Piccole labbra
Era abbandonata sulla sua spalla e lui le stava lentamente lasciando scivolare la mano sul suo piccolo seno sopra la leggera camicetta azzurra di seta. Poi si fermò sulla sommità di quella turgida collina a raccoglierla, per assaporarla nella sua sensualità, nell’incavo del suo palmo. Lei si abbandonò ancora con più languore, girandosi obliquamente sul fianco sinistro, in silenzio, sopra il suo petto. Poi, con trepidazione, mosse, spingendo il braccio in avanti, la mano destra verso il grembo di lui, che, celata dal diaframma della stoffa del pigiama, rivelava la sua maschia protervia. La raggiunse e, decisa, la ghermì. Alzò il viso e gli occhi verso di lui, luccicanti come stelle in un cielo terso di notte, e gli porse le labbra schiuse, tumide, brucianti. E lui raccolse quella supplica d’amore. Accostò il viso a quello suo e le sue labbra si chiusero su quelle di lei. Le sue piccole labbra. Anagraficamente una giovinetta. Di fatto, però, uno scrigno di sensualità femminile e di voluttà bruciante. In quel momento non pensò più alla sua età più che matura, al codice penale, alla morale vigente, ai genitori di lei, amici carissimi di una vita, alla sua professione di magistrato. Sapeva solo che bramava con tutte le sue forze, con l’intensità più profonda dell’anima sua, quel viso, quelle labbra, quel corpo di ninfetta, sbozzato luminosamente alle fattezze di donna. E, poi, lei lo vuole, lo agogna ormai da tempo. Non ci avrebbe mai pensato, se lei non lo avesse costretto, così si disse mentalmente. E, mentre la baciava, le sue dita si scostarono verso le asole della camicetta e ne liberarono i primi bottoni. Aveva il reggiseno. Si vestiva già da donna, pensò con un brivido. La frugò così su quella striscia di stoffa, poi, impaziente, si infilò in quella coppa e finalmente incastonò il suo seno. Al contatto della sua pelle contro la propria, Mara sobbalzò e sospirò. Un flebile lamento. Le piaceva e questo lo eccitò di più. Raccolse il piccolo capezzolo tra le dita e lo sfregò fino a sentirlo granitico. Cercò l’altro seno, lo accarezzò, lo serrò, ne inebriò la mano, ne raccolse la vellutata cima e la strofinò tra i polpastrelli. Lei si piegò, lasciando la bocca di lui, quasi rannicchiandosi sul suo petto. Ma lui continuò a tormentarle i seni, ora l’uno, ora l’altro, e lei portò la sua piccola mano sinistra su quella di lui, premendola contro, facendoglieli stringere di più. Poi, lui si fermò. Per distenderla supina sul divano. Lei lasciò fare. Si lasciò docilmente spogliare, attendendo il piacere della penetrazione, che sicuramente lui avrebbe perpetrato. Come una donna. Lei si sarebbe data a lui come una donna, la sua donna. Lo aveva desiderato da tanto. Da quando aveva capito cosa significasse fare l’amore, essere guardata e desiderata come una donna. Da quando aveva nove anni. Fu allora che aveva deciso che Fabrizio sarebbe stato il suo uomo, che a lui avrebbe offerto la sua verginità.
‘Mara’, rimbrottava la mamma, quando la vedeva letteralmente soffocare di abbracci e baci Fabrizio, ‘Basta più. Lo fai innervosire. Lui non ti riprende, perché ti vuole bene, ma tu non approfittarne. Diventi appiccicosa e indisponente’.
‘No, non mi secco, assolutamente. Sta’ pure seduta sulle mie gambe. Faremo cavalluccio, aspetta’. La accomodava sopra la sua gamba che cominciava ad alzare e ad abbassare come un cavallo imbizzarrito, nitrendo. E lei rideva gioiosamente, godendo delle sensazioni che quel cavalcare le recava. Certo, allora non capiva che le derivavano dallo sfregamento dei genitali con la coscia di lui, quando si sollevava, sapeva solo che le dava piacere. Per questo gli chiedeva sempre di fare cavalluccio. Oppure, quando si facevano il solletico a vicenda. Anche allora lei provava piacere. Quante volte lo costringeva a solleticarla proprio lì, nelle sue parti intime. Lui, qualche volta restava perplesso, quando lei trascinava, incalzandolo, la sua mano proprio lì. Ma vedeva che lei scherzava e rideva e continuava a ruzzare con il capo o a pungolarla con la punta delle dita tra le gambe. Perché suo padre non era come Fabrizio, perché era sempre così riservato? Sì, giocava con lei, ma con i suoi giocattoli o rincorrendola, senza quel contatto fisico forte e piacevole dell’amico. Suo padre e Fabrizio, entrambi magistrati, erano amici da sempre. Coetanei, cresciuti insieme, a scuola compagni di banco dalle elementari alle superiori. Poi, giurisprudenza e, infine, il concorso in magistratura, vinto da tutti e due nella stessa città. Solo che suo padre si era sposato e Fabrizio no. ‘Arriva lo zio Fabrizio’, annunciava papà. Ma Fabrizio dalla sua piccola ‘nipote’, non voleva essere chiamato zio, ma di nome. Diceva che era stregato da quella bambina bionda e con gli occhi azzurri, che era un po’ anche sua figlia. Quante volte gli era stata affidata, mentre i suoi genitori uscivano per i più svariati motivi. Sì, Fabrizio era contento, anzi, felice di stare con lei. Era come un bambino. Dimenticava che era vicino ai quaranta anni e gioiva con lei come se avesse la sua età. Tutte le bimbe dicono che da grandi si sarebbero sposate con il loro papà. Lei lo diceva di Fabrizio. Capitava sempre più spesso che fosse lei a recarsi a casa di lui. In tribunale erano un po’ a turno. Così accadeva che, quando suo padre lavorava, Fabrizio era libero, e viceversa. Mamma lavorava in banca e tanti pomeriggi era impegnata fino a sera. E lei rimaneva così insieme a Fabrizio. Con lui giocava, con lui faceva i compiti. Poi, per lei l’età dell’innocenza finì. In quinta elementare alcune sue compagne già parlavano d’amore e di sesso. Alle medie erano rimaste in poche a non avere il fidanzatino. La disgustavano quei ragazzi che si davano arie da amanti patiti e che si ritenevano così irresistibili da essere convinti che tu spasimassi per dargliela subito. E in classe le compagne si raccontavano le prime esperienze. La prima volta che aveva udito la parola ‘pompino’! Sapeva che i maschi avevano il pene, ma non avrebbe mai immaginato che si potesse succhiare come un capezzolo e che da esso zampillasse un liquido bianco che, a quanto pareva, a quelle compagne che l’avevano assaggiato, piaceva ingurgitare. E poi c’era la televisione. Grande maestra o grande mezzana. Le aveva insegnato che la donna dava e riceveva piacere e come darlo e riceverlo. Aveva dieci anni, quando sperimentò la prima masturbazione: non gliel’avevano insegnato le sue compagne, ma la televisione. Oggi, che era adulta, sapeva che Freud aveva definito il bambino un perverso polimorfo. E’ vero: il bambino inconsciamente cerca il piacere. Solo che, con la televisione, quel piacere diventa cosciente. Lei voleva emulare le attrici, piccole e grandi, che smaniavano d’amore e di piacere. Voleva pure lei scoprire le sensazioni che le mani di un uomo avrebbero provocato sul suo corpo. Aveva pure lei il desiderio di conoscere e stringerne il sesso, sentirlo crescere nella sua mano, sentirlo dentro il suo grembo. E così il suo ingresso alle medie fu anche quello nella pubertà in tutti i sensi. Ebbe il suo menarca e cominciò a vestirsi, a truccarsi, a muoversi da donna, anche se mamma cercava di temperare questi suoi ardori incipienti. Voleva che Fabrizio si accorgesse che era una donna, non più una bambina. Quante volte, allo specchio, si guardava il petto, che di mese in mese lievitava sempre di più, o il pube che cominciava a tappezzarsi di un sottile vello biondo. Quante volte, fantasticando, si ritrovò a immaginare le mani di Fabrizio che si riempivano del suo seno e del suo grembo. Ricordava la prima volta che si ritrovò con le mani di lui sul suo seno. Era agosto ed erano al mare. Mamma e papà erano in spiaggia sotto l’ombrellone e lei sguazzava in mezzo alle onde, vicino alla battigia, perché i suoi non volevano che si allontanasse troppo dalla riva, anche se nuotava come un pesce. Lei voleva, però, che Fabrizio stesse con sé, che potesse stringere il suo corpo, tastarne la femminilità. Per far questo doveva essere lontana dalla spiaggia. Mise tutte le sue arti oratorie per convincere i suoi a potersi spingere più lontana del solito sotto la custodia di Fabrizio. I suoi cedettero. Doveva studiare il modo perché lui non solo la vedesse in tutto lo splendore della sua nudità, ma se ne colmasse le mani. Non è che il suo costumino lasciasse molto all’ immaginazione, ma voleva che la ammirasse senza nemmeno quei piccoli lembi di tessuto. Che la ammirasse e la toccasse. Cominciarono a giocare in acqua. E capitava che le mani di lui, ogni tanto, le ghermissero i seni. Era riuscita, quando lui era sulla riva con i suoi, a raccogliere qualche foglia di alga e infilarla a ridosso del pube, appena sotto l’elastico del suo slippino. Se ne sarebbe servita al momento opportuno. Intanto, studiava come fare per liberarsi del reggiseno. Doveva scivolare di colpo, mentre la teneva per i fianchi. Allentò il gancio dietro le spalle. La più modesta pressione e l’indumento sarebbe saltato via. Gli chiese se ce l’avrebbe fatta a nuotare con lei sulle spalle. Che era troppo vecchio per reggerla. Lui si sentì punto sul vivo e la fece montare sulle sue spalle. Lei si attanagliò con le gambe alla vita e con le braccia al suo collo. I suoi seni affondavano morbide sul dorso di lui. Fabrizio nuotò per un po’, fino a quando si accorse che non toccava più con i piedi. Allora si fermò. ‘Ancora: perché ti fermi?’, chiese lei. ‘Perché, anche se c’è l’acqua che ci sorregge, andare più lontano mi fa paura per te. Se annego io, pazienza. Ma tu mai’. ‘E va bene’, sospirò lei, girandosi per lasciarsi scivolare di colpo sul petto di lui. Il reggiseno, scontrandosi con le mani che la trattenevano, saltò per lasciare il posto alla loro coppa. Abbandonandosi totalmente, lo costrinse a trattenerla in quella posizione per qualche minuto. I suoi seni erano tra le sue mani. E si aggrappò al suo collo, perché quella stretta durasse il più possibile. ‘Marta’, disse lui, frastornato e imbarazzato, ‘lasciami: vado a raccattare il costume. E, mentre lui si gettava all’inseguimento del costume che galleggiava ondeggiando, lei sorrideva sorniona. Poi, di colpo, si mise a strillare: ‘Fabrizio, Fabrizio, qualcosa mi si è infilata nel costume. Aiuto! E’ una medusa, una medusa!’. Fabrizio non si curò del reggiseno e corse verso di lei. ‘Dentro lo slip. E’ dentro lo slip. Levamela, levamela, Fabrizio’. E così Fabrizio, forse innocentemente, si trovò a frugare nel minuscolo slip di Mara. Rovistò, ma sembrava non esserci nulla. Forse non si accorse di avere cercato pure in mezzo alle morbide labbra del suo sesso, forse non si avvide di avere indugiato più del dovuto in quel ventre pubescente. ‘Toglimelo, toglimelo. Mi brucia, mi brucia’. E lui affondò giù sott’acqua per toglierle lo slip. Le alghe, libere, furoriuscirono a galleggiare. Lei era finalmente nuda davanti suoi occhi e tra le sue mani. Lui aveva conosciuto e visto, toccato e ammirato la sua ruggente femminilità. Era orgogliosa di se stessa. E aveva avuto ragione: si era accorto ‘ eccome!- che era vogliosamente femmina, una silfide voluttuosa, con delle forme da sogno. Si ritrovò, dopo avere raccolto il costumino, quel corpo radioso tra le mani e, tentando di rivestirla, finì per accarezzarla, per beare i suoi occhi e le sue mani con quel boccio di donna. ‘Erano alghe, solo alghe!’, sillabò inebetito, quasi estenuato. ‘Ritorniamo a riva. I tuoi sicuramente non ci avranno visto più. Siamo così lontani! Saranno preoccupati. Su torniamo indietro’. Lei allacciò le braccia al suo collo e lo baciò dolcemente ad un angolo della bocca. ‘Sei un tesoro, sei il mio amore’, sussurrò. E, lasciatolo, si spinse avanti nuotando.
Aveva da allora capito che lui non aveva dimenticato. Aveva capito che non la guardava più come una bambina. Che ne era a un tempo attirato e spaventato. Lei si appoggiava sulle sue spalle e premeva il suo seno su di lui. Lui a un tempo accoglieva quella morbidezza tiepida, poi, di colpo, si scostava. Quando scherzavano, le sue mani finivano per stringere i suoi seni, per abbandonarli di colpo come se si fosse scottato. Sapeva che era diventato un tormento per lui, ma doveva insistere in quella tortura. Lo avrebbe costretto a cedere e diventarne la piccola amante. Fabrizio, il suo amante. Fabrizio che baciava il suo seno, il suo sesso, che la faceva gemere di piacere: quanto doveva essere bello! Imperterrita continuò la sua opera di seduzione. Lo costringeva, ballando, a pigiare il sesso di lui contro il suo grembo, fino a quando lo sentiva inturgidire e vi si strusciava contro fino a quando capiva che eiaculava. Lui la stringeva fortemente a sé in quei momenti, per poi subito staccarsi. E lei godeva che lui godeva. Godeva ogni volta insieme a lui. Ma quel tormento dei sensi non le bastava più. Voleva sentirlo suo, nuda su di lui nudo, sopra di sé, dentro di sé. Sapeva che lui non poteva fare più a meno di lei, che era diventata una sorta di droga. Aveva bisogno di sentirsela strusciare addosso, di sentire il suo grembo contro il suo, il suo seno sul suo petto o, per alcuni momenti, finti casuali, tra le sue mani. Forse lui preferiva quel tormento ad un rapporto esplicito, senza fingere. Perché loro estenuavano i loro sensi fino a raggiungere l’orgasmo, ma fingevano che nulla fosse accaduto. O, meglio, era per lui che lei agiva così. Per paura che, se tutto fosse stato esplicito, lui ne avrebbe avuto paura e tutto sarebbe finito. E lei non riusciva ad immaginare un’ora senza di lui, senza la sua voce, le sue carezze. Forse lui era più che appagato da quel petting non confessato. Forse a lui bastava per stare a posto con la sua coscienza. Ma a lei no. Lei voleva essere la sua donna, la sua piccola donna, la sua piccola amante. Sul divano, per terra, sul letto, dovunque, lei voleva essere posseduta e possederlo. Voleva stringere il suo cazzo tra le mani, masturbarlo, succhiarlo, sentire le dita di lui frugare nella sua vagina, la sua lingua leccarle il clitoride, le sue dita attanagliare i suoi seni, il suo viso devastato di baci. Voleva gemere, stordirsi di piacere, mentre era dentro di lei. Era trascorso un anno da quando l’aveva visto nuda al mare. Era venuto ora il momento che la rivedesse e la facesse sua. E il momento venne.
II
L’anno scolastico era finito e lei aveva brillantemente concluso gli esami di terza media. Aveva le giornate interamente libere e, appena lo poteva, quando il suo magistrato era a casa, lei, il suo tempo, lo trascorreva tutto con lui. Ora scherzavano, ora ascoltavano musica ballando, ora leggevano insieme qualcosa, oppure lei si adagiava, mentre lui era sdraiato sul divano, con la testa sulle sue cosce. Lei le prendeva la mano e la trascinava sul suo petto. Lui negligentemente finiva per accarezzarle il seno sopra il golfino, il top, la camicetta, fino a quando lo sentiva sussultare e lei orgasmava con lui. Capitava che in alcuni pomeriggi lei lo facesse venire più volte. E di questo lui pareva appagato. Ma lei non lo era più.
Era un pomeriggio più caldo del solito. Si era nei primi giorni di luglio. Lei era andata presto a casa sua a fare colazione con lui. Indossava una camicetta di seta leggera e trasparente nel suo colore azzurro, sopra una gonna pieghettata, a svasare, rossa, molto corta. Lui era ancora in pigiama. Aveva desiderio intenso di essere stretta da lui, di sentire il sesso di lui strusciare sul suo e poi sentirlo sussultare sopra di lei, mentre veniva. Certo che non le bastava più. Sapeva, però, che camminava sul filo del rasoio. Bastava un nulla perché tutto si fermasse, che lui la allontanasse per viltà, per paura o per un incoercibile senso di colpa. Lei gli leggeva in faccia, quando questo sentimento lo colpiva. Non osava più guardarla, toccarla e scrutava le proprie mani come fossero state colpite dalla lebbra. Lei correva allora a mettere un disco o a preparare una tazza di caffè. Insomma: qualsiasi cosa, purché lui si distraesse, sentisse il rumore di lei, il suo svolazzare da lontano. Poi, lei tornava con un sorriso, si tirava i lunghi capelli all’indietro, mimando la coda di cavallo, e cominciava a fargli smorfie col viso, fino a quando vedeva svanire quella cupezza da peccato mortale dagli occhi di lui. Allora lo accarezzava, lo colmava di bacetti sulle guance e discutevano ora seriosi, ora scherzosi. Ché loro discutevano molto, di tutto. Di cultura, di letteratura, di cinema, di politica, di pettegolezzo ridanciano, ironico, ma sempre intelligente. Non avvertivano così la differenza di età tra i due. Venticinque anni: era venticinque anni più grande di lei. Ma lui non se ne accorgeva. Anzi, lei non glielo faceva accorgere. Si informava e leggeva tutto ciò che era di rilevante culturalmente, non solo perché così era stata abituata in casa, ma per lui, perché non si annoiasse con lei, perché sentisse il bisogno di lei non solo fisicamente, ma intellettualmente. Oh, lui non era un moralista, ma sicuramente gli pesava che lei fosse così giovane e, soprattutto, che fosse la figlia del suo migliore amico, un fratello quasi. Anche la sua famiglia era molto aperta, ma, se i suoi avessero intuito appena un accenno del rapporto che c’era tra loro due, sarebbe stata la fine per lui, come amico, come magistrato, come uomo. A volte finiva col desiderare di essere musulmana, indiana, di un paese africano, orientale, in cui, dopo il menarca, una bambina diventava donna e chiunque, a prescindere dall’età, poteva sposarla. Già, perché lei lo voleva sposare. Su questo non si discuteva. Lei voleva fare l’amore con lui, diventarne l’amante, ma perché, compiuti i diciotto anni, ne sarebbe diventata la moglie. Che idiozia!, si era ripetuta più volte: se il cazzo era di un diciassettenne non aveva rilevanza penale, se di un uomo di quaranta anni, questi diventava un pervertito, che aveva approfittato di una innocente minorenne. Una tredicenne come lei poteva fare da testimone credibile a tutti gli effetti in un tribunale della repubblica, ma diventava deficiente se faceva l’amore con un adulto. E si arrabbiava, quando ‘ e lo pensava spesso ‘ si trovava a fare queste considerazioni. Ecco perché doveva fare le cose a poco a poco, che, benché lei forzasse al massimo i fatti, il tutto, andare a letto con lui, doveva essere una cosa spontanea, naturale dalla parte di lui. Lei lo avrebbe fatto sempre godere come al solito, ma ogni giorno di più in modo sempre più accentuato. Lo doveva spingere a baciarla sulla bocca, a sollecitare i suoi capezzoli non sopra il vestito, ma dentro il suo reggiseno, a frugare il suo grembo non in modo accidentale sulla sua gonna o sui calzoni, ma nella sua nudità rubescente.
Era con quel programma che aveva fatto il suo ingresso nella casa di lui.
‘Fabrizio, amore mio’, già, perché lei lo chiamava sempre ‘amore mio’, quando non c’erano testimoni e quell’espressione le sgorgava dal cuore con un empito di passione, ‘ancora in pigiama! Scommetto che non hai nemmeno fatto colazione’. Premurosa. Era con lui premurosa come una moglie. ‘Mi sei mancato, come se non ti vedessi da una vita’. E corse tra le sue braccia. ‘Piccola Mara, tesoro mio’, rispose lui stringendola a sé. ‘Se non ti vedessi anche per un solo attimo in un giorno, credo che ammattirei. Non ti potrai mai rendere conto di quanto io ti voglia bene, di quanto ti ami’. E, dicendo ‘ami’, voleva farle intendere un sinonimo di ‘voler bene’, come in francese. Ma lei capiva che non era così. L’amore di lui sì era coniugato con il volere bene, ma era tutt’altro da questo. Significava passione, tormento, estasi, non potere fare a mano di lei nemmeno per un attimo. E questa consapevolezza le faceva scoppiare il cuore di gioia. Lui l’amava, l’amava. E lei sapeva che lui l’amava come non avrebbe mai amato nessuna donna, come nemmeno suo padre amava sua madre o lei. Suo padre. Lei era innamorata di suo padre. Ma non era vivo come Fabrizio. Non avrebbe avuto remore ad essere l’amante di suo padre, se fosse stato così sanguigno e passionale come Fabrizio. Chissà, forse quel fuoco che non si riverberava esplicitamente covava internamente. Ma lei non se n’era accorta. Avrebbe desiderato cogliere nello sguardo del padre l’ammirazione per la sua femminilità. Un giorno, un paio di anni prima, la sera, in camicia da notte, era andata dai suoi genitori per la buona notte, desiderosa che fossero ammirati dallo sbocciare della sua femminilità, che soprattutto suo padre lo fosse, che la guardasse con compiacimento, che potesse dirle che era davvero bella, affascinate, seducente. ‘Il seno mi sta diventando sempre più grande: non trovate? E mi pare che si stia conformando a coppa. Io voglio avere un seno a coppa come il tuo mamma’. E, detto questo, abbassò le bretelline della camicia da notte rivelando l’incipiente rotondità del suo petto. ‘Come lo trovi?’, chiese a suo padre, che certamente non si aspettava che si denudasse lì all’improvviso. Anche se era capitato abbastanza spesso che la vedesse nuda per casa. ‘Bene, bene. E’ bello, davvero bello’, rispose suo padre in fretta e, distogliendo subito lo sguardo dalla sua femminilità. E lei era rimasta male. Le era venuto da piangere. E mamma aveva capito che era rimasta male. ‘Certo che sei bella, di gran lunga più bella di me. E i ragazzi impazziranno a corteggiarti’. Ma lei si era ritirata in silenzio nella sua camera, dicendosi che a papà non era piaciuta poi tanto. Ma a Fabrizio sì. A lui sì che piaceva, e particolarmente da quel giorno al mare.
Lo aveva stregato e non poteva più fare a mano di lei. Ecco, era tra le sue braccia. Si abbandonò sul suo petto, mentre le accarezzava i capelli. Gli fece subito avvertire il tepore del suo pube che lui non disattese. ‘La mia piccola, unica, inarrivabile fanciulla. Starei ore a tenerti così stretta a me, incollata come una ventosa sul mio petto’. ‘E anche sul tuo cazzo’, le veniva da aggiungere sorridendo dentro di sé. Il sesso di lui era già erto e gonfio. Come avrebbe voluto sollevare appena la sua gonna e infilarlo almeno tra le sue cosce! Lo pensò e lo fece, o quasi. Senza darlo a vedere ‘ ma sapeva che bene che lui doveva fingere di non avvedersene,- lei con la mano sinistra sollevò di poco la gonna già corta di per sé e il suo inguine, ricoperto dal leggerissimo slip, data la pressione, fu schiacciato contro il ventre di lui. Lo avvertiva in tutta la sua lunghezza protesa e gonfia. Lui la strinse di più e, in silenzio, cominciò a baciarla sui capelli e sulla fronte, mentre lei ondeggiava lentamente ma con decisione sul pube di lui, fino a quando lui sussultò e la serrò ancora più forte. Era venuto e, al pensiero, anche lei venne, deliziosamente e frescamente.
‘Mara, Mara, ma cosa stiamo facendo, cosa sto facendo?’. ‘Shiii’, fece lei ponendogli un dito diritto sulle labbra. ‘Non dire nulla. E’ un momento così bello, così intenso. Io ne avevo terribilmente bisogno, come te. E allora? Vieni’, disse lei, staccandosi da lui e prendendolo per la mano e trascinandolo in cucina. ‘Non mi fai un bel succo di frutta? O me lo devo preparare io?’. Lui non sapeva che dire, ma ormai lei gli era entrata nel sangue. Cosa poteva fare? Se lei non ci fosse stata, se non gli avesse continuato a dispensare quel piacere sotterraneo, lui sarebbe impazzito. Avrebbe dovuto pensarci prima. Non lo sapeva che quella ragazzina era come una figlia e con le figlie non si fa quel che faceva lui? Ma ormai era avviluppato sino alle ossa. Solo lei avrebbe potuto spezzare quel sortilegio e lui ne sarebbe morto. Non per dire, ma realmente. Sì, ne sarebbe morto. Avesse avuto diciotto anni, lui le avrebbe dichiarato apertamente il suo amore, senza remora alcuna, nonostante la sicura riprovazione del suo amico. Sarebbe andato anche all’inferno con lei. Ma Mara aveva compiuto tredici anni a marzo. Era una bambina. Come poteva continuare a servirsi di quella bambina per godere. Non era vero che la aspettava perché lo facesse godere? Lei sicuramente non si poteva rendere conto del ‘servizio’ che gli faceva. Come avrebbe potuto del resto. Era colta, intelligente, femminile, ma una bambina, sempre una bambina. E lui un pervertito. Certo era così. Eppure di donne ne aveva avuto e non aveva mai mostrato interesse per un’adolescente. Perché era cambiato, cos’è che lo ancorava in modo così vizioso a quella fanciulla? Come magistrato non poteva che non condannarsi. Se fosse finito in galera, i suoi compagni di cella lo avrebbero accoppato. In cella. Si sarebbe impiccato lui, se fosse accaduto. Ma perché doveva essere un peccato mortale amare Mara? Perché lui l’amava. Non era lubrica, lercia passione che provava per lei, ma amore vero, con la ‘a’ maiuscola. Fosse dipeso da lui, l’avrebbe sposata subito. Tormentarsi così era stupido. Tanto non riusciva ad allontanarla. Anzi, la voleva sempre con sé, addosso a sé, su di sé, desideroso di quel sesso, di quel grembo di ninfetta, di lolita pubescente. Non per scurrile desiderio, ma per il medesimo amore con cui si ama una giovane donna. E allora? Aveva ragione lei. Non pensarci. Solo non pensare ai rimorsi. Pensare che lei era lì con lui, e questo gli faceva esplodere il cuore di gioia. Ma lei già lo trascinava via, trillando come un passerotto festoso e spazzava via ogni rimorso. Aveva pensato lei a preparare il succo di frutta. Lui la beveva con gli occhi, deliziandosi nel vederla muoversi quasi diafana e bellissima. Era inverosimilmente bella. Lei sorbì il suo succo spiandolo negli occhi, compiaciuta che lui la covasse con lo sguardo. ‘E, allora: cosa mi leggi stamattina? Qualcosa sull’amore. Puoi anche improvvisare, se vuoi. Devi comporre una poesia su di me. Cosa scriveresti? Oh, sì: che mi ami alla follia. ‘Se la notte non celasse il mio volto, tu mi vedresti arrossire per ciò che hai udito dire stasera. Oh, Romeo, rispetterei volentieri le forme, rinnegherei volentieri quel che ho detto, ma oramai, addio vani rispetti! Tu mi ami? So che rispondi sì, e ti prendo in parola’ Dolce Romeo, se mi ami dimmelo con lealtà; e se credi che io mi sia lasciata vincere troppo presto, mi farò burbera e cattiva e ti respingerò perché tu ti metta a corteggiarmi. Ma no, per nulla al mondo lo farei. Davvero, Montecchi mio caro, sono tanto innamorata che non mi importa di vederti giudicare leggera la mia condotta. Ma, fidati di me, tu che sei un gentiluomo, e vedrai che sono più fedele di chi ha più astuzia e più riserbo’. Che te ne pare? Sono o non sono la tua Giulietta? La notte non vela il mio viso, ma le parole di Giulietta le sposo in pieno, tanto le so a memoria. Sono innamorata di te, da sempre. Tu questo, però, l’hai sempre saputo, o no? Sicuro che lo sai. Amore. Carnale, proprio perché è vero, grande amore. E aveva la mia stessa età Giulietta. Non si terrorizzò dei genitori e lo fece salire nella sua camera e fare l’amore con lui. Allora? Per questa fantastica fanciulla perdutamente innamorata del suo Romeo non sei pronto a comporre una poesia? Ma che dico: un poema. Mi merito un poema’. L’aveva messo davanti a una chiara, piena e per nulla ambigua confessione d’amore. Non poteva girarci intorno. L’avrebbe dovuto solo prendere tra le braccia e baciarla perdutamente.
‘Solo che Romeo era un ragazzo. Io sono un uomo che ha venticinque anni più di te. Confessarti cosa? Che ti amo? Posso dire ‘ti amo’ alla bambina che ho tenuto in braccio appena nata, che ho cresciuto come una figlia”. ‘Ma non sono tua figlia’, interruppe lei. ‘E non voglio esserlo considerata. Tu mi guardi e mi cerchi come un uomo fa con una donna e non come una figlia. E se fosse? Perché un padre non dovrebbe innamorarsi di sua figlia? Sono sicura che tutti i padri lo sono, anche se non vogliono ammetterlo. E, comunque, non sei mio padre’. Avrebbe voluto dirgli che gli tornava comodo, però, che lo facesse godere. Che in quei momenti non pensava che era come una figlia. Ma sapeva che l’avrebbe ferito. Capiva quel che voleva dire. Stupida! Si era detto di aspettare e lo stava mettendo con le spalle al muro. ‘No, non dire nulla, di cui potresti irrimediabilmente pentirti. Fa’ conto che non ti ho detto nulla. Leggimi qualcosa sull’amore. Ti prego non dire nulla, nulla. Ora. Almeno ora. Poi, più tardi. Io capirò, quando potrai dirlo, perché so che mi ami, come una donna’. Si sospese sulla punta dei piedi e lo baciò, quasi con un sospiro, una carezza della brezza mattutina, sulle labbra, e leggera si avviò verso il salone. Lui inebetito la seguì come un bambino. ‘Allora cosa mi leggi? Qualcosa di molto, molto profondo e diverso dal solito’. E, intanto si distendeva sul divano. Prese un cuscino e lo adattò sul bracciolo e vi ripose il capo. La massa di capelli biondi si allargò come un lago di sole e le incorniciò il viso facendolo rifulgere, nella sua bellezza, come un angelo di luce. Le corde del suo cuore vibrarono tutte all’unisono. Quella fanciulla era l’incarnazione del bello, vera, fresca, sorridente. Forse era discesa dal mondo delle idee platoniche ed era stata regalata a lui. La conoscenza. La bellezza di lei avrebbe dovuto portarlo alla conoscenza del vero. La verità era l’amore che le portava. Oh, potere vivere al di fuori del tempo e dello spazio, in una lussureggiante isola sperduta in un oceano dei tropici, in cui ci fossero solo torrenti perenni, alberi da frutto, uccelli multicolori e qualche scimpanzé. Sarebbe stato il loro eden. Senza società civile non ci sarebbe stato né peccato, né reato. Perché dai cosiddetti benpensanti il loro non era solo peccato, ma anche reato. Il peccato era come la verità. Chi avrebbe potuto definire in modo assoluto e definitivo la verità? Nessuno. Così era pure del peccato. La violenza, solo la violenza era da rigettare e punire in tutte le sue forme e le sue sfumature fisiche e psicologiche. Ma l’amore? Che importava l’età o il sesso? Se due persone erano totalmente consenzienti, perché non dovevano amarsi? Che stupidità balorda! Ma, intanto, era così. Loro avevano a che fare con ciò che era, non con ciò che doveva essere. Hegel. Lo diceva Hegel. Ecco avrebbe letto a lei uno scritto inconsueto per la sua età, una lettura decisamente originale, del tutto diversa dal solito. Le avrebbe letto il frammento sull’amore. O meglio, una parte accessibile alla sua comprensione. Si allontanò per qualche minuto, poi, tornò con un testo in mano. ‘Sono i cosiddetti scritti teologici giovanili di un filosofo tedesco, che studierai l’ultimo anno di liceo: Hegel. Egli dà all’amore la valenza della perfetta unità, che unifica ciò che nella realtà appare separato, quel che il nostro ragionamento riflessivo, il nostro intelletto, rileva come separato, diviso, contrapposto. Il ricco è l’opposto del povero, il sano è l’opposto dell’ammalato, l’uomo è l’opposto della donna: l’un termine esclude l’altro, è definibile solo se considerato per sé, Ma, se andiamo alla radice della questione, le cose non stanno così: il povero si riconosce come tale, perché c’è il ricco. Può definirsi povero, perché c’è un altro che non è povero. Vedi, una cosa, se non fosse all’interno d’una totalità di cose, se fosse totalmente isolata, non potrebbe essere mai definita. Se tu fossi l’unico essere esistente sulla faccia della terra, o ti comportassi come se lo fossi, non sapresti nemmeno di esistere. Eppure, si continua a definire ogni cosa con se stessa. Il principio d’identità è il più reazionario dei principi: immobilizza la realtà per sempre. Che cos’è una rosa? Si risponde: una rosa è una rosa. Un ricco è un ricco. Un mafioso è un mafioso. Così non si spiega ciò che si dovrebbe spiegare, ed è così comodo! Tu sei tu, perché non sei le tue compagne, tutto ciò che ti circonda, l’intero universo. Se non ci fosse tutto il resto, tu non solo non potresti definirti, ma non sapresti nemmeno di esistere. Nessuno si chiede cos’è che renda possibile ad un mafioso di essere tale: quella totalità economico-sociale in cui è inserito, che gli dà senso e significato. E, tu sei tu, perché, attimo dopo attimo, diventi diversa da quel che eri prima, non sei più, neghi, quel che eri un momento prima. Realtà significa realizzazione di un tutto. Sto camminando su un terreno difficile. Lo so, lascia perdere. Il fatto è che Hegel in questo scritto vede l’amore come un tutto, una potenza di unificazione assoluta, in cui gli amanti si fondono l’uno nell’altro, in cui l’uno diventa l’altro e la loro unità si fa totale. Ecco, ad un certo punto scrive: ‘L’amore è più forte della paura, non ha paura della propria paura, ma, accompagnato da essa, toglie le separazioni. Esso è un prendere e dare reciproco; nel timore che i suoi doni possano essere sdegnati, nel timore che un opposto possa non cedere al suo prendere, vuol vedere se la speranza non lo ha ingannato, se trova in ogni modo se stesso. Colui che prende non si trova con ciò più ricco dell’altro; si arricchisce, certo, ma altrettanto fa l’altro; parimenti quello che dà non diviene più povero: nel dare all’altro egli ha anzi altrettanto accresciuto i suoi propri tesori’ L’amore acquista questa ricchezza di vita nello scambiare tutti i pensieri, tutte le molteplicità dell’anima, poiché cerca infinite differenze e trova infinite unificazioni, si indirizza all’intera molteplicità della natura per bere amore da ognuna delle sue vite: quel che c’è di più proprio si unifica nel contatto e nelle carezze degli amanti, fino a perdere la coscienza, fino a togliere ogni differenza”. Credo che nessun altro abbia scritto parole più belle e più profonde di queste. Nemmeno Dante. ‘Amor che a cor gentil ratto s’apprende’, ‘Amor che a nullo amato amar perdona’. O ancora: ‘A cor gentil ripara sempre amore’, cantava Guido Guinizzelli, un suo conterraneo. E di te potrei così cantare: ‘Lo tuo parlar sì dolcemente sona, che l’anima che ascolta e che lo sente dice: . Allora, che ne dici di queste dediche? Peccato che siano di Hegel e di Dante, ma esprimono quel che sento e provo per te’. Lei lo contemplava estasiata, letteralmente rapita. ‘Fabrizio’, esclamò con la voce tremolante e commossa,’non avevo mai ascoltato qualcosa di più bello! E queste cose le faremo a scuola? Se fosse così, la scuola non diventerebbe pesante, noiosa. Tu sei il mio Pigmalione. Tu mi plasmi come la cera, perché voglio essere plasmata da te’. I suoi occhi raggiavano come soli. ‘Tu rendi la mia vita sensata. Scardini ogni grossolana banalità, soffi l’anima delle cose nella mia anima. Tu sei l’amore, il mio amore’. Lui le si accostò con un sorriso dolce sulle labbra, le si sedette al suo fianco e col dorso della mano le accarezzò il viso. La tenerezza e l’incanto, l’amore e la sofferenza dell’amore in quella carezza! Le gambe di lei erano scoperte fino all’inguine e dalle mutandine leggere traspariva la sensualità del pube, il contorno delle rosee labbra della sua vulva, la nuvola soffice del suo vello di fanciulla. Scese con la mano, trepido e carezzevole, con cautela, quasi preoccupato di poterle far male con un tocco più pressante. La bocca, il mento, il collo. Forse indugiò qualche istante in più sulla sua mammella ma quel tanto, tuttavia, da avvertire lo scalpitio, il subbuglio del cuore di lei, o la turgidezza del capezzolo infiammato da quella carezza. Poi il costato, il ventre. Guardò ammaliato quella conchiglia di voluttà esposta, ma la sua mano si fermò. Qualcosa si ruppe, ruppe quell’incantamento, e lui sobbalzò, quasi si risvegliasse da un sogno estatico. Lei non ebbe il tempo di bloccare quella mano, di trattenerla su di sé, di spingerla a scendere, ad impadronirsi di quella conchiglia. Lui si era già alzato di colpo, per andare a riporre il libro che teneva nell’altra mano. Ma, ancora una volta, lei comprese che doveva dargli tempo. C’era l’intero giorno davanti a loro. ‘Fabrizio’, disse raggiungendolo nello studio, ‘prima che esca, telefona tu alla colf di non venire. Poi chiamo mamma io e le dico di non preoccuparsi, che resto con te a pranzare e che ritorno per cena’.
‘Tu’, la interruppe lui, ‘ tu hai parlato del fascino delle mie parole. Sei rimasta affascinata dalle mie parole, dalla mia cultura. Il che mi turba, moltissimo. Ecco, la non voluta sperequazione tra me e te. Tu mi puoi affascinare con la tua fresca bellezza, io, invece, in modo più capzioso, con la sagacia, magari inconscia, della mia cultura, che poi deriva dal fatto che ho venticinque anni più di te e ho potuto leggere tante di quelle cose che tu in forza dell’età non hai potuto. Anche se so quanti libri hai letto e la ricchezza delle cose che hai assimilato. Non vorrei che la mia diventasse la seduzione dell’intellettuale. C’è un filosofo danese che già descriveva un simile comportamento. Sarei davvero un miserabile se cercassi di affascinarti tramite una discutibile consapevolezza della superiorità culturale e di esperienza. E’ quel che ti dicevo prima: si tratterebbe di violenza. Anche se non fisica, ma, forse, più capziosa e devastante. Ti cattura l’anima’. ‘Non essere sciocco, Fabrizio. Potresti mai tu operare come fa un chirurgo, potresti costruire un palazzo come fa un ingegnere, potresti tu esprimerti con le stesse parole di una persona che ha la quinta elementare e vive in un ambiente povero culturalmente? Tu sei tutto quel che ti sei fatto. Le tue parole esprimono te stesso, il tuo mondo, la tua anima. Tu non porgi le tue conoscenze superbamente, con supponenza: riescono spontanee, come se fossero tue. Non lo hai detto tu prima? Sono di Dante o di quel filosofo là, ma è come se fossero tue, espressione della tua gentilezza d’animo. E sarei terribilmente offesa, se ti fossi cara solo per la mia bellezza. Sai quante trasformazioni fisiche avvengono in una donna fino a quando giunge alla sua età più matura! Migliori o peggiori, chissà, ma la mia bellezza certamente non sarà quella che tu apprezzi adesso. Certamente non la stessa. Non sono così stupida da dire che la bellezza non conta. Ma, quante sono le ragazze belle quanto o più di me? Che fai, ti innamori di tutte? La mia bellezza esprime qualcosa, è espressione della mia personalità. Se fossi un’oca giuliva, non mi degneresti di attenzione, fossi anche l’incarnazione della bellezza. E, allora, che discorso è il tuo? Ritieni che il nostro rapporto, la nostra amicizia, e calcò l’accento sulla parola ‘amicizia’, sia disdicevole, sconveniente, o che lo pensino gli altri? Pensi questo? O hai paura di questo rapporto? E’ vero: chi ci rimetterebbe di più, se il nostro legame fosse scoperto, sei tu, ma tieni presente che non abbiamo fatto ancora nulla di male agli occhi di qualunque ben pensante, visto che non può leggere nelle nostri menti, né può vedere attraverso i muri quando mi stringi o mi stringo a te e carpire le nostre emozioni. Tu, magari, ti dici questo. Ma, quanto superficiale mi riterresti se, condannato tu dalla gente, dalla legge, io resterei magari a piagnucolare, a strillare per un po’, poi tutto sarebbe finito e penserei ad un ragazzo, a un altro uomo. Il dolore mi ucciderebbe. Il pensiero, il solo pensiero che tu mi possa lasciare per una costrizione penale, mi sgomenta allo spasimo. Se a te accadesse qualcosa di male, prima che morire di dolore, mi ucciderei con tanto di lettera scritta per quelli che mi avrebbero costretto al suicidio: i miei genitori innanzitutto. Io non potrei mai farti del male. Se non si fa del male a se stessi, se ci si vuol bene, come potrei fare del male a te che sei più importante della mia vita, che ti voglio bene più di quanto ne possa volere a me. Le donne, quelle grandi, oggi non si uccidono per amore. Ma noi, le ragazzine, crediamo all’amore vero, quello eterno, assoluto. Io ‘ non mi rimproverare per questo,- io mi rivedo tra qualche anno, cinque per l’esattezza, sposata con te e poi tanti bambini. In una nazione in cui le donne non fanno quasi più figli, io te ne partorirei cinque. Non mi è mai piaciuto essere figlia unica. Io non penso alla situazione economica, alla laurea. Non penso agli aspetti sociali della vita ‘ e, poi, tu sei benestante: che problemi economici avremmo: – io penso a te, tu sei lo specchio in cui mi rifletto. Ti prego non lo spezzare mai, nemmeno appannarlo. Mi uccideresti’. ‘Piccola bambina mia, mio piccolo e disperato amore!’, disse lui, mentre si affannò a raccoglierla forte tra le sue braccia. ‘No, non l’ho mai pensato, ma come potrei. Sarebbe come immaginare un angelo senza bontà, senza bellezza, non etereo. E’ vero, c’è Lucifero, ma è solo un angelo decaduto che ha perso per sempre la speranza della Luce e si incattivisce sempre più per l’eternità. E’ che ci sono sogni che si possono e si devono con tutte le forze realizzare, ma altri che sono impossibili. Sarei un bugiardo, se non ammettessi di aver paura, non di starti vicino. Ti ci sto da quando sei nata. Tremo che la nostra amicizia, il nostro amore si spinga oltre la soglia del possibile, ho paura di me e della tua fanciullezza, ho paura che ti perda per sempre insieme al mio lavoro e alla mia dignità. Che se è vero che le idee di quelli che tu chiami benpensanti non le pensiamo noi, è anche vero che viviamo in mezzo ad una maggioranza di persone che giudicherebbe un rapporto più intimo, incestuoso, perverso. C’è chi ha proposto la castrazione per persone che hanno rapporti, pur se condivisi, con minorenni. C’è solo riprovazione e disgusto. Non sono uno psicanalista, ma forse verrebbe scaricato su di noi l’invidia di chi vorrebbe essere al nostro posto, ma non lo può. O la cattiva coscienza per tanti altri misfatti ‘ pensa alle bambine stuprate o uccise nelle guerre che attualmente martellano il Medio Oriente, – perciò torna comodo pulirsi la coscienza mettendo all’indice, anzi, buttando in una cella un uomo che ha avuto l’amore di una fanciulla con tutto il suo cuore, le sue forze e la sua mente. Come fare a non avere paura. Essere tacciato di perversione, quando sin nel profondo della tua anima sai di non esserlo, che quel che qui è ritenuto il più brutto dei peccati, altrove è prassi normale. E dire che nella tradizione evangelica la mamma di Gesù è data in sposa a un uomo più che avanti negli anni. Si dovrebbero mettere all’indice o addirittura bruciare sulla pubblica piazza, dalla Bibbia in poi, tutti i libri che trattano d’amore tra fanciulle minorenni e uomini adulti. Altro che i roghi nazisti! Sta di fatto che tutto questo è pensato dalla maggioranza e legiferato. Che senso avrebbe il nostro affetto, se poi non solo non potessimo essere più insieme, ma, io in galera alla mercé dei delinquenti, e tu ‘ e questa sarebbe la cosa più atroce, perché so che lo faresti e io non sarei capace di guardare Dio in faccia se ciò accadesse, perché ne sarei stato la causa fondante ‘ morta suicida. Aspettare, dobbiamo solo aspettare fino al compimento della maggiore età e senza che nessuno, nessuno, almanacchi il più flebile sospetto della particolarità del nostro rapporto, nessuno’.
‘E tu’, disse lei, tirandosi con la testa indietro per guardarlo bene negli occhi, ‘tu riusciresti a fare a meno di fare l’amore, anzi fare sesso, perché l’amore si fa solo con chi si ama, per cinque lunghissimi anni? Ti basterebbero solo’ Non voglio nemmeno sfiorare l’argomento, perché potrebbe assumere cadenze scurrili, volgari, di bassa animalità, e, invece, la nostra amicizia è bella, profonda, appassionata al limite del carnale perché ci amiamo. Io ti amo, io ti amo, io ti amo. Dillo pure tu a me, dimmelo, anche senza fare l’amore, almeno per ora. Ma soffiamelo, qui, sulle labbra che mi ami, dimmelo. Non per farmi contenta, ma perché ne hai bisogno, ti spiccia dal cuore’. ‘Io ti amo, ti amo, ti amo come non ho amato mai nessuno al mondo. Amo quando sorridi, quando cammini, quando ti tiri i capelli all’indietro, quando dici ‘uffa’, quando arrossisci perché dici ‘cazzo’, quando ti diverti a farti inseguire come una farfalla, quando spalanchi gli occhi come se avessi scoperto un nuovo pianeta, amo quando sei pensierosa, le tue malinconie e le tue gioie, quando ti sdrai sul divano e mi ascolti incantata, amo il fruscio delle tue scarpette, ogni filo dei tuoi capelli che compete con un raggio di sole, amo il tuo respiro, ti amo per come sei, la tua semplicità e la tua lealtà, la tua schietta intelligenza, la tua curiosità, le tue battute pungenti, anche se mi riguardano, la tua collera e il tuo dolore. Io ti amo tutta intera, mia piccola, unica, insostituibile fanciulla’. Era vero, non si era illusa che lui l’amasse, che le volesse solo bene. E allora perché non fare l’amore? Non avrebbe mai, proprio mai sopportato che per i suoi sfoghi di uomo andasse con un’altra donna. Se aveva bisogno di fare sesso, era con lei, c’era il suo grembo che non aspettava che di essere riempito da lui, che invocava la passione di lui. Solo perché aveva tredici anni ci dovevano rinunciare? Era raggiante per la confessione d’amore che le aveva regalato; ma, no, che non avrebbe aspettato fino ai diciotto anni per andare a letto con lui. Era in quella giornata, non subito, più tardi, che l’avrebbe sedotto. Lui l’amava follemente. Come avrebbe fatto a resistere alle sollecitazioni della sua seduzione? Sedurlo senza farlo sentire in colpa, costringerlo solo con l’intensità della passione e dell’amore. Il suo seno e il suo grembo dovevano essere dispensati con esasperata voluttà. Mentre così almanaccava lo assalì di baci, lo stordì di baci da fargli mancare il respiro, ma non ebbe il coraggio di fissare le sue piccole labbra in quelle sue più mature e più esperte: sapeva che ancora non era venuto il momento. Le labbra di lui, come il viso, furono schiaffeggiate da una gragnola rapida di baci. Poi lo lasciò festosa. ‘Che aspetti a chiamare la colf, che poi io chiamo mamma?’. Invece era troppo euforica e chiamò prima lei. Avvisò la madre che sarebbe rimasta dallo zio Fabrizio. ‘E’ tutto a posto con i miei’. Poi, fu la volta di lui. ‘E allora?’. ‘Non verrà’, disse Fabrizio guardandola intensamente negli occhi. Del resto, era accaduto altre volte di restare solo con Mara senza la presenza della colf. Solo che questa volta era stato su richiesta della fanciulla. Non aveva il coraggio di rispondersi sul perché di quella richiesta. Non aveva il coraggio e insieme desiderava scoprirlo e si accorse che il suo membro a tale pensiero si inarcava. ‘Ti preparo un gattò di patate. Sai, a dispetto della mia età sono una brava cuoca. Ti piacerà tantissimo’. ‘Ci credo’, concluse Fabrizio, ma ormai non pensava, con una sorta di smania eccitata, che il tempo trascorresse in fretta. Andare a letto, fare l’amore? No, questo no. Il suo grembo è ancora acerbo. Ma era vero che non sarebbe stato in grado di contenere il suo membro o era lui che la vedeva ancora come una bambina e riteneva di oltraggiarne ‘ come fosse un santuario ‘ l’illibatezza? Era così giovane! Lei gli offriva la sua primizia, ed era così giovane, ma anche così sensuale e bella, inverosimilmente bella! Accarezzarle il seno, il suo grembo nella loro luminosa nudità, se lei glielo consentiva, questo avrebbe potuto farlo, anche trafugarlo, baciarlo, farla godere e godere lui. In fondo non era che rendere esplicito quell’esasperato petting ormai da tempo praticato facendo finta di niente.
III
Intanto, lei si era catapultata in cucina tutta infervorata a cucinare per lui. Aveva visto sua madre preparare la pietanza, aveva armeggiato con lei, ma non l’aveva mai fatto. E, mentre lei approntava, lui la contemplava adorante. Ogni tanto le si accostava da dietro per baciarla sulle tempie, sul viso, sui capelli. E, talora, lei, piegandosi un po’ in avanti, facendo sì che la posizione apparisse naturale nel suo lavorare con gli ingredienti, faceva in modo che il suo di dietro strusciasse sul sesso di lui. E a lui veniva la voglia cocente di poterlo almeno appoggiare su quella rotondità perfettamente plasmata nella sua fulgida concupiscenza. E, tenendola qualche minuto per il costato, la premeva sui glutei fino a giungere quasi alla eiaculazione, tanto era la voglia di lei. Ci fu un momento in cui lei stava veramente scivolando e lui la sorresse, sempre da dietro, afferrandola per le mammelle. Tenere, dolci, vezzose e sode quelle piccole colline. Lei sosteneva che fossero di terza misura. Non era vero. Ma la seconda sicuramente sì. Trattenerle nelle mani gli recava un godimento dolce e sottile. Morbide e calde le mammelle, morbido, caldo e voluttuoso il suo culetto, sul cui solco il suo membro si spingeva e vi scivolava insolente e ruggente. Tutti e due quei piaceri languidi lo estenuavano, e lui chiudeva gli occhi, per esserne cullato, per gustarli goccia a goccia, come fosse un oppiaceo, e nuotare in quello stato di assopimento mentale, in quel galleggiare paradisiaco al di fuori di ogni tempo e di ogni spazio. E lei avvertiva il piacere intenso che lui provava, ma che trascorreva anche lei da farle contrarre il sesso. Tuttavia, non osava incentivarlo più di quanto già facesse per paura che lui smettesse del tutto. Intanto, quei frammenti di voluttuoso piacere lei se li godeva. Avvertì dietro il pigiama di lui il desiderio prepotente sul solco dei suoi glutei e si lasciò stringere abbandonandosi col dorso e con la nuca sopra il suo petto. Le mancava quasi il respiro. Agitò, eccitata, le sue terga su quello sfrontato gonfiore. Ma non voleva che lui venisse. Aveva approntato tutto per il pomeriggio e non voleva che, a furia di godere, poi fosse spompato, quando avrebbe dovuto possederla. Perché lei questo si era prefisso. Voleva essere posseduta ad ogni costo. E ci sarebbe riuscita esasperando al parossismo il suo desiderio carnale. Perché la sublimazione dell’amore risiede nella carnalità del possesso. E lei lo amava disperatamente per rimandare ancora che egli la penetrasse, sentirlo così intimamente unito a lei. Essere una sola cosa come scriveva quel filosofo. E lui, intanto, assaporava quei momenti, talora cospicui minuti, di trance erotica, in cui tutto spariva tranne quella piccola donna con il piacere voluttuoso che gli dispensava. Questa volta, però, lei si staccò prima che lui venisse. Ormai era diventata esperta e capiva quando lui era al limite. Lui, al solito, rimaneva smarrito. Ma lei gli impediva di rimuginare su sensi di colpa con il suo scilinguagnolo gioioso e canoro e così poi il desiderio di lei lo riprendeva. Preferì ritirarsi nel suo studio. ‘Vado a leggermi dei documenti’. ‘Appena metto in forno, ti raggiungo’.
Lui uscì e il cervello di lei mulinava. Una donna bella seduce come e quando vuole un uomo, figuriamoci lei che aveva in più l’arma galeotta, ammaliante, dell’adolescenza, dell’acerbo sbocciare della femminilità. Lo avrebbe trascinato quasi naturalmente, facendogli totalmente dimenticare i suoi tredici anni, a fare l’amore con lei. Lei gli avrebbe parlato, avrebbe usato le parole come un afrodisiaco, e il modo di ostentare la sua sensualità come una calamita, un vortice vertiginoso, irresistibile, che l’avrebbe inesorabilmente risucchiato. Oggi, il suo amante, domani, compiuti i diciotto anni, il suo sposo. Che fare nell’intervallo della cottura del gattò? Scaldarlo, incalzarlo, esasperare i suoi sensi, oppure parlare, convincerlo? Lei ci sapeva fare con le parole. Lo avrebbe ubriacato con i suoi ragionamenti. Ecco avrebbe trascorso il tempo con le armi della dialettica.
‘Che cosa stai leggendo’, disse accostandosi al lato della scrivania. ‘Documenti di un processo’. ‘Posso leggere con te?’. ‘No, non puoi’, disse con un lieve sorriso. ‘Perché? Non lo racconto mica a qualcuno’, osservò lei. ‘E’ una questione di correttezza’. ‘Se fossi tua moglie, però, avrei potuto’. ‘Sarebbe stato lo stesso. Non solo non è lecito, ma non sarebbe etico’. ‘Falcone e Borsellino parlano delle loro inchieste riservate alle loro mogli’. ‘Impossibile. Nel caso di Falcone, la moglie ne è informata in quanto magistrato. Borsellino non farebbe mai leggere atti secretati alla moglie, né l’informerebbe sulle sue indagini. La moglie saprà solo che sta investigando su determinati fatti, ma non ciò che è secretato’. ‘Sono convinta che non è così: non si possono avere segreti con la donna che si ama, con la compagna della propria vita. Se non ne parla con la moglie con chi ne dovrebbe parlare?’. ‘Solo con chi è coinvolto nell’indagine: polizia, magistrati, alti funzionari’. ‘Basta, ho capito: sei incorruttibile. Ma solo nel lavoro; nell’amore no. Perché non vuoi fare l’amore con me, se mi ami come ti amo io, se lo desideri come lo desidero io?’, chiese maliziosa, mentre gli si accostava. Le gambe di lei sfioravano la stoffa del pigiama di lui. Egli allungò una mano che accarezzò la gamba di lei, appena sopra l’orlo della gonna, senza nessuna morbosità, con affetto, innocentemente. Lei gli appoggiò la mano amorevolmente sui capelli. Le sue gambe! Erano gambe di una ragazzina. Non erano come quelle già piene, ricolme, di una sedicenne o quelle già compiutamente formate di una donna. Erano sì cesellate, perfette, ma di una ragazzina. Oh, sì, lei mostrava più dei suoi tredici anni, però restava sempre poco più di una bambina. E lui l’aveva sempre considerata tale, fino a quella volta al mare. Come faceva a non ricordare che l’aveva vista nascere, l’aveva cullata, protetta tra le sue braccia, e, ora, non era in grado di proteggerla dalle sue voglie? No, non erano voglie: lui era certo che l’amava. E, se era una scusa per nascondere il sordido piacere di possederla così giovane, se fosse ubriacato dalla sua innocenza? Sì, innocenza, anche se si atteggiava a donna esperta. Perché lui gliela avrebbe dovuta rubare? Ma, era lei che lo voleva in modo così prepotente. E questo che voleva dire? Era a lui, adulto e vaccinato, che toccava farle capire. Anzi, non avrebbe dovuto nemmeno cominciare. Ma a lui era piaciuto, eccome, godere dei suoi toccamenti, delle sue masturbazioni. Forse inconsciamente era un depravato che trincerava i suoi malsani desideri con l’amore. Era così giovane da fare tenerezza! Si sentì di colpo annichilire come l’ultimo degli uomini e il sangue schiaffeggiò le sue gote, bruciandole di vergogna. Lei se ne accorse e comprese e sbiancò di paura. No, non voleva perderlo. Doveva stornarlo subito dal senso di colpa che gli aveva annegato il cuore. Lei lo voleva a tutti i costi. Doveva essere il suo futuro sposo.
‘Che cosa ho di diverso da una donna più grande di me?’, chiese con la voce alterata, tremolante. ‘Se avessi vent’anni sarei forse più credibile nel dirti il mio amore, più di quanto non lo sia adesso? Non credi che una donna adulta possa essere molto più accorta e smaliziata per averti di quanto lo possa essere io, da sempre innamorata di te? O forse sono meno bella di quanto lo è una diciottenne? E’ la maggiore età che ti turba? L’amore si misura in anni, mesi e giorni? Tu credi che il mondo sia migliore oggi, perché più vecchio. Pensi davvero che due aborigeni, se si amano, lo fanno con minore intensità ed ardore dei navigati occidentali? E, se fossimo soli in un’isola deserta e fossi cresciuta con te, giunta a questa età, ti saresti reso conto dei miei anni? Certo che no, e i miei desideri e il mio amore sarebbero stati anche i tuoi. Le mie lacrime, la mia disperazione, così come la mia gioia, la mia felicità, credi che abbiano dimensioni diverse da quelle di un’adulta? Non è così e lo sai. La tua sofferenza di ragazzo è stata intensa come quella che ti capita oggi. Sull’altare di quale etica ti dovrei perdere? Mandiamo in galera un quarto del mondo, dato che in esso un uomo può sposare una tredicenne? Il desiderio che hai per me è meno carnale di quello per una donna adulta? Tu ti rispondi che per questa sarebbe corretto, no nei miei confronti. Forse che una perla più piccola, un diamante più piccolo è meno prezioso e meno appetibile di uno più grande? Li butteresti? Io sono il tuo diamante, la tua piccola perla che è incastonata nel tuo cuore. Come faresti a strapparla, senza farlo sanguinare. Saresti capace di non vedermi più? Perché una cosa è certa.: se tu mi respingessi come donna innamorata, non puoi avermi accanto come Mara, la ragazzina di sempre, che tenevi sulle tua ginocchia. Io ne morrei, ma di te che ne sarebbe? Non ti si strapperebbe il cuore? E, allora, che senso ha soffrire, morire, d’amore tutti e due per la paura degli altri o per un attentato alla mia innocenza? Dove vivi Fabrizio? L’innocenza non esiste più dopo il peccato di Eva. L’ignoranza, ti concedo l’ingenuità, non l’innocenza. Figurati, poi, l’innocenza di un’adolescente, che quotidianamente vede e ascolta quanto di più osceno ci possa essere. Il nostro amore è pulito perché è vero, perché si basa su un affetto incommensurabile e disinteressato. Quanti ragazzi potrei avere io: uno scocco di dita e si butterebbero famelici su di me. E tu? Quante donne potresti avere, se volessi, come le hai avute? Se siamo insieme, non è perché ci manchino le possibilità, non è per fame di qualcosa che non abbiamo, ma fame di noi stessi, della nostra sublime carnalità d’amore. Perché, vedi, l’amore è sintesi del corpo e dello spirito, è ebbrezza dell’anima e del corpo. Se fossi adulta e un po’ oca, nemmeno mi noteresti. O, meglio, avresti sì affetto per me, come una figlia putativa, ma mai come per una donna che si ami. E’ vero che volere bene e amare dovrebbero coniugarsi e, nel nostro caso si coniugano, ma sono due cose diverse. Tu puoi volere bene a una donna senza amarla e viceversa. E se l’ami, ti incateni a quel corpo, ti distruggi per quella persona, ti danni l’anima e la mente, ma non ci puoi fare niente. E’ come una malattia per cui non c’è medicina che possa guarirla. Ne devi per forza convenire. Io capisco la tua paura. Tu avresti tutto da perdere, oltre me, se ci scoprissero, ma la vita è così breve e siamo tanto fragili – una goccia d’acqua andata di traverso ci può uccidere, – che vale rischiarla per il sentimento più bello e più potente che madre natura ci abbia regalato, l’amore. Guarda il nostro futuro: dopo che avrò superato i diciotto anni, dopo venticinque anni di matrimonio, ripercorreremo questi momenti e ricorderemo i nostri smarrimenti e le nostre paure, ma con tenerezza e tu mi amerai come e più di oggi e io mi rifugerò tra le tue braccia come lo faccio adesso, perché ti amerò come e più di oggi. No, non rispondere nulla. Medita quello che ti ho detto. Poi, nel pomeriggio, quando ci sederemo insieme sul nostro divano e io ti bacerò le labbra con tutto il trasporto del mio cuore, allora, solo allora potrai decidere e parlare’.
‘Se l’ami ti incateni a quel corpo’, gli aveva detto. Aveva colpito in pieno. Incatenato! Lui era avviticchiato a lei in modo inestricabile. Gli vennero in mente i versi di Catullo:’Perché, quando i miei occhi si inebriano della tua figura, Lesbia, la voce mi si arena nella strozza, la lingua si atrofizza, un rivolo di fuoco scorre sottile dentro ogni midollo e un suono inesprimibile, ostinato, i miei timpani tormenta’. Un fuoco, una febbre, una sorta di oro fuso colava dentro le sue ossa, le sue vene, quando si abbandonava sul suo petto, la stringeva tra le sue braccia, quando le sue mani incontravano la sua pelle, carpivano i suoi seni, sfioravano il suo grembo. Come ora. Lei nell’empito della discussione gli si era addossata più vivamente sulla gamba. E, senza che ci facesse caso, la mano di lui si era stretta sulla parte esterna della coscia e aveva seguito il climax della sua accesa argomentazione. Sarebbe stata un’ottima avvocatessa, la parte ultima della perorazione era perfetta. Oh, sì che avrebbe potuto risponderle subito, Ma aveva ragione lei: doveva riflettere, o, forse, era più vero che non voleva più pensarci, almeno per un po’. Godersi solo la sua deliziosa presenza e poi gustarsi il suo pranzo. Alzò gli occhi verso i suoi e soltanto allora si accorse che la mano era risalita sulla coscia di lei oltre il lecito. Indugiò qualche minuto e, divorato dal fuoco, risalì fino a incontrare lo slip, le labbra umide e calde del sesso sotto la seta. Oh, la voglia, la voglia di serrare quel grembo, bearsi della sua voluttà! Era lascivia febbrile o desiderio assordante di un uomo irrimediabilmente innamorato, ma forse dannato all’inferno? Si staccò di botto da lei e si alzò. ‘Andiamo in cucina a sentire il profumo’: Lei lo guardò inquisitrice, gli zigomi infiammati. Lui la prese per la mano e la strinse a sé con trasporto, accucciandola dentro di sé per sentirne il tepore, il profumo, la femminilità e a un tempo quasi volesse proteggerla. Da chi? Da se stesso. La baciò sui capelli e, insieme, si incamminarono verso la cucina.
In tutto il tempo che stettero lì, e poi pranzarono, attesero solo a lanciarsi sguardi innamorati, a parlare delle frivolezze più svariate, a scherzare e a sorridere. Mentre mangiavano ‘ il gattò non era male, – rimanevano talora in silenzio dei minuti lunghissimi, trafugandosi negli occhi o perdendosi in essi. Chissà, si trovò a pensare lui, forse era il desiderio di una figlia come Mara che lo portava a confondere l’affetto immenso che le portava con il desiderio carnale di lei. Ma non poteva anche essere la paura di perderla? Lui, prima dell’episodio del mare, non aveva avuto nemmeno il più remoto pensiero sessuale su di lei. Fu in seguito, e per il fatto che lei si era spinta per prima in certi atteggiamenti, che aveva incentivato le sue effusioni erotiche. Lui, infatti, non si era sottratto. Anzi, le assaporava con avidità. E, poi, in che modo avrebbe potuto respingerla? Dicendole di smetterla. Non era pensabile: l’avrebbe ferita a morte. Che era opportuno aspettare che diventasse maggiorenne o almeno compisse i sedici anni. Convincere Mara su qualcosa che aveva programmato e deciso! Era volitiva, quanto passionale, in modo titanico. L’unica soluzione era il ricatto di non frequentarla più. E come l’avrebbe giustificato con i suoi amici? Avrebbe potuto creare il sospetto che ci fosse qualcosa, mentre non c’era nulla. E, poi, vedere Mara di colpo distrutta, che non mangiava o dormiva più e lui costretto a diradare la frequenza! No: era impensabile! Che fare? Non poteva nasconderlo a se stesso. Ne era innamorato, pazzamente. Ma, aveva altrettanto una paura folle. Se li avessero scoperti, l’avrebbe comunque persa e la sua vita sociale e professionale cancellata per sempre. Una scelta di vita, la chiamava lei? Quale: quella verso il paradiso o l’inferno? Perché non si voleva convincere d’aspettare? Lui, se lei non facesse l’impossibile per farlo capitolare ‘ ché sapeva che avrebbe capitolato, lo sapeva per certo,- lui avrebbe di sicuro aspettato fino alla sua maggiore età. Poi, magari, si sarebbe messo contro il mondo intero, se lei l’avesse ancora amato, per sposarla. Ma non c’era più il terrore di essere accusato di violenza su minore. Perché, il fatto giuridico era questo: violenza su minore. Lei avrebbe potuto gridare a squarciagola la sua condiscendenza, il suo sconfinato amore per lui: l’avrebbero mandato in galera senza remissione di peccati. Ma come potere resistere a quello scrigno di bellezza, intelligenza, freschezza, soavità e un’esplosione di sensualità e di erotismo. Quando lei scopriva il pube appena velato dalle mutandine, rivelando il turgore del suo inguine pubescente, a lui venivano le contrazioni allo stomaco, le vertigini, e il desiderio di annegare il suo viso su di esso diventava incontenibile. Come avrebbe potuto resistere a una seduzione così prepotente? Convincerla, ci avrebbe provato? Non seppe darsi una risposta. La guardò e le sorrise. E lei lo avvampò con il suo sguardo.
Finito di pranzare, lei aveva rigovernato. Non volle essere assolutamente aiutata. Una vera e propria donna di casa, così si era voluta proporre. Lui si recò nel salone, infilò una cassetta nel mangianastri, e cominciò ad ascoltare un po’ di musica. Canzoni anni settanta. Dopo un po’ lei arrivò e si sprofondò sul divano. ‘Vuole ballare, signorina?’, fece lui sorridendo avvicinandosi e allungandole la mano. ‘Certamente, signore’, si alzò lei prontamente,
Lui stava per condurla in modo classico – portamento impeccabile,- lei, invece, lo allacciò per le spalle, facendosi stringere per i fianchi. Qualche istante dopo era abbandonata sopra il suo petto, tutta incollata languidamente su di lui, sussurrandogli di tanto in tanto, sollevando lo sguardo, ‘io ti amo’. Poteva essere addebitata a lui la colpa, se il bacino di lei, amalgamato col suo, gli infiammava persino i testicoli? Come faceva a ricordare contemporaneamente che era una tredicenne e una deflagrazione di erotismo? Sottrarsi, poteva sottrarsi. Ma si è visto mai un cobra sottrarsi al suono di un flauto? Il suo cobra inarcava la testa sempre più imperiosamente. Ma, questa volta era lui che non voleva venire. Non voleva che quell’atmosfera così romantica e sensuale a un tempo fosse stracciata dalla cappa plumbea e depressa che calava sul suo cuore subito dopo lo spasmo dell’ eccitazione. E, così, la staccò da sé, dicendole: ‘Ci sediamo sul divano? Niente più musica. Voglio ascoltare il tuo silenzio e il tuo profumo, ti voglio vedere sdraiata con la testa sulle mie gambe, mentre io mio godo l’ovale del tuo viso, le tue labbra che tremolano, i tuoi occhi reclinati che barbagliano come stelle dalle feritoie delle palpebre’. Lei non rispose nulla. Si lasciò portare sino al divano, ma non si sdraiò. Diversamente dal solito, si sedette alla sua destra, Lo fissò con uno sguardo implorante di passione, poi, con le labbra che vibravano, le narici che fremevano, prese la mano sinistra di lui e l’attirò sul suo inguine. Lui non se lo aspettava e, anche se avesse voluto tirarsi indietro, fu così repentino l’atto, che non ne avrebbe avuto il tempo. La mano sopra la sua più grande, lo costrinse a strofinarla con un lento saliscendi sul suo sesso. E lui ne avvertì la bruciante, umida turgidità. Era annichilito, il cuore gli esplodeva nel petto. Mareggiate torreggianti si scontravano nella sua mente. ‘Amami’, sospirò lei con la voce roca, ‘amami, ti voglio’, mentre si agitava fremente sul suo petto. Ormai lui non pensava più. La sua mano scorreva sull’intimità di lei senza che fosse più forzata. Era solo un uomo che impazziva dal desiderio di una donna. Era Fabrizio perdutamente rapito dalla passione per Mara. Un maschio e una femmina nel turbinio dei sensi. Lasciò il suo grembo, la prese per le spalle e la sua bocca si adagiò su quella di lei, che rispose pronta, assetata, vogliosa. Fu lei prima a cercare la lingua di lui. No, non era il bacio di una ragazzina che mimava la donna. Era spontaneo, della femmina che aggrovigliava il fuoco della passione con quella del suo uomo. Era un bacio agognato da mesi, forse da anni, da quando aveva capito cosa significava essere donna. Le loro bocche si cercavano affannate, inesauste, avide. Una furia, che sembrava non volersi placare. Un momento di sosta. Lei era come schiantata dall’empito stesso della passione. E si distese nuovamente sul suo petto. Nuda, lui, ora, la voleva nuda, la desiderava nuda. Il suo seno: esserne abbagliato come quella volta al mare, che, da allora, non aveva visto più in tutto il suo splendore; il suo armonioso, bellissimo corpo di silfide, e quella macchia dorata, che spolverava la sua intima femminilità. Tutto questo ad ubriacare i suoi occhi, la sua bocca, le sue mani. Allungò quasi allucinato la mano verso la camicetta.
IV
Erano trascorsi venticinque anni dal loro matrimonio e trenta dal quel giorno, dal primo giorno in cui avevano fatto l’amore, in cui lui biblicamente la conobbe. E quella prima volta era rimasta indelebile nei suoi ricordi. Fu come si erano promessi. Ogni giorno si erano amati come più del giorno precedente. Avevano generato quattro figli: due studiavano all’estero, altri due ancora a casa. Abbandonata su quello stesso divano lei, accanto a lui, ripassava nella mente tutti gli istanti di quel primo travolgente rapporto. E, come in un film, si rivide, quando lui bruciante di desiderio, raggiunse con la mano tremante il suo seno. Ricordò come da mesi lei si fosse preparata a quel momento. Aveva fatto incetta di film porno, di libri che trattavano di educazione sessuale, in cui era descritto come fare provare il massimo del piacere a un uomo o a una donna. Tutto quello che aveva imparato ora lo poteva mettere in pratica. Ricordò il suo cuore che pulsava all’impazzata, quando lui raccolse il suo seno sopra la camicetta, e quando gliela sbottonò. Quando il suo seno nudo si ritrovò imprigionato dalla mano di lui e quando lei, agognante, aveva subito cercato il sesso di lui, prima sopra la stoffa e poi dentro il pigiama. E lo trovò e, famelica di desiderio, vi si abbarbicò, quasi fosse un tronco alla deriva su una rapida fiumana a cui aggrapparsi. E lo schianto che fece il suo cuore. E la mano di lui che si bloccò sul suo seno e tutto lui che sussultò. Era piaciuto incommensurabilmente a lui quella conquista del suo pene. E lei voleva vederlo ormai da vicino quel maglio di carne, voleva vederne il caldo schizzo d’argento, lo voleva sentire raggrinzire e poi rigonfiarsi nella sua mano, masturbarlo come aveva visto nei film, così come suggerlo fino a fargli sgorgare il nettare e irrorare la sua bocca. Oh, sì. Era una curiosità tutta femmina. L’invidia del pene! Può darsi. Sicuramente era una curiosità irrefrenabile al limite dell’ossessione. Il cazzo, il cazzo: voleva finalmente poterlo farlo suo, aizzarlo, coccolarlo, esasperarlo, incentivarlo in tutte le sue sfumature e sempre nelle sue mani. Si sentì come se si fosse impossessata dello scettro di un reame favoloso. Si ritrovò quasi meccanicamente a masturbarlo. Ma lei lo voleva vedere da vicino, non così nascosto dentro il pigiama. ‘Lo voglio’, gli disse con un soffio bruciante. ‘E’ mio’. E capì, dal corpo vibrante di lui, che quella frase lo aveva eccitato profondamente. La riprese per le spalle e cercò la sua bocca e fu un altro bacio appassionato, frenetico, violento, come se tutti e due si volessero suggere l’anima, mentre la spogliava. Poi, lui si alzò e la prese, sollevandola, tra le braccia per portarla nella sua camera da letto. E lei vi si abbandonò calda e fremente, sconvolta dalla febbre del desiderio e della passione.
Nudi entrambi sul letto. Lui, le mani dietro i suoi glutei sollevati verso il proprio viso, la sorreggeva, mentre con la lingua sfregava e baciava le sue piccole labbra, ne insinuava la lingua a cercarle lo stigma del piacere. Lo trovò e su di esso si accanì con golosità fino a farla schiumare di piacere, a farle mancare il cuore. Non aveva immaginato un godimento così esarcebante, devastante, insopportabile. Lei aveva provato il piacere solitario e il sottile, delizioso appagamento, ma non questo sentirsi morire di gaudio. Quella lingua che lappava il suo clitoride, che scorreva sulle piccole labbra che s’ insinuava nella sua vagina, la faceva inarcare, smaniare allo spasimo, cadere in deliquio. Ora capiva cosa significava orgasmo, non era quello provato nel suo lettino o quando faceva petting con lui. Era tutt’altro: qualcosa che ti demoliva ogni barlume di volontà con un piacere senza confine, che ti abbatteva con la forza di un ciclone dei tropici. Forse era questo il peccato della progenitrice, un piacere così parossistico da intaccare o travolgere l’anima. Il piacere della carne, che marchiava la purezza dell’anima. E la sua anima stava naufragando in un oceano senza confini di piacere puro sino allo sfinimento, ai confini della morte. Non capiva più se faceva pipì o erano laghi di orgasmi continui. Sapeva che era tutt’uno con la lingua, la bocca di lui, che non si saziava della rugiada straripante della sua intimità verginea. Poi lui la riappoggiò sul copriletto e baciandola, cominciò a percorrere ogni angolo della sua pelle, dal suo pube fino a raggiungere i suoi piccoli seni. E fu ancora un diverso, ma sempre voluttuoso martirio. Era come se avesse voluto strapparle il latte dalle cellule più nascoste delle sue ghiandole mammarie, da farla soffrire, da fargliele dolere con una delizia sublime e, nel contempo, da sprigionarne marosi di voluttà suprema. Quindi, la tempestò di baci sommergendola di gridati ‘ti amo’, con gli occhi che ridevano di gioia estatica. Poi, fu la sua volta alla ricerca di quella maschia potenza. E i genitali di lui divennero una sinfonia erotica. Lei armeggiò con essi da renderlo ipersensibile, al minimo tocco, all’eccitazione più sottile. Vi si trastullò fino allo sfinimento, fino a quando lui finì per compendiarsi tutto in essi: egli diventò solo i suoi genitali. I film porno erano stati ottimi ispiratori. E finalmente lui la penetrò. Quei momenti così disperatamente attesi e voluti erano vergati a fuoco nella sua mente. Lui aveva ripreso ad accarezzare il suo sesso, a vellicarlo e a penetrarlo con le dita senza infrangere la diga della sua verginità, aveva forzato con la punta della lingua e con le dita il suo orifizio anale, che lei da un mese ‘ secondo le descrizioni del libro ‘Histoire d’O’ – aveva preparato, rendendolo appena appena più largo, perché lei non soffrisse, ma potesse godere quanto lui. Quel continuo ruotare della lingua e delle dita nell’imbocco della sua vagina, quello sfregare la punta del suo glande, o farla scorrere, sulla sua vulva, penetrandola appena, l’avevano esasperata da non sopportarlo più. Era ora una smania intollerabile, una voglia irriducibile, da impazzire. Lei voleva essere penetrata, voleva quel cazzo, il ‘suo’ cazzo, dentro di lei, nella sua fica, una volta, dieci, cento volte, e poi nel suo culo, nelle sue mucose più strette. Lo supplicò di prenderla, lo implorò, si mise a piangere, tanto stremata dal desiderio implacabile, mentre la sua intimità continuava a spicciare copiosamente il suo miele, che lui avidamente beveva. Lo graffiò, lo tirò per i capelli, diventò volgare perché lui la possedesse. E non capiva se non lo faceva, perché la voleva portare all’esasperazione del piacere, al suo annichilimento, o non voleva farlo, perché, in un remoto posto del suo inconscio, fluttuava un senso di colpa per la sua giovanissima età. ‘Ti prego, entra dentro di me, scopami, se non vuoi farmi morire. Non puoi, saresti odiosamente perverso, se non mi facessi tua. Scopami, scopami, sto impazzendo’, disse spezzata dalla passione e dalla voglia incoercibile di sentirlo dentro di sé. E’ da un mese che prendo la pillola, capisci! La pillola, io che non sapevo che cosa significasse fare l’amore, che avevo visto il cazzo solo nei film. Come fai a negarmi questo, di essere tua? Se mi ami, e non sono solo un trastullo di piacere proibito, entra dentro di me, fammi tua’. Lo baciò, il volto rigato di lacrime, bruciante di desiderio, mentre con le piccole mani stringeva il sesso di lui tirandolo verso l’ingresso bramoso della sua intimità. Lui la spinse dolcemente sul letto, sollevò le natiche di lei sulle sue cosce, prese il suo membro, mentre la guardava appassionato negli occhi, e lo portò a ridosso della sua vagina. Lei avvertì la punta del glande sgusciare tra le piccole labbra e cercò di spingersi in avanti per provocarne l’ingresso pieno. Ma a lui piacque ancora farla aspettare per qualche minuto. Lo ruotò dentro di lei fino all’imene, lo riuscì, lo fece scorrere lungo tutto il solco della sua vulva, finché la sentì per l’ennesima volta prossima all’orgasmo. Allora, con un colpo secco la penetrò. Non avvertì il dolore dell’imene che si lacerava, così intenso era il desiderio di lui. Si abbarbicò con le gambe alla sua schiena, mentre lui andava e veniva dentro di lei, sempre più veloce, sempre più veloce, Poi, fu un singulto, un tremito convulso: il piacere le schiantava il cervello. Godeva, godeva sino allo spasimo. E, infine, lui venne, torrido, nella sua aulente grotta e, sussultando, cadde riverso sul corpo di lei, sfinito, schiantato. Fecero l’amore l’intero pomeriggio. Poi, lui con una voce d’oltretomba sospirò: ‘Mi stai uccidendo di piacere. Ma che m’importa, muoio ripieno di te, in estasi. Addio, mia principessa’. Non l’aveva mai chiamata principessa e quella voce non sembrava quella di un uomo in estasi, ma agonizzante. Comprese che lo aveva esaurito, che lo stava uccidendo a furia di farlo eiaculare. Si era accorta che dalla piccola bocca del glande non usciva più nulla ad ogni orgasmo. Non si poteva fare l’amore all’infinito. Forse una donna poteva: un uomo no. ‘Amore mio, tu mi devi ancora fare gioire per decenni e decenni, altro che morire. Ecco, sono davvero una bambina a non accorgermi che il piacere è tale solo se si attinge un poco alla volta. Non lo dire nemmeno per scherzo! Stupido, tu devi vivere per me e con me, amore mio grande, perché io ti amo, ti amo, ti amo’.
Endimione
Mamma mia ruben, mamma mia... Ti prego, scrivimi a gioiliad1985[at]gmail.com , mi piacerebbe condividere con te le mie esperienze…
ciao ruben, mi puoi scrivere a gioiliad1985[at]gmail.com ? mi piacerebbe condividere con te le mie esperienze...
Davvero incredibilmente eccitante, avrei qualche domanda da farvi..se vi andasse mi trovate a questa email grossgiulio@yahoo.com
certoo, contattami qui Asiadu01er@gmail.com
le tue storie mi eccitano tantissimo ma avrei una curiosità che vorrei chiederti in privato: è possibile scriverti via mail?