Quando Diego Molina mi invitò a prendere un gelato, lo fissai con meraviglia e anche con un certo senso di irritazione.
Io quell’uomo non lo avevo visto mai. Del resto non mi soffermavo a guardare chi aveva pressappoco l’età di mio padre, anche se, purtroppo, non avevo più i miei genitori, a causa d’un tragico incidente stradale.
Una persona distinta, vestita con accuratezza, e con un’aria molto corretta.
Mi aveva colpito il suo modo di parlare, non mi sembrava italiano.
Dopo un momento di fastidio, gli sorrisi debolmente, quei sorrisetti di cortesia che non dicono niente.
‘Scusi, ma io non la conosco.’
‘Claro, sono Diego Molina, il dottor Diego Molina.’
‘Seguito a non capire.’
Ero un po’ infastidita per quel colloquio tra le gente che va e viene, proprio vicino all’Istituto di Pedagogia dove seguo un corso di formazione, dopo il diploma magistrale.
Lui se ne accorse.
‘Vorrei parlarle, ma non qui, certamente, ecco perché le ho proposto di prendere un gelato. E’ un modo di dire, lei potrà prendere quello che desidera.’
Ero divenuta curiosa.
‘Vada per il gelato, lei è di lingua spagnola, se comprendo bene, voi dite helado, vero?’
‘Cierto, helado, usted habla castellano?’
Sorrisi divertita.
‘No, a malapena parlo italiano.’
‘Bene, possiamo andare in quel caffè, dall’altra parte della strada, ha dei tavolini nella sala interna.’
Ci avviamo verso il caffè, si fece da parte per farmi entrare per prima, attese che mi sedessi prima di sedersi, quando venne il cameriere mi chiese cosa desiderassi, ordinò lo stesso anche per lui.’
Quella fu la prima volta che vidi il Dottor Diego Molina, dentista, nato e residente a Rosario, nello stato di santa Fè, in Argentina, da padre argentino e madre italiana. Era a Roma per uno stage di perfezionamento in implantologia. Mi parlò di osteintegrazione, titanio, e tante altre cose, interessanti, ma per me non facili da comprendersi. Aveva un tono calmo, non professorale. Era un divulgatore, ti spiegava le cose con parole semplici.
Ad un certo momento si decise a venire al punto.
Era a Roma da circa due mesi, e dal primo giorno, sempre alla stessa ora, mi vedeva uscire dall’Istituto di Pedagogia, poco distante dalla sede del suo stage. Lui usciva dieci minuti prima di me.
Senza grosse parole, mi disse che era rimasto encantado dal mio aspetto, dal mio modo di camminare, dal come mi comportavo tra la gente. Sapeva benissimo che per me, che potevo avere, a suo giudizio, circa vent’anni (ed aveva indovinato), un uomo come lui era ‘vecchio’, dato che andava per i quarantacinque (molto ben portati, in verità), ma mi pregava di fargli un po’ di compagnia, in modo esclusivamente amichevole e senza secondi fini, durante il resto della sua permanenza a Roma. Così, come adesso: al caffè, una passeggiata, un teatro’.
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Diego partì dopo un mese, e disse che sarebbe tornato dopo tre mesi, per sposarmi.
Una cerimonia molto ben riuscita, anche con la presenza dell’Ambasciatore argentino che fu il suo testimone, e due giorni dopo partimmo per Rosario.
Silvia, mia sorella più grande e suo marito Giorgio, ci accompagnarono a Fiumicino. Silvia mi confidò che forse era in attesa di un lieto evento.
E così, sono da quasi vent’anni a Rosario, una delle principali città industriali del paese, la terza per popolazione, con molte attrazioni : il Parque Independencia; los Fosos del Teatro ‘El C’rculo’; il Parque General Belgrano, dove si trova il Monumento a la Bandera.
Diego ed io andiamo spesso al Fosos del Teatro ‘El Circulo’, la principale sala di Rosario destinata alla musica, alla danza ed al teatro. Vi si conservano collezioni di violini e violoncelli. Al suo interno, scendendo, si trovano corridoi e passaggi, dove si conservano immagini di madonne e santi e bassorilievi. Vi sono esposte opere di carattere religioso dello scultore rosarino Eduardo Barnes.
Di fronte all’isola di Espinillo, dove si stabilirono le batterie La Libertad e Independencia, fu issata per la prima volta, il 27 febbraio del 1812, la bandiera ideata dal generale Manuel Belgrano. Li è il monumento alla bandera, circondato da alcune opere della scultrice Lola Mora. Il Monumento copre una superfice di 10.000 m2 ed è realizzato, principalmente in marmo travertino delle Ande.. Fu inaugurato il 20 giugno del 1957.
Vita tranquilla, ancora di più dopo la morte di mamma Lucia, la madre di Diego, che aveva il mio stesso nome.
Io insegno alla scuola italiana, Diego è occupatissimo, tra studio medico, università, convegni, conferenze’.
Parecchie telefonate a Silvia, rarissime lettere.
Strano, ma in quasi vent’anni non ci siamo scambiate fotografie, né abbiamo avuto modo di incontrarci. Credo soprattutto per pigrizia, perché la nostalgia per mia sorella e per l’Italia è sempre stata, ed è, grandissima, anche se Diego fa del tutto per distrarmi.
Figli? Niente!
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Silvia mi ha telefonato. Piero, il figlio, che ho lasciato nel grembo della madre, concepito da non molto, ha conseguito la maturità, con ottimi voti. Mi ha detto che è un ragazzone alto, simpatico, con molti interessi, che passa ogni minuto libero in piscina, in palestra, al tennis.
A cena ne ho parlato con Diego.
‘Fagli un regalo, Lucia, digli di venire a trovarci. Gli dici che glielo offri in occasione della maturità. E’ il tuo unico nipote, ed anche il mio, e ti farà anche un po’ di compagnia. Chissà se non lo convinciamo a restare a Rosario.’
Quando glielo dissi Silvia mi sembrò contenta. Mi passò al telefono Piero, che conoscevo solo ‘di voce’, che ne fu entusiasta. Sarebbe partito la settimana dopo, mi avrebbe avvertita. Ringraziava me e lo zio Diego.
Gli dissi che a Rosario non era estate come a Roma.
‘Lo so, zia, lo so.’
Sono andata all’aeroporto Fisherton, ad attenderlo, mi ha telefonato da Buenos Ayres. Gli ho detto che avrei avuto una bandierina italiana in mano, per farmi riconoscere.
Per stare comoda, su pantaloni e blusa di lana, ho indossato un comodo cappotto sportivo.
Diego è andato in clinica, per un consulto molto importante ed urgente.
Catalina, a casa, sta preparando la camera per gli ospiti.
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Siamo a casa, ho parcheggiato l’auto nella rimessa di casa.
Piero è sotto la doccia.
Mi ha individuata subito, mi è venuto incontro col bagaglio sul carrello. Si è fermato dinanzi a me.
‘Zia Lucia!’
Un abbraccio che quasi mi stritolava, malgrado il paltò.
Centonovanta centimetri perfetti in ogni dettaglio. Viso simpatico, anzi no, bello, espressione cordiale, festosa.
Mi sentivo come ubriaca.
Quello era mio nipote, il figlio di mia sorella.
Un esemplare maschile da farti girare la testa, da stordirti.
Ne profittai subito per un nuovo abbraccio, dopo, però, aver aperto il cappotto, per sentirlo sulle mie tette che, purtroppo, erano rivestite di lana.
Un vero shock, per me, uno sconvolgimento che non avevo mai provato in quarantadue anni di vita.
Era la prima volta che incontrando un maschio il mio grembo manifestava che lo voleva.
Ridicolo. Io quarantadue anni, lui intorno ai diciannove.
La prima volta che vedendo un uomo ‘e ne avevo incontrato, anche di attraenti- ho pensato subito al suo sesso. Bramosamente, golosamente.
Un bel guaio!
Lui, che mi sovrastava di almeno venti centimetri (anche perché porto scarpe con tacchi bassissimi) mi pose una mano sulla spalla, stringendomi a sé, mentre con l’altra spingeva il carrello.
Avrei voluto che il percorso fino al posto dove avevo lasciato l’auto, fosse interminabile, che quella mano mi stringesse ancora di più.
Piero è sotto la doccia.
Chissà se ha bisogno di qualcosa.
Andai dietro la porta.
‘Piero, ti serve qualche cosa?’
Con quel tono di voce non mi avrebbe sentita mai.
Ripetei la domanda, senza ammettere di essere ipocrita, con voce ancora più basse.
Nessuna risposta.
Abbassai piano la maniglia, la porta si aprì. Lui era li, che si asciugava. Nella sua abbagliante nudità, con un corpo perfetto.
Sicché, quella grazia di dio sarebbe stata in casa mia.
Ci mancava solo questo.
Tentazione diabolica per un grembo inquieto e voglioso.
Quando un alunno mi chiese cosa fosse la foia, non ebbi alcun disagio a spiegare, con termini precisi e scientifici, che si tratta di eccitazione sessuale propria degli animali, desiderio ossessivo, smania, frenesia.
Ora capisco perché anche la razza umana appartiene al regno animale.
Dovetti chiudere la porta e scappare, prima che la tentazione non mi trascinasse dentro.
Forse è stato un enorme errore invitarlo.
O forse é la mia manna, una benedizione.
Manna? Man hu? Cosa é?
Gli Ebrei non sapevano cosa fosse, poi scoprirono che era la loro stessa vita, il mezzo per proseguire il loro cammino e raggiungere la Terra Promessa.
Che fosse la mia manna, la mia ragione di vita?
Gli Ebrei la raccolsero e se ne cibarono.
Come avrei potuto farlo anche io?
Andai ad attenderlo nel tinello, el tinelo, mi misi a sfogliare una rivista, distrattamente.
Diego apparve, sorridente, in pantaloni di velluto in lana e polo a maglia. Una visione da incanto. Io ero rimasta con lo stesso abbigliamento che indossavo sotto il paltò. La blusa era molto aderente, e i pantaloni stretch trousers. In effetti, gli abiti sembravano sprayed sulla mia pelle, sapevo di essere molto sexy. E grazie all’attività sportiva non c’era niente di cadente o flaccido.
Non so neanche perché, ma quando Diego entrò mi alzai.
Lui mi esaminò attentamente, da capo a piedi, più volte. Poi mi tese la mano e, alzandola, mi fece fare una piroetta.
‘Più lentamente, tia Lucia, più lentamente.’
Come se fossi in mostra, come un manichino che ruota su sé stesso, ripetei il giro, e volle che lo facessi ancora. Sentivo i suoi occhi che percorrevano la mia persona. Sotto gli abiti.
Ero sempre più eccitata, e godevo nel sentirmi guardata in quel modo.
Non pensai certo ai miei quarantadue anni, né alla sua età giovanile. Era la femmina che metteva la massima cura nell’evidenziare ed esaltare i propri attributi erotici per accendere il maschio e spingerlo all’accoppiamento. Al solo pensiero del bramato epilogo mi sussultava il grembo.
Piero, terminato l’esame visivo, m’attirò tra le sue braccia, mi strinse forte.
‘Caramba! E chi sapeva che in Argentina era nascosta una tia encantadora y guapa!’
‘Te gusta, sobrino? Ti piace, nipote?’
‘Moltissimo.’
‘Una tia madura.’
‘Il più bel momento per gustare i frutto.’
E le sue mani s’attardavano a verificare la consistenza delle mie natiche. Dovevo aver superato l’esame, perché mi strinse ancor più a sé.
Non riuscivo a credere a me stessa, quell’attrazione irresistibile che sentivo per lui, era contraccambiata, lo sentivo. Pensai anche che un giovane della sua età s’eccitava facilmente, ma il perché accadesse non m’interessava, l’essenziale era che non gli ero indifferente, Lo avevo chiaramente percepito quando mi aveva abbracciata.
Che fosse scoppiata, tra noi, la centella? La scintilla? El rayo de la pasiòn?
Quando ero a scuola, in Italia, il mio compagno di banco aveva affibbiato all’insegnante di spagnolo, certamente muy bonita, il nomignolo di Esperanza D’Escobàr. Ora, io coltivavo la misma esperanza’ con Piero!
O mi ero montata la testa?
‘Ora ti preparo un aperitivo, Piero, tipicamente argentino.’
Mi avvicinai alla credenza dov’erano le bottiglie, alzai le braccia per aprire l’anta. Lui era venuto dietro me, attaccato a me, e aveva afferrato entrambe le tette con le sue mani possenti e delicate nel contempo, mentre si premeva al mio didietro, fortemente.
No, non mi ero montata la testa. Eravamo uniti da un desiderio reciproco. Poco mi interessava se il suo era solo la ricerca d’uno sfogo fisiologico od altro.
Mi voleva come io volevo lui.
Quando riuscii a voltarmi, ero ancora tra le sue braccia, e non avevo mai conosciuto un bacio così passionale e ardente, né provato le sensazioni che mi dava. Ero pervasa da un tremito dalle labbra al seno, al ventre, nel ventre, fino agli alluci.
Lo avrei preso, mi sarei fatta prendere, lì, sul momento, sul tappeto.
Fu più forte di me e riuscì a staccarsi.
‘Sei splendida, zia, una sorpresa che non immaginavo. Ti sembro sciocco, vero?’
Lo carezzai teneramente.
‘Sei bellissimo, Piero. Sono io la sciocca.’
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Diego venne per il pranzo.
Un affettuoso abbraccio tra i due, che non si conoscevano, e una immediata reciproca simpatia.
Dopo, in salotto, nel salòn, durante la rituale tazzina di caffè, Diego s’informò sui programmi scolastici di Piero. Il ragazzo era ancora indeciso. Lo attraevano molto sia ingegneria che medicina. Due cose diverse, vero, ma entrambe per lui erano molto interessanti.
Diego gli disse che a Rosario avrebbe potuto frequentare medicina, una facoltà prestigiosa, dove lui insegnava implantologia odontoiatrica, con particolare attenzione per le moderne tecniche e i moderni materiali usati. Accennò alla osteointegrazione, all’uso del titanio. Piero lo seguiva con la massima attenzione.
Diego era atteso nel suo studio privato, sulla Calle Italia, al centro della città, e salutò Piero suggerendogli di pensare alla sua proposta. Non c’era fretta per decidere.
Chi aveva fretta ero io. Di fare l’amore (che frase ipocrita) con Piero.
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Non volle che chiudessi le serrande. Voleva vedermi.
Sedette e assisté al mio volutamente lento, quasi esasperante striptease, fin quando, nuda dinanzi a lui, non iniziai a spogliarlo. Con uguale lentezza, pregustando il contatto con quel corpo vigoroso e atletico, che andavo scoprendo in ogni particolare, nella sua invitante, manifesta virilità.
Mi afferrò e mi sollevò come una piuma, mi avvinghiai a lui con le gambe, tirai indietro il bacino, presi il glande con le dita, dolcemente, e lo condussi alla mia palpitante vagina, mi impalai, deliziosamente, e cominciai una danza voluttuosa che mi fece raggiungere le vette più alte del godimento.
Le sue spinte erano energiche e abili, mi frugava, cercando dove il contatto mi faceva maggiormente fremere. Il clitoride impazzito strusciava sulla sua pelle, le tette si strofinavano a lui, mentre la bocca cercava avidamente la sua lingua.
Poi i sussulti accrebbero, e mi sembrò di cadere in deliquio mentre l’orgasmo mi scuoteva, sempre più, e solo l’invasione del suo liquido ristoratore, caldo e balsamico, consentì il lento inizio d’una appagante distensione.
Ancora uniti, andammo sul letto. Mi teneva ancora sostenuta con le sue mani, e s’era gettato, quasi supino, senza mai lasciarmi, sempre riempita del suo generoso sesso.
Ero sfinita, ma non fino al punto da non desiderarlo di nuovo.
Temevo di ridestarmi da un sogno, che con la realtà svanisse.
Il poderoso bocciolo della sua gioventù era in me, e tornava a rifiorire, più vigoroso che mai.
Fu facile, naturale, che profittassi del luogo, del tempo, del modo.
Mi sollevai, rimasi a cavalcioni, e lo sentii in tutta la sua magnificenza. Ero l’amazzone penetrata dal pomo dell’ arcione, da un pomo meraviglioso, voluttuoso, che andavo lustrando con la calda pomata della mia fremebonda vagina. Impazzita dal piacere, avevo iniziato una cavalcata voluttuosa, porgendo alla cavalcatura stessa le redini dei miei capezzoli. Capelli scompigliati dal galoppo, occhi fissi alla mèta, quasi sperduti nel vuoto, labbra socchiuse perché il respiro incalzante potesse dire tutto il mio piacere, testimoniarlo col gemito pressante che terminò in un rantolo inebriante, mentre m’abbattevo sul petto dell’impareggiabile Piero che riempita m’aveva ancor della sua vita.
Le sue labbra erano vicine al mio orecchio.
Il mio respiro era affannoso.
Prese a baciarmi appassionatamente, e tra i baci, la sua voce soave mi sussurrava:
Dos rojas lenguas de fuego que,
a un mismo tronco enlazadas,
se aproximan,
y al besarse forman una sola llama.
Anche le nostre rosse lingue di fuoco, baciandosi, formavano una sola lama. Deliziosa, ardente.
Esperanza era divenuta realidàd!
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grammaticalmente pessimo........
Ciao Ruben, sei un mito! Hai un modo di scrivere che mi fa eccitare! La penso esattamente come te. Se…
Ti ringrazio, sono felice che ti piacciano. Vedremo cosa penserai dei prossimi episodi, quando si chiuderà anche la sottotrama di…
Davvero molto bello. Piacevole come gli altri e decisamente pregno di sentimenti espressi senza risultare melensi o ripetitivi. D'impatto leggiadro,…
Come ti ho detto, in pochi e poche sanno sa scrivere in maniera così eccitante sia dare un senso ad…