Mio padre si divertiva a dire che lui era un ‘vindice’.
I Normanni, certamente, erano stati incantati dalla bellezze delle donne della sua terra. Numerosi splendidi esemplari, alti, biondi, con occhi celesti, testimoniavano la non indifferenza delle ardenti isolane.
Lui, in un’altra isola, piccola, collegata alla terra ferma, a migliaia di chilometri a settentrione, aveva incontrato la sua ‘Nordica’: alta, bionda, con profondi occhi celesti.
La sua esperienza sulla ricerca di idrocarburi in mare, era preziosa, anche se le realtà locali, soprattutto geologiche, erano molto diverse. L’Università di quella città, abbastanza recente, perché aveva iniziato ad operare nel 1968, lo aveva portato a tenere alcune lezioni (lui preferiva chiamarle conversazioni) che erano seguite con vivo interesse non solo dagli alunni, affollate com’erano di tecnici giunti anche da altre città.
La sua prima visita a Tromso, che gli antichi Sami chiamavano Rossa, lo aveva portato al Radisson Hotel, in Sjogatan, molto accogliente, dotato di comfort, comodo. Non era mai solo, colleghi, tecnici, industriali, erano lieti di potergli fare compagnia, di ospitarlo.
Lui aveva notato la diligente e interessata ragazza, in prima file, che registrava, prendeva appunti, e gli aveva rivolto delle intelligenti domande.
Prima di lasciare l’aula, le si avvicinò.
‘Se posso esserle utile ne sarò felice, miss’?’
‘Greta Hammer, signore.’
Gli sorrideva, col volto radioso, pulito, con gli occhi che ricordavano le chiare acque del mare quando erano baciate dal tiepido sole di quella terra.
Alta, slanciata, con biondissimi capelli, e un corpo che ai doni della natura aggiungeva gli evidenti effetti di una saggia e misurata attività ginnica.
‘Sono Carlo, Greta, non mi chiamo ‘signore’.’
La ragazza sorrise divertita. Gli tese la mano.
‘Well, Carlo, thank you.’
‘Mi consideri a sua disposizione, anche fuori dell’Università.’
‘Poiché anche mio padre è molto interessato alla materia, lui è petrol engineer, alla NOC, Norge Oil Co., che ne direbbe di sperimentare una cena norvegese?’
‘Perché no.’
‘Questa sera alle sette?’
‘Dove?’
‘A casa mia, passerò a prenderla al Radisson alle sei e mezzo.’
‘Mi dia l’indirizzo, verrò col taxi.’
Sorrise con aria furba.
‘Preferisco farmi vedere in confidenza col professore. Alle sei e mezzo?’
‘OK’
Una solida stretta di mano, e si allontanò, offrendo a Carlo l’incanto del suo incedere ben evidenziato dalle stuzzicanti movenze delle splendide natiche che ancheggiavano nella gonna aderente.
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E’ inutile che la tiri per le lunghe.
Sei mesi dopo, la diciannovenne Greta e il trentenne Carlo, si sposarono a Tromso, dieci mesi dopo, a Roma, nasceva mia sorella Valentina, chiamata subito Blondie per i suoi capelli come l’oro antico Quando, mia madre doveva dare me alla luce, erano trascorsi altri sei anni, decise di tornare dai suoi. Papà non trovò nulla da obiettare. Così io sono Norvegese (Kongeriket Norge) per nascita e Italiano per paternità.
Sono ritornato speso a Tromso, e sono lieto ogni volta che posso esservi ancora.
Da bambino il nonno mi portava a vedere il monumento a Umberto Nobile e ai trasvolatori del polo, o andavamo alla Cattedrale, sulla riva del mare.
Mi piaceva visitare il mercato del salmone, andare al Circolo sportivo a vedere le numerose fotografie della famosa Maratona locale.
Ma riandiamo alla mia nascita.
Ripartimmo per Roma, che avevo solo due mesi. Poco più di un’ora e mezzo fino a Oslo, una sosta per cambiarmi e allattarmi, e poi a Fiumicino, dove era ad attenderci mio padre, che non mi vedeva da poco dopo la mia nascita.
Così, con i miei genitori, mia sorella e Birgitta, e la soda e prosperosa ‘tata’, che poi era una lontana parente della mamma, feci l’ingresso nella spaziosa e comoda villetta, molto bella, con un vasto giardino, la piscina, pur non essendo molto distante dal centro. Da casa si poteva vedere il Laghetto dell’EUR e il quasi grattacielo dove, le poche volte che era in sede, lavorava mio padre.
Le prime cose che videro i miei occhi furono l’azzurro di quelli di mamma, Valentina e Birgitta, i loro capelli biondi, i più chiari di mamma e i più scuri di Valentina, e i corpi nudi di tutte, che, più o meno riparate dalle folte siepi, che in due ordini cingevano il villino e la piscina, prendevano il sole o facevano una nuotata.
I ‘bruni’ della famiglia eravamo mio padre ed io, corvino lui, con l’accenno di qualche filo d’argento, castano scuro io.
Molti sostengono che il naturismo, integrato dal nudismo, pone l’essere di fronte all’evidenza della natura, lo abitua allo vista delle caratteristiche umane e ambientali, frena certe manifestazioni.
Io ho qualche riserva, in materia.
Cos’è, gli animali che non usano vestiti, gli appartenenti ai popoli che vanno in giro nudi, sono insensibili?
A mano a mano che crescevo d’età, notavo che quando quelle donne giravano in tenuta evitica, quando esibivano tette, natiche, folti tosoni con dorati riccioli ondeggianti, il mio cosino diveniva cosone, e gli occhi non si staccavano da quello spettacolo.
Frequentavo la terza elementare, e Valentina era visibilmente fiorita: piccole tettine sempre più procaci, e l’aureo prato tra le sue gambe andava infoltendo.
Anche il mio pisello andava cambiando dimensione.
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Il tempo trascorreva e più volte mi chiedevo perché mi piaceva guardare quelle che definivo le ‘mie donne’. Mi piaceva carezzarle, baciarle, carpire un ‘passaggio’ audace, cercando di contrabbandarlo per sbadataggine. Sfiorare le loro tette, sentire la consistenza delle chiappe. Io non potevo fare il bagno completamente nudo. Già era molto difficile contenerlo nello slip. E loro, certamente, se ne erano accorte. Birgitta, avevo la sensazione, ne profittava pure, chinandosi a lambire l’acqua proprio di fronte alla sdraia dove stavo io, con quel solco che dischiudendosi non nascondeva più nulla. E se ci incontravamo in una strettoia, non attendeva che uno di noi passasse, mi strusciava con le chiappe o col ventre proteso e io sentivo che m’attraeva, mi accoglieva, mi tratteneva.
Quel pomeriggio che eravamo rimasti soli in casa, l’adocchiai dalla porta semichiusa. Sonnecchiava, supina, senza nulla addosso.
Entrai più che mai deciso ad avere l’esperienza che fantasticavo da tanto. Il sesso solitario era insoddisfacente. Le mie amichette mi sembravano banali. I miei diciotto anni erano attratti da quel corpo florido e invitante. Aprì gli occhi e mi vide, accanto al suo lettino. Mi tese la mano, mi attirò a lei, cominciò a sbottonarmi la camicia, ad abbassare la zip dei jeans’ mi accolse nel suo letto. Le mie mani erano indecise, esitanti. Ora che potevo liberamente palpare quello che avevo furtivamente sfiorato, non osavo farlo. Lei m’incoraggiò, baciandomi. Portò la mia mano sul seno, sentii il capezzolo inturgidirsi. Con l’altra scesi sul pube, su quel campo di grano che andava rivelando sempre più il suo incantevole solco. E fu sempre lei a condurre il vomere del mio aratro nella sua incantevole zolla. Per la prima volta entravo in una donna, mi muovevo in lei, la sentivo palpitare, ansimare, gemere, mungermi con ardore, quasi rantolare la sua voluttà, avvolgendomi in un crescendo che sfociò in una sensazione meravigliosamente liberatoria, come se una chiusa a lungo bloccata s’aprisse di colpo, inondando le zolle che non attendevano altro che essere invase dal seme.
Fu quella la mia prima, di numerose altre, scopate con Brigitta.
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Quell’esperienza aveva acutizzato la mia curiosità.
Mamma, non più giovanissima, e non lo era neppure Brigitta, era molto più bella, attraente. Il suo petto era alto e sodo, il suo deretano uno spettacolo premiante per chi, come me, aveva il privilegio di ammirarlo. Figuriamoci a carezzarlo. Non sapevo se inorridire o meno, ma Greta era un gran bel pezzo di fica, quella che i compagni di maturità ‘era l’anno- definivano una sorcona da sballo. L’idea mi tormentava. Tentavo di scacciarla. Inutilmente. Cercavo di sfinirmi in Brigitta. Ma quando con lei la mia pur giovane ed esuberante natura non consentiva prosecuzione, bastava vedere mamma, in piscina, e mi tornava prepotentemente eretto.
Era andata sotto la doccia.
Con aria bambinesca le dissi che mi sarebbe piaciuto fare la doccia con lei.
Mi guardò, perplessa, ma non disse nulla, forse per non considerare malizioso il mio desiderio.
Ero di fronte a lei, appena più alto di lei.
Si accorse, ovviamente, dell’erezione che mi tormentava e mi voltò la schiena, mostrando di desiderare che l’acqua le scivolasse sul dorso.
Peggio che mai.
Il glande era violaceo.
Lo abbassai appena e mi accostai a lei. Ecco, lo avvicinavo alle sue natiche, al solco che divideva i due sodi emisferi.
Spinsi.
Mi accorsi che lo aveva, evidentemente, avvertito, ma non si muoveva.
Ancora una spinta.
Non riuscivo a trattenermi. L’abbracciai, con le mani sul seno, le dita che stringevano i capezzoli. Sempre immobile.
Non riuscivo a star fermo. Cominciai a sentire che le sue chiappette non erano più insensibili. Il massaggio alle tette faceva il suo effetto. Discesi con una mano sul grembo. Che riccioli meravigliosi. Le sue gambe s’andavano dischiudendo piano piano, la esploravo. Si, le mie dita carezzavano il clitoride della mamma, e lei ne godeva, lo capivo. S’introdussero in lei. Si liberò dalla mia stretta e si voltò, alzò una gamba, mi spinse verso la parete della doccia, prese il mio fallo e lo puntò all’ingresso della sua tumida e palpitante vagina, si aggrappò al mio collo, si sollevò per farsi penetrare, fin quando poté, e intrecciò le gambe dietro la mia schiena, mentre le mie mani, stringendo le sue natiche, ne assecondavano il sempre più appassionato movimento. Un entra ed esci condotto con esperta maestria, che le fece raggiungere presto un travolgente e ricorrente orgasmo accompagnato da gemiti incontenibili che si conclusero in un lungo mugolio quando sentì invadersi dalla incandescente lava che sparsi in lei.
Rimase così. Mi guardò con occhi spalancati, nari frementi, capelli sconvolti.
‘Cosa ho fatto!’
‘Sei meravigliosa, ma” è stato insuperabile”
‘Si, anche per me. Ma cosa ho fatto.’
Io, intanto, stavo risorgendo in lei, e non seppe rinunciare a trarne nuovo e antico godimento.
Non avrei mai immaginato un tale temperamento in questa magnifica vichinga. In mia madre.
Ormai il ghiaccio era rotto.
Birgitta aveva certo subodorato che un’altra stava subentrando al suo posto. Cercò di correre ai ripari. A suo modo.
Si rivelava tenera oltre ogni dire, stimolando e prevenendo ogni sorta di fantasia. Mostrava una voluttà travolgente.
Una notte, sfidando ogni prudenza, venne nel mio letto.
Disse che voleva farmi il regalo per la mia ‘maturità’.
Si voltò di fianco, col suo gagliardo culo sul mio grembo, afferrrò il glande, prontamente svettante in una eccezionale erezione, e lo guidò, in luogo che nella sua calda vagina, come era usa fare, vicino al buchetto che sentii ben lubrificato. Pulsava, come un invito ad essere penetrato. Aveva sempre evitati i miei numerosi tentativi, in precedenza. Questa volta era lei a spingere con risolutezza ed energia, e sentii che entravo in lei, e percepivo tutto il suo partecipe impegno. Dopo poco sentii che la sua sollecitudine stava ottenendo compenso. Mugolava come mai prima d’ora, stringeva la mia mano tra le gambe, e accoglieva le mie dita nella vagina, con fremiti inusitati, specie quando, esplorandola, ne stimolavo i punti particolarmente erogeni. Fu un susseguirsi di orgasmi che la facevano dimenare, e un continuo gridarmi che stava in paradiso, che la riempissi di me, sempre più dentro.
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Quella notte faceva molto caldo.
Nel tardo pomeriggio qualcosa aveva mandato in tilt l’impianto di condizionamento.
Avevamo profittato, un po’ tutti, della piscina. Ma il refrigerio spariva lestamente.
Papà aveva telefonato da Anchorage che li faceva fresco. Beato lui.
Mi dava fastidio tutto, anche i pantaloncini del pigiama.
Avevo lasciato aperta la porta della camera, nella speranza che si formasse un po’ di corrente d’aria tra la finestra spalancata e l’uscio.
M’ero svegliato madido di sudore.
Avevo desiderio di qualcosa di fresco.
In frigorifero, da noi, il latte non mancava mai.
Si, un bel bicchiere di latte era quello che ci voleva.
Ne avrei portato anche uno a ma’, e lei mi avrebbe certo ringraziato nel modo col quale sapeva splendidamente gratificarmi. Al solo pensiero m’ero immediatamente eccitato.
Cos’ come ero, mi avviai in cucina.
Il chiarore della luna dava risalti argentei ai mobili, al frigorifero’ a quello che si muoveva davanti al frigorifero: la splendide natiche di Blondie.
Anche lei aveva avuto la stessa idea.
Il caldo, la sete, le avevano suggerito il latte del frigo.
Era nuda, come al solito, e quando si voltò appena, sentendo i miei passi, mi offrì la vista delle sue stuzzicanti tettine, sode e ben disegnate, sormontate da due fragoline che divennero rossi lamponi quando si accorse del mio stato.
Blondie aveva venticinque anni, ormai, era una fantastica ragazza, una di quelle sventole che ti saresti fatta anche col pensiero.
Mi sorrise, e il suo sguardo si soffermò sul mio fallo, mentre i miei occhi s’intrufolavano tra le sue gambe.
Niente da dire, Blondie era proprio un bocconcino delizioso.
Tolse la bottiglia del latte, dal frigo, andò alla credenza e prese due bicchieri. Mise tutto sul tavolo, riempì i bicchieri, me ne porse uno. S’era appoggiata col bacino al tavolo. Sorseggiava il latte. Gliene cadde un po’ sul petto, tra le tette, scivolò sul pancino, proseguì. Fui maliziosamente spontaneo, si consenta la contraddizione, tentando di asciugare quel piccolo rivo biancastro con la lingua. Come era liscia e vellutata la pelle di Blondie. Le mie labbra si soffermarono anche dove il latte non c’era. Anzi cercarono in lei il candido primordiale alimento, accogliendo i grossi lamponi che andai ciucciando golosamente. Blondie era rimasta così, con la mani sul tavolo. Io scesi lungo quel corpo statuario, e andai a suggere il latte che aveva intriso il prato dorato del pube, fino a frugare tra le grandi labbra che sembravano vivere di fremiti. Questo era il suo dolce clitoride, ora la lingua era penetrata nella vagina, ne sentiva la fragranza, il sapore, e cercava di carezzarla lambendone le pareti palpitanti.
Blondie prese la mia testa,la sollevò lentamente, cercò le mie labbra, la mia lingua ancora sapida di lei, si accomodò sul tavolo, afferrò il mio glande e lo avvicinò al suo sesso sussultante, sporgendosi per farsi penetrare. E cominciò una danza inebriante, languida, lasciva, concupiscente, mentre mi baciava con sempre maggiore foga, fino a quando non testimoniò il suo impetuoso e coinvolgente godimento, suggendomi in lei, svuotandomi, avida, insaziabile.
Non ci eravamo accorti che avevamo rovesciato bottiglia e bicchieri.
Per fortuna non erano caduti in terra, il rumore avrebbe potuto destare qualcuno.
Non ci dicemmo niente. Eravamo di nuovo uno di fronte all’altra, col fiato un po’ grosso, un po’ impiastricciati, ma appagati.
Blondie rialzò i bicchieri, asciugò il tavolo alla meglio, buttò la bottiglia vuota nel recipiente apposito, tornò al frigorifero. Altro latte.
Riempì di nuovo i bicchieri, me ne porse uno.
Mi sfiorò le labbra con un bacio.
‘Buona notte, piccolo. Sei deliziosamente bravo.’
Uscì dalla cucina.
La seguii immediatamente.
Passando davanti alla camera da letto di ma’ mi fermai un momento per guardare attraverso lo spiraglio che aveva lasciato aperto.
Forse non dormiva.
Mi chiamò.
‘Sei tu, bambino?
‘Si, ma. Vuoi latte freddo?’
‘Si, grazie.’
Entrai, lei accese la piccola luce del comodino. Come al solito dormiva rivestita solo della sua pelle dorata.
Il solo vederla rinnovò la mia’ emozione.
Lei lo notò.
Spense la luce.
‘Vieni qui, tesoro, non lasciarmi sola.’
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grammaticalmente pessimo........
Ciao Ruben, sei un mito! Hai un modo di scrivere che mi fa eccitare! La penso esattamente come te. Se…
Ti ringrazio, sono felice che ti piacciano. Vedremo cosa penserai dei prossimi episodi, quando si chiuderà anche la sottotrama di…
Davvero molto bello. Piacevole come gli altri e decisamente pregno di sentimenti espressi senza risultare melensi o ripetitivi. D'impatto leggiadro,…
Come ti ho detto, in pochi e poche sanno sa scrivere in maniera così eccitante sia dare un senso ad…