Cammino in equilibrio precario sopra un filo di sputo, mentre la notte m’avvolge di pena e decenza. Ho pietà di me, di questa donna che m’assomiglia come dentro uno specchio, e che affoga dentro notti senza alba e cartoni di vino, pensando ad un nome da dare al suo amore che informe s’aggira senza nessuna sostanza. Un nome, un nome soltanto che schiarisca la notte di luce e speranza, e colmi quel vuoto che altrimenti è impossibile riempire. E vomito rime sentite qui e là in qualche bettola di cuore, sui detriti di questa notte che m’illumina di fari e mi trancia i vestiti. Un nome, solo un nome soltanto, che intercali i miei sogni, che mi dia la forza qui alle 2 di mattina quando quattro pezzi di legno sono bruciati in fretta ed in fumo, come le venti sigarette dentro i miei polmoni che in astinenza tossiscono catarro e fanno vapore. Ed il freddo mi spacca la pelle e m’inaridisce il nome che non riesco a trovare, m’arrossa le cosce e s’infila come maschio nelle pieghe del mio sesso disfatto. Perché senza riparo, perché senza mutande che qualcuno m’ha strappato, perché dilatato dalle tante misure che ha dovuto cullare. E ora lo metto in culo alla luna che romantica m’avrebbe voluta rincoglionita d’un uomo, fregata per la vita da un amore che passa in un mentre e ti lascia un vuoto e dei figli e tante pene che non sai dove riporle. E il vento mi gela la gola e schiaccio come ombre sotto i lampioni il ricordo di mio padre che non riesco a scacciare e rimane incollato nel cuore, nella mente e nella fica che schiere di maschi non hanno saputo cancellare. L’immagine scontornata che al buio mi cercava e mi fotteva di santa ragione e senza ragione, mentre mia madre dormiva sicura, sicura che il proprio uomo l’avrebbe ritrovato, al risveglio, nel proprio letto. Ho pianto l’unica volta che mi sono negata, solo perché al mattino mia madre non m’aveva guardata in faccia e perché da quel giorno non avrei più respirato quell’aria di casa, quell’odore di gerani sul davanzale che allontanavano zanzare e occhi indiscreti. Ma era bella mia madre! Con la morte nel cuore ho accettato la sua fragilità, attaccata a quell’uomo come ad una bombola d’ossigeno, avviluppata alla sua miseria come un suicida al tubo del gas. Me la ricordo magra magra ridotta a carta velina che mi portava nel suo grembo a punta sfacciatamente lievitato. Mi sono più volte chiesta come quaranta chili potessero sopportare quel peso, come diciassette anni fossero predisposti a darmi la vita, come quel corpo esile potesse ancora arrancare tra i filari di panni stesi. Galleggiavo intorbidita dal suo fumo e nei suoi tormenti, in trepida attesa di me e di lui che sono costretta a chiamare padre e la sentivo piangere lacrime di liquido di ventre e di dolore di ossa infiammate dall’umidità dei lavatoi. Me la ricordo mia madre, in quel rimbombo di suoni e parole che già mi chiamava Eva, perché nei suoi sogni ero bella, perché impura, perché diva, perché infelice a sua immagine e somiglianza. M’ha sgravata in un giorno d’aprile che buttava giù neve, le ho sorriso e per l’unica volta ha fatto altrettanto. Ed ora, appoggiata alla mia solitudine mi sento libera, libera di essere puttana, libera da dio che m’ha creata da quel ventre e da quello sperma che ancora riconoscerei il sapore, e m’ha condannata prima di nascere sapendo già in quale cesso di mondo sarei finita, su quali margini di strada avrei continuato a tenermi in piedi. Libera dalla religione che m’ha inculcato famiglia e dolore, sacrificio e sopportazione, e s’inchina ai potenti, come me che non vedo uno squarcio di cielo quando sputo saliva e li soddisfo di bocca. Libera dagli ipocriti che vorrebbero vedermi lontana da questo marciapiede, lontano dalle malattie che sempre in agguato mi spaventano davvero, lontana da queste cosce che si spalancano come porte a vento ed invitano sessi erranti di qualunque colore, credo e misura che nel mio ventre ritrovano alcova e rifugio, funzione e vanto d’essere ancora dei maschi. Sono vergine! Vi prego, non ridete! Non è del mio sesso che sto parlando e men che meno del mio culo che per sopravvivenza sono costretta a comprendere nel prezzo. Sono vergine di cuore perché ancora non ha mai battuto per un uomo e magari potrei adesso, innamorarmi subito, se magari mi venisse in mente un nome, un nome da chiamare, da rimanerci in pensiero. E nel sogno l’immagino bello e sfamo i suoi occhi e vizio le sue mani che m’accarezzano l’ansia e mi sfiorano i contorni. E nelle sue braccia sgranerei le mie storie come bombe in Medio Oriente, come mai ci ho provato fin d’ora, come mai adolescenza torbida s’é coperta di rossetto mentre il suo sesso si fa duro e mi domanda, sicuro che me lo chiede, come si vive addosso ai muri, cosa si sente tra le cosce madreperla quando un cazzo anonimo risale la corrente. Ed inesperto tocca i miei seni gonfi di gomma e di bugia e si sazia del mio culo che sfacciato s’allarga preparandogli il percorso. Perché tanto non troverei di meglio e di meglio non saprei che dargli. Ora sta iniziando a piovere, e mi bagno. Perché senza riparo, perché senza ombrello, perché senza quel nome che avrebbe spazzato via nuvole e pioggia. E lungo il corso dell’abitudine rimango in attesa, sbadigliando alle ombre che passano impalpabili, ed è tutto banale come il vento che soffia o l’acqua che bagna, ed è tutto scontato come il finestrino che s’abbassa ed i servizi che offro secondo tariffa. E mi concedo a quell’uomo che mi offre il giusto compenso che il mercato ha deciso e che la sua voglia stanotte non può fare senza. E salgo in macchina e lo scaldo strada facendo fino ad un anfratto, dove comodo s’accomoda nelle cosce capienti e mi centra quel buco senza bisogno di luce o parvenza d’amore che il silenzio non chiede. Soltanto uno sterile gemito, m’accorgo o mi pare, quando scarica rabbia e mi riempie di voglia e d’aria, come una zampogna piena di musica, come una pancia quando stai male. E guardo la luna che m’illumina mignotta e vorrei domandarle cosa si prova soltanto a guardare. Quale invidia si prova senza farsi riempire, come un secchio capiente sotto la pioggia, come bocca che ingoia trattenendo sapore. Spavalda la fisso, ma non mi faccio plagiare. Indolente e smielata circuisce attenzione di poveri amanti che rapisce a bocca aperta. Proprio come la mia, che piena di sesso ha poco da parlare mentre ingurgita aria e sbava saliva. La vedo che sospira, che vorrebbe essere al mio posto, fottuta da dietro col sentimento accanto che dorme e giace, e senza fiatare si guarda, riflette e cola piacere, proprio come me, cagna in calore, montata allo specchio E poi tutto d’un tratto tutto finisce, s’affievolisce in un niente l’energia di maschio che solo poco prima s’illudeva di farsene cento, davanti o di dietro e dentro ogni buco di femmina od altro che la notte può offrire a cosce spalancate. Ore d’attesa e poi solo pochi secondi, neanche il tempo di lasciarti l’odore, di risentire il bruciore che il preservativo ha creato, di ridisfarti le labbra che nello specchietto sono ridiventate come nuove, intatte e pronte per un altro passaggio. E mi scarica senza neanche un saluto, molle di sesso e vuoto nel cervello con un solo leggero senso di colpa pensando alla madre o alla moglie che a casa l’aspetta. E passeggiando rapisco occhi avidi alla notte, come gioielli in vetrina spalanco i miei seni, rigogliosi e abbondanti, sicuri di farsi succhiare ancora una volta, di essere ciuccio zuccherato per la prossima bocca infantile d’adulto. E lo metto in culo alla luna che ancora m’illumina per farmi apparire indecente, per farmi più troia di quanto il rumore dei tacchi non dica, che colpiscono asfalto, uccelli ed orecchi di quelli che in attesa fanno la fila.
E tra la fila lo vedo e tento di chiamarlo. Un nome, un nome soltanto che mi rapisca il cuore lasciandomi intatto il resto e che mi porti lontano dove domande, perché e come mai, non sono più ammessi. Ma ho paura che essendo notte sia un sogno soltanto, che l’alba appiattisca questi occhi profondi che mirano al cuore e suppliscono carenze di fede e d’amore. Come se in cielo non fosse rimasto che niente, come se la luna non fosse sole domani o come se questa pioggia non bagnasse un bel niente. E mi mordo le mani per sentirmi più sveglia, per vederlo più vero fuori dal sogno che si avvicina e non chiede tariffa e cerco di stringerlo perché non sia evanescente, perché da un momento all’altro non rimanga che vuoto. E m’aggrappo alla voce che vera risponde, che domani è già oggi e non può essere altro. Ma ho paura che il giorno mi sorprenda di nuovo da sola, in un letto disfatto ancora nel sonno, che la notte finisca e domani sia giorno, un giorno normale aspettando la notte. Una notte di sogno, di luna e lavoro, dove il nome che ho in mente non chiami nessuno.
grammaticalmente pessimo........
Ciao Ruben, sei un mito! Hai un modo di scrivere che mi fa eccitare! La penso esattamente come te. Se…
Ti ringrazio, sono felice che ti piacciano. Vedremo cosa penserai dei prossimi episodi, quando si chiuderà anche la sottotrama di…
Davvero molto bello. Piacevole come gli altri e decisamente pregno di sentimenti espressi senza risultare melensi o ripetitivi. D'impatto leggiadro,…
Come ti ho detto, in pochi e poche sanno sa scrivere in maniera così eccitante sia dare un senso ad…