Non è assolutamente mia intenzione giustificarmi.
E con chi dovrei farlo? A chi dar conto? A Dio? Con lui me la vedrò a suo tempo!
Qualcuno mi potrebbe dire che sono invidiosa, cioè che ho un’astiosa e maligna.disposizione d’animo verso ciò che reputo le ‘fortune’ degli altri.
Niente di più sbagliato.
Io mi rallegro e compiaccio delle fortune, o meglio della normalità, degli altri. Se mi mostro, a volte, insoddisfatta, è per la mia vita, per come si è svolta. Da sempre.
Per ragioni che non mi sono mai state ben chiare, camminavo appena quando mio padre, che stava avviandosi ad una brillante carriera professionale, abbandonò, sostenendo che doveva, la sua patria e andò lontano. I rapporti con la famiglia non furono troncati, ma la distanza, e le difficili comunicazioni di allora, rendevano difficoltosi perfino i rapporti epistolari.
Quando vedevo le altre bambine col loro padre, non le invidiavo, no, ma soffrivo perché io non ero col mio.
Ammiravo lo sforzo di mia madre, per darmi una vita abbastanza accettabile, ma dovevamo controllare le spese, contenerle nei limiti di una molto modesta possibilità.
Le mie amichette, figlie dei colleghi di mio padre, erano sempre più vestite di me.
Questo aveva amare conseguenze. Ero sempre imbronciata, poco socievole per tema di non essere gradita dagli altri, ed era difficile che un ragazzo preferisse me, il mio carattere, alle svenevolezze delle altre. E dire che ero tutt’altro che brutta: alta, slanciata, con tutto giusto al posto giusto.
Quando fu il tempo, le mie coetanee cominciarono a sposarsi (allora si era considerate zitelle molto prima dei trenta) ed io auguravo loro ogni bene, ma avrei voluto che un po’, di quel bene, toccasse anche a me.
Non lo so perché accettai la sua corte.
Non era male, indossava con garbo la divisa. E poi c’era sempre l’angoscia della zitellagine. Mio padre era prematuramente morto (lo leggemmo sul giornale, dopo più di due mesi, perché le stampe giungevano con un certo ritardo) e mia madre viveva il tormento di lasciarmi sola, una volta che lei fosse scomparsa.
Mi sposai, dunque. Senza infamia e senza lode, ma anche senza passione, forse senza quello che gli altri chiamano amore. Rassegnata, ma non potevo dirmi contenta.
Tanto per confermare l’impossibilità che vivessi una esistenza ‘normale’, mio marito pensò bene di buscarsi una broncopolmonite galoppante, e dopo sei anni se ne andò al creatore.
Trentatré anni, vedova, con un figlio da allevare.
Mi rallegravo che le altre uscissero con marito e figli. Ma non si può pretendere che fossi contenta del mio stato!
Mi mancava un uomo? Il maschio?
Non lo so. Era vero, però, che dovevo tirare avanti da sola.
Quando un collaboratore di mio marito mi veniva a trovare, con molta cortesia, mi sembrava una manna. Era giovane, simpatico, di gradevole compagnia, ma non mi risvegliava alcuna sensazione. Chissà se fu per questo che non si fece più vedere.
Erano trascorsi tre anni dal momento che ero rimasta sola. Trentasei anni di vita così.
Mimmo, il mio bambino orfano, era andato dalla nonna paterna, in montagna, e l’aria fine, certo, l’avrebbe aiutato a superare la lieve anemia che l’affliggeva, sostenuta dalla sana alimentazione e dalle cure nella nonna.
Ero completamente sola, dunque, e le saltuarie supplenze alle quali ero chiamata, non mi aiutavano, date le vacanze. L’unica persona che bazzicava per casa, era Marietta, la domestica, che veniva a sbrigare le poche cose che c’erano da fare.
Piero, il primo fratello di mio marito, preside in un piccolo capoluogo, a circa duecentocinquanta chilometri da Roma, non era assistito, anche lui, dalla buona stella. La moglie era rimasta vittima, unica, di un incidente stradale, un semplice ma violento tamponamento, che l’aveva sorpresa mentre tornava a casa dal vicino paese dove insegnava. Le nostre famiglie erano accomunate da una specie di maledizione. Nel parentado, inspiegabilmente imbevuto di ancestrali e superate leggi, era convinto, inizialmente, che Piero avrebbe accolto nella sua casa la vedova del fratello. Cosa che non pensammo mai. Né io né lui.
Ci sentivamo di quando in quando, e ci legava un certo affetto, forse sarebbe più esatto una certa amicizia impastata dei dolori vissuti.
Fui contenta di sentire la sua voce.
‘Ciao Elda, come stai?’
‘Bene, grazie, e voi?’
‘Tiriamo avanti. Ti ho disturbata”
‘Nessun disturbo, anzi”
‘Per dirti se conosci una pensioncina..’
‘Per chi?’
‘Lele, che ha raccolto un po’ di soldi con i regali ricevuti per la sua maturità, vorrebbe trascorrere un periodo di tempo a Roma, per conoscerla, e anche per decidere se frequentare quella università.’
‘Complimenti a Lele, ma che bisogno c’è della pensione, posso ben ospitarlo io, come sai ho tutto il posto necessario.’
‘Grazie, ma, vedi, non vogliamo arrecarti disturbo e gravarti di impegni”
‘Ma quale disturbo.’
‘E poi, scusa, non vogliamo appesantire la tua economia che deve essere giustamente controllata.’
‘Non preoccuparti, Piero. Sarò lieta di avere qui Lele.’
‘Si ma ad una condizione.’
‘Quale?’
‘Che accetti il mio modesto contributo per le spese’.’
‘Non ci vuole”
‘E’ un mio vivo desiderio, ti prego, consentimelo”
‘Va bene. Quando verrebbe Lele?’
‘Se sei d’accordo arriverebbe a Roma poco dopo mezzogiorno, domani.’
‘Lo aspetto con piacere. Mi farà un po’ di compagnia e io potrò essergli una discreta guida.’
‘Grazie, Elda, ti abbraccio.’
‘Ciao, Piero.’
Lele era il suo primogenito, stava per compiere i diciannove anni, era circa due anni che non lo vedevo.
L’indomani, con Marietta, preparammo la camera degli ospiti, ci assicurammo che tutto fosse a posto: asciugamani, accappatoio, anche le pantofole di spugna, e liberai una parte dell’armadietto del bagno.
Mancava poco alle tredici quando udii bussare alla porta.
Guardai dallo spioncino.
Un giovane, alto, bruno, vestito sportivamente ma con una certa accuratezza, era sul pianerottolo.
Aprii.
‘Ciao, zia..’
Prima ancora che richiudessi l’uscio mi aveva stretta tra le sue braccia e mi baciava affettuosamente, con trasporto.
Il primo pensiero che mi attraversò la mente fu che ero ‘tra le braccia’ di un uomo.
Avevo lasciato un adolescente, ero di fronte a un simpatico ragazzone, un po’ più alto di me (ma io avevo i tacchi) e con un volto gioviale, simpatico, accattivante.
‘Ciao, Lele, sei diventato un uomo, non ti avrei riconosciuto.’
‘Tu sei sempre la stessa, stai benissimo.’
Entrò, con la grossa valigia, chiusi la porta. Mi guardò ancora, tornò ad abbracciarmi.
‘La mia bella zietta. Sono veramente contento di essere qui.’
‘Vieni, spero ti troverai bene. Credo che tu voglia rinfrescarti. Nella tua camera troverai gli asciugamani.
Andò in camera, lasciando la porta aperta, tolse la camiciola che indossava, restando a.torso nudo, prese l’asciugamano, si avviò al bagno. Lo seguivo con lo sguardo, senza rendermi conto che ero rimasta nell’ingresso, come sorpresa. Senza sapere di cosa. Forse lo sapeva il mio subconscio.
Andai in cucina per verificare che l’arrosto fosse a puntino, come lo sformato, poi in sala per controllare se la tavola era ben apparecchiata
Lele, era tornato in camera, dopo poco si presentò, indossando una camicia pulita, senza giacca.
Gustò con piacere il cibo, volle solo assaggiare il vinello frizzante che avevo tenuto in fresco, gradì la tazzina di caffè che chiuse il tutto.
‘Forse vorrai riposare un po’, ti sei dovuto alzare presto, e il viaggio stanca sempre. Io metto tutto via, domani ci penserà Marietta, e vado anche a schiacciare un pisolino.’
Si alzò, mi venne vicino, mi sfiorò il viso con un bacio.
‘Grazie di tutto, zietta, forse è meglio un riposino.’
Si avviò alla sua camera.
Quando mi avviai verso la mia, di fronte a quella di Lele, vidi che aveva lasciata aperta la porta. Era sul letto, con i soli pantaloncini, e già dormiva, supino, con espressione soddisfatta. Entrai nella mia camera, chiusi l’uscio, mi spogliai rapidamente, indossai una leggera camiciola e mi sdraiai sul letto, immersa in pensieri confusi che, però, non cercavo di chiarire.
Al di là del corridoio, nell’altra stanza, c’era un uomo, e dormiva.
Dopo tanto tempo, un uomo dormiva in un letto della mia casa. Non nel mio, però. Ecco la scarsa lucidità del pensiero. La mia casa, un uomo, un letto, il mio letto!
Non consideravo affatto che quell’uomo era Lele, il figlio del fratello di mio marito, mio nipote. Si, va bene, ma era un uomo, nella mia casa, a pochi metri da me. Dormiva. Non mi era facile assopirmi, e quando mi accadde dovevo essermi agitata, perché mi svegliai madida di sudore, e con uno insolito turbamento. Ci voleva una doccia. Mi alzai.
Lele era seduto in poltrona, sempre in calzoncini, e leggeva una rivista. Alzò gli occhi e mi sorrise. Solo allora mi ricordai che ero ancora in camicia da notte, e per di più bagnata di sudore, appiccicata addosso. Mi guardava fissamente, e sentivo scorrere il suo sguardo sul mio corpo, soffermarsi qua e là, tornare su determinati dettagli, ed aveva un’espressione di compiacimento. Credo che arrossii.
‘Scusa, Lele, sono uscita così, senza vestaglia, perché credevo che tu dormissi ancora. Vado a fare una doccia.’
Non mi rispose, ma mentre mi allontanavo, lentamente, sentivo ancora i suoi occhi su di me.
Doccia ristoratrice, ma non calmante.
Tornai in accappatoio, in camera mia, mi vestii, e, pettinata e sistemata, mi diressi al tinello. Non c’era nessuno, anche la camera di Lele era vuota. Sentii scrosciare l’acqua della doccia.
Quando mi raggiunse, ero intenta a fare un solitario, con le carte.
‘Ci voleva la doccia, vero zia?’
Annuii.
‘Ti distraggo?’
Raccolsi le carte, le riposi nella loro custodia.
‘Figurati, era solo per passare il tempo. Hai qualche programma per oggi?’
‘Pensavo di fare un giretto per cercare di adattarmi alla grande città. Mi piacerebbe, domani, andare al mare. Che ne dici, ci andiamo? Ho con me anche il costume.’
‘Non ci vado da non ricordo quanto, e credo di non avere neppure il costume”
‘Possiamo comprarlo. Andiamoci insieme.’
Ecco di nuovo lo stato di confusione mentale, di ansia, indecisione.
‘Puoi andarci solo, Lele.’
‘Non sarebbe la stessa cosa. Via, usciamo a comprare il costume, ce ne sono dei bellissimi, del tipo di quelli che indossano le nuotatrici nelle pellicole di Hollywood, a te starebbe benissimo.’
Credo che arrossii nuovamente. Che ne sapeva, lui, che mi sarebbe stato benissimo? Ah, già, mi ero presentata a lui con quella camicia sudata’
‘Va be’, andiamo a comprare il costume.’
Dissi alla commessa che volevo un costume’ ma Lele aggiunse che doveva essere uno di quelli che indossavano anche le nuotatrici’.
‘Ho capito’ ‘disse la commessa- ‘ce ne sono dei bellissimi, appena giunti dalla Germania, dalla fabbrica che fornisce Hollywood. Li prendo subito.’
Tornò poco dopo con delle scatole.
Osservai che non ritenevo adatti alla mia età quel genere di costumi, ma la commessa, guardandomi da capo a piedi mi disse che avevo un personale perfetto. Lele confermò con calore. Forse troppo. E la commessa lo guardò aggrottando la fronte. Per fortuna che si affrettò ad aggiungere: ‘Ti staranno benissimo, zia. Prendi quello color acquamarina”
Scelsi quello. La commessa mi assicurò che non era necessario provarlo. Potevo farlo con comodo a casa e che in ogni modo lo avrebbe potuto cambiare con un altro entro il giorno successivo.
Appena usciti dal negozio, Lele mi propose di andare a casa, per provarlo, perché, nel caso, avremmo dovuto cambiarlo subito. L’indomani era dedicato al mare.
Tornammo a casa.
‘Allora, Lele, vado a provarlo.’
‘Va bene, io ti aspetto nel tinello.’
Ci misi poco a indossarlo, guardandomi allo specchio dovetti riconoscere che la commessa aveva ragione, mi sembrava che calzasse a pannetto. Anche il colore era bello, e s’intonava perfettamente con quello dei lunghi capelli che avevo sciolto per giudicare l’effetto complessivo di quella ‘mise’. Da quanto tempo non mi vedevo in costume da bagno.
Schiusi l’uscio, chiamai Lele. Venne subito, entrò.
‘Come mi sta?’
‘Sei uno schianto, zietta, una favola, e dire che eri in dubbio se acquistarlo o meno.’
‘Che ne dici, i capelli, sono meglio raccolti o così?’
‘Per me sono meglio sciolti, formano una cornice incantevole. Girati un po”
Mi girai lentamente, lui mi guardava sorridendo.
‘Mi sembra abbastanza elastico, vero zia?’
‘Si, me lo sento bene addosso.’
‘Prova a curvarti, a sederti.’
Mi curvai. Lele osservava il mio petto, poi fu la volta delle anche.
Sedetti in poltrona. Solo allora mi accorsi che la mia avversione alla depilazione era manifesta. Qualche ricciolo ribelle sfuggiva dal costume. Lele lo fissava, ed era certo che gli provava una certa eccitazione. Lo si scorgeva chiaramente. Il fatto, però, era che la sua eccitazione si trasmetteva anche a me, ed energicamente. Sentivo che la mia vulva stava esaltandosi, e che la linfa che andava distillando la mia vagina mi dimostrava come la mia vitalità, la mia sessualità, fosse tutt’altro che assopita. Non m’era mai capitato, prima di allora, provare simili conturbanti sensazioni. Mai. Forse era per la lunga astinenza. Era un fatto innegabile, però, che il gonfiarsi della patta di Lele era stato un messaggio chiaramente ricevuto e prontamente recepito, al quale la mia natura aveva risposto con un appassionato ‘pronta!’, ma lui, credo, non se ne era accorto. Però, seguitava a guardare i peluzzi che facevano capolino dal costume.
Il tram ci portò alla stazione dalla quale partivano i trenini per il mare. L’ora e il giorno feriale, non ci coinvolsero nel solito affollamento domenicale.
Trovammo due posti, vicini, in fondo alla carrozza di testa. C’era pochissima gente. La giornata era splendida, non molto calda. Le nostre anche si toccavano, percepivo il suo calore, era piacevolissimo, il movimento del trenino trasformava quel contatto in una carezza continua, un lieve delizioso massaggio che si spandeva in tutto il corpo, specialmente nel grembo. Lele posò la sua mano sulla gamba, con indifferenza. Ma io ne ero indifferente.
I miei sensi andavano sempre più tornando alla vita.
Errore. Non erano stati mai vivi, nel giusto senso della parola. Avevano tirato avanti in una specie di torpore, senza entusiasmo, senza coinvolgimento. Non era mai accaduto che il calore d’un fianco, il tocco d’una mano mi facessero vibrare. Si, m’eccitavano, mi facevano sentire una allupata, una che gli avrebbe detto, presto, qui, adesso’
Doveva certamente essersi accorto del muoversi delle mie cosce, non riuscivo a frenarlo.
Ero combattuta tra il ‘tempo non passa mai’ e ‘purtroppo presto finirà’.
Finì quando giungemmo all’ultima fermata, di fronte allo stabilimento della vecchia pineta.
Lo aveva scelto lui, chissà come. Gli avevo detto che era un ambiente un po’ elitario e abbastanza dispendioso. Mi aveva dato una amichevole pacca sul sedere (non prevedevo una tale confidenza, ma non mi dispiacque affatto) rispondendo che quel giorno era ospite mio, che aveva messo da parte un bel gruzzolo, con tutti i regali ricevuti, e che la nonna materna lo finanziava molto generosamente. Le mie obiezioni non servirono a nulla.
Poca gente, alla vecchia pineta, e un ambiente molto ricercato. La spiaggia pulitissima, gli ombrelloni abbastanza distanti l’uno dall’altro Ci facemmo assegnare una cabina con doccia. Ci sarebbe servita per dopo il bagno, perché avevamo già indossato, a casa, i costumi. Lele chiese di riservarci un tavolo per le tredici. Gli feci una occhiataccia ma finse di non vederla.
Il bagnino ci accompagnò alla cabina, l’aprì, ci mostrò che tutto era in ordine.
‘Se lei o la sua fidanzata avete bisogno di qualche cosa basta un gesto della mano e sono subito da voi.’
Si allontanò ringraziando per la mancia che Lele gli fece scivolare in mano.
‘Quello deve avere le traveggole, Lele, mi ha scambiato per la tua fidanzata! Alla mia età’!’
‘Quello ha visto bene. Non ti sei accorta come ti squadrava? Sembri una ragazzina.’
‘Si, di trentasei anni.’
‘Ne dimostri la metà!’
‘Per gamba!’
‘Bugiardo adulatore. Inoltre, non credi che era meglio se andassimo a far colazione in un posto meno caro?’
‘Nulla è caro per chi ha una fidanzata così.’
Mi prese per mano, la sollevò, mi fece fare una piroetta.
‘Sei proprio matto.’
Ma mi divertiva, riusciva a farmi sorridere. Non mi accadeva da tanto. Se devo confessarlo, non avvertivo affatto tutti i miei anni, non mi ricordavo d’avere un figlio, avevo messo in disparte i drammatici eventi della mia vita. Ecco, da ragazza mi sarebbe piaciuto sentirmi così.
Mi venne da pensare al suo nome, Lele, Raffaele: ‘dio guarisce’, l’Arcangelo che liberava dal demonio. E quale maggior demonio dei miei ricordi? Lele, balsamo per i miei mali.
Eravamo entrati in cabina. Bastò togliere gli abiti e appenderli agli attaccapanni.
Lele mi guardò sorridendo.
‘Ragazzina, ma ti sei guardata allo specchio?’
‘Perché?’
‘Hai visto che fisico che puoi sfoggiare?’
‘Perché, com’é? Me lo vuoi dire?’
Sentivo di fare la vezzosa, e assunsi anche un’aria civettuola e provocante.
‘Vedi, io non so usare espressioni romantiche. Quelli della mia età sono, come dire, un po” ineleganti, grossolani..’
‘Devi essere te stesso’ allora? Come mi consideri?’
Mi prese per le mani, le sollevò un po’, esaminandomi minuziosamente.
‘Sei uno schianto, una favola, una visione.’
‘Tutto qui?’
‘No, perché sei più perfetta d’una modella, più bella della più bella statua: i capelli di Berenice, gli occhi di Glauca’. il petto di Diana, il’ culo’ lasciamelo dire’ più seducente di quello di Venere callipigia.’
Sentivo che stavo tremando. Lo guardavo eccitata.
Si sentì stimolato.
‘Zi’, tu hai un paio di chiappette prensili che ti fanno perdere la testa, il controllo’ Scusa’ Ti ho offesa?’
La mia voce non era chiara, e rivelava la mia emozione.
‘No, è sempre un complimento lusinghiero, anche se in termini alquanto coloriti e vivaci. Credo che devo fare un bagno”
Mi allontanai da lui, uscii dalla cabina, mi avviai alla riva.
L’acqua fresca mi aiutò a rimettere in ordine le idee. Così non potevo andare avanti. Fin quando non ci si accorge di essere affamati non si pensa al cibo, ma quando ci afferra il crampo della fame come si può resistere alla leccornia che è a portata di mano, che ci può saziare?
Quando tornai verso l’ombrellone, Lele era sulla sdraio, con un telo sul ventre’ guardando il mare’ lo sguardo sperduto nel vuoto. Mi vedeva avvicinare e sembrava volermi sbranare con gli occhi. Come mi sarebbe piaciuto essere la sua preda. Mi avvicinai, grondante acqua, col costume che esaltava ogni particolare del mio corpo, mi chinai su lui, gli sfiorai il volto con un bacio. Mi carezzò lievemente la schiena.
Dopo lo squisito pranzo, decidemmo di andare al fresco della pineta. Prendemmo le sacche, nelle quali avevamo riposto anche i costumi, dopo averli fatti asciugare, e ci avviammo.
L’ombra era gradevole, la terra soffice per gli aghi dei pini, dagli alberi la resina emanava un profumo inebriante.
Trovammo un luogo abbastanza appartato, con dei cespugli che sembravano volerlo nascondere agli sguardi indiscreti. Lele mi guardò e, senza parlare, aprì la sacca, estrasse un largo telo a spugna, lo stese per terra. Prese pure quello che conservavo nella mia borsa, lo ripiegò, come a farne un cuscino, lo mise su quello di prima.
‘Prego, principessa, per il suo riposo.’
Mi sdraiai.
‘Veramente, dopo questa mattinata, il pranzo, il vinello, gli occhi mi si chiudono.’ Tesi la mano. ‘Vieni qui anche tu. C’è posto.’
Si sdraiò accanto a me. Io ero supina, lui si mise a pancia sotto. Pose il braccio sul mio petto, abbracciandomi. La sua bocca sfiorava la mia mammella. Dopo un po’ sentii il suo respiro profondo. Dormiva. Beato. E Morfeo vinse anche me.
Mi svegliai avvertendo la mano che mi carezzava. Si soffermava sul petto, scendeva lungo il corpo, sfiorava il grembo. Sentivo che, a quello sfioramento i miei riccioli s’arruffavano, la mia vagina palpitava. Feci finta di dormire ancora. Lui era di fianco. Mossi la gamba per toccarlo. Incontrai la sua eccitazione. Stavo correndo verso il precipizio’
Baratro? Perché? Non era precipitare, era salire, ascendere, elevarsi, sempre più in alto’ si, ascendevo il colle della voluttà, sempre di più, stavo per raggiungerne la vetta, per la prima volta nella vita, una vetta meravigliosa, straordinaria’ ero in cima’ in cima’ l’orgasmo mi invase senza che potessi controllarmi.
Lui diede a intendere di uscire dal sonno in quel momento. Alzò la testa, mi guardò, mi baciò gli occhi pieni di gioia e di lacrime.
Dunque, era quello il piacere. E si era trattato solo di una carezza.
Al ritorno non parlammo molto, sul trenino.
Quando salimmo sul tram, alla stazioncina, per tornare a casa, c’era molta gente Forse era l’ora. Dovemmo fermarci in piattaforma. Io, in piedi, guardavo la strada che s’allontanava. Lele era dietro di me, pigiato dalla folla, lo sentivo. Avevo la sensazione che mi cercasse, volesse esplorarmi col suo sesso eccitato. Io avevo il desiderio di sentirlo sempre più profondamente. Ricordavo le parole: ‘chiappette prensili’, e volli dimostrargli che non s’era affatto sbagliato.
A casa ognuno andò direttamente nella sua camera.
Decidemmo di uscire per la cena. Proprio di fronte c’era una pizzeria.
Riuscimmo a parlare del più e del meno. Ma ognuno sentiva il disagio dell’altro. Ci attendeva una notte, nella stessa casa, soli.
Ogni tanto lo guardavo, di soppiatto, e cercavo di capire cosa stesse pensando. Di quando in quando scuoteva lievemente la testa. Certo era perplesso.
Quella giornata mi aveva sconvolto, e non credo che per lui fosse trascorsa senza qualche confusione, specie alla sua età quando un giovane è sempre in cerca della femmina.
Come lo capivo. Io, alla mia età, stavo tormentandomi per sentirmi di un maschio.
Non era tardi, quando rientrammo.
Mi aveva preso sottobraccio, teneramente.
A casa mi aveva guardato, seriamente.
Ne percepivo la violenta eccitazione che dominava. Lui, certamente, sentiva la mia.
‘Direi di prepararci per la notte, Lele. Che ne dici?’
Annuì. Andò nella sua camera. Come al solito, lasciò la porta aperta e potei, così, mentre, nudo, stava per indossare i pantaloncini del pigiama, accertarmi della sua prepotente erezione. Era magnifico, l’elemento che mi mancava. Di proporzioni considerevoli, si ergeva dal bosco del suo pube, come una massiccia stele fallica, più di quanto anelava il mio sesso. C’era di che colmare, e come, il vuoto che mi straziava il ventre.
Mi chiusi nella mia camera.
La preparazione, quella sera, durò più del solito.
Indossai la corta camiciola. Mi rimirai nello specchio.
Aprii la porta.
‘Lele, vieni qua.’
Accorse immediatamente. Sembrava spaventato. Non si rendeva conto del perché l’avessi chiamato. Quando fu sulla porta, e mi vide, con addosso il solo velo trasparente della cortissima camicia, restò come folgorato, con gli occhi spalancati. Gli tesi la mano:
‘Vieni.’
Andai ad adagiarmi sul letto.
‘Spegni la luce.’
Si accostò a me.
‘No, voglio vederti.’
Era eccitatissimo.
Mi sollevò la camicia, la tirò con forza, la sfilò completamente. Rimase qualche istante, estatico. Si chinò, mi baciò sulla bocca che si schiuse avida, ne accolse la lingua, la ciucciò vogliosa. La sua mano mi carezzava il petto, il ventre, tra le gambe. Con gesti rapidi e decisi, lascio cadere i pantaloncini. Sollevai le gambe, poggiandomi sui talloni. Ero tutto un palpito. Lo sentii sistemarsi tra le mie gambe, gli presi il glande, lo poggiai sull’orifizio della vagina, riccamente lubrificata, che avevo sentirsi allungarsi e dilatarsi per riceverlo, impaziente. Malgrado ciò, quell’imponente palo ardente e pulsante, mi dilatò ancor più, a mano a mano che mi penetrava, e avvertivo che lo stavo incantevolmente avvolgendo, attanagliando in me, fin quando lo sentii premere sull’utero. Sensazione sconosciuta, stupenda. Prese a stantuffare con vigore, e ad ogni energica spinta mi sentivo salire, e poi precipitare, per risalire ancora. Mi parve di sprofondare in un oceano senza fondo. Le mie gambe s’erano avvinghiate sul suo dorso. E lui continuava, stavo per perdere cognizione di quanto mi accadeva, ecco, naufragavo, i miei continui orgasmi mi sconvolgevano, trascinavano verso un abisso di voluttà, fui invasa dall’ondata del suo caldo sperma. E il naufragar fu dolce in questo mare.
Giacque su me, pago ma non domo.
Allungai la mano, raggiunsi i testicoli, sentivo che si muovevano e nel contempo stava nuovamente lievitando in me.
Lo liberai dalle mie gambe. Le mie labbra lambivano il suo orecchio.
‘Mettiti supino.’
Uscì da me mal volentieri, sfilando a malincuore il lungo brando dalla sua ardente guaina. Si distese sul dorso, sempre con la lancia bene in resta, un vermiglio obelisco che svettava tra il bosco dei suoi riccioli scuri e imbevuti dei nostri umori. Mi sentivo l’amazzone in procinto di balzare sul suo purosangue. Quando capì la mia intenzione, i suoi occhi luminosi splenderono ancor più. Li ghermì le mammelle, e il ventre si contrasse. Lo assorbii con voluta inebriante lentezza, ondeggiando adagio, al piccolo trotto. Ma la cavallerizza era esigente, passò al galoppo, sempre più animato, sconvolgente e travolgente, fin quando non raggiunse trionfante il più voluttuoso dei traguardi.
Mi distesi su lui, e non mi accorsi di assopirmi. Non avevo mai provato una tale sensazione, di protezione, distensione, dolce abbandono.
Filtravano le prime luci del giorno. Mi volle ancora. Non attendevo altro.
Non potrò mai dimenticare, e nemmeno lo voglio, quei giorni. Soprattutto le notte. Ma non solo, perché Lele era sempre desideroso di un ‘riposino’ che consisteva, poi, nel far riposare il suo ‘guerriero’ nella mia fremente ed accogliente alcova.
Per gli altri, sarebbe monotona e ripetitiva, la cronaca dei nostri giorni.
Per me era esaltante, varia, sempre nuova.
Sentivo il desiderio di gridare ai quattro venti la mia felicità.
Sapete, sono raggiante, allegra, contenta, appagata. Per la prima volta nella mia vita.
Pensai che l’unica persona con la quale mi potevo confidare, confessare: il vecchio e buon Padre Sebastiano.
Era prestissimo quando baciali lievemente Lele, che riposava al mio fianco.
‘Lele, mi sono ricordata che devo andare dal dentista.’
‘Ti accompagno.’
Lo disse pigramente, senza aprire gli occhi.
‘Riposa, è qui vicino, ci metterò pochissimo. Sono la prima, alle otto.’
‘Così presto?’
‘Almeno non dovrò attendere tornerò subito da te. Porterò i maritozzi con la panna.’
Mormorò qualcosa, si voltò dall’altra parte.
Mi preparai rapidamente, in silenzio, richiusi piano la porta, senza far rumore. La chiesa era a pochi metri. Entrai, una penombra accogliente che ispirava il raccoglimento. Padre Sebastiano era già nel confessionale, mi inginocchiai. Lo sportello della grata si aprì. Il solito saluto.
‘Cosa devi dirmi, figlia mia?’
Andai direttamente all’argomento.
‘Padre ho una relazione con un uomo.’
Certamente mi aveva riconosciuto.
‘Sposato?’
La sua voce era calma, paziente, affettuosa, umana, comprensiva.
‘No, padre.’
‘Giovane?’
‘Si.’
‘Più di te?’
‘Si.’
‘Lo conosci da molto?’
‘Si.’
‘Lo conosceva anche tuo marito?’
‘Si..é..é il figlio di suo fratello..’
Rimase un attimo in silenzio.
‘E’ incesto, figlia mia, incesto, un rapporto impuro, non casto, come vuole dire il termine. Devi pentirtene, devi promettere, col cuore, che non commetterai di nuovo questo peccato. Devi troncare questa innaturale relazione. Hai capito?’
Lo ascoltai attentamente.
‘Si, Padre, ho capito, ma sento il bisogno di riflettere, sull’accaduto e sul futuro. Vorrei meditare. Torno da lei al più presto. Mi benedica.’
‘Io ti benedico, figlia mia, ma è soprattutto la benedizione del Signore che devi impetrare, e che potrai avere solo se ti comporterai come ti ho detto. In nome del Padre’.’
Mi alzai. Uscii dalla chiesa.
Rapporto non casto, impuro’ relazione innaturale’ Che vuol dire. La natura si è espressa in noi e tra noi come meglio non avrebbe potuto. E tutto quello che è naturale non può essere impuro, peccaminoso.
Pentirmi? Di che cosa. Una donna libera e un uomo libero si amano, fondono le loro carni. Dove è il peccato, la colpa, il crimine, la trasgressione?
Di conseguenza non ho niente da promettere.
Ero dinanzi alla latteria. Entrai, comprai due morbidi maritozzi imbottiti di freschissima panna.
Fui di ritorno prima del previsto. Lele dormiva.
Mi cambiai in fretta, silenziosamente. Preparai la colazione, andai a sedere sul letto, vicina a Lele. Gli sfiorai il viso con una carezza. Uscì lentamente dal sonno. La prima cosa che fece fu di infilare una mano nella vestaglia e di salire tra le mie gambe. Incontrò le mutandine.
‘Cosa è ‘sta roba inutile. Toglila. Togli tutto. Mica siamo nati vestiti.’
Fu il suo modo di darmi il buongiorno.
Ero felice di esaudirlo.
Ero in piedi. Il suo volto all’altezza del mio pube. Mi afferrò le natiche, si avvicinò a me, la sua lingua s’era intrufolata tra le gambe che s’erano schiuse. La ricevetti eccitata, mi cercava, esplorava, titillava il clitoride, si infilava nella vagina. Ero in preda al mio solito paradisiaco piacere.
‘Voglio sentire le tue natiche mentre entro in te.’
Salii sul letto, mi posi carponi, con la testa sul cuscino.
‘Aprile.’
Feci quello che mi chiedeva. Le mie dita, tremanti, le divaricarono.
Ora era il suo poderoso glande che mi ‘spennellava’, partiva dal clitoride, lentamente sfiorava il perineo, si soffermava sul buchetto che sentivo pulsare. Tornava indietro, ripeteva il percorso. Quando lo sentii all’ingresso della vagina beante, diedi un colpo di reni, lo accolsi con prepotenza, e lui sprofondò in me, mentre le sue mani mi tormentavano il seno, poi passavano al clitoride. E sentivo il battere dei suoi testicoli, ogni volta che la sua verga era quasi completamente in me. Il mio orgasmo precedette il suo, si ripeté, e quando il suo seme si sparse rivissi l’acme della voluttà. Era bello, e lui non dava segno di attenuare l’erezione. Lo sentii uscire lentamente, e riprendere la spennellata di prima. Questa volta, però, andava spandendo il suo balsamo, e ne aveva cosparso il buchetto. Il suo glande era li, scivoloso e insinuante, spingeva, sempre più decisamente. Non riuscivo a rilassarmi, ad agevolarlo. Eppure, volevo contentarlo, anche se dovevo provare dolore. Sentivo il mio buchetto contrarsi e poi distendersi. Ebbi l’istinto di premermi. Ecco, stava introducendosi. Lo sfintere diminuiva la resistenza, mi sembrava che un enorme batacchio mi stesse lacerando. No, stavo dilatandomi’ anche se con qualche difficoltà, e finalmente sentii che era entrato completamente in me. Li non aveva trovato nulla che limitasse il percorso. A mano a mano che i tessuti si distendevano, sentivo un ché di piacevole, accresciuto dalla mano che mi frugava tra le gambe. Si, stavo godendo, incredibile, quella ‘occupazione’ mi procurava piacere. Sempre di più, e prima ancora che il suo caldo fluido mi riempisse, conobbi un nuovo ed eccezionale orgasmo. Si, era bello sentirlo li dentro.
Lele rimase così, a lungo.
Uscì con una lentezza esasperante. Mi baciò.
‘Grazie, sei stata bellissima.’
‘Sono prensili?’
‘Divinamente.’
Quando sedemmo, a tavola, per la colazione, non nascondo che avvertii un qualche fastidio. Cessò rapidamente. Ero bramosamente pronta per nuove dosi di ‘dio guarisce’!
L’unico mio tormento era l’incertezza del futuro.
Quanto sarebbe durato quell’eden incantevole?
L’unico rimedio era di goderne al massimo finché potevo rimanervi.
Non mi ero accorta del trascorrere dei giorni e, guardando il calendario, distrattamente, mi accorsi che era già superato il giorno delle mie regole.
Non so descrivere ciò che s’affollò nella mia mente.
Ero incinta!
Sgomento’.
Ero incinta!
Tenera esultanza: un figlio di Lele!
Ero incinta!
Conclusi che non dovevo perdere la testa.
Pensare ad avere un figlio, e da Lele, era da folli.
Dovevo interpellare un medico. Già, c’era la dottoressa Evans, italo americana, ginecologa, che mi aveva già visitato, in altre occasioni, e che mi aveva assistito durante la prima gravidanza. Le telefonai, presi appuntamento.
‘Lele, dove andare dal medico.’
Mi guardò con una certa preoccupazione.
‘Perché?’
‘Niente’ cose di donna”
‘Quando devi andarci?’
‘Domattina.’
‘Vuoi che ti accompagni?’
‘Non credo sia il caso.’
‘Aspetterò giù, al portone.’
Margaret Evans, mi visitò accuratamente. Non c’era dubbio, ero incinta.
Ascoltò attentamente le mie perplessità. Disse di comprenderle. Non c’era che un piccolo e rapido intervento. Pochi minuti, e potevo tornare a casa.
Le chiesi come fare per evitare di ritrovarmi nella stessa situazione.
Capì che non potevo chiedere al mio partner di usare profilattici. Lui non sapeva niente del mio stato, né doveva saperlo, né immaginare, almeno per ora, le possibili conseguenze del nostro rapporto.
Margaret Evans mi disse che lei stava sperimentando, personalmente e per alcune pazienti, un certo tipo di applicazione locale, già adottata in USA, che aveva un’altissima percentuale di sicurezza. Le chiesi se potevo profittarne. Mi disse di si, ma che la cosa doveva restare strettamente riservata, perché le leggi vigenti non ne consentivano il ricorso. Ero, logicamente, d’accordo.
‘Allora’ ‘aggiunse- ‘possiamo procedere subito al raschiamento col cucchiaino smusso, e tra tre giorni, torni per l’applicazione.’
Mi dette alcune gocce sedative del dolore, soprattutto utili per il rilassamento della parte, dopo qualche minuto mi sdraiai sul lettino ginecologico. Applicò un divaricatore, per mantenere ben aperto l’orifizio vaginale, con una speciale spatola spalmò le pareti d’una crema per rendere asettico l’ambiente, sentii che stava introducendo qualcosa nel collo dell’utero. Disagio, fastidio, più che dolore. Quasi non mi accorsi che aveva già finito. Il cucchiaino, insanguinato, era nella bacinella, una particolare siringa stava procedendo ad una lavanda astringente e disinfettante.
‘Ora’ ‘disse- non rimuova il tampone che le ho messo fino a dopodomani, quando tornerà qui, e prenda trenta gocce del preparato che le darò, Ogni tre ore oggi, saltando dalla mezzanotte alle sei, e dopo ogni sei ore. Nessuno sforzo, per favore.’
Mi alzai, stavo abbastanza bene, un po’ confusa. Forse l’effetto del sedativo.
Disse di attendere qualche minuto prima di andar via.
Lele era ai piedi delle scale, col volto accigliato.
Aveva atteso quasi due ore.
‘Sei pallida”
‘Niente, tutto bene.’
‘Aspetta, non ti muovere, cerco un taxi.’
Avemmo la fortuna che ne stesse passando uno, dinanzi al portone, proprio in quel momento.
A casa, pretese che mi sdraiassi sul letto.
Gli dissi che andava tutto bene, e che, non doveva preoccuparsi di nulla, Marietta stava per arrivare.
Mi misi sul letto, così vestita com’ero. Mi baciò teneramente. E sentii come una fitta nelle viscere.
Quando giunse Marietta, le dissi cos avrebbe dovuto preparare.
Dopo meno di un’ora, decisi di alzarmi. In effetti mi sentivo bene. Andai nel bagno portando la vestaglia da camera. Mi detti una rinfrescata, cercai di attenuare il residuo pallore del volto, tornai in tinello, in vestaglia. Lele mi fece sedere in poltrona.
Lo ringraziai, gli presi le mani. Era in piedi, di fronte a me.
‘Per qualche giorno, Lele, non potremo fare l’amore”
‘Possiamo stare vicini, però.’
‘Certo, ma senza’ eccitarmi, senza emozioni sensuali”
‘Mi basterà tenerti tra le mie braccia.’
‘Non chiedo altro, tesoro.’
Il ritorno alla normalità fu totale e completo. La ginecologa mi assicurò, dopo la famosa applicazione, che potevo riprendere la vita di prima.
La ripresi, e fu sempre più meravigliosa.
Lele non ha mai saputo la ragione di quella mia indisposizione.
Neppure quando, col trascorrere del tempo e le sue occupazioni, il nostro rapporto, sempre entusiasmante e elettrizzante, divenne sempre meno frequente. Lui dice che nessuno mi darebbe i miei attuali cinquant’anni, mezzo secolo, ed è esaltante sentirselo dire da un baldo trentatreenne che ancora mi colma’ di delizie e di sé.
Ecco perché non so proprio di cosa dovrei giustificarmi, e tanto meno pentirmi.
grammaticalmente pessimo........
Ciao Ruben, sei un mito! Hai un modo di scrivere che mi fa eccitare! La penso esattamente come te. Se…
Ti ringrazio, sono felice che ti piacciano. Vedremo cosa penserai dei prossimi episodi, quando si chiuderà anche la sottotrama di…
Davvero molto bello. Piacevole come gli altri e decisamente pregno di sentimenti espressi senza risultare melensi o ripetitivi. D'impatto leggiadro,…
Come ti ho detto, in pochi e poche sanno sa scrivere in maniera così eccitante sia dare un senso ad…