d’ebano, e sorridono al piccolo splendido bambolotto vivente, milkchocolate, che muove i primi passi.

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