Per fortuna che ci sei. Per fortuna un giorno ti ho scoperto. Ho trovato in me una risorsa che mi ha salvato dalla bufera della disperazione, dall’abisso più nero.
Non ne ricordo i particolari, ma è impressa nella mia memoria e nella mia anima la sensazione che provai nel momento in cui decisi di cominciare a scrivere: solitudine. Mi sentivo sola, persa. Infreddolita in un anonimo letto d’albergo, mi sentivo naufragare, come se tutto intorno a me girasse vorticosamente; invece tutto era silenzioso, immobile. Ed io ero sola.
Guardavo nervosamente nella stanza alla ricerca di una qualsiasi occupazione che alleviasse quella fastidiosa sensazione di inutilità che sentivo avvolgermi sempre più. Avevo davanti a me una notte intera: una notte da passare sola, triste e disperata. Disperata per un amore che non c’era, che sognavo e che il destino sembrava non volermi riservare. Un amore talmente bello da sembrare un quadro dipinto, dove ogni colore, ogni sfumatura, persino ogni espressione era così perfetta da non poterci credere. La mia mente vagava alla ricerca di piccoli particolari, piccoli e fragili frammenti di vita: voci, suoni, scritti. Piccoli omaggi, sciocchi pensieri a me sola riservati. Di questo era fatto il mio amore: di una voce lontana e di un’emozione fortissima. Di quelle emozioni che ti catturano in un lampo, come se fino a quel momento tutto fosse rimasto avvolto nel buio e, d’improvviso, ecco la luce. Finalmente. Ma il mio amore era solo un’idea, che mi scaldava il cuore, che rischiarava le mie giornate, che accompagnava ogni mio respiro, ma che non c’era. Così, come per effetto di un malefico incantesimo, ecco apparire la solitudine. Quella cattiva e fredda sensazione di morte, che attanaglia l’anima, fino a stritolarla. E allora non bastano più le immagini, i ricordi, le speranze. Tutto si tinge di nero, sbiadisce, scolorisce velocemente, lasciando un solco doloroso di lucida follia.
Dovevo fare qualcosa: cominciai a scrivere.
Sono passati due anni da quel momento e ancora scrivo. Di lui, ma non solo. Ho scritto della mia vita, dei miei desideri, dei miei pensieri. Ho scritto della mia passione, della mia gioia, ma soprattutto del mio dolore. Oggi, invece, scrivo di una cosa nuova: scrivo del disprezzo.
Ho sempre creduto che quando ci si innamora davvero, quando si pone al centro della propria vita una persona la si ami per sempre. Ed in parte ci credo ancora. Io ho fatto questa scelta, anche se non so quanto consapevole fossi di intraprendere una strada che porta, sempre e necessariamente, verso la sofferenza. Ma l’ho fatto con entusiasmo, con gioia, soprattutto con amore. Ho amato tanto, tantissimo un uomo che non c’era, non solo per la distanza che le nostre vite lontane avevano posto tra noi. Un uomo che non era parte della mia vita, né il sostegno nel momento del bisogno e nemmeno il compagno di risate e momenti felici. Ma io lo amavo lo stesso. Amavo di lui il suo essere così diverso, così scostante e così introverso, mentre gridavo ai quattro venti la forza del mio sentimento, il calore della mia passione. Spesso sentivo di infastidirlo, così interpretavo come timidezza questo suo desiderio di staccarsi da me, di allontanarsi dal vortice delle mie emozioni, dal vulcano di entusiasmo che ogni giorno gli proponevo: sempre diverso, sempre più forte, sempre più suo.
Ho fatto questo per due anni. Non ho ricevuto molto in cambio, ma l’amore per me non è mai stato un rapporto di scambio paritetico. Pensavo che chi avesse avuto qualcosa da donare avrebbe dovuto farlo e non mi sono mai accorta di essere solo io ad elargire tutto quanto trovavo dentro di me. Non recrimino, sono felice di ciò che ho fatto. Ho amato le sue crisi di coscienza delle quali mi ha sempre addossato ogni colpa. Ho amato i suoi silenzi così come i suoi regali. Ho amato lui, il suo corpo offrendogli tutto di me.
L’ho amato persino quando mi ha lasciata, dopo aver provato un’altra volta il mio letto. Ho cercato di comprenderlo, spiegando a me stessa che non aveva intenzione di farmi del male. Ho convinto perfino lui, consolandolo dai sensi di colpa che, diceva, lo tormentavano. Ho dovuto motivare a me stessa le sue scelte, per cercare di sopravvivere al dolore infinito dell’abbandono.
Ho cercato di essere felice per il solo fatto di aver vissuto per due anni l’incanto di un amore ideale, accontentandomi di ricordare i pochi momenti vissuti vicini e le lunghe, dolorose e dolcissime attese. Ho anche cercato di salvare il mio amore trasformandolo in un rapporto diverso da prima: non amicizia, ma una forma diversa di amore. Ho pensato che non avrei potuto smettere di amarlo, così ho deciso di amarlo lo stesso, di continuare ad amarlo, silenziosamente, senza disturbare. Ho sentito il suo desiderio di avermi comunque, di contattarmi quando sentiva il bisogno ed io ho accettato anche questo. Ho accettato di veder trasformarsi il mio amore in uno sterile contatto tra due persone che hanno vissuto la magia, la poesia, il sesso.
Ora non c’era più nulla di tutto ciò: per me c’era solo la sofferenza di sentirlo narrare della sua vita, di sentire la sua felicità, di non sentirmi più parte di lui. Ma andava bene comunque. Almeno c’era. Almeno mi sentivo viva io.
Ho accettato di ascoltarlo qualsiasi cosa sentisse il bisogno di raccontare. L’ho perfino consigliato su come essere felice. Ho lasciato che mi utilizzasse come valvola di sfogo per i suoi nervosismi, aspettando che sentisse voglia di parlarmi. Ho represso il desiderio di farlo mio, rispettando le dichiarazioni che mi faceva di non sentire più alcun desiderio nei miei confronti.
Poi ho tentato di vivere una nuova vita, cercando di sanare il mio disperato bisogno di sorridere.
Avevo bisogno di sentirmi amata, desiderata, coccolata. Avevo bisogno di sentirmi donna. Di avere un uomo che mi volesse, il cui sguardo si illuminasse guardando i miei occhi. Un uomo che si scaldasse al mio respiro sul suo petto. E l’ho trovato, con fatica, con sofferenza. Impegnandomi per vincere la naturale resistenza al dolore, dal quale sentivo di dovermi difendere. Ho guardato attraverso il velo di lacrime che offuscava il mio sguardo ogni volta che mi sentivo chiamare con desiderio, con amore. Ho cercato di credere; ho imparato a credere che non tutti gli uomini vogliano giocare. Ho ricominciato a vivere, senza brillare più di luce riflessa.
Ma il tarlo della gelosia colpisce indistintamente e senza pietà.
Colpisce senza farsi accorgere: spinge a distruggere tutto ciò che di buono, di sano e di vero era rimasto da un amore finito. Ed ogni volta che mi trovava sorridente, serena e felice, tornava a chiedermi se mai l’avessi dimenticato. Facilmente distruggeva ogni cosa. Bastava una parola, un gesto, un messaggio a cancellare ogni mio briciolo di serenità. Appena sollevavo lo sguardo verso la luce, lui mi spingeva di nuovo la testa nella sabbia, lasciandomi ad annegare nelle lacrime. Come se avesse bisogno di queste piccole vittorie, di questa sensazione di sentirmi sua, in suo pugno.
Ma ho combattuto. Dapprima ho sopportato, convinta che la sua presenza fosse comunque meglio che la sua assenza, che il silenzio completo. Mi sembrava impossibile pensare di cancellare completamente un amore così grande dalla mia vita. Così ho lasciato che accettasse la mia lenta rinascita. Che comprendesse il mio bisogno di vivere anche senza di lui, esattamente come io avevo capito la sua necessità di avere una donna accanto. Ho accettato di non essere io quella donna, perché la sua felicità aveva per me il sopravvento su ogni altro sentimento. Ho accettato di sentirmi gridare che non mi amava più, che forse non mi aveva mai amato, che ora amava un’altra. Ho pianto disperatamente, ma l’ho capito e l’ho ascoltato, anche allora.
La mia mente imparava lentamente a convivere con il fantasma di un uomo che non avevo più e che forse non era mai esistito e con chi, al contrario, decantava il suo amore pieno, vitale. Come una bambina che cresce piano piano tornavo ad assaporare le gioie semplici: una telefonata inaspettata, una mano calda che stringe la mia, un bacio rubato dal finestrino dell’auto. Tornavo a gustare i momenti sereni, dolci e burrosi di un amore che nasce. Sono tornata a sorridere davvero. Sono tornata quella di sempre.
Fino ad oggi.
Ora che scrivo è come se la sensazione di malessere mi abbandoni piano piano. Le mani tremano ancora e gli occhi bruciano disperatamente. Ma scrivo e mi sento viva.
Oggi ha tentato di uccidermi. Istintivamente l’ho giustificato ancora una volta, ma ora non più. L’ha fatto volontariamente, per giocare, per vedere dove poteva spingersi. L’ha fatto calpestando con cattiveria i miei sentimenti, ancora vivi e dichiarati apertamente. Gli ho sempre confessato di volergli molto bene. Ogni volta che l’ha chiesto, ogni volta che sentiva il bisogno di avere una conferma della mia presenza e della profondità del mio sentimento non mi sono negata. Ma lui ha voluto giocare per dimostrare a se stesso di poter vincere. Mi ha cercata come non faceva più da mesi, con il nostro vecchio, solito sistema: la chat. Mi ha prepotentemente strappata al mio lavoro, alla mia tranquillità, ben sapendo che per me sarebbe stato difficile resistergli. Ancora troppo presto riuscire a rifiutarlo, ma soprattutto perché avrei dovuto temerlo? Convinta di essere stata la protagonista di una grande storia d’amore mi sono fidata ciecamente della sua passione, del suo desiderio manifesto, del suo bisogno di avermi ancora una volta. Ho accettato di annegare nel fiume di parole che scorrevano sullo schermo del mio computer, incredula, ma non scettica. Gli ho creduto, come ho sempre fatto. L’ho seguito nel piacere di leggere tutto ciò che avrei desiderato fare, nel piacere che avrei desiderato potergli regalare. L’ho condotto per mano nell’idea di mille baci rubati, di mille carezze mai ricevute. Mentre il desiderio, quello vero, quello reale, quello che scalda tra le gambe, si faceva sempre più forte dentro di noi, alimentato dal ricordo di ciò che era stato. Leggevo la sua eccitazione mentre mi gridava quanto fossi sempre stata l’unica a saperlo far volare, mentre esplodeva in una gelosia incontenibile all’idea che ci fosse stato qualcuno dopo di lui. L’ho sentito godere al pensiero che ancora era stato l’ultimo per me. L’ho sentito gioire all’idea che io non fossi ancora libera dal suo fantasma.
E poi l’ho sentito raffreddarsi, senza che giungessimo al piacere estremo come tante volte avevamo fatto, in passato. Leggevo allibita le parole di un altro uomo, non di colui che tanto avevo amato. L’ho sentito chiamarmi in mille modi, ma il tono non era più quello che conoscevo. Mi ha lasciata un’altra volta, presa e di nuovo abbandonata, come una bambola rotta, cui non occorre nemmeno sistemare il vestito strappato. L’ho chiamato un’ultima volta, chiedendogli di gioire insieme. Fallo sola, mi ha risposto, tanto io non ti amo più.
Ho fissato quello schermo per un tempo che mi è parso un’eternità. Non osavo toccare la tastiera, nemmeno scottasse più di un braciere rovente. Calde lacrime cominciavano a scorrere lungo le guance, inarrestabile alluvione di dolore. D’improvviso ho pensato a chi mi ama, a tutti coloro che mi vogliono bene e mi sono chiesta perché buttarsi via.
Mi sono chiesta che cosa provasse lui dopo questa bravata; se la sensazione di avermi ancora in pungo lo facesse sentire più uomo, più maschio, più virile. Mi sono chiesta il significato di tutto ciò e soprattutto se io sarei mai stata capace di fare tanto male.
Ho pianto per ore, incapace di darmi risposte. Alla fine ho sorriso, convinta che l’unica cosa bella di una storia che credevo fosse perfetta è stato il mio amore e nient’altro.
Ora, però, non c’è più nemmeno quello’solo disprezzo.
grammaticalmente pessimo........
Ciao Ruben, sei un mito! Hai un modo di scrivere che mi fa eccitare! La penso esattamente come te. Se…
Ti ringrazio, sono felice che ti piacciano. Vedremo cosa penserai dei prossimi episodi, quando si chiuderà anche la sottotrama di…
Davvero molto bello. Piacevole come gli altri e decisamente pregno di sentimenti espressi senza risultare melensi o ripetitivi. D'impatto leggiadro,…
Come ti ho detto, in pochi e poche sanno sa scrivere in maniera così eccitante sia dare un senso ad…