Quando si pensa al tempo viene in mente un continuum, un flusso di eventi immutabili, insensibili ai vani tentativi della nostra mente piccina di modificarli. Viaggiare attraverso lo spazio, percorrendo strade inesplorate e mari inviolati, per cancellare dalle mappe la comoda scritta “hic sunt leones”, non è mai bastato all’uomo: seppur tramite il ricordo, comodo mezzo che sempre gli ha consentito di spostarsi nello spazio di un respiro, è sempre stato presente in lui l’anelito a muoversi attraverso giorni, mesi o addirittura secoli.
E non per essere semplice spettatore: il suo sconfinato orgoglio gli ha perfino permesso di immaginare di poter cambiare il corso degli eventi, elucubrando strani effetti collaterali, definiti paradossi. Riflettiamoci, orsù: Qualcuno ha fatto le cose per bene, troppo bene perché gli uomini potessero riuscire a trovare degli spiragli, delle pieghe spazio-temporali entro le quali infilarsi di soppiatto per fare i propri comodi. Qualcuno per cui parole come eternità, destino e universo non rappresentano altro che elementi di una scacchiera sulla quale si decide la più antica delle sfide. E magari la posta in gioco non vale più di quel nichelino bucato perduto nella fodera della vostra vecchia giacca. Ma un oggetto, un oggetto così piccolo da passare inosservato, dall’aspetto sufficientemente innocuo per non destare sospetti e di materiale abbastanza poco nobile da non suscitare cupidigia… ecco, quell’oggetto potrebbe sfuggire al controllo. Magari a causa di una rara congiunzione astrale o mosso da Colui che siede dall’altro lato della scacchiera, chi può saperlo?
Il mercato era saturo di profumi e odori e Jasmine respirò profondamente, per meglio immergersi nell’atmosfera da festa del villaggio. Il raccolto era finito ed era quasi tempo di semina, il periodo in cui anticamente si celebravano i riti della fertilità, che ormai avevano lasciato il posto a una funzione religiosa che aveva come unico scopo la raccolta di fondi per la ristrutturazione della chiesa.
Oziosamente, si domandò che bisogno ci fosse di erigerne una, visto che un tempo per quelle cose bastava un megalite. Poi pensò alle città e a come l’uomo avesse modificato l’ambiente. Nulla di strano se poi non riusciva più a sentire la presenza del divino.
In quel luogo non era raro trovare tra i boschi dolmen e resti di antiche are, ne avevano vista una proprio quel mattino, durante un’escursione. Aveva letto, anni prima, che le divinità esistono finché qualcuno crede in loro e si era sentita dispiaciuta al pensiero di quel dio morto di cui rimaneva solo una lastra di pietra, non più tempio ma lapide, e aveva strappato un fiore, a mo’ di sacrificio, ponendovelo sopra. Era rimasta soprappensiero per un po’, chiedendosi quale preghiera poteva essere più indicata, sebbene non conoscesse la divinità a cui era stato consacrato quel luogo. Poi Marc l’aveva strappata ai suoi pensieri, chiedendole di sbrigarsi, con tono quasi seccato.
In quel luogo era rimasta, per fortuna, almeno la tradizione della fiera, che attirava ogni anno mercanti, curiosi e turisti specializzati in itinerari enogastronomici. Occupava praticamente tutta la superficie del vecchio villaggio, inerpicandosi su per stradine in cui si alternavano sassi ed erba, inoltrandosi in vicoletti e stradicciole sterrate, ampliandosi poi d’improvviso in larghe radure dove giocolieri, maghi, clown e fenomeni da baraccone si esibivano in un turbinio di colori.
Jasmine bighellonava tra i banconi osservando con curiosità la variopinta merce in esposizione, soffermandosi di tanto in tanto per ascoltare le celebrazioni dei prodotti di quei consumati imbonitori. Si guardò intorno, sentendosi rassicurata alla vista del marito e degli altri compagni di viaggio che, sparpagliati tra le bancarelle, si dedicavano allo shopping gioioso di chi è in vacanza, lontano dall’ufficio e dagli obblighi quotidiani e si sente quasi in dovere di celebrare l’ozio dedicandosi a cose totalmente futili.
Un profumo dolcissimo di nocciole caramellate le assalì le narici, portandole alla mente teneri ricordi d’infanzia, di luna park e di capricci golosi.
Per un attimo avvertì la mancanza un figlio prepotentemente, mentre immaginava se stessa nell’atto di acquistare dolciumi per un piccolo Marc. Amava suo marito profondamente ed era un suo cruccio quello di non essere riuscita a dargli un bambino, nonostante le cure a cui si era sottoposta. Decise di coccolarsi e di non pensare a cose tristi, e si ritrovò, così, a camminare sgranocchiando e impiastricciandosi le mani di zucchero, deliziata dall’atmosfera rurale e vivace del luogo. I suoi occhi non erano usi a una tale varietà di colori, che sembravano danzare intorno a lei. Fruscii di seta, morbidezza di tessuti artigianali, odori di spezie ed erbe aromatiche, tintinnio di pentole, bambini che sfrecciavano tra le gambe dei passanti, rincorrendosi gioiosi. Era una vera festa per tutti i sensi. Si soffermò ad ascoltare le contrattazioni, fatte di sguardi offesi, pacche reciproche sulla schiena, esaltazioni delle eccelse qualità della merce, risate. Il tutto si concludeva spesso con l’offerta di una bevanda da parte del mercante, ma non le riuscì di capire cosa fosse. Una banda musicale cominciò a suonare un’allegra marcetta, che doveva essere una musica tradizionale, e Jasmine si ritrovò a canticchiarne il motivo tra sé mentre si addentrava tra le bancarelle. Cominciavano ad apparirle tutte uguali le une alle altre e in breve si rese conto di essersi inoltrata molto in profondità nel villaggio. Non diede peso alla cosa, non era ancora mezzodì ed avevano tutto il giorno per esplorare il luogo. Marc aveva intenzione di trovare un oggetto antico a buon mercato, e di sicuro si sarebbe tuffato tra tutte quelle cianfrusaglie con l’atteggiamento di un cane da fiuto.
Il suo sguardo fu attratto da un ambulante con un grosso fagotto in spalla, che si stava inginocchiando in un angolo. Lo osservò incuriosita mentre stendeva a terra un panno rosso e vi poneva sopra con cura i suoi ninnoli in argento, di foggia antica. Il mercante aveva il volto bruciato dal sole percorso da una cicatrice sottile che partiva da un angolo della bocca, regalandogli un perenne mezzo sorriso.
Jasmine si accoccolò per osservare meglio la mercanzia, sfiorando quegli oggetti con le dita leggere, affascinata. Strano da parte sua che prediligeva linee essenziali e moderne. L’uomo senza esitazione scelse qualcosa dal mucchio disordinato e le porse degli orecchini grandi, dei cerchi finemente lavorati con degli strani disegni, facendole cenno di provarli.
Un vecchio specchio le offrì l’immagine di un volto dalla carnagione scura e dai lineamenti orientaleggianti. Jasmine scostò con un unico scatto del capo i lunghi riccioli color giaietto all’indietro, notando con vanità squisitamente femminile che gli orecchini le conferivano un’aria ancor più esotica.
Si sentiva a suo agio in quel luogo rumoroso, nel quale da tutti i lati giungevano voci in vari dialetti, il cui mescolarsi dava luogo a una sorta di melodia che faceva da sottofondo alla musica che ormai andava spegnendosi.
Il tempo sembrava essersi fermato e la fretta, la frenesia erano state abolite.
Il mercante le regalò uno strano sorriso scurito dal tempo, incoraggiandola all’acquisto, mentre lei si osservava, sorpresa dal proprio aspetto che le sembrava esser mutato troppo, per aver semplicemente indossato un paio di orecchini. Ecco cos’era: sembravano essere l’elemento che mancava all’abbigliamento di quel giorno, una lunga gonna, la camicetta annodata in vita e le scarpe comode che aveva indossato per la scampagnata. Senza stare a rifletterci troppo, decise di farsi un regalo e, non conoscendo il prezzo, ed essendo consapevole della propria incapacità di contrattare, allungò all’uomo una banconota di notevole valore. Attese per un attimo che lui le desse un eventuale resto, sentendosi piuttosto impacciata, ma l’altro fece abilmente sparire il denaro all’interno dei propri abiti, così gli restituì il sorriso, rassegnata, accennando ad alzarsi e proseguire. Il mercante, pero’, la trattenne e Jasmine vide che reggeva una coppa tra le mani. Si domandò dove l’avesse presa, stupita, ed esitò, schizzinosa ma al tempo stesso incuriosita e timorosa di offendere l’altro. Annusò il liquido e un odore di spezie l’avvolse, solleticando le papille gustative. Sentì improvvisamente una gran sete e ne bevve un piccolo sorso, stupita, e poi un altro ancora, fermandosi per osservarne il colore rubino. Socchiuse gli occhi come per concentrarsi e avvertì un retrogusto di crosta di pane e di frutti di bosco.
Il mercante le prese il polso, con un tocco gentile che la riscosse, e vi fece scivolare alcuni braccialetti sottili, di diverse fogge e colori. Jasmine fece per protestare, ma notò che sul bordo avevano disegni simili a quello degli orecchini che già indossava. Mosse il braccio, avvertendo un dolce tintinnio e decise di tenerli, bevendo un ultimo sorso di quella strana bevanda. Promise a se stessa che sarebbero stati il suo ultimo acquisto, dopo tutto non voleva che il mercante pensasse a lei come a una turista da spennare.
“Ho qualcosa che non puoi non comprare”
Erano le sue prime parole, si rese conto Jasmine con sorpresa. Chissà per quale motivo non aveva badato al fatto che l’uomo non avesse ancora parlato. La sua voce era profonda, ma il tono stranamente basso, quasi un sussurro. Aveva un accento singolare, tipico probabilmente di chi parlava abitualmente il dialetto stretto di quei villaggi rimasti per tanto tempo ai margini delle principali vie di comunicazione. Cercò di dire che non era interessata e che doveva andar via, proseguire, che suo marito la stava aspettando, ma non riuscì ad articolare alcun suono.
Allungò semplicemente una mano per prendere l’oggetto: era un pendente, con un semplicissimo laccetto di cuoio. Sembrava cristallo, forse quarzo. Lo percorse con il polpastrello lungo i bordi inaspettatamente caldi ed osservò il disegno in rilievo: un uomo inequivocabilmente nudo, con un’erezione spropositata, era davanti a una donna, anch’essa priva di abiti. Sembrava un oggetto vecchio, molto vecchio, forse rappresentava un antico rituale. Ne guardò il rovescio: c’erano degli strani segni cuneiformi, come rune… le stesse rune dei suoi braccialetti? Si alzò in piedi, osservando il pendente in controluce e per un istante lunghissimo le sembrò che emettesse una debole luminescenza.
“Mio, deve essere mio”
Più che un pensiero sembrava una voce, un ordine deciso che risuonò nella sua mente.
Lo assicurò al collo, legando il laccetto di cuoio con un nodo stretto perché non cadesse, e lo sentì scivolare nell’incavo dei seni, al di sotto della leggera camicetta che indossava. Era caldo, ma la cosa ancor più strana era la reazione dei suoi capezzoli, improvvisamente induritisi. Un passante la urtò, facendole quasi perdere l’equilibrio. La sorresse e si scusò con lei, con un leggero inchino. Quando Jasmine si volse di nuovo verso l’improvvisata bancarella, si accorse che l’ambulante era sparito. Si guardò intorno, aprendo la bocca come per chiamarlo. Ma chiamare chi? Non conosceva il suo nome.
Proseguì attraverso il mercato, pensando che probabilmente l’uomo si era pentito di aver riscosso una cifra troppo alta per gli orecchini e le aveva voluto regalare gli altri ninnoli. Sì, doveva essere andata così, rifletté, tranquillizzandosi.
La festa, intanto, stava entrando nel suo culmine e si cominciavano a vedere giovani donne nel costume tradizionale, con ghirlande di fiori e spighe di grano.
Una di queste, passandole accanto, le danzò intorno, ridendo, e, con fare giocoso, le infilò un fiore rosso tra i capelli, invitandola ad accennare qualche passo insieme a lei. Jasmine la prese per mano, facendosi trascinare dall’atmosfera festosa, e l’accontentò sorridendo deliziata. Seguì la giovane, catapultata in quel vortice di colori e odori, mentre anche la testa le girava e il tum tum del ritmo della musica diveniva sempre più pressante. Diede la colpa a quella strana bevanda che il mercante le aveva offerto, ma non se ne preoccupò, impegnata com’era a seguire i passi di danza e a cantare. Pronunciava parole mai sentite prima di quel momento, in una lingua sconosciuta fatta di consonanti e suoni gutturali che pero’ avevano un suono dolce sulle labbra. Incrociarono altre donne, vestite con semplici tuniche bianche ornate di fiori e qualcuno le passò in mano un piccolo otre. Jasmine bevve, improvvisamente assetata, e sentì il liquido scorrerle dentro, rinfrescante e al tempo stesso caldissimo, bollente. Aveva lo stesso sapore della bevanda che aveva già assaggiato. Le parve che il mondo intorno a lei ondeggiasse in una spirale caleidoscopica, mentre le gambe cedevano e la testa sembrava librarsi, leggera. Per un lunghissimo attimo ci furono solo le nuvole davanti ai suoi occhi e tutti i suoi sensi sembrarono spegnersi. Improvvisamente riapparve una realtà dapprima vacillante, poi esplosiva e assordante, mentre nel cervello le martellava un’unica urgenza: correre!
E corse, trascinata da una mano femminile dalla stretta ferrea. Si concentrò su quei capelli biondi come il grano, inseguendoli, unico punto di riferimento in un universo incostante. L’erba era morbida sotto i suoi piedi nudi e sentiva i braccialetti tintinnare al ritmo della musica, il medaglione le sobbalzava tra i seni liberi al di sotto della tunica di lino grezzo.
Incespicò, cadde, e la giovane che la trascinava si fermò per tirarla su, con occhi ridenti:
“Sbrigati, Gwindys! Altrimenti arriveremo per ultime, il sole è alto nel cielo e il rito sta per iniziare!”
Riconobbe il nome, obbedendo meccanicamente, mentre la sua razionalità in un angolo urlava il proprio rifiuto. Cosa stava accadendo? Dove era? Perché indossava quegli abiti? E di quale rito parlava Koste? E… come faceva a conoscere il nome dell’altra?
“Zitta, non pensare. CORRI!”
Non seppe se l’ordine era stato pronunciato dentro la sua mente, si rese soltanto conto che i suoi timpani non lo avevano recepito.
Corse come non aveva mai corso prima,
Guardò il cielo: il sole era già allo zenit, se ne accorse con una certa apprensione, mentre si lasciavano il mercato alle spalle, addentrandosi tra gli alberi che diventavano sempre più fitti, fino a nascondere la luce del giorno.
I rami sottili le sferzavano lasciando lievi scie rosse sulle braccia, e piccole foglie si ingarbugliavano tra i loro capelli, man mano che si inoltravano nella foresta.
“Il sacerdote ci ucciderà!” ansimò la giovane, bloccandosi all’improvviso, arrivata finalmente alla radura. Jasmine le finì addosso, facendole quasi perdere l’equilibrio, poi sgranò gli occhi dinanzi allo spettacolo che le si offriva.
La musica era cessata non appena avevano abbandonato la foresta e lei si ritrovò inserita in un grande semicerchio formato da decine di giovani donne e uomini vestiti di semplici tuniche grezze, a piedi nudi. Di fronte a loro un dolmen e un uomo dal corpo incurvato dagli anni, con il volto coperto da una maschera demoniaca, che recitava una cantilena in una lingua antica dai suoni gutturali, la stessa lingua in cui si era ritrovata a cantare Jasmine durante la sua folle corsa. La donna capì che stava invocando la benevolenza degli déi, perché portassero prosperità al villaggio e garantissero un abbondante raccolto.
Il pezzo di quarzo che le pendeva tra i seni cominciò a riscaldarsi e ad emettere uno strano bagliore, ma era troppo concentrata sulla scena che si offriva ai suoi occhi per badarvi. Il calore cominciò a propagarsi, prima sui capezzoli, poi sul collo e, infine, iniziò una lenta discesa verso il ventre, rendendo tutto il suo corpo languido e facendole sentire la testa leggera.
Non seppe mai cosa accadde, né perché si fosse comportata in quel modo, ma sentì soltanto come se qualcuno avesse preso possesso delle sue gambe e in quel momento le avesse fatte muovere verso il centro della radura, verso la pietra altare.
Come una falena attratta fatalmente dalla luce o come un pezzo di metallo governato da un magnete. O, più probabilmente, come un burattino nelle mani di una Volontà superiore.
Si unì all’invocazione con la propria voce, scandendo le frasi rituali con precisione, così come le aveva ripetute centinaia di volte insieme alle altre sacerdotesse, durante i lunghi mesi di preparazione. Avanzando verso il sacerdote mascherato, sciolse i lacci che legavano le sue vesti, facendole scivolare giù lungo il corpo, fino a caderle intorno alle caviglie.
Sotto era nuda, solo il medaglione continuava a brillare di una luce rossastra.
Scivolò in ginocchio, tutt’intorno le donne si liberarono delle loro tuniche, scegliendo un compagno. Il rito vero e proprio stava per avere inizio.
In un angolo della sua mente, come da lontano, l’altra Jasmine, quella che era arrivata in quel villaggio a bordo di una Volkswagen blu, osservava la scena come dal di fuori, rapita, affascinata e al tempo stesso paralizzata da una paura senza nome.
Vide l’uomo avvicinarsi con le mani a coppa, aprirle e versare sul suo capo un liquido caldo, rosso. Comprese di essere stata consacrata… battezzata in onore di quel dio. L’odore del sangue le assalì violentemente le narici, mentre la realtà riprendeva a vorticare furiosamente intorno a lei, al ritmo di gemiti inarticolati che provenivano da tutti i lati. Serrò gli occhi violentemente per combattere le vertigini e il sacerdote la spinse giù con delicata fermezza; i loro corpi aderirono e iniziarono la danza più antica del mondo. Quando lui la penetrò, la sua mente fu attraversata da una scossa elettrica, un fuoco le si riversò nei lombi facendole gridare il suo piacere come non le era mai accaduto in precedenza.
La ragione la abbandonò, lasciando il posto a una frenesia totalizzante, famelica, mentre l’estasi le assaliva il cervello arrivando a ondate che spazzavano via qualsiasi altra emozione. La risacca la lasciava prosciugata e intontita, mentre la successiva onda le restituiva la vita, in un cerchio infinito in cui si alternavano piacere assoluto e vuoto dolore. Jasmine era ridotta a un seme di coriandolo, sepolto in un angolo della sua mente, terrorizzata e sopraffatta, ipnotizzata dal ritmato scandire della nenia, che non era mai cessato.
Riuscì ad aprire gli occhi e la sua vista appannata le mostrò che quella che era stata una maschera demoniaca ora aveva acquistato vita propria e anche il corpo del sacerdote che era stato debole e incurvato si era trasformato, ricevendo un vigore sovrumano. Tentò di urlare, mentre l’orrore le gelava le ossa.
Sentì improvvisamente la presenza del medaglione diventato incandescente sul seno, proprio mentre quella cosa le artigliava i fianchi e la inondava finalmente col proprio seme, il corpo scosso dal piacere. Jasmine avvertì in quell’istante un cedimento nella volontà che la teneva in suo potere. Fu l’istinto di conservazione o forse una consapevolezza che le proveniva da quel corpo, di cui era un’ospite proveniente da molto lontano. Afferrò il medaglione e tirò, con tutte le sue forze, incurante del bruciore alle mani, senza badare al grido che le squassò i timpani. Lasciò cadere il quarzo e, ancor prima che questo potesse toccare il terreno, l’universo si piegò di nuovo su se stesso.
Ma Jasmine non vide né sentì il cambiamento: la sua mente aveva infine ceduto, rinchiudendola in un limbo dalla nebbia lattiginosa, protettivo e caldo come il ventre di una madre.
In un luogo in cui nulla avrebbe più potuto toccarla, né farle alcun male.
Marc le spazzolava i serici capelli con cura, parlandole dolcemente a voce bassa, mentre cercava il suo sguardo nello specchio. Le ricordava il loro primo incontro, all’università. Le raccontava di quel giorno in cui avevano soccorso un cagnolino abbandonato da un vacanziere senza scrupoli. Rise descrivendole il buffo pigiamone regalatole da sua madre che lei aveva indossato la loro prima notte di nozze.
Le riavviò i capelli, la strinse tra le braccia da dietro ed aspirò intensamente il suo profumo, depositando un bacio su quel collo candido. Gli sembrò di cogliere un brivido in quel corpo inerte come quello di una bambola.
Era bellissima e appariva quieta, lo sguardo astratto, distante eppur vigile: seguiva il percorso delle mani di lui sulle sue spalle, le osservava scendere leggere sui seni, soffermarsi sui capezzoli e attendere la loro reazione, seguire la linea della vita per approdare sui fianchi morbidi, scivolando sulla seta fino ad arrivare al ventre.
Protettivo, lo accarezzò sperando di avvertire qualcosa. Sì… ora. No, era stata solo un’impressione. Eccolo! Adesso era accaduto davvero. Quando il bambino si mosse, Marc le scrutò gli occhi speranzoso. Lo aveva desiderato tanto, prima di quel maledetto giorno!
Non avrebbe mai dimenticato il momento in cui si era reso conto che di Jasmine si erano perse le tracce. Per due intere giornate tutto il villaggio si era dato da fare per cercare la turista scomparsa nel nulla, poi ritrovata in stato confusionale ai piedi di quello stesso dolmen dove, era sicuro, erano passati già altre squadre di volontari. Priva di abiti e sporca di sangue, per fortuna risultato non suo, farneticava di un ciondolo e mostrava le mani ustionate, poi ricadeva in una sorta di trance mugolando una strana nenia che gli dava i brividi. Non avrebbe mai creduto che proprio nel periodo più buio della sua vita lei sarebbe riuscita a coronare il suo sogno più grande e sperava ardentemente che il bambino potesse riscuoterla e far riaffiorare il suo animo in superficie.
“Avremo un figlio, Jasmine. Un figlio nostro.” Le sussurrava continuando ad accarezzarle il ventre gonfio. “Un bambino mio e tuo, come lo abbiamo sempre desiderato. Ricordi Jasmine? Ricordi quando immaginavamo di trascorrere ore ed ore semplicemente a guardarlo, toccandogli le manine e facendogli le smorfie per farlo sorridere?”
Un barlume d’interesse in quegli occhi vacui. Una lacrima evase, scorrendogli sul viso. Marc ebbe un moto di ribellione, le afferrò le mani con uno scatto d’ira mista a impotenza e gliele posò sul grembo, facendole aderire bene. Non passò molto tempo e il bimbo, inquieto, scalciò facendo sentire la sua presenza.
Da quell’angolo buio dov’era rinchiusa, l’anima di Jasmine ebbe un fremito. La realtà era a portata, con la sua luce, con quelle suadenti parole, con le carezze di quell’uomo che aveva amato.
Fu improvvisamente consapevole della vita che portava dentro di sé, che reclamava imperiosamente attenzione, e le mani si mossero, incredule, toccandosi.
Si volse verso Marc, che la guardò col cuore gonfio di speranza: mai in quei mesi era riuscito a farla riemergere dal limbo della sua mente. “Parlami, parlami, Jasmine! Lo senti? Lo senti dentro di te?” Le labbra di lei tremavano, mentre ricordi seppelliti, rifiutati perché inconcepibili e inaccettabili, riaffiorarono nel loro orrore. Ricordò il momento in cui quella… quella cosa le aveva inondato il ventre col suo seme immondo. Ricordò quel volto diabolico e aprì la bocca, come per parlare.
Marc la guardò, sorridendo con aria incoraggiante, le labbra semiaperte si muovevano senza che ne uscisse alcun suono, quasi per suggerire, come si fa con i bambini che stanno imparando a parlare.
Lei aprì la bocca e ne trasse un unico urlo che conteneva tutto l’orrore che provava dentro. Inarticolato, continuo, straziante.
grammaticalmente pessimo........
Ciao Ruben, sei un mito! Hai un modo di scrivere che mi fa eccitare! La penso esattamente come te. Se…
Ti ringrazio, sono felice che ti piacciano. Vedremo cosa penserai dei prossimi episodi, quando si chiuderà anche la sottotrama di…
Davvero molto bello. Piacevole come gli altri e decisamente pregno di sentimenti espressi senza risultare melensi o ripetitivi. D'impatto leggiadro,…
Come ti ho detto, in pochi e poche sanno sa scrivere in maniera così eccitante sia dare un senso ad…