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Racconti Erotici

La prima volta con “lui”

By 14 Febbraio 2004Dicembre 16th, 2019No Comments

Alcune considerazioni prima di cominciare:

questa &egrave una storia vera. E non &egrave la solita frase fatta: &egrave proprio così. Ciò che mi sforzerò di riportare sono le brucianti emozioni che provai in quei lontani anni della mia giovinezza, non i particolari, che ovviamente ricreo ora per il vostro piacere.

questa non &egrave una storia gay. &egrave una storia di sesso allo stato nascente. Le emozioni e i desideri sono legati alla pura espressione della libido, ancora senza oggetto e senza schemi. Piacerà ai gay, ma può anche piacere a chi non lo &egrave. Leggete senza preconcetti’

Frequentai per dieci anni, fino alla quinta ginnasio, un istituto scolastico religioso, tenuto dai Gesuiti. I fatti qui raccontati risalgono agli ultimi due anni della mia permanenza in quel penitenziario dei sensi’

Poche notizie, per dare un’idea dell’ambiente. 1) niente ragazze: scuola rigorosamente maschile, con insegnanti tutti dello stesso sesso. 2) erano previste anche le punizioni corporali. 3) Ispezioni a sorpresa in tasche e cartelle; erano proibiti: i dolciumi, i fumetti, le sigarette, le foto pornografiche. In merito a queste ultime, due allievi scoperti nei bagni in adorazione davanti a povere foto con tette al vento in bianco e nero furono semplicemente espulsi. Sempre per quanto riguarda l’ambiente: dentro i pantaloni dei più audaci, naturalmente, circolavano riviste pornografiche di ogni tipo, carte profumate con disegni porno, ecc. ecc. Infine, la specialità della scuola: il gioco delle palle. Ora vi spiego.

Costretti fino alla maggiore età a un’astinenza sessuale pressoché totale (solo chi aveva sorelle poteva contare su un giro di amiche’ io ero figlio unico, e vi lascio immaginare il delirio), nel senso che neppure gli occhi potevano godere di una qualche soddisfazione, non parliamo delle mani’ costretti dunque a quell’esercizio ascetico, tutti gli allievi di quella scuola facevano un uso esasperato ed eccessivo di tutto ciò che comportava l’utilizzo autoreferenziale del cazzo: dalla semplice sega serale alla manipolazione quotidiana sotto i pantaloni, allo strusciamento contro cuscini, materassi, poltroncine, sederi raccattati sul tram, ecc. Ma l’esercizio supremo di quella ricreazione da penitenziario era costituito da un continuo e frenetico toccamento reciproco tra compagni di banco: la pratica prevedeva il semplice colpo nelle palle, inferto col pugno o col gomito, così come il vero e proprio ‘colpo a tenaglia’, inteso ad immobilizzare l’uccello altrui in una presa ferrea e dolorosa. Non c’era un attimo, durante le ore di lezione, in cui non capitasse di ricevere, più o meno inaspettato, un bestiale assalto alle parti molli, col risultato di provocare continui sussulti di banchi e di quaderni, lamenti soffocati, sguardi gelidi e sprezzanti dei professori ben allenati a loro volta (da ragazzi) in quello svago poco innocente. E adesso veniamo ai fatti.

Tra i miei compagni di classe di quegli anni di ginnasio ve ne erano due un po’ diversi. Antonio era un ragazzone robusto e poco simpatico, collo taurino e atteggiamento arrogante. Era figlio di un ricco costruttore, e poteva permettersi cose da nababbo, come la televisione in camera sua e ricevimenti per i compagni col maggiordomo in guanti bianchi. Renato, al contrario, era piccolo e simpatico, orfano di padre ma benestante anche lui. Aveva, tra parentesi, una mamma straordinariamente carina, da cui aveva tratto i lineamenti raffinati. Non avevo mai cercato di stringere una particolare amicizia con loro, sia per la differenza di classe sociale che per i loro opposti caratteri: io so essere gentile, ma non mi piace l’eccessiva confidenza.

Ma si manifestarono a un certo punto tra noi alcuni elementi di attrazione che lasciarono poi segni profondi nella mia storia e nel mio carattere. Elementi assai chiari: Renato quell’anno divenne per puro caso mio compagno di banco, e, manco a dirlo, iniziò a tempestarmi di manate sulle palle nel giro di poche settimane. Ma non faceva come gli altri: lui era più delicato, e tendeva a fermarsi qualche istante di più, come a soppesare la situazione, nel chiaro intento di palpare. Dapprima ne fui sorpreso e infastidito, ma fu solo un attimo di smarrimento. Mi accorsi che quel contatto mi faceva venire il batticuore. Era bravo, porca miseria! Appoggiava velocissimo la mano aperta sulla patta, e mi avvolgeva tutto senza premere eccessivamente, ma con presa molto sicura. A quel punto il palpamento era concreto, caldo, amichevole e dava un senso di sicurezza emotiva, come a dire: lasciati andare! Non me lo feci ripetere troppe volte. Ben presto mi resi conto che, sedendomi nel banco, lo aspettavo; e appena lui arrivava, il mio cazzo si faceva subito durissimo. Naturalmente se ne accorse anche lui. Nel giro di pochi giorni, dopo essersi preso tutta la libertà che voleva (ormai la sua mano arrivava non più calando come un falco sulla preda, ma insinuandosi calma e desiderosa e fermandosi per lunghi momenti, alla ricerca meticolosa di tutte le protuberanze nascoste sotto i miei pantaloni), mi incoraggiò con pochi sguardi a ricambiare. Con rinnovato batticuore mi approssimai il suo gonfiore, lo avvolsi nella mia mano, e lo sentii. Era altrettanto duro e invitante quanto il mio.

Passammo dunque un po’ di settimane così, a cercarci sotto il banco, a palparci il cazzo ascoltandone reciprocamente la crescita improvvisa, i turbamenti, lanciandoci con alcuni tocchi sapienti segnali di complicità maschile. Sapevamo cosa e come toccare.

Poi, un giorno, forse non per caso, ci ritrovammo insieme nei bagni, agli orinatoi, e fu giocoforza allungare gli occhi l’uno verso l’altro. Ci guardammo a lungo, un po’ rossi per l’emozione, per l’eccitazione: l’avevamo lungo e duro tutti e due, e naturalmente non potevamo fare pipì attraverso quel pezzo di marmo che ci mostravamo con reciproca soddisfazione. Cominciò così la nostra particolare amicizia, fatta di interminabili confessioni sulle più intime fantasie erotiche, sul reciproco desiderio di guardarci, sulla gioia di avere un oggetto sessuale sempre comprensivo e disponibile alle nostre voglie.

Antonio si unì a noi alcuni mesi dopo. A dire il vero aveva intuito qualcosa del nostro ‘rapporto’, perché le sue ‘antenne’ erano molto sensibili per queste cose. Ma qualcosa l’aveva trattenuto dall’interferire. Era più giocherellone di noi, e il colpo alle palle era per lui ancora fonte di infantile soddisfazione. Ma qualcosa nei nostri sguardi infastiditi e sprezzanti l’aveva fatto pensare, riflettere, sospettare. E così un giorno ci raggiunse nei bagni e ci sorprese. Invece di scatenare la bagarre o di schernirci, si affiancò a un terzo vaso, tirò fuori a sua volta un uccellone bello duro, e si mostrò con schietta semplicità.

Da quel giorno facemmo vita a parte, nella scuola. Arrivavamo un po’ prima delle lezioni, ci mettevamo in qualche angolo tranquillo a chiacchierare, e presto passavamo al gioco di mano. Stando bene attenti agli sguardi indiscreti, le nostre mani si fermavano a lungo sul pantalone rigonfio degli altri due, cercando di dare e ricevere sensazioni che non avevano una forma precisa, ma erano dense e caotiche. Nel banco, Renato ed io continuavamo quel gioco, con grande cautela e circospezione; Antonio ci spiava geloso, in attesa di rivendicare, all’uscita, il conguaglio di divertimento che gli veniva di diritto. A casa, io continuavo a cercare da solo quelle sensazioni, che forse non capivo fino in fondo. Naturalmente un po’ mi vergognavo di ciò che accadeva tra di noi, e allora, in solitudine, sostituivo alle mani degli amici le volgarissime foto dei giornaletti porno da due lire che riuscivo a procurarmi rocambolescamente, sparandomi seghe quotidiane che mi lasciavano però uno strano senso di insoddisfazione. Mi convinsi presto che la solitudine non vale una qualunque intimità, un qualunque gesto di attenzione e di piacere donato e ricevuto, anche da mani dello stesso sesso. La mia amicizia per Renato ed Antonio crebbe in modo quasi smisurato nel giro di pochi mesi, e penso che per loro sia stato lo stesso. Tuttavia andammo avanti così, in quel modo ancora timido e in qualche modo discreto, complice e un po’ timoroso, senza sapere bene, tutti e tre, fino a che punto spingerci, malgrado le nostre fantasie galoppassero. Sì, perché guardarli non mi bastava più. Ogni tanto Antonio, che era il più incosciente, lo tirava fuori anche nei nostri nascondigli provvisori, facendolo spuntare allegro e rubizzo dalla lampo con gesto tenero e infantile. Io avrei voluto allungare la mano, ma qualcosa ancora mi tratteneva. Eravamo emozionati da quel nostro rituale, da quel segreto ma soprattutto, credo, dalla consapevolezza di condividere le stesse emozioni, gli stessi turbamenti. Parlavamo di cazzo e di cazzi ogni momento, il fallo ricorreva nelle sue innumerevoli varianti linguistiche ogni tre parole, ci sentivamo come ubriachi di sensualità inespressa, di desideri senza forma, di attese oscure e vaghe. E rimasti soli, come poi ci confidammo qualche mese dopo, le forsennate masturbazioni non avevano più bisogno di sollecitazioni fotografiche improbabili ed esoteriche: ormai avevamo negli occhi e nella mente il materiale sufficiente ad accendere ondate di libido ed erezioni stratosferiche; io non desideravo altro che arrivare, un giorno, a toccare, se non a baciare, fino a mangiarlo, il cazzo di Renato e di Antonio, ma soprattutto sognavo di sentire su di me le loro mani. E senza più la minima vergogna, mi soffermavo ad assaporare, toccandomi, il ricordo dei loro membri eretti che ormai sentivo appartenermi come un oggetto di piacere facile, disponibile, accessibile.

Ma arrivò l’estate senza che nessuno dei tre avesse avuto la forza di rompere quella barriera che ancora ci separava, fatta dell’ultimo residuo di pregiudizio e vergogna rimasto nel nostro rapporto. Lasciammo la scuola senza più vederci per tre mesi, durante i quali, se ben ricordo, a poco a poco le mie pulsioni si raffreddarono, ovvero si concentrarono di nuovo sulle ragazzine che frequentavano il mio stesso stabilimento balneare. Pulsioni però astratte, perché il loro oggetto era inaccessibile, freddo quando non ostile, e ancora molto misterioso.

Ripresa la scuola, ci ritrovammo a ricominciare faticosamente il cammino già percorso, dovendo vincere un nuovo inaspettato imbarazzo, dovuto forse alla paura che il tempo avesse cancellato le ragioni della nostra attrazione. Ma non ci volle molto. Poi subentrò un fatto nuovo e alquanto favorevole alle nostre intenzioni. Tutti e tre ci iscrivemmo a un corso di nuoto organizzato dalla scuola il sabato pomeriggio. Quella fu la svolta.

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