C’erano almeno dieci persone ancora in ufficio a quell’ora, ma Sara ne guardava una sola.
“Facciamo un gioco, così il tempo passa più velocemente”
Qualcosa per attirarlo, l’esca per la sua vittima, un bel diversivo per tutti quei perditempo annoiati.
Gente che bivaccava nella stanza comune, durante uno dei soliti scioperi settimanali che in quei tempi di rinnovo del contratto sindacale erano sempre più frequenti. Si supponeva che stessero lì a discutere di condizioni di lavoro, mobbing e salari, ma sembrava fossero studenti in assemblea d’istituto, in attesa del suono della campanella.
Qualcuno combatteva contro le diaboliche statistiche di un freecell incapace di farlo vincere. Non avevano ancora inventato un videogioco da ufficio compiacente, che venisse incontro alle limitate capacità degli utenti.
Qualcun altro era assorto in pensieri metafisici, o almeno così sembrava dal lieve russare che proveniva dalla sua postazione.
Un barlume di interesse, finalmente.
“Quale gioco?”
Sara si stirò come una gatta sul sofà, attirando ancor di più su di sé occhiate d’interesse maschile e di feroce odio femminile.
“Giochiamo alla neverending story: inizio io e poi voi, uno alla volta, continuate la storia e vediamo come va avanti. Chi racconta decide chi sarà a continuare, lanciandogli questa”
Mostrò la pallina antistress che era solita tormentare mentre lavorava.
Evitò accuratamente di guardarlo, sapeva già di aver attirato la sua attenzione. In teoria era semplice: bastava essere originale, mai banale, mai scontata, sempre al top. Nella pratica era un disastro: nervi a fior di pelle, insicurezza e neanche un minuto di relax.
Erano stati a letto un paio di volte, sì, ma, per quanto lei si fosse data da fare, lui non aveva mostrato di essere particolarmente colpito. Era gentile come sempre, ma molto distante, disinteressato. Aveva quell’aria intrigante da uomo solitario che faceva apparire misterioso e tremendamente interessante tutto ciò che faceva, oltre al fatto che era noto che era lui che si occupava del “lavoro sporco”. Nell’ambiente si diceva che lo facesse con fin troppo gusto.
Il suo era solo orgoglio ferito, Sara si disse, mordendosi le labbra. Dopo tutto avrebbe potuto avere chiunque altro, o quasi. Marco, per esempio, le dava filo da torcere con i suoi inviti senza secondi fini. Lui ne aveva uno solo: portarsela a letto.
Anche Giulio le sorrideva sempre e, pur essendo troppo timido per chiederle di uscire, la colmava di mille piccole attenzioni che avrebbero fatto la felicità di qualsiasi altra donna. Povero, dolce Giulio, non aveva alcuna speranza: a lei piacevano solo gli stronzi, ormai s’era rassegnata. Più la
facevano soffrire e più lei s’innamorava. Adesso aveva in testa solo Riccardo.
“Nessuno protesta? Bene, allora comincio io.” assunse un’aria pensierosa e con voce modulata prese a dire:
“C’era una volta…” qualche risatina dal fondo accolse l’incipit fiabesco.
Sara sorrise, adesso aveva la loro attenzione. Il viso le si illuminò, come accade a tutte le donne che sanno di essere belle e sono abituate ad essere ammirate. Il respiro si fece più profondo e parecchi occhi puntarono verso
il suo seno procace, che si alzava e abbassava velocemente.
“La scena si apre: è notte, la strada è appena illuminata dalla luce vacillante di un lampione. Una donna sola cammina velocemente, stringendosi nel soprabito. Il freddo è arrivato presto, quest’autunno. Il rumore dei suoi tacchi è l’unico suono che si avverte, oltre al flebile miagolio di un
gatto che fruga nel bidone dei rifiuti. La bestiola fa cadere per terra una lattina, e la donna sobbalza. Improvvisamente altri passi risuonano dietro di lei, quasi inaudibili, ma sempre più vicini.”
Sara guardò direttamente lui: la stava scrutando, come da tempo non faceva.
Quello sguardo… le bastava così poco per sentirsi fremere.
Gli lanciò la pallina, senza preavviso.
E lui l’afferrò al volo, sorprendendola.
Non si aspettava che fosse così facile coinvolgerlo, lui che era sempre apparentemente distaccato, ed era anche un po’ stupita di se stessa: era la prima volta che deliberatamente cercava di provocarlo, invece di attendere che fosse lui a rivolgerle la parola.
Riccardo parlava piano, come chi è aduso ad essere ascoltato e non ha mai avuto bisogno di alzare la voce.
“La donna si guarda intorno, cercando scampo. Avverte una sensazione di pericolo, anche se non le è ben chiaro il motivo. Forse perchè è buio e lei
è sola, in una città che non conosce bene ed ha avuto la brillante idea di far tardi davanti alle sue solite scartoffie? Troppo tardi per rimpiangerlo,
troppo tardi per recriminare sulla sua squallida vita. Nessuno a cui chiedere aiuto. I passi dietro di lei si fanno sempre più decisi e più veloci. Il cuore le batte all’impazzata. Ha paura. Come sono eccitanti le donne impaurite. Se lei lo sapesse… Ma non lo sa, e comincia a correre”
Sara rabbrividì, le sembrava che Riccardo insistesse in modo particolare su parole come “troppo tardi” e “squallida”. La sua bocca aveva una piega sprezzante e vagamente sadica, come se stesse pregustando qualcosa.
La pallina volò dall’altra parte della stanza e Marco la prese al volo.
“Oh…beh, la donna corre, corre, l’uomo le grida qualcosa e lei corre ancora più forte. Ma lui la raggiunge, le mette una mano sulla spalla e le dice: ‘scusi, signora, sono dieci minuti buoni che corriamo. Ora me lo dice
chi ci sta seguendo?'”
Tutti risero, ormai la tensione che la voce di Riccardo aveva creato era stata spezzata.
Rise anche Sara, nonostante fosse irritata per come era finito il suo giochino, troppo presto, prima che lei avesse avuto la possibilità di stabilire quel ‘fil rouge’, la sottile e speciale linea di comunicazione
che, ne era certa, esisteva tra lei e quell’uomo. Poi qualcuno si mise a
raccontare barzellette di dubbio gusto, in attesa che fosse ora di andar via.
Marco si sedette accanto a lei e, approfittando della distrazione generale, le accarezzò il ginocchio, con un fare possessivo che le fece stringere i denti.
“Ti posso accompagnare a casa, Sara?” le sussurrò con la sua tipica voce da ‘ti farò impazzire, baby, se mi prepari la cena’ che le provocava
l’orticaria.
La mano si mosse per andare più su lungo la rotula ma proprio in quel momento il cinturino dell’orologio si impigliò nelle calze. Un colpetto di polso dato con gran classe e Marco si districò, lasciando un bel buco nella sottile lycra nera.
Gli bastò un’occhiata per capire che i suoi propositi per una serata scopereccia si stavano allontanando sempre più, man mano che la smagliatura correva sotto la gonna, verso quella carne che non avrebbe accarezzato. Non
quella sera, almeno.
“Al diavolo!” sbottò Sara tra i denti, alzandosi di scatto.
Raccolse le proprie cose e andò verso il bagno.
Si guardò allo specchio con occhio critico, ammirando le lunghe gambe e le caviglie sottili esaltate dalle scarpe con quel tacco strano tanto di moda, e decise che era meglio uscire senza calze piuttosto che in quelle condizioni. Le gettò nel cestino, dopo averle appallotolate.
Per fortuna un residuo dell’abbronzatura estiva le dava un po’ di colore e poi casa sua non era molto lontana.
Quando uscì, gli altri erano già andati quasi tutti via.
Di Marco nemmeno l’ombra, mentre Riccardo era lì, apparentemente indaffarato al telefono.
Ingoiò la delusione e si avviò lungo la solita strada. Un vento pungente l’accolse appena svoltò l’angolo. Si strinse nel corto impermeabile, maledicendo quell’imbranato e ripromettendosi di essere più fredda con lui
in futuro. Tanto fredda quanto freddo sentiva adesso.
Si guardò intorno alla ricerca di un taxi, ma era come se piovesse.
La strada sembrava stranamente deserta e gli uffici che vi si affacciavano tanto vuoti quanto erano stati brulicanti di vita poche ore prima ma, in effetti, in quel momento dovevano essere già tutti a mangiare davanti alla
tv, o al cinema, o forse a far l’amore… Aveva sempre cercato di seguire il proprio cuore, ma cosa aveva guadagnato? Rapporti sbagliati, giornate intere
ad aspettare una telefonata che non arrivava, esplosioni di gioia per un’occhiata fugace. Che stupida! Scacciò questi pensieri, non voleva permettere alla propria mente di scivolare in una zona pericolosa, quella che lei chiamava la “zona-autocommiserazione”.
Un lampione si spense d’improvviso e lei fu quasi al buio, ma poi si riaccese quasi subito di una luce più fioca, traballante.
Un formicolio dietro la nuca, Sara cominciò a camminare più velocemente, sentendo il rumore dei propri tacchi battere sull’asfalto.
Un forte rumore metallico, proprio dietro di lei. Sobbalzò e si fermò, allarmata, contro il muro.
Un gatto… uno stupido gatto. Respirò a fondo.
‘Stupida tu, che sei così nervosa,’ si rimproverò. ‘E poi, se ci fosse stato qualcuno, che facevi, ti fermavi?’
C’era qualcuno… Dei passi, proprio dietro di lei. Questa volta ne era certa. Ed erano sempre più veloci.
‘Non ti voltare, sta’ calma’ si disse. ‘Marco, maledetto, non dovevi darmi un passaggio?’
Troppo tardi per i rimpianti, non prese nemmeno in considerazione l’idea che potesse essere qualcuno che doveva percorrere la stessa strada. Il suo cuore
non voleva saperne di rallentare, così anche le gambe cominciarono a correre. Anche i passi alle sue spalle accelerarono.
I tacchi che tanto le slanciavano le caviglie non erano l’ideale in quel momento. Lasciò cadere la borsa, nella speranza che l’inseguitore fosse interessato solo ai soldi e, svoltato un angolo, si nascose dietro alcune
casse di legno accatastate davanti a quello che doveva essere un magazzino, purtroppo chiuso.
Il cuore le martellava nel petto, mentre si guardava intorno cercando una via d’uscita.
Non sentì i passi che si avvicinavano alle sue spalle.
Una mano le coprì la bocca mentre un braccio la strinse in una presa ferrea.
Tentò di urlare, di divincolarsi, di mordere, pianse e si dibattè tra l’orrore e l’incredulità.
L’uomo la lasciò fare finchè non si fu stancata, il corpo scosso da violenti brividi.
“Non gridare” le sussurrò all’orecchio. “Hai capito?”
Sara era impietrita, riuscì solo ad annuire intuendo la minaccia di una terribile ritorsione se avesse disobbedito. Lui le sfilò la cintura del soprabito, utilizzandola per legarle le mani. Le sfuggì un singhiozzo, ma le bastò che lui le serrasse una spalla con più forza mentre la faceva chinare
in avanti, appoggiandole il busto su una cassa, per zittirla. Le percorse il corpo con le mani, indugiando sulle gambe scoperte e fredde. Poi le sollevò
la gonna e tagliò con un temperino quel pezzettino di stoffa nero che rappresentava tutta la sua biancheria, lasciandole scoperto il sesso. Le accarezzò le natiche con mani sapienti, mentre lei piangeva in silenzio, le orecchie ronzavano, i pensieri erano in un muto subbuglio.
“Signora, mi vuol dire chi ci stava inseguendo?” le sussurrò.
Sara tremò, stavolta di rabbia mista a un immenso sollievo, ed esplose: “Marco! Sei proprio uno stronzo! Liberami subito oppure io…”
Uno schiaffo sul sedere, non troppo violento ma forte la fece sussultare, zittendola.
L’uomo tirò fuori il sesso, strofinandolo contro le sue labbra rosee, così esposte ed invitanti.
“Non sono Marco, Sara.” il suo respiro era affannoso e la voce irriconoscibile ma, sì era lui… “Non era quello che volevi? Non era quello che hai cercato di farmi capire col tuo gioco di stasera?”
La sua voce… le faceva sempre quell’effetto! Sentiva che le entrava dentro come in una cassa di risonanza, vibrando, fin giù verso il sesso. Capì di essere riuscita, finalmente, ad attirarlo nella sua rete. A lui piaceva
così, lei vittima e lui cacciatore. “Sei un porco” gli disse, mentre lui affondava dentro di lei con un colpo
secco.
La teneva per i polsi, come se lei potesse aver avuto desiderio di fuggire. Un altro colpo, forte.
“Ti stai bagnando sempre di più, Sara” Un altro ancora.
Continuò, con un ritmo interrotto che la faceva gemere di desiderio tutte le volte che si fermava, uscendo del tutto da lei per poi rientrare, bruscamente. E poi ricominciare da capo.
“Ti odio” gli mormorò, e ci credeva, il viso graffiato dallo strofinio sulla cassa di legno scabra e le labbra gonfie per il desiderio.
“Non ho capito” replicò lui, affannato. Si guardò, non era mai stato così grosso e duro, la cappella sembrava stesse scoppiando.
Le strinse forte le natiche, gustando quella carne morbida e liscia sotto di lui. “Eri così eccitante mentre correvi…” si interruppe per sputare su una mano.
Sara trasalì, ma lui non le diede il tempo di preoccuparsi.
Le infilò un dito nel buchino, facendolo entrare ed uscire più volte per inumidirlo bene, poi vi guidò dentro il suo sesso, già abbondantemente lubrificato di umori.
Sara strinse i denti, non lo aveva mai fatto ed era stretta. Il dolore fu lancinante, si sentì spaccare in due.
Lui entrò piano, godendo di ogni millimetro. Usciva del tutto da lei e rientrava per affondare ogni volta un po’ di più, facendosi strada con inesorabile decisione.
Lo faceva impazzire la vista dell’anello che si dilatava, modellandosi su di lui per farlo penetrare meglio. Le mise una mano sotto, stringendole la
pancia e lei soffocò un urlo mentre l’uomo con un colpo di reni le fu tutto dentro.
“Lo senti fin qui, vero?” e le premette un punto poco sotto l’ombelico.
Rimase fermo, dandole modo di sentirlo, di avvertirne la consistenza e abituarsi, mentre le accarezzavaava la clitoride.
A poco a poco, sotto le sue esperte carezze, il dolore lasciò il posto a una strana sensazione e Sara contrasse i glutei per sentirla meglio, mugolando.
“Sì…così, brava…” le dita dell’uomo si muovevano sempre più veloci, mentre lei stringeva e rilassava i muscoli intorno al suo arnese. Sentiva il suo fiato sul collo, lì dove ogni tanto la bocca si fermava, non per baciare ma per mordere.
Un leone, un leone che si accoppia, pensò stupidamente Sara, mentre l’orgasmo l’assaliva inatteso e inaspettatamente violento, iniziando da un
brivido alla base della schiena che si propagò incandescente dentro di lei fino a strapparle un lungo gemito. Fu il segnale e l’uomo iniziò a pomparla sempre più velocemente. Le tirava i capelli, le afferrava i polsi e infine si ancorò ai sui fianchi, graffiandola. Il viso di Sara continuava a sbattere contro la cassa di legno sulla quale era appoggiata, ma non le importava più, tutto scompariva, tranne quel piacere assurdo, totale…
Finchè lui non si svuotò nelle sue viscere, con un grugnito che aveva ben poco di umano, e si abbattè sul suo corpo, stremato.
Dopo alcuni minuti, si staccò da lei, delicatamente, e si ricompose.
Poi le sciolse i polsi, le fece scivolare la gonna sui fianchi e l’aiutò a rimettersi in piedi.
Sara aveva il cuore in tumulto ma riuscì a tirar fuori un sorriso malizioso mentre si girava verso di lui:
“Sei proprio uno stronzo, Ricca…”
Le parole le morirono in gola.
“Forse è il caso che tu la smetta di fare nomi, Sara. Vieni, ho la macchina qui dietro, ti accompagno a casa.” Giulio esibiva un ghigno sardonico “Credo tu ne abbia avuto abbastanza di avventure, per oggi.”
Inizio interessante e scritto davvero bene (fatto non così comune). Non vedo l'ora di leggere la continuazione👍
Sempre bello leggere i tuoi racconti, spero di non aspettare tanto per il prossimo capitolo
Storia interessante e piacevole lettura. Spero continui con il 10 capitolo
Racconti intriganti e piacevoli nella lettura complimenti. Aspetto da tempo e spero arrivi il terzo capitolo con finale
Grazie Rebis