Andavo a sposarmi.
Ero meno emozionato di quanto potessi aspettarmi.
Il viaggio era abbastanza lungo, e temevo che i pensieri che certamente m’avrebbero assalito non mi avrebbero fatto riposare, a differenza delle altre volte nelle quali, invece, dormivo tranquillamente, cullato dal dondolio del treno.
Pochi i viaggiatori fino a Trieste Campo Marzio, poi in taxi fino alla Stazione Centrale. Un salto al buffet per mangiare qualcosa, acquisto di una rivista, per leggere durante le lunghe ore prima di giungere a destinazione, e quindi al treno. Vettura di prima classe, semivuota. Il terzo scompartimento, poi, era vuoto del tutto. Mi sistemai in angolo, vicino al finestrino, direzione di marcia.
In effetti, i tempi non incoraggiavano i viaggi. Alle notevoli ristrettezze di tutti i generi, si univa il pericolo concreto e immanente dei bombardamenti aerei.
Il primo pensiero fu proprio quello.
Periodo di guerra.
E noi, Renata ed io, che avevamo deciso di sposarci. C’era molta incoscienza giovanile. Nessuna ragione per affrettarci tanto, né l’età, né eventi che lo imponessero. Solo desiderio di stare insieme, di avere una famiglia tutta nostra. I genitori, poi, non avevano sollevato obiezione alcuna.
Se volete sposarvi, sposatevi.
Due giorni dopo, il 15, era la data prescelta.
La mia meditazione fu interrotta dalla porta che si apriva.
Entrò un signore anziano, seguito da una donna, giovane ed abbastanza elegante. Si fermò sulla porta.
‘Scusi se la disturbo, tenente, sono indiscreto se le chiedo dove è diretto?’
‘Nessun disturbo, vado a Roma.’
‘Grazie.’
Prese il bagaglio della donna e lo mise sulla reticella, fece sedere la viaggiatrice di fronte a me.
‘Sa, tenente, di notte, di questi tempi, sapere che mia figlia viaggia con un ufficiale è sempre motivo di tranquillità. A Roma la verrà a rilevare alla stazione mio fratello.’
Si voltò alla giovane signora.
‘Buon viaggio, Nina.’
La baciò, fece un cenno di saluto, scese, si fermò sotto il finestrino al quale Nina s’era affacciata mettendo bene in evidenza le sue rotondità. Proprio sotto al mio naso.
L’occhio la esaminò attentamente.
Belle gambe, seno prosperoso e a quanto si vedeva ben sodo, curva delle natiche apprezzabilissima ed attraente.
L’età, il regime di vita che m’ero imposto negli ultimi giorni, e la fantasia, contribuirono a far sorgere nella mente pensierini che alla vigilia delle nozze avrebbero dovuto non nascere.
Era giunta l’ora della partenza, il treno si mosse, lentamente.
Nina ‘ormai conoscevo il nome perché il padre l’aveva chiamata così- tentò di chiudere il finestrino, ma non ci riuscì. Mi alzai per aiutarla e col braccio sfiorai il seno. Confermo, era bello tosto.
Sedemmo, con un sorriso di circostanza che ci faceva apparire abbastanza sciocchini.
‘A che ora dovremmo arrivare, tenente?’
‘L’orario previsto è alle otto di domattina, sperando che convogli militari od altro non ci facciano ritardare troppo.’
‘Lei va in licenza?’
Non avevo nessuna intenzione di dirle che ero in licenza matrimoniale, che andavo a sposarmi. Fui vago.
‘Si, in licenza. E lei come mai va a Roma, dall’accento non è romana.’
Sorrise. Questa volta con espressione diversa, un po’ triste ma incantevole.
‘Infatti, sono triestina. Vado a Roma per cercare di avere notizie meno vaghe di quelle che ho potuto raccogliere a Trieste. Su mio marito, è tenente di vascello su una nave militare. Non riesco a sapere nulla, da qualche mese, né ricevo notizie. Andrò direttamente a Supermarina, dove c’è un amico di mio marito, sbarcato perché convalescente per una ferita riportata in combattimento.’
Era pensosa, e con un velo di tristezza nei suoi occhi.
Si alzò per prendere la borsa da viaggio che, unitamente a una piccola valigia, era sulla reticella.
Le braccia alzate evidenziarono le forme seducenti della sua persona. Fui dietro di lei, per aiutarla.
Anche per aiutarla, ma soprattutto per altre intuibili ragioni. Presi la borsa, la deposi a fianco a lei che, intanto, si era riseduta, senza curarsi troppo di dove giungeva la gonna.
Aprì la borsa, estrasse un termos, ne svitò il tappo metallico, a forma di bicchiere, poi tolse quello di sughero e versò del caffè.
‘Ne gradisce un sorso?’
‘No, grazie.’
‘E’ caffè purissimo,lo assaggi.’
‘Comunque, dopo di lei.’
Bevve, stava per prendere un fazzolettino per togliere dal bordo del bicchierino metallico le lievi tracce del rossetto. La fermai con la mano.
‘Lasci stare, andrò poi a lavare il bicchierino. Solo un sorso, grazie.’
Versò il liquido, mi porse il bicchierino. Volevo assaggiare il suo rossetto, almeno così’ per il momento. Bevvi dove aveva bevuto lei.
Sorrise ancora.
‘Adesso conosce tutti i miei pensieri.’
‘Per questo ho desiderato bere dopo di lei, e anche per non svelarle i miei.’
‘Sono così brutti?’
‘Per me no, ma non so come potrebbero essere accolti.’
Mi alzai per andare a sciacquare il recipiente.
‘Lasci stare, sta bene così, ce n’è ancora. Lo berremo dopo.’
Rimise tutto a posto, il termos nella borsa. La presi e la rimisi sulla reticella, premendo, intanto, il mio ginocchio sul suo. Giusto per il piacere di un fuggevole contatto. Tanto, in treno, cosa mai si poteva fare. E poi: io andavo a sposarmi, lei a cercare notizie del marito.
Osservandola attentamente, notavo un’espressione particolare nel suo volto. Non riuscivo a comprendere se era paura, ansia, incertezza. Ecco, era come chi attende di conoscere l’esito d’un esame. Forse trepidava per le notizie che avrebbe avuto sul marito.
Volevo distrarla, cercare di farla uscire dalla spirale dei suoi pensieri.
‘Conosce Roma, signora?’
‘Ci sono stata una sola volta, alcuni anni fa, ma per pochissimo tempo. Lei è romano?’
‘Vivo a Roma da parecchio, vi ho studiato, anzi ora è più esatto dire che sono iscritto all’università di Roma, perché non riesco ad applicarmi molto sui libri. Ma sono nativo di Venezia. Cosa mi dice di lei?’
Alzò un po’ le spalle.
‘Cosa devo dirle. Già le ho detto che sono di Trieste, ho studiato fino alla maturità classica, poi ho deciso di non proseguire, malgrado i miei familiari volessero iscrivermi a lettere per ricalcare le orme materne e insegnare. Ho fatto pochissimo sport. Poi ho conosciuto il mio attuale marito, due anni fa ci siamo sposati, mentre già eravamo in guerra, ma l’ho visto pochissime volte. E’ su un sommergibile, non so dove. Ed ora, a ventisette anni, mi sento vecchia e stanca.’
Allungai una mano e la posi sulla sua, che era sul ginocchio.
‘Comprendo il suo stato d’animo, signora, ed anche il senso di stanchezza che accusa, ma non parli di vecchiaia, è una giovane ancora in boccio, mi permetta di dirlo, all’inizio di quella che le auguro una lunga e serena esistenza.’
‘Lei è gentile, grazie, e ammiro il suo equilibrio, malgrado che anche con lei la vita non sia quella che sarebbe auspicabile per un giovane, perché lei è giovanissimo, vero tenente?’
‘Beh, non sono vecchio, perché devo ancora compiere ventidue anni, ma me ne sento molti di più sulle spalle per le vicende familiari che ho attraversato.’
(Non le dissi che mi sposavo proprio perché mi sembrava di aver già superata la trentina.)
Il tempo trascorse in chiacchiere di nessun peso: ricordi scolastici, piccole marachelle dell’adolescenza. Non mi aveva chiesto se fossi fidanzato o meno.
Poco prima di Mestre si alzò di nuovo per prendere la borsa. La precedetti. Risedette, prese un piccolo involto con alcuni biscotti chiaramente fatti in casa, me ne offrì, ma non accettai. Ne mangiò uno, a bocconi piccolissimi, ancora un sorso di caffè (rifiutai cortesemente anche questo, rimise tutto a posto, e io posi ancora la borsa sulla reticella.
Questa volta, invece di sedere di fronte le andai accanto.
A Mestre mi affacciai al finestrino. C’era un uomo con un carrello che avrebbe dovuto vendere generi di ristoro, ma aveva pochissime cose e gridava ‘caffè’caffèllatte”.
‘Io ne prendo uno, signora, ne gradisce anche lei? Certamente si tratta di surrogato, ma meglio di niente.’
‘Grazie, ma se ci fosse del latte bianco, senza l’orzo, lo preferirei.’
Si, l’omino aveva del latte. Ne presi una bottiglia ed acquistai anche, dopo molte insistenze, un bicchiere. Volle cederne solo uno.
Il treno, una volta attaccata la vettura ‘Venezia S.L.-Roma’, ripartì lentamente.
Aprii la bottiglia, versai il latte nel bicchiere, lo porsi alla donna che, nel prenderlo, mi sorrise. Lo bevve.
‘E’ buono, sa? Meglio di quanto mi aspettassi.’
Mi restituì il bicchiere, lo riempii a metà col latte, lo assaporai.’
‘Si, è buono.’
Ricoprii la bottiglia, nuovamente tappata, col bicchiere capovolto e cercai di sistemarla sulla reticella bassa.
Prima di sedermi le chiesi se preferiva riposare, lasciare accesa solo la fioca luce blù.
Assentì col capo.
Spensi la lampadina bianca, chiusi la porta dello scompartimento, tirai le tendine per non far entrare la luce del corridoio, andai di nuovo vicino a lei, ma prima misi un giornale sul sedile di fronte.
‘Così può distendere le gambe, a tutto vantaggio delle caviglie, e poggiare i piedi sul giornale.’
‘Grazie, è molto gentile e premuroso.’
Alzò le gambe, mise i piedi sul giornale, aggiustò la gonna.
Il dondolio del treno favoriva il sonno, e Nina cominciò a ciondolare con la testa, poi l’appoggiò sulla mia spalla e sentii il suo respiro appesantirsi. Facendo in modo di non svegliarla, la cinsi col braccio, per farla stare meglio, e l’avvicinai a me, curando che il suo visino non urtasse contro il cinturone, che certo non potevo togliere.
Nella mia mente s’intrecciavano mille pensieri, infinite considerazioni, un groviglio di tenerezza, commozione, desiderio di coccolarla, e naturali istinti erotici. Un continuo incrociarsi di evanescenze policrome.
Si mosse un pochino, si strinse a me, cercò una posizione più comoda, mi abbracciò, con un lieve sospiro, e seguitò a dormire.
Era sempre il dondolio del treno che faceva strusciare le nostre cosce in una continua carezza, sempre più esaltante, eccitante. La mia mano era discesa sul suo grembo, ne percepiva il tepore, la morbidezza. Il suo bel volto era poco discosto dalle mie labbra. Mi chinai a sfiorarlo, insistendo lievemente. Sempre nel sonno, sollevò il visetto verso me, come a porgermi le labbra, che baciai con tanta tenerezza e dolcezza. Sentii che si schiudevano, accoglievano la mia lingua che andò ad intrecciarsi con la sua, guizzante. E si strinse ancor più a me, mentre la mia mano, pur sulla stoffa, le frugava il grembo tra le gambe che s’erano appena divaricate. Aveva spinto in avanti il bacino. Fremeva, palpitava, Mi prese la testa tra le mani e il bacio divenne impetuoso, appassionato, voluttuoso. Non m’ero quasi accorto che s’era seduta sulle mie ginocchia, che l’altra mia mano le avvinghiava il seno. Sentivo le sue natiche muoversi impazienti. Sollevai la gonna, avanzai decisamente, scostai le mutandine, carezzai i riccioli, proseguii tra le grandi labbra, titillai il clitoride, le mie dita la penetrarono. Ansimava, sempre più’ mi annunciò il suo orgasmo travolgente, mordicchiandomi la lingua, tra un gemito e l’altro.
Il mio timore era di non riuscire a contenere il seme che premeva per dilagare.
Era ben sveglia, Nina, ed eccitatissima.
Mi guardò con occhi lucidi, lampeggianti.
Si alzò, si avvinghiò a me.
Ero in divisa: giubba, cinturone appesantito dalla rivoltella, stivaloni, pantaloni che comunque non potevo sfilare, timore di inzaccherare tutto.
Da un momento all’altro si poteva aprire la porta del corridoio.
Ma la ragione in certe situazioni è travolta dai sensi.
Non mi ero accorto di quanto tempo fosse passato, i momenti di piacere trascorrono veloci.
Eravamo in piedi, abbracciati, meglio forse dire avvinghiati, al sommo della eccitazione. Con lei che si dimenava, lubrica, ed io con non riuscivo a contenere la mia erezione, e temevo di eiaculare da un momento all’altro. Sarebbe stato un disastro.
A malapena mi accorsi che il treno stava ripartire da una stazione. Dal finestrino ne scorsi il nome, Bologna. Mi balzò subito alla mente che non ci sarebbe stata nessuna fermata fino a Firenze. La controlleria era già passata, prima ancora di Mestre. Era tutto più forte di me.
Slacciai la cintura dei pantaloni e li lasciai cadere fino a quando gli stivali non li fermarono, lo stesso con gli slip. Lei, Nina, intanto aveva sfilato le mutandine, le aveva poggiate sul sedile. All’unisono ci avvicinammo, la gonna arrotolata sulla pancia. Divaricò le gambe, sollevò il bacino, sembrò resistere un momento, un po’ stretta, ma poi lo accolse palpitante, dimenandosi voluttuosamente, baciandomi appassionatamente. Non era facile mantenermi fermo sulle gambe, in quella posizione, con quella femmina impetuosa, con quella vagina che mi suggeva impazzita. Gemeva, si agitava. Le mani la sorreggevano per le belle sode natiche, le dita la frugavano, le titillavano il buchetto fremente. Sembrava fuori da ogni controllo, e lo era. Con un crescendo tumultuoso seguitò fino a quando non fu travolta da un orgasmo sconvolgente che sembrava infinito, specie quando la riserva del mio liquido seminale, accumulata con tanta accortezza e sacrificio, per onorare convenientemente la mia futura sposa, non proruppe violentemente in lei. Da come si comportò e mi guardò, piacevolmente sorpresa, non le fu affatto sgradito. Si strinse ancor più, le pareti della vagina si contraevano mungendo il mio pur sempre fiorente sesso.
Poi, finalmente, si placò alquanto. Prima di staccarsi, sarebbe più esatto dire prima di smontare dal mio fallo, allungò la mano per prendere le sue mutandine, sul sedile, e le portò tra le gambe.
Uscii da lei.
Dolcemente, con l’interno della sottana mi deterse il fallo, attardandosi in lunghe carezze e baciandolo di quando in quando.
Riuscii a rivestirmi.
Lei, sempre col suo indumento a mo’ d’assorbente, sedette, rovesciando indietro la testa. Affannata, sudata, ma estatica.
Inutile dire che fu un continuo carezzarsi, sbaciucchiarsi.
Il treno si fermava e ripartiva.
Nessun viaggiatore.
Nessun controllore.
Avevamo attraversato, senza fermarci, la stazione di Orvieto.
Nina si avvicinò al mio orecchio.
‘Devo andare al bagno.’
La guardai.
‘Ti aspetto.’
‘No. Ho paura, per favore, accompagnami.’
Non sapevo paura di che cosa, ma mi alzai e la accompagnai.
Corridoio vuoto, così come la piattaforma.
Aprì la porta della toilette, mi prese per mano, mi trascinò dentro. Richiuse. Sedette sul vaso, il rumore del treno ne sovrastava ogni altro.
Si alzò, si avvicinò al piccolo lavabo. Portò dietro le mani e sollevò il vestito, mostrando la malia delle sue rotondità stuzzicanti. Divaricò appena le gambe, si curvò in avanti. Il suo sesso era lì, invitante, irresistibile. E il mio fallo non aveva bisogno d’ulteriore sollecitazione. Lo estrassi subito e la penetrai fin quando poté contenermi. I sobbalzi del treno erano un delizioso accompagnamento erogeno, e si sommavano al suo sculettare voluttuoso. Luogo non ideale, ma incontro paradisiaco. Le mani le brancicavano le tette, i capezzoli, le titillavano l’irrequieto clitoride, mentre il mio stantuffare, crescente, ci conduceva al piacere che cercavamo entrambi. E raggiungemmo deliziosamente.
Non fu facile rassettarci, evitare sgradite tracce dell’accaduto sui nostri vestiti, ma mentre il treno rallentava per fermarsi ad Orte, riuscimmo a tornare nel nostro scompartimento. Ancora in preda all’ebbrezza dei sensi.
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Stavamo quasi per raggiungere la stazione Termini.
Nina mi guardò, incantata.
Mi baciò e, tenendomi il volto tra le mani, mi chiese se fossi atteso da qualcuno.
‘Si, dalla mia fidanzata, mi sposo posdomani.’
Mi baciò di nuovo, appassionatamente.
‘Beata lei!’
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grammaticalmente pessimo........
Ciao Ruben, sei un mito! Hai un modo di scrivere che mi fa eccitare! La penso esattamente come te. Se…
Ti ringrazio, sono felice che ti piacciano. Vedremo cosa penserai dei prossimi episodi, quando si chiuderà anche la sottotrama di…
Davvero molto bello. Piacevole come gli altri e decisamente pregno di sentimenti espressi senza risultare melensi o ripetitivi. D'impatto leggiadro,…
Come ti ho detto, in pochi e poche sanno sa scrivere in maniera così eccitante sia dare un senso ad…