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Racconti erotici sull'Incesto

Se fosse stato un sogno

By 1 Novembre 2009Dicembre 16th, 2019No Comments

Se fosse stato un sogno
A un tratto sentii come un leggero lamento, sospirato, poi un altro più lungo, più intenso. Mi girai, dalla scrivania dove stavo studiando, verso il lettino, dove, tre metri più in là, in un angolo della camera, nel lettino, dormiva mia figlia. Mia figlia, allora, aveva vent’anni ed era un sogno di ragazza. Mia moglie ci aveva piantato quando lei aveva ancora tre anni ed era scomparsa dalla nostra vista e anche dal mio portafoglio, non fosse perché, a quel tempo, era più il tempo trascorso a cercare lavoro che quello in cui lavoravo effettivamente. Se non ci fossero stati i miei genitori, da cui abitavamo, a darci più di una mano d’aiuto, non so come saremmo sopravvissuti. Martina era da quando aveva sedici anni che dormiva nel divano-letto dello studio, da quando riuscii a convincerla a dormire da sola. La casa era piccola e, perciò, si vide costretta a rifugiarsi in quel cantuccio. Non poteva più dormire con me. Già da dopo i tredici anni avrei voluto che dormisse in un lettino tutto suo, ma non riuscii a convincerla. Per me era diventata una vera e propria tortura vedermela e sentirmela, la notte, seminuda, accanto. Quante volte me la ritrovai accucciata stretta a me, il seno adolescente ed eburneo gravare nudo contro il mio costato, o le gambe sensuali e levigate abbandonate sulle mie. Di notte lei non indossava neanche le mutandine. E furono troppe le volte che il suo vello crespo e folto strusciasse o caracollasse su un mio fianco o sul mio grembo, sconvolgendomi di desiderio. Allora, lavoravo in una piccola televisione locale e capitava che rincasassi all’alba. Accendevo la lampada e mi ritrovavo troppo spesso lei con uno straccio di sottoveste arrotolato sotto i fianchi, il seno svettante come due cupole delle chiese russe, il grembo scoperto, le gambe scomposte, spalancate sul letto. Era uno spettacolo che abbacinava gli occhi per la naturale bellezza, ma che ti arroventava le carni di un languore senza confini. Certo, era mia figlia, ma era una donna nel fulgore della sua adolescenza. Mozzava il fiato a vederla. Mi avvicinavo e, timidamente, tiravo su il lenzuolo per coprirla. Quale forza dovevo fare su me stesso per non accarezzare, baciare, quel seno trionfante di femminilità. Il colmo fu raggiunto diverse notti in cui, svegliandomi, mi ritrovavo con la sua mano sul mio sesso, vuoi lì abbandonata, vuoi invece stretta attorno ad esso pur se sopra il mio slip. E, l’ultima di quelle volte, fui preso da un vero e proprio raptus erotico. Prima le tolsi la mano, poi, ci ripensai e, tiratomi giù lo slip, la riportai sul mio membro. Lei, inconsciamente, vi si aggrappò e, invasato da un piacere indicibile, circondai la sua mano con la mia e cominciai ad agitarla in un lento saliscendi sul mio sesso. Era così intenso il desiderio che dopo qualche minuto mi sciolsi, riuscendo, tuttavia, a non imbrattarla. Avrei potuto, a quel punto, essere soddisfatto. Lei, però, non me ne dette il tempo. Sospirando mi si rovesciò, davvero dormiente, ma certamente rapita da un sogno erotico, addosso, il suo grembo sul mio. Avvertii il crespo del suo lussurioso vello sulla pelle del mio membro che si inalberò immediatamente sotto il suo pube. Mi piaceva da morire quel tepore di fanciulla che, però, incendiava il mio grembo come acciaio fuso e che cominciò a smaniare, inconsulto di desiderio, quando lei, il mio membro imprigionato tra le sue cosce, sotto il perineo, cominciò ad agitare il bacino, un lento dondolio dei fianchi, annichilante. Non capii più nulla e cominciai ad accompagnare quel suo dondolare col mio sussultare del bacino. Ancora una volta mi sciolsi dal piacere, ancora una volta in tempo per sgusciare dalle sue cosce e rovesciare il fiotto del mio desiderio sul lenzuolo. Lei si ricompose e io tentai di riaddormentarmi senza riuscirvi. Ormai non era solo mia figlia ma una donna che sprigionava desiderio da ogni poro della sua pelle. Quando mi ritrovai col suo seno in una mano, mi svegliai di colpo come da una droga o da un’ipnosi. In quel momento decisi che avrebbe dormito da sola: mai più con me. Non fu per nulla facile spiegarglielo, anche in termini espliciti. Le dissi chiaramente che in me suscitava desideri carnali, che era una tentazione che un padre non può né deve permettere e, tantomeno, accettare. E lei non solo non trovò la mia spiegazione irrilevante, ma si sentì lusingata dalle mie preoccupazioni. Allora, per papà era davvero bella, se lei gli suscitava emozioni così forti. Perché vergognarsene? Forse che lei lo faceva, se desiderava fare l’amore con me, come lo aveva fatto in sogno, come tante figlie lo avevano fatto in sogno? Troncai il discorso e, comprato un bel divano letto, la notte successiva lei si trovò a dormire da sola. A dormire, dicevo. Lei sosteneva che non ci riusciva. E, per questo, tentò mille volte di convincermi a riprenderla con me. Si alzava talora in piena notte e, svegliandomi, me la ritrovavo accanto. Insomma, col tempo, in qualche modo se ne fece una ragione, anche se io, per quello che avevo fatto quella notte, mi sentivo in colpa e non riuscivo ad abbracciarla, a stringerla a me come prima. Ne avevo paura. Sentivo, quando era tra le mie braccia ‘ e lei faceva di tutto per tenersi stretta a me ‘ che il desiderio mi prendeva e, perciò, la discostavo. Eppure, capitò diverse volte che, come per un tacito accordo, ci davamo quel piacere che almeno io ritenevo peccaminoso. Capitava, per esempio, la domenica mattina. I miei genitori se ne andavano a messa, lei usciva in camicia da notte dallo studio e si piroettava nella mia camera da letto, stendendosi accanto. Moine, finte lotte, finché, distesa sopra di me, il suo grembo incollato sul mio, lei cominciava ad agitare il suo bacino. Avvertivo nitidamente le labbra tumide e brucianti del suo sesso nudo sopra il mio inturgidito al parossismo sotto lo slip o sotto il lenzuolo, che erano una supplica spasmodica di essere penetrate, ma io non avevo il coraggio di farlo: le accordavo quel surrogato di rapporto intimo e mi bastava che lei mi facesse venire in quel modo. Dopodiché, per non mettermi in imbarazzo lei scivolava via immediatamente da me, dal letto e dalla camera. Tal altra capitava che lei si sedesse sopra le mie gambe, ora con la schiena, ora con il petto rivolti a me, mentre guardavo un programma televisivo, fingendo di volermi impedire di vedere un programma piuttosto che un altro, oppure che spegnessi per discutere con lei. Io tentavo di togliermela di dosso e di scostarla e così facendo finivo per ghermirla dappertutto. La camicetta o la maglietta finivano per capitolare e i suoi seni, implacabilmente nudi, finivano tra le mie mani. Era un crescendo di emozioni e di sensazioni erotiche, finché, le mie dita contratte sui suoi seni, lei faceva l’amore con me sopra i miei calzoni e dentro le sue mutandine. Quindi, via di corsa in cucina. Così il tempo passava, i sensi sempre accesi, ma insoddisfatti, solo per la mia vigliaccheria e la mia ipocrita morale. Io non cercai più una donna: non mi avrebbe saputo dispensare quel sottile, perverso piacere che mia figlia mi dava; lei non cercò un ragazzo o un uomo con cui legare la sua vita di donna. Solo che lei aveva il coraggio di confessare che l’unico uomo con cui voleva andare a letto ero io. Quando osava dirlo, io, però, le tappavo la bocca, oppure scappavo via. E così lei era giunta ai suoi vent’anni e io ai quarantacinque. Ora ero un giornalista professionista di un giornale locale. Guadagnavo poco, ma, con l’aiuto dei miei, ci arrangiavamo. Lei frequentava il terzo anno di giurisprudenza con grande profitto. Quella sera ‘ era di domenica ‘ era accaduto qualcosa di diverso nelle nostre finte lotte. Di più. La notte del sabato ero stato svegliato da un certo traffico di stoviglie in cucina. Pensavo che fosse uno dei miei genitori che magari stesse poco bene. Mi alzai e, entrato in cucina, vidi, invece, mia figlia, in piedi su di una sedia che armeggiava tra gli scaffali di un armadietto alla ricerca della scatola del bicarbonato. Ci volle poco per capire che aveva fatto quel frastuono proprio per svegliarmi e per farsi vedere con una camicia di notte pressoché inesistente e trasparente come un cristallo appena appannato. Il bicarbonato non le interessava per nulla. Solo che fece finta di cercarlo, come finto era il bruciore insopportabile allo stomaco che le risaliva per l’esofago fino a soffocarla. ‘Invece di stare a guardare, perché non mi sorreggi per il sedere?’. ‘Ma chi lo metterebbe il bicarbonato lassù’, osservai sornione. ‘I nonni, che lo usano spesso, sicuramente lo hanno messo a portata di mano’. Io, lì per lì, avevo pensato che avesse davvero bruciore di stomaco, ma mi bastò captare il suo sguardo di fuoco per capire che il bruciore stava altrove. ‘Su, scendi, che te lo cerco io il bicarbonato’, e, accostatimi presso la sedia, feci per cingerla dai fianchi. ‘Ce la faresti a sorreggermi? Non ho più tredici anni e tu sei un vecchietto’, disse provocatrice. ‘Ce la faccio, ce la faccio a tenerti in braccio. Non sono un vecchietto, scema’, dissi motteggiando. ‘Provalo. Sospendimi per le gambe’. ‘Ma se sei così alta! Se ti sollevo per le gambe finiamo tutti e due per terra. Ti sospendo in braccio. Dai, vieni, abbassati’. Come potevano, intanto, i miei occhi evitare di guardare la lussuriosa selva del suo inguine, sfrontatamente esibita a ridosso del mio viso? Lei non si chinò, ma aspettava che l’afferrassi per le ginocchia. Mi tremavano le braccia. La tentazione di affondare le dita in quella foresta vergine era incontenibile. Fu solo per pochi istanti. Ma, in quei pochi, la mia mano si proiettò avida verso il suo pube, ghermendolo. La distolsi e feci per avvinghiarla per le cosce. Ma le mie braccia erano molli, illanguidite e non la trattennero stretta, cosicché fini per scivolarmi intera tra le braccia, la camicia da notte raggomitolata tutta sotto le ascelle. Lei, per intera, appiccicata a me, il mio viso affondato tra i suoi seni, voluttuosi, morbidi e granitici. Mi mancò il respiro e mi sentii venir meno. Non so se ero più ubriacato o più stordito dall’ebbrezza di quelle aulenti colline di carne. Sta di fatto che rimasi inebetito col viso incastonato in quel solco mammario. Allentai del tutto la presa delle braccia e lei toccò terra con i piedi. Rise come può ridere il sole in pieno giorno. ‘Lo sapevo che non ce la facevi. E’ la vecchiaia. Ma adoro gli uomini brizzolati e tu sei mio unico uomo adorato. Baciami, stringimi a te, fammi sentire quanto mi ami!’. E con noncuranza, rapida, si sfilò l’inutile indumento attorcigliato. Una giovane donna di vent’anni nel fulgore della sua bellezza, la chioma castana, una cascata sulle spalle, gli occhi grandi dello stesso colore infiammati di passione, il seno ansante, eburneo, torrido schiacciato sul mio petto, il suo pube implorante a rovistare sul mio, come poteva non sovrastare il mio sentimento paterno? ‘Martina, Martina, sei così bella da stordirmi, bella e voluttuosa’. ‘Ti voglio sentire senza lo slip’, rispose, la voce arrochita dal desiderio. ‘Lo voglio stringere nella mia mano’. Si discostò dal mio abbraccio quel tanto che le permise di raggiungere con la mano il mio slip, spingendolo giù. Scivolò così per le mie gambe, depositandosi sui miei piedi. Il mio sesso, indipendente da ogni mio sentire paterno, si ergeva trionfante come un obelisco e la sua mano lo circondò come uno scettro. E, mentre mi fissava negli occhi, la sua mano scorreva sul mio sesso, sicura, vogliosa, aumentando a poco a poco il ritmo. Aspettavo solo di venire, solo di venire. Il mio getto di passione, indirizzato dalla sua mano a ridosso del suo sesso, eruppe copioso investendolo in pieno, dilagando sul manto crespato del vello del pube, sulle labbra tumide che custodivano. La mente mi si snebbiò di colpo e, sebbene il suo corpo fosse così traboccante di voluttà, riuscii dolcemente a respingerla. ‘Sei mia figlia, Martina. Non possiamo, non posso: sei mia figlia!’. Si allontanò decisamente da me, adirata. ‘Tua figlia, eh. Te ne ricordi solo dopo averti fatto godere. Sei un vigliacco. Mi fai sentire sporca, mentre tu fai la parte del santino che si arrende alle voglie della figlia. Non dovevi per nulla accettare i miei giochi, i miei infantili tentativi di sedurti. Infantili, sì. Perché se fossi stata più sfacciata, me lo sarei preso tutto io il peccato. Te lo avrei preso e me lo sarei infilato da sola. Già, ma io penso solo a te, al tuo trauma e finisco per accontentarmi di quelle manciate di piacere che mi concedi’. ‘Martina, che dici, non ti rendi conto? Non gridare che sentono i nonni, e, poi, davvero che posso uccidermi. Ti desidero più di quanto possa desiderarlo tu. Ti desidero da diventare matto. Ma non riesco a dimenticare che sono tuo padre, non ci riesco’. Mi fissò, sempre arrabbiata, avvicinandosi, quindi si inginocchiò. Lì per lì non capii. ‘Non ci riesci, dici! Non vuoi fare l’amore con me, perché &egrave peccato, dici. Ma almeno abbi il coraggio di chiedere col loro nome quello che da anni ti faccio. Dimmi; ‘Martina fammi una sega. Martina, fammi sentire la tua fica sul mio cazzo, Martina ancora non mi hai fatto un pompino. Questo me lo puoi fare’. Ero esterrefatto. Mia figlia che sproloquiava con un linguaggio da scaricatore di porto. ‘Perché non &egrave così che parlate di donne fra voi uomini. Anche noi parliamo così. Qualcuna forse la chiama patatina, passerina e tanti altri stupidi nomi. Io la chiamo fica e il tuo sesso cazzo. Sì, cazzo e mi piace tanto tenerlo in mano, masturbartelo, e lo vorrei dentro di me davanti e dietro. Lo voglio, lo desidero, lo agogno. E a te piace da morire che io lo agogni’. E, afferrato il mio membro, se lo portò in bocca. E io non ebbi la forza di sottrarmi a quella fellatio, anzi, inconsciamente, finii per accompagnare con il movimento del bacino il suo succhiare. Sentii il mio sesso gonfiarsi sempre di più, poi, lo spasmo di piacere intenso, quindi, il rigurgito caldo nella sua bocca del mio seme, che lei inghiottì sino all’ultima goccia. Si alzò e, con atteggiamento di sfida, mi disse: ‘Un pompino si può accettare? Nella bocca lo posso tenere, nella mano pure, nella mia vagina no. E’ senza senso. Fai l’amore con me, prendimi, scopami’. E, così dicendo, si distese sopra il tavolo della cucina, le gambe spalancate, il sesso schiuso, implorante. Come un automa mi mossi verso l’offerta del suo sesso così esposto. Quella gravida macchia scura, che mi pareva pulsare come un faro nella notte, mi trascinava ipnotizzato verso di sé con il suo odore di femmina in calore. Avevo raggiunto già il bordo dl tavolo. ‘Prendimi, prendimi; guarda come gronda di desiderio la mia fica’. Sollevai la mano e con il dorso ne accarezzai il solco. Era tutta bagnata dei suoi umori, l’odore era penetrante. Presi il mio sesso nella mano e feci per introdurlo in quella ferita lussuriosa. ‘Papà, papà’, un lungo lamento. Un lamento che mi riscosse da quell’intontimento. ‘No, no, Martina. Non si può: &egrave peccato, peccato mortale’. E fuggii roso dal desiderio e dalla colpa nella mia stanza da letto, chiudendomi a chiave. Corse pure lei poco dopo, bussando piano ma insistente, chiamandomi sottovoce. ‘Vai via, Martina, &egrave tardi. Domani, domani’. Il domani era già venuto. Erano circa le cinque del mattino quando mi chiusi in camera. Ma, sicuramente come non dormii io, non dormì neppure lei, che, al solito, usciti i miei genitori, venne a cercarmi. ‘Più tardi, Martina’. I miei non c’erano, perciò non temette di farsi sentire. ‘Se non mi apri, mi metto a gridare di star male’. Sarebbe stata capace di farlo. Le aprii, dopo che mi assicurò che se ne sarebbe stata buona, ‘Forse sono stata un po’ intemperante. Ma, se tu non hai il coraggio di prendere l’iniziativa, che dovevo fare? Ora so che mi desideri tanto e non ti darò pace. Devi essere il mio amante. Sono stufa di restare vergine a vent’anni e il compito di raccogliere la mia verginità &egrave tuo. No, non ti tocco, almeno per ora. Me ne vado. Resta pure in silenzio e rifletti. Tu sarai il mio uomo, io la tua donna. In segreto, pazienza, ma sarà così, per la vita’. Detto questo con una piroetta se ne uscì.
Quella sera, seduto sul divano, mi accingevo a vedere il telegiornale su rai tre. ‘E con me addosso, avresti davvero voglia di vedere il telegiornale! Voglio vedere come!’. Era di colpo sbucata dalla porta. Si era a metà aprile e la sera faceva ancora chiaro. Lei, gonna cortissima e maglietta, era un’istigazione, una provocazione a peccare. Le guance tinte di rosso, gli occhi grandi, decisa, le spalle contro il mio petto, si catapultò a sedere su di me. E cominciammo la solita erotica lotta. Solo che, nello scostarla, mi avvidi che non solo non aveva il reggiseno, ma nemmeno le mutandine. Quel che, nel sollevarla di sotto, avevo stretto non era il crespo di un tessuto, ma il suo folto e lussurioso vello.
La voce roca, dopo alcuni minuti di quel frenetico, sensuale lottare, disse: ‘Prendimi. Ce l’hai così duro e bramoso che mi sfonderesti anche con le mutandine. Ti voglio: fottimi’. In quel momento, come di prassi, poi, mi ritrovavo con le mani sotto la maglietta e i suoi seni sprofondati in esse. ‘Tiralo, almeno, fuori. Fammelo sentire tra le cosce, sul culo’. Come un automa, tirai giù la cerniera dei calzoni, abbassai il bordo dello slip, e il mio membro balzò su rigido come il piolo con cui il principe Vlad impalava i Turcomanni. Nel sentirlo sotto di sé, nudo e ardente, lei sobbalzò e cominciò a strofinarvisi lentamente per gustarne tutte le possibili sensazioni. Anch’io ero totalmente travolto da esse, voluttuose ed oblianti. Non tali, però, da perdere del tutto la coscienza di vedere lei sollevarsi, sempre dandomi le spalle, afferrare il mio sesso e fare l’atto di infilarselo. ‘No, non voglio’, implorai. ‘Lo desidero con tutta l’anima, ma, per favore, non costringermi. So che lo farò, ma ora no’. ‘Voglio sentirmelo dentro, se no ammattisco. Mettimelo, allora, mettimelo nel culo. Fallo piano, piano, bagnami per bene con i miei umori, che sono un lago, e con la tua saliva. Voglio sentirmi riempiti dal tuo cazzo, sì dal tuo cazzo, dal cazzo di mio padre. Il culo di Martina e il cazzo di papà. Come mi eccita: il cazzo di papà nel culo di Martina. Lo so che ti arrapa il mio culetto, così pieno e armonioso. Mettimelo dentro. Sento che sei tutto bagnato delle tue secrezioni. Il solo pensiero ti fa quasi venire. Ma non farlo. Devi resistere. Devi scoparmi il culo e venire quando vengo io’. In silenzio, travolto da un maremoto torreggiante di desiderio, feci quello che chiedeva. Le bagnai per bene il vellutato, grinzoso anello dell’ano, la penetrai con un dito, quindi vi poggiai contro la punta del glande e lei pian piano vi scivolò. Non ebbe nessun cenno di dolore. Era come se il suo culo aspettasse davvero il mio membro. La sentii vibrare tra le mani come fosse scossa da scariche elettriche. Poi, cominciò a dimenarsi, più forte, sempre più veloce, quasi isterica, due dita a ruotare sul clitoride, con le mie mani rattrappite sui suoi seni quasi a scardinarli dalla cassa toracica, finché con uno schianto dell’anima, con un urlo soffocato di entrambi, godendo incomparabilmente, venimmo. Non era, però, ancora appagata. La sua vulva pulsava di desiderio. ‘Metti la mano sulle labbra del mio sesso e senti come avvampano. Prendimi, papà, come hai preso il mio culo. Ormai sei entrato dentro di me: che differenza fa se sprofondi nel mio grembo? Hai stretto i miei seni, hai avvertito come sono gonfi, quasi fossero turgidi di latte. No, solo di febbre di desiderio. Non lasciare che sia solo io ad amarti e tu, sempre inerte, passivo, ma beato di tua figlia che ti dà il piacere’. E il mio sesso continuava eccitato a rimanere nelle mucose del suo ano. Lei parlava, sì, ma non dimenticava di ondulare i suoi glutei sul mio basso ventre. ‘Sta zitta, zitta’, risposi ansimante. ‘Tu, tu mi provochi. Sei mia figlia, ma sei bella, sensuale. Oh, vengo, vengo dentro di te’, e mi aggrappai, rapito, ai suoi seni, uno dentro la maglietta, l’altro fuori. Poi, di colpo, l’annichilimento, come una morte. E il disgusto diventava enorme. E non darlo a vedere a lei, perché l’avrei mortalmente ferita. Forse che non mi piacesse come donna? Certo che sì, ma era anche mia figlia. Come avrei potuto disgiungere i due momenti? ‘No, Martina, no. Lo so, sono un peccatore e non potrò mai perdonarmi. Sei così ammaliante. Nel tuo grembo, io, tuo padre. Come faccio a entrare nel tuo grembo? E’ così pulito, puro, vergine. Come potrei? Oh, &egrave bello, voglioso. Sì, che io sia dannato, vorrei serrarlo tra le mie dita, affondarvi il viso, le labbra, ubriacarmi del tuo profumo di donna. Ma, &egrave il tuo grembo, Martina, il tuo grembo’.
Si sollevò dalle mie cosce e risedutasi prontamente sulle mie ginocchia quasi mi gridò: ‘Grembo, grembo. E che? E’ la mia fica, la fica di tua figlia, che spasima dalla voglia. Allunga la mano e constata quanto grande &egrave il desiderio di te. Pare che abbia fatto la pipì. Toccati i calzoni sulle cosce e senti come sono inzuppati. Vengo, vengo solo dal desiderio, solo se tu mi sfiori il seno. Sei entrato dentro di me e sono stata squassata da un profluvio di orgasmi. Chissà allora quanto dovrò godere, quando saremo l’uno nell’altra nel nostro letto. Vergine. Ti picchi, perché lo sia. Vorresti che fossi già deflorata? Solo tu puoi e devi farlo. Dovessi restare intatta per tutta la vita’. ‘Che dici? No, non riesco lontanamente a pensarti sotto’Tu con un altro? Mai, mai. Sì, vergine, come le vestali. Resterai vergine, per me. Non troviamo forse lo stesso piacere, pur senza fare l’amore? Dammi tempo. Prenderò pure io l’iniziativa. Ti bacerò la bocca, il seno, il grembo, ti spoglierò a poco a poco, ti accarezzerò con lo sguardo, nuda, sul letto. Ti prenderò come e dovunque vuoi. Sì, sì, lo farò. Diventeremo amanti in segreto, ma, non costringermi ad entrare nel, nel’.nella tua vagina’. Su ricomponiti ora, prima che qualcuno dei nonni ci veda. Poi, stanotte. Il coraggio, devo trovare il coraggio. Quando fai la gatta in calore, non so resistere. Il tuo corpo lussurioso, da sbranare. Vattene, Martina. Non dire più nulla, ti prego. Lasciami con i miei pensieri e la voglia di te’. Scivolò in silenzio dalle mie gambe e uscì dalla porta.
Ero immerso nella stesura di un articolo, quando venne per coricarsi. Mi si avvicinò, mi baciò sulle labbra e poi si stese sul lettino. Indossava una camicia da notte che, appunto, si poteva definire solo camicia, nel senso che le arrivava a malapena sul pube, e con un’ampia scollatura. Alcuni minuti dopo la sentivo dormire.
Fu sicuramente dopo qualche ora che avvertii un lamento sospirato tra le labbra. Che, dopo alcuni secondi, si fece più accentuato. La sentivo agitarsi sul letto, mentre i sospiri si facevano più ansimanti e voluttuosi. Non potei fare almeno di alzarmi e avvicinarmi al suo capezzale. Era fantasticamente bella. Dormiva o fingeva? Non riuscivo a capirlo. Intanto una mano finì per accarezzarsi un seno, mentre l’altra corse verso il suo pube, folto come la nibelungica foresta nera. Più si masturbava, più si dimenava e più mugolava di piacere. Finché eruppe in un implorato ‘Papà, oh, papà!’. Poi, dopo qualche altro secondo: ‘Sì, sì, tutto, tutto dentro. Ah, che bello! Godo, godo’. E inarcava il bacino in un’offerta di donazione totale. Non capii più nulla. Al riverbero della luce della lampada, il suo vello risaltava più insolente e ammaliante. Accesi la luce della camera e lei brillò nella sua bellezza conturbante come una scultura del Canova. Mi riaccostai al lettino, le afferrai dolcemente le gambe, gliele divaricai e, salito sul lettino, mi accovacciai tra di esse. Poi, assetato di lei, affondai il mio viso sulla sua verginea femminilità. Non mi posi assolutamente la domanda di sapere se dormisse o fingesse: sapevo solo che la volevo, che agognavo esplorare con bramosia la sua grotta segreta. Le scompigliai il vello con le dita, il naso, la bocca. Poi affondai la lingua nel suo solco, lo percorsi intero, per poi con essa penetrarla. I gemiti di Martina divennero singhiozzi di voluttà. Dischiusi con le dita quelle labbra succose e ne scoprii il pistillo nascosto. Lo lappai, lo baciai, lo vellicai, lo succhiai, lo vezzeggiai, lo stordii di toccamenti inebriandomi. E le sue gambe d’un tratto mi artigliarono ai fianchi, mentre il suo pube sussultava sulla mia bocca. La dovevo possedere. Che stupido ero stato! Non avevo voluto capire che era lei la mia donna, il mio amore supremo, la mia vita. Accostai il mio sesso gocciolante di passione all’ingresso della sua vagina, lasciai che il glande scivolasse fervido tra le sue grandi labbra fino a incontrare l’imene. Istintivamente la guardai in viso. Martina mi fissava con gli occhi semichiusi annegati di piacere e rantolò: ‘Prendimi, prendimi. Tutta tua, tutta tua’. Senza più esitare, con un colpo deciso di reni, entrai in lei. ‘Sì, Martina, tutta mia, solo mia. Per sempre’.
Endimione

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