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Racconti erotici sull'Incesto

La vita che mi hai dato

By 12 Febbraio 2004Dicembre 16th, 2019No Comments

Per la prima volta era stato così lontano da casa, all’estero, da solo, e tanto a lungo. Oltre due mesi. Le settimane gli erano sembrate eterne. In effetti erano trascorse rapidamente. Se ne accorgeva adesso.

Settimane abbastanza uguali, monotone: lezioni in aula, studio in biblioteca o nella propria cameretta, le gite del week-end, il solito porridge, eggs and bacon, scrambled eggs, puddings di tutti i generi, chopped meat, roast chicken, potatoes, milk or soft drinks….

Unico Italiano del gruppo per precisa scelta della scuola: evitare di mettere insieme più allievi parlanti la stessa lingua madre. Età media, diciassette anni. Sei “boys” e otto “girls”.

Una brigata allegra. Ognuno insegnava all’altro qualche frase nella propria lingua, e s’era formato uno strano modo di parlare, una specie di gergo che avevano battezzato “schesper”, l’esperanto della scuola. La parola che più li accomunava, specie nei giudizi su insegnati e cibo, era quella suggerita da Genevi&egraveve: merde!

Genevi&egraveve era molto carina. Treccine bionde, volto rotondetto, occhi celesti, statura media, personale ben modellato, piena di vita, sempre in movimento, sempre pronta a sollevare eccezioni che solo la flemma di Miss Mary Moss, di Chelmsford, riusciva ad accantonare, rinviando la discussione alla prossima volta. “Next time, Genevi&egraveve” diceva, e andava avanti come da programma, sorridente, ma decisa: un gentile rullo compressore.

Chi cadeva, invece, nella rete della provocazione, era la bellissima Hillary O’ Kelly, tutoress. Capelli nerissimi, lunghi, ondulati, occhi verde giada, pelle bianchissima, non molto alta, di superbe proporzioni e sempre con aderentissime magliette che ponevano in evidenza la prepotenza del seno. Aldo e Hans la guardavano incantati quando, nel bianco costume che l’acqua le incollava addosso, usciva dalla piscina, ansante per la lunga nuotata.

Manuela era stata battezzata “New York”.

“New York the big apple” per le sue tette veramente imponenti, che ballavano a tempo di musica quando si esibiva in una delle tante danze del suo paese. Nessuno, però, era riuscito a sbirciarle al naturale. Nemmeno quando faceva la doccia.

“Tette bellissime, come quelle della mamma quando allattava Mario”. Aveva pensato Aldo.

Olga, una bella ragazzona di Groeningen sembrava uscita da una tela di Rembrandt, viveva con la porta sempre spalancata. Era una delle più grandi. Il corpo d’una donna fatta. Non grossa, ma d’un robusto che testimoniava salute e benessere, che sprizzava gaiezza. Sempre sorridente, anche sotto il getto della doccia. Si rigirava felice nel tepore dell’acqua che la carezzava scendendo sui capelli rossi, sui fianchi ben modellati, sulle gambe tornite, sulle gote bianche e rosse, sui seni turgidi, sul rosa intenso dei capezzoli, lungo il ventre, sulla fiamma che le ondeggiava tra le gambe.

Aldo restava a guardarla, incantato

Meraviglioso spettacolo, che non aveva nulla d’impudico, di malizioso. Visione di gioventù, bellezza, serenità, allegria. Splendida statua, impreziosita da quello meraviglioso triangolo color tiziano. Olga lo vedeva, gli sorrideva, lo salutava con la mano e seguitava a bearsi sotto la dolce pioggia della doccia.

* * *

Era entrato di corsa, senza bussare, nella stanza da bagno dei genitori.

La mamma era nella vasca. Sdraiata, rosea, quasi bianca, col seno, pieno e fiorente, appena fuori dell’acqua. Lui s’era punto con la spina d’un fiore e voleva farle vedere la goccia di sangue che gli arrossava la punta del ditino, voleva il solito bacio che avrebbe fatto passare la bua, come quando era ancor più piccino. La mamma era bellissima. Pelle liscia, d’alabastro. Pelle d’angelo, come la collana che indossava spesso. Tra le gambe, un cespuglio scuro nascondeva qualcosa. Non si vedeva niente. Lui, tutto quel nero non lo aveva.

La mamma baciò il ditino, gli tolse con la lingua la piccola goccia di sangue, mentre lui, con l’altra mano, le stringeva il capezzolo, carezzava la tetta. Lui non aveva le tette e non le avrebbe avute mai. Lo sapeva perché glielo aveva detto la mamma, quando aveva chiesto perché erano solo le donne ad allattare i figli, come lei allattava Mario e aveva allattato anche lui. E aveva anche domandato perché lui non poteva più succhiare il latte della mamma, che gli sarebbe tanto piaciuto farlo ancora.

Non le avrebbe detto di averlo osservato quando aveva veduto la madre nella vasca da bagno, ma doveva assolutamente conoscere qualcosa in merito alla stranezza rilevata. Lui sapeva che alle femminucce sarebbe cresciuto il petto, sapeva che prima di nascere i bambini stanno nella pancia della mamma. Anche lui era stato nella pancia di mamma. Non si era mai posto il problema, però, di come ne fosse uscito. Forse, la pancia si apriva come il bocciolo d’una rosa, e poi si richiudeva. Nessuno gli aveva mai detto nulla. Non aveva mai visto una bambina nuda. Neppure al mare. All’asilo ci sarebbe andato l’autunno venturo, al compimento dei cinque anni. Ne doveva parlare col padre.

“Papà, perché le donne hanno come un cespuglio nero tra le gambe?”

Eugenio piegò il giornale e guardò il piccolo che gli stava di fronte. Rimase un istante a pensare. doveva chiedere al figlio il perché di quella domanda? Decise che era meglio rispondere subito e chiaramente.

“Aldo, le donne non hanno un cespuglio nero tra le gambe. A tutti, uomini e donne, crescono dei peli: sulle braccia, sulle gambe, sotto le ascelle ed anche giù, dove finisce la pancia. Gli uomini, in genere sono più pelosi delle donne e alcuni hanno anche peli sul petto e sul dorso. Il colore non é sempre nero, é come quello dei capelli, perché i peli del corpo sono della stessa sostanza dei capelli”.

“Ma una persona bionda” -chiese il bimbo- “può avere peli neri tra le gambe?”

“No, i peli del pube, perché così si chiama la parte del corpo alla quale tu ti riferisci, possono essere più scuri dei capelli, ma non di colore diverso”.

“Papà, anche tu hai i peli sul pube?”

Certo, Aldo, e quando sarai più grande li avrai anche tu”.

“E li ha anche la mamma?”

“Certo”.

“E sono biondi, come i capelli?”

“Aldo, la mamma va dal parrucchiere e si fa tingere i capelli del colore che più desidera. Allora, i capelli cambiano colore ma gli altri peli restano di quello originale. Il colore naturale dei capelli della mamma é il castano scuro. Capito?”

“Si, papà, ho capito. Ma quei peli sotto la pancia sono tanto lunghi e fitti da nascondere il pipì?”

“No, Aldo, sono intorno, non lo nascondono”.

“E’ così anche per il pipì delle donne?”

Eugenio strinse le labbra e sospirò. La conversazione diveniva delicata, comunque bisognava rispondere esaurientemente. Era il suo dovere di padre.

“Aldo, le donne non hanno il pipì…”

“E come fanno?”

“Hanno un altro organo, sono fatte diversamente dagli uomini”.

“E come sono fatte?”

“Hanno una specie di solco, custodito tra due lembi di pelle. Come una bocca verticale…”

“Coi denti?”

“Per fortuna, no!”

“Perché per fortuna?”

“Niente, scherzavo. E poi, pensa come sarebbe scomodo andare dal dentista.”

“Va bene”.

Aldo sembrò appagato dalle risposte. Andò a sfogliare l’album degli animali. I leoni avevano risolto il problema nel modo più semplice: i maschi avevano la criniera, le femmine no. L’affare del solco, però, non gli era completamente chiaro. Doveva parlarne con la mamma, forse gli avrebbe fatto vedere di cosa si trattava.

Andò in cucina dove la domestica era intenta a stirare.

“Franceschina” -chiese Aldo- “mi fai vedere il solco che hai tra le gambe?”

Alla donna quasi cadde il ferro di mano e si scottò per trattenerlo sul tavolo. Senza guardare il bambino rispose:

“Adesso sto stirando, ne parliamo dopo”.

“Quando torno dal giardino?”

“Ecco, si… adesso va a giuocare, e bada a non farti male. Lascia stare i cespugli delle rose”.

“Franceschina, tu li hai i peli intorno al solco? E di che colore sono, come i tuoi capelli o anche tu ti fai tingere i capelli, come la mamma?”

“Va in giardino, Aldo, quando torni parleremo di tutto”.

Aldo uscì nel giardino e si mise in cerca di Marietta, sua coetanea, abituale compagna di giuoco, figlia dei custodi che curavano anche il giardino. Una brunetta tutto pepe, seconda di tre figli, che da poco aveva avuto un fratellino.

Marietta era intenta a guardare le formiche che, in lunga processione, trasportavano piccoli semi verso il foro che conduceva ai loro magazzini. Aldo le si accoccolò a fianco e si mise a osservare, anche lui, il correre indaffarato dei piccoli insetti.

“Marietta, andiamo nello sgabuzzino degli attrezzi. Devo vedere una cosa”.

La bambina lo seguì, senza chiedere nulla.

Lo sgabuzzino era abbastanza ampio, tenuto in ordine, con un grosso tavolo sul quale erano poggiati alcuni vasi vuoti. Vicina, una vecchia sedia di legno.

“Marietta, sali sulla sedia”.

Marietta, agilissima, si arrampicò sulla sedia.

“Abbassa la tuta”.

“Perché?”

Questa volta voleva sapere la ragione di quella strana richiesta.

“Devo vedere una cosa”.

“Ma cosa devi vedere?”

“Come sei fatta”.

“Ma come devo essere fatta! Come tutte le femminucce”.

“Va bene, ma io non lo, non ho visto mai come siete fatte. E tu, lo sai come sono fatti i maschi?”

“Certo, vedo sempre il fratellino quando fa il bagno”.

“Va bene, ma io non ho sorelle”.

“E io non sono tua sorella”.

Ma é come se fossi mia sorella: giuochiamo insieme e litighiamo pure. Perciò, abbassa la tuta e fammi vedere il solco”.

“Il che?”

“Niente, fammi vedere e basta!”

Marietta scrollò le spalle e abbassò tuta e mutandine.

Aldo spalancò gli occhi. Guardò il viso della bambina che se ne stava, seccata, con le mani sui fianchi, tornò ad abbassare lo sguardo.

“Allora” -disse Marietta- “visto? contento?”

“No, aspetta. Fammi vedere bene”.

Si avvicinò di più, tese la manina verso il pube della bambina, lo sfiorò con una carezza impercettibile, le fece divaricare le gambe. Quella, dunque, era la bocca verticale, il solco.

Sottovoce, sussurrò:

“Sdraiati sul tavolo”.

La bambina si sdraiò, senza parlare, senza chiedere nulla.

Le sfilò la tuta e le mutandine e tirò le piccole gambe verso di sé, le poggiò sulle sue spalle, scrutò attentamente. Era ammaliato e turbato. Lei, intanto, aveva messo le mani sotto la testa, per non farsi male sul duro del legno, e guardava in aria con aria seccata.

“Grazie, Mariettina, ti aiuto a scendere e a rivestirti”.

“Lascia stare, faccio da sola”.

Scese si rivestì in un attimo.

“Allora, cosa hai visto? Che, devi fare il dottore, da grande?”

Aldo era perplesso.

“Non sapevo che ci fosse tanta differenza”.

Marietta assunse un’aria saputella.

“Noi femmine dobbiamo fare i figli, e voi no. Ma ricordati che se fossi stata più grande non avresti né veduto né toccato niente, perché la mamma le dice sempre che i ragazzi devono tenere le mani a posto”.

“Io vado a casa, non voglio giuocare, sono stanco”.

Rientrò a casa e si mise a sfogliare distrattamente i giornaletti. Accese la televisione, ma non la guardò. Nel suo cervello c’era una gran confusione. Voleva sapere mille cose, ma a chi chiedere spiegazioni? Al padre s’era già rivolto; Franceschina non gli avrebbe dato ascolto perché era sempre indaffarata; Marietta era piccola quanto lui. Restava la mamma. Ma se una bambina più grande di Marietta non doveva farsi vedere né toccare dai ragazzi, la mamma come si sarebbe comportata? Gli avrebbe permesso di vedere, di toccare ? Gli avrebbe spiegato tutto?

Per ora doveva star zitto e pensare cosa fare.

La notte ebbe un sonno agitato. Sognò la madre con uno spinoso e aggrovigliato cespuglio di rovi tra le gambe. Lui tendeva la mano per toccarlo, ma le spine gli penetravano nelle dita. La mattina decise che ne avrebbe riparlato col padre. Eugenio, però, era partito, per ragioni professionali, e sarebbe stato fuori fino al sabato successivo.

Si mise a girare per casa, con aria pensierosa e annoiata. A chi gli chiedeva se stesse bene, rispondeva che stava benissimo ma non sapeva cosa fare. No, non voleva andare a giuocare con Marietta. Mario, poi, così piccolo nella sua culla, non serviva a niente.

Guardava fisso tra le gambe di Franceschina, e scuoteva la testa.

Era giunta la sera.

“Mamma, ho paura”.

“Paura di che, tesoro mio? Ti senti bene? Hai mangiato svogliatamente. Cosa hai?”

“Ho paura. Mi fai dormire con te, questa sera, al posto di papà?”

La donna lo guardò sorpresa e anche un po’ preoccupata. Era la prima volta che Aldo le diceva di aver paura di dormire solo, nella sua cameretta.

Gli fece una carezza.

“Va bene, tesoro, vieni a dormire con la tua mamma”.

Aldo non cercò scuse per non lavarsi i denti, né chiese di andare a letto più tardi, com’era uso a fare. Indossò il pigiama e andò a infilarsi nel letto, al posto del padre. Dopo poco, fece il respiro grosso, fingendo di dormire.

La mamma entrò senza far rumore, guardò sorridendo il suo bambino che dormiva. Sul letto, dalla parte sua, era distesa la camicia da notte. Leggera, rosa, non molto lunga. Cominciò a svestirsi, lentamente, per non svegliare il piccolo. Per un istante rimase completamente nuda, prima di infilare la camicia.

Il cespuglio c’era, Aldo l’aveva visto chiaramente, ma non aveva potuto scorgere altro. E il solco?

Non appena la mamma entrò tra le lenzuola, lui fece finta di svegliarsi. Con aria sonnacchiosa le chiese di abbracciarla.

“Vieni qua, piccolo, che la mamma ti tiene tra le sue braccia, come quando eri piccino piccino”.

“Come quando bevevo il tuo latte, mamma?”

“Si, tesoro mio, come quando ti allattavo”.

“E adesso, mi puoi allattare?”

“Adesso sei grande, amore della mamma, il latte é per Mario”.

“Non ne berrei tanto, mamma, solo un po’, appena…”

“Vieni qua che la mamma ti stringe sul suo cuore”.

Il bambino si avvinghiò alla mamma. Attraverso la leggera camicia, le baciò il seno, ne cercò il capezzolo, tentò di succhiarlo. La mamma gli spostò dolcemente la testina, lo carezzò, lo baciò.

“Dormi, Aldo, dormi tra le braccia della mamma”.

E lui si addormentò pian piano.

Lo stesso incubo della notte precedente, lo stesso sogno. Si svegliò di soprassalto. La piccola luce, dal comodino rischiarava appena la camera. Nella stanzetta accanto Mario dormiva nella sua culla. La mamma era supina, coi lunghi capelli sparsi sul cuscino, un braccio sotto il capo, l’altro piegato sul petto. Dormiva profondamente. Aldo le si avvicinò e le poggiò la testa sulla pancia. Pianissimo, con la leggerezza d’una piuma. Lui era stato in quella pancia. Peccato che ora non era più li. Si stava così bene là dentro. Vicino alla mamma, anzi nella mamma, accanto al suo cuore. Avrebbe voluto rientrarci, ma come? Allungò la manina verso il grembo della donna, piano, cautamente. Aveva paura di farsi male, di pungersi. La camicia era un po’ sollevata. La mano si muoveva lentamente, impercettibilmente, come un volo di farfalla. Sentì sotto le sue piccole dita una seta morbida, liscia, calda, che scendeva dolcemente verso il basso, superava un piccolo balzo, diveniva appena cresposa, si perdeva e si diradava in un solco tiepido, che percorse lievemente, senza che la mamma avvertisse nulla, senza che il suo respiro regolare e profondo cambiasse ritmo.

Altro che rovo spinoso. Sorrise e s’addormentò. Beato.

Verso il mattino, Eva trovò Aldo che le respirava sul pube, lo spostò con dolcezza, gli sfiorò i capelli con un bacio. Si alzò lentamente, infilò la vestaglia, e andò ad allattare Mario.

La trasformazione da bambina ad adolescente e a donna, fu materia di attenta osservazione, da parte di Aldo, e fu seguita momento per momento grazie alla collaborazione di Marietta che, tutto sommato, trovava sempre meno noiosi i discorsi di lui e, soprattutto, meno spiacevoli i suoi accertamenti tattili.

Occhiate ed esplorazioni erano sempre meno dettate da semplice curiosità scientifica.

Attualmente, inoltre, le cose erano cambiate del tutto.

Lui era un ragazzone, che la palestra andava gagliardamente sagomando, con braccia e gambe pelose.

Lei aveva un piccolo seno sodo, gambe snelle, volto angelico, occhi profondi nei quali ci si sperdeva, e si depilava le ascelle.

Le mani si cercavano, frugavano dappertutto, le labbra si richiamavano, i corpi si strofinavano l’un l’altro. Marietta era stata chiara: nulla più di questo.

Nell’Enciclopedia, le pagine sul corpo umano, struttura e funzioni, erano le più sgualcite.

“Mamma, io e Marietta guardiamo la Treccani”.

Era un’informazione che Aldo aveva dato centinaia di volte, alla madre.

Eva, dal canto suo, non dimentica della sua passione per la biologia, che l’aveva condotta a completare il corso universitario quando Aldo era già nato, usava un linguaggio scientifico, ma semplice e chiaro, per spiegare i fenomeni della vita. Queste conversazioni, iniziate quando i ragazzi erano già grandicelli, avevano fatto sì che per Aldo e Mario non ci fossero misteri intorno al sesso. Mario ascoltava sempre attento, Aldo, a volte, appariva preoccupato.

“Mamma, ma allora, anche tu…”

Non aveva il coraggio di completare la domanda, ma Eva rispondeva sempre con chiarezza.

“Le leggi della natura sono uguali per tutti, Aldo. La differenza é se le cose si fanno per amore o solo per soddisfare un istinto, una necessità fisiologica. Questo distingue il razionale dall’irrazionale, l’uomo dalla bestia, anche se é vero che, a volte, l’uomo si comporta anche peggio della bestia.”

“Quindi, mamma, alla base di tutto deve esserci l’amore”.

“Certo, l’amore dev’essere la base dell’universo. E non v’é maggior manifestazione d’amore dell’unione di due esseri che desiderano procrearne un altro”.

Aldo restava profondamente colpito da queste parole. Le rimuginava di continuo. Quindi, si diceva, per ‘fare sesso’ é necessario amare, cio&egrave si deve fare l’amore con chi si ama veramente. Lui, in effetti, ne era profondamente convinto e spesso si ripeteva: ‘non sono una bestia, non sono una bestia, quello che sento non é amore, é istinto, non devo abbassarmi al livello di bestia…’.

Ne parlò con Marietta.

Lei ascoltò in silenzio il lungo discorso di Aldo, che le sembrò alquanto sconclusionato, e alla fine parlò.

“Aldo, lo sai quello che penso di noi due.

Se tu vuoi più delle nostre carezze e dei nostri baci, devi… rivolgerti altrove.

Ma più il tempo passa meno sono convinta di ciò e credo che non sia nemmeno giusto. Il mio pensiero é cambiato e per questo non riesco a comprendere le tue parole. Forse, é un modo cortese per dirmi che non ti piaccio, che ti sono indifferente.

Vedi, Aldo, si dice fare l’amore solo per evitare parole che possono sembrare volgari. Io non credo che un uomo e una donna hanno rapporti sessuali solo ed esclusivamente perché spinti dall’amore, inteso nel senso che tu vuoi dare a questa parola. E’ anche perché si desiderano fisicamente, perché sono pressati dalle loro pulsioni, dalle esigenze naturali del loro essere. Del resto, si dice che gli animali sono in amore per indicare la stagione dell’accoppiamento. C’é una contraddizione, o quanto meno una confusione, tra quello che tu sostieni e la realtà. Considera noi. Siamo molto giovani, é vero, ma i nostri sensi sono pienamente maturi, io ti voglio e tu mi vuoi, non puoi disconoscerlo, solo che un certo tipo di comportamento, imposto da usi e consuetudini, ci impedisce di appagare istinto e desiderio.

Rifletti, Aldo, forse tra noi c’é amore, ma anche se non ci fosse io concepirei un figlio tuo solo che tu ponessi il tuo seme in quello che hai sempre chiamato il mio solco. E questo senza scomodare quanto tu ti sforzi di sostenere, perché se siamo entrambi consenzienti, se non c’é violenza, non vuol dire abbassarci al ruolo di bestie. E’ perché ci piacciamo e ci desideriamo. Agire diversamente può anche far meritare la beatificazione, nell’al di là, ma su questa terra, nella realtà, é un comportamento innaturale e contrario alla normalità. Aldo, facciamolo adesso, subito. Non temere nulla, prendo sempre la pillola perché non so fino a quando saprò resistere a questo prepotente desiderio di sentirmi completamente donna. E lo voglio essere con te, si, perché credo di amarti, oltre a volerti bene. Non importa se andiamo ancora a scuola, se per i nostri genitori siamo sempre ragazzi. Alla mia età, nel passato, molte donne erano già spose. Voglio sentirti in me, mio.”

S’era avvicinata al ragazzo, gli aveva preso una mano e se l’era infilata sotto la gonna, nelle mutandine.

“Senti Aldo, é il solco, senti com’é pronto, tiepido, palpitante, come ti attende, com’é assetato di te, senti…”

Con l’altra mano gli aveva abbassato la chiusura dei pantaloni, aveva afferrato…

“No, Marietta, no. Sei bellissima, meravigliosa, desiderabile, ma non provo per te ciò che solo potrebbe giustificare un atto così importante.”

Si alzò di scatto, chiuse la lampo, uscì correndo dal vecchio sgabuzzino.

L’indomani partì per l’Inghilterra.

* * *

Sul tabellone era apparso: Volo AZ 279 da Londra, atterrato.

Erano le dieci d’una tiepida sera di metà settembre.

Aldo fu il primo ad apparire all’aprirsi della porta automatica.

Le sembrò più alto e più atletico di quando era partito. Veramente un bel ragazzo, suo figlio. Aveva un’espressione pensosa, sul volto, ma appena scorse la madre s’illuminò d’un sorriso radioso. Le corse incontro, l’abbracciò stretta, la baciò forte sul collo, e così, serrandola fino a toglierle il respiro, le disse la sua felicità nel rivederla, la sua gratitudine per averla trovata all’aeroporto. In tal modo aveva potuto riabbracciarla subito. La cosa che più gli era mancata durante la sua assenza: l’abbraccio della mamma.

Non era mai stato così espansivo, Aldo, non le aveva mai dimostrato tanto affetto, e con tale trasporto.

Eva lo strinse a sé, gli carezzò la testa, poi cercò di staccarsi da quel suo bambinone.

“Anche tu mi sei mancato, Aldo. Il mio primo bambino, adesso così grande, che vorrei tenere sempre vicino a me. Sono una mamma egoista, sai? Quasi vorrei che non fossi cresciuto, per cullarti ancora”.

Le cinse la vita e si avviarono a ritirare il bagaglio.

“Papà e Mario sono fuori. C’é un convegno a Tunisi e papà voleva che io e Mario andassimo con lui. V’é andato solo Mario.”

“Tu perché non sei andata?”

“Per riabbracciare te al più presto, tesoro mio”.

E lo baciò sulla guancia.

Ritirata la grossa sacca dalla “giostra”, Aldo le chiese:

“Dove hai parcheggiato, mamma?”

La prese per mano e si diresse verso l’uscita.

‘Sono venuta in taxi, Aldo, sai che non amo troppo guidare’.

Andarono verso la gialla auto capofila, misero la sacca nel vano portabagagli, salirono, dettero l’indirizzo all’autista.

Aldo sedette vicinissimo a Eva, le prendeva la mano, le baciava le dita.

La madre sorrise, come se parlasse a sé stessa, disse:

“I figli sono sempre cuccioloni… specie quando tornano da una lunga assenza… ma é bello che siano così… li sentiamo più nostri… sentiamo di averli ancora con noi e per noi…”

L’uomo alla guida assentì col capo e filò sull’autostrada, verso la città che s’avvicinava rapidamente.

* * *

Era buio fondo.

Franceschina aveva apparecchiato sul terrazzo del soggiorno, da dove due gradini conducevano in giardino. Salutò Aldo calorosamente.

“Signora” -disse- “devo fare gli spaghetti? l’acqua é a bollore”.

“Aldo” -chiese Eva, al ragazzo che stava avviandosi a depositare la sacca nella sua camera- “…dopo tanta Inghilterra?”

“No, mamma, meglio di no questa sera”.

La raggiunse vicino alla tavola.

Eva proseguì:

“C’é del roast-beef, insalata, il dolce che piace a te e, se vuoi, date le cose che avrai certo bevuto nelle scorse settimane, dell’ottimo vino. Non lega col roast-beef ma é il tuo preferito, lo Chardonnay, va bene?”

“Benissimo, mamma, é proprio quello che ci vuole, e tu brinderai con me”.

“Franceschina” -seguitò Eva- “porta in tavola la carne, metti sul carrello l’insalata, il dolce e la frutta, la caraffa dell’acqua, nel secchiello col ghiaccio il vino, e va pure a riposare, sarai ben stanca. Io vado a cambiarmi. Scenderò fra poco”.

Entrò in casa.

Aldo andò nella sua camera e presto tornò, rinfrescato, indossando uno short grigio e una polo azzurra. Si avvicinò al carrello, prese la bottiglia di vino, la liberò della carta dorata che avvolgeva il collo, cominciò a girare lentamente il cavatappi, ne abbassò le leve, annusò il turacciolo appena tolto.

Anche Eva era riapparsa, in una leggera vestaglia celeste. I capelli rossi, sciolti, le cadevano, morbidi e ondulati sulle spalle rotonde e sul seno sempre stupendo.

“Sembra che abbiamo scelto più o meno gli stessi colori”.

“Si mamma, però il celeste é per i maschietti, tu dovevi indossare qualcosa di rosa”.

“Forse hai ragione, Aldo, ma preferisco il rosa nella biancheria intima. Il colore dei capelli, del resto, s’intona meglio col celeste. Veramente non sta bene cenare in vestaglia, ma tu mi scusi, vero?”

“Scusarti? Ma sei bellissima. E poi, non vedi la mia tenuta?”

Aldo, intanto, aveva riempito due calici di vino e si era avvicinato alla madre porgendogliene uno. Alzò il suo:

“Ben trovata, mamma, sono felice di essere di nuovo qui. Con te”.

“Ben tornato Aldo, non ero mai stata tanto tempo lontana dal mio tesoro”.

Portò il bicchiere alle labbra, e bevve tutto d’un fiato.

Aldo assaggiò appena il vino. Non ne beveva da molto e temeva che potesse stordirlo.

“Mamma, invece di stare di fronte, lontani, posso sedermi vicino a te?”

“Certo, tesoro, che domande fai. Sta vicino a me. Vuoi della carne?”

“Una sola fettina. Attendo il dolce!”

Eva era assetata, il figlio le riempiva il bicchiere e lei lo vuotava subito, il vino, fresco, scendeva deliziosamente nella gola. Ci volle presto un’altra bottiglia.

“Questo dolce é meraviglioso, mamma. Lo hai fatto tu, vero?”

“Si, piccolo, so che ti piace e l’ho preparato per te. Io ne prenderò solo un pezzetto. Forse ho bevuto un po’ troppo, ma avevo caldo e anche sete. Ora la sete é diminuita ma il caldo é aumentato.”

Fece un profondo sospiro che le gonfiò il petto e aprì un po’ la vestaglia.

“Mamma, però un goccetto di champagne, per brindare al ritorno del figlio, non puoi rifiutarlo:”

“Solo un goccio”.

Rispose Eva.

“Vado a prenderlo nel frigo, e porto i calici.”

Entrò in casa.

Nel tornare, si fermò un momento nel soggiorno, per scegliere un disco. Uscì, posò i calici sulla tavola, aprì la bottiglia, riempì i bicchieri, senza ascoltare la mamma che gli raccomandava di versarne poco. Tornò nel soggiorno e mise in moto il giradischi. Poi uscì e dette un calice a Eva.

“Mamma, la tua canzone, magic moments, adesso il brindisi e poi un balletto. Evviva la mamma!”

E alzò il calice. Eva rispose che l’evviva era per il suo piccolo grande bambino, tornato a casa, e vuotò la coppa.

Aldo le prese la mano, l’aiutò ad alzarsi, le passò il braccio intorno alla vita, per ballare.

“Aldo, sono un po’ brilla. Tu devi ballare con le ragazze, non con la tua vecchia mamma che non regge neanche una coppa di champagne.”

Ma stava ballando col figlio. Muoveva le gambe un po’ pesantemente, quasi meccanicamente, ed aveva abbandonato la testa sulla spalla di lui.

Aldo la baciò sulla guancia. Lei, d’improvviso, voltò il viso per guardarlo, e il bacio scivolò sulle labbra. Bruciavano.

“Aldo, vado a letto, chiudi le porte finestra, al resto penserà Franceschina, domani.”

“Ti accompagno, mamma, ti aiuto a salire le scale.”

“Credi che sia veramente ubriaca? Sto benissimo, guarda.”

E fece per scostarsi da lui, ma sarebbe caduta se Aldo non l’avesse sorretta.

Aldo si fece porre un braccio intorno al collo e tentò inutilmente di farle salire i due gradini che portavano in casa. La sollevò delicatamente sulle braccia e la portò nella camera da letto.

“No, non accendere la luce grande, mi da fastidio. Basta quella del comodino. Ma adesso non preoccuparti, tesoro, una doccia fredda metterà a posto tutto. Grazie, va pure a letto, che devi essere stanco.”

“Mamma, la doccia fredda dopo cena fa male. Se proprio la devi fare, che sia ben tiepida. Comunque aspetterò qui, fino a quando non sarò certo che tutto va bene. Vorrei stare sempre vicino a te, mamma, con te. Ti ricordi quando mi tenevi nelle tue braccia, mi sentivo sicuro, non avevo paura di nulla, non facevo brutti sogni. Hai ragione, anch’io vorrei non essere cresciuto, essere ancora il bambino che poteva dormire nel letto della sua mamma, abbracciato alla sua mamma. Mi piacerebbe tanto poterlo fare ancora.”

Eva s’era seduta sul bordo del letto.

“Aspetta qui, mamma, non muoverti, vado a chiudere giù e torno subito.”

Mancò pochi istanti.

“Va bene, tesoro, farò una doccia tiepida. Resta pure, caro, per me sei sempre e solo il mio piccolo.”

Tentò di alzarsi, ma Aldo dovette aiutarla. Lasciò cadere la vestaglia sul tappeto, restando con un trasparente reggiseno e minuscole mutandine. Entrò barcollando nella stanza da bagno, senza chiudere la porta.

Si udì qualche rumore, poi lo scroscio della doccia.

Aldo temeva che la madre non si sentisse bene. Andò nel bagno. Attraverso il vetro opaco della cabina vide che faceva scorrere l’acqua sul volto, le braccia alzate. Ferma, immobile. S’intravedevano il ventre piatto, il seno, i capezzoli rivolti verso il cielo, a ricevere il getto al quale chiedevano ristoro. La lieve smerigliatura attenuava i colori, non li cancellava, li rendeva leggermente opalescenti, come avvolti da un alone. Il bianco lattiginoso della pelle, il rosa sbiadito dei capezzoli, un triangolo scuro tra le gambe.

Si avvicinò al vetro:

“Mamma…”

Ripet&egrave più forte:

“Mamma… tutto bene?”

“Si… grazie”.

Andò rapidamente nella sua camera, indossò un pigiama e tornò dalla madre.

“Aldo” -disse Eva, dal bagno- “non &egrave servito a niente, sento che la sbronza peggiora. Sto cadendo per il sonno.”

Rientrò in camera, malamente avvolta nel telo di spugna, e sedette sulla sponda del letto.

“Per favore, Aldo, prendimi una camicia da notte in quel cassetto… il terzo a sinistra… si.. quello.”

Aldo aprì il cassetto.

“Quella rosa, mamma?”

“Si va bene.”

La camicia, di seta leggera, era corta e vaporosa.

Si avvicinò alla madre.

“Aiutami, Aldo, da sola non sono capace…”

“Alza le braccia, mamma.”

Eva eseguì come un automa. Lui le fece infilare la camicia dalla testa, l’aiutò a passare le braccia tra le spalline bordate di merletto. Lei s’alzò in piedi, con gli occhi chiusi. Il lenzuolino scivolò a terra. Eva restò con le braccia in alto, un’espressione imbambolata sul volto, il seno eretto, i capezzoli turgidi, il ventre scoperto, le gambe ancora bagnate.

Aldo le passò l’asciugamano sul ventre, sui fianchi, sulle gambe, tra le gambe. Lei, in piedi, lasciava fare, senza dire nulla. Poi si gettò di peso sul letto, di traverso, con le gambe in fuori e i piedi sul tappeto, la camiciola che la copriva solo fino alla cintola, arrotolata sotto la schiena. Aldo le tirò su le gambe, le pose la testa sul cuscino, le aggiustò la camicia, la coprì col lenzuolo. La guardò a lungo. Era bella la sua mamma nuda, e l’aveva asciugata, delicatamente, dopo il bagno, come chissà quante volte lei aveva fatto con lui. Aveva toccato quel corpo splendido, tante volte carezzato nei suoi sogni, ma tanto più bello di come l’aveva immaginato e sognato.

Eva era rimasta supina, cogli occhi chiusi. Sussurrò piano:

“Grazie, Eu…”

E s’addormentò.

Aldo non l’udì, allungò la mano, spense la luce del comodino.

Dalla finestra filtrava il chiarore dei lampioni. Girò intorno al letto, vi salì, cercando di non far rumore e di non farlo muovere, anche se Eva non se ne sarebbe accorta. Si sdraiò vicino alla madre, si girò su un fianco e tirò verso di sé il braccio sinistro della donna, per farsi abbracciare. Le si accostò, le poggiò la testa sulla spalla. La sua guancia sentì il seno, attraverso la sottile camicia, e gli sembrò di percepire il battito del cuore.

Scostò la stoffa, con la massima cautela, e con le labbra, piano, sfiorò la pelle tiepida e liscia, vivendo un ricordo lontano e mai cancellato. Premeva sul fianco della donna, il suo ginocchio era sulla coscia di lei. Ne sentiva il calore. Aveva la testa in fiamme, deglutiva continuamente, con le labbra secche. La lingua cercò golosamente il capezzolo. Avrebbe voluto succhiarlo con avidità, si limitò a lambirlo, a lungo. Era turgido, meraviglioso, delizioso. Si accorse che si stringeva sempre più contro il fianco di Eva, col sesso prepotentemente eretto, fuori dai pantaloni. La mano scese lungo il corpo della donna, le sfiorò il pube, vi si poggiò sopra, leggermente. Lei, immobile, respirava profondamente. Cominciò a sfiorare quella seta incantevole. Lievemente. Poi sempre più insistentemente. Sentì le gambe di lei che si dischiudevano appena. Frugò con le dita, entrò nel solco morbido racchiuso tra due labbra turgide come i capezzoli. Incontrò, in alto, un piccolo rilievo che fremette alla carezza. Le gambe si disserrarono ancora. Le dita di Aldo andavano dal rilievo verso il basso, sostavano indiscrete intrufolandosi appena tra le piccole labbra frementi, tornavano indietro, riprendevano il loro titillare, si fermavano ancora, frugavano sempre più profondamente, tornavano a carezzare. Dalla bocca di Eva sfuggiva un gemito appena udibile. Il bacino iniziò a sussultare, dapprima impercettibilmente, poi più forte, fino a divenire onda possente, irrefrenabile. Aldo non riusciva a fermarsi. Il gemito aumentò, quel muoversi divenne frenetico. Ad un tratto Aldo sentì afferrarsi il sesso. Eva, come in trance, si girò di colpo, gli fu sopra, portò la punta di quel palpitante fallo tra le sue gambe, nel suo solco, nel suo serico giardino delle delizie. Un sapiente colpo di reni, e lo accolse in s&egrave.

Di colpo tolse la camicia e la gettò in terra.

Sembrava in preda a convulsioni. Dalla bocca uscivano suoni senza senso, sempre più rochi e profondi, in un crescendo ossessionante. Si muoveva, si agitava, senza posa. La testa alta, gli occhi chiusi, il seno squassato da quella cavalcata selvaggia, le labbra dischiuse. Una corsa che sembrava non dover finire mai. Poi, di colpo, gli s’abbandonò sul petto, ansante, stringendolo forte, strizzandolo, suggendo il nettare inebriante che la irrorava, l’essenza di vita che le stillava dentro. Con la bocca cercò le labbra di lui, lo morse fino a fargli male. Le nari dilatate, frementi.

Si rovesciò supina, con le gambe dischiuse, passandosi la lingua sulle labbra.

Si voltò verso Aldo, senza aprire gli occhi, respirando pesantemente.

“E’ stato bellissimo… tenerissimo… dolcissimo… voluttuoso come non era stato mai. Sei meraviglioso, Eugenio.”

Gli afferrò il sesso, a confermare il suo diritto di possesso, assoluto, e, sempre così, tornò nel suo sonno profondo, catalettico, mentre il respiro s’andava pian piano quietando.

Aldo era sconvolto.

…Voluttuoso come non era stato mai! …Eugenio!…

Scivolare fuori dal grembo della madre era stato nascere una seconda volta.

Si, era stato come non mai.

Come poteva e doveva essere quando l’amore, quello più grande del mondo, insuperabile, l’unico vero che potesse mai esistere, raggiungeva la completa, reciproca, totale donazione.

L’amore tra i due soli esseri che si conoscevano fin dal concepimento, che erano stati uniti fin dal loro primo meraviglioso conoscersi.

“Mamma, solo tra noi poteva essere così:”

Le gridò, tra le lacrime.

Scese dal letto che avrebbe voluto distruggere, perché nessun altro maschio potesse più salirvi.

Eva dormiva. Beata.

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