PAOLA DI SABA
Il breve percorso dall’automobile alla casa è affidato all’autista.
– Venga, prego. L’aiuto io. –
Cortile, aia, giardino, spiazzo che sia, il fondo è in ghiaia.
Dopo qualche metro, sempre sorretto dal gentilissimo chauffeur, salgo un primo gradino basso, di pietra o di cemento.
Altri tre passi ed inizia una serie di scalini, tre più un quarto poco distante, che dovrebbe già essere la soglia.
L’interno è fresco e odoroso di fiori appena recisi e questo mi dice che la casa, villa, palazzo, cascina o castello, possiede un giardino ben curato (sarà poco, comunque è già un indizio).
La fascia nera, sopra la ferita, mi causa un bruciore fastidioso, ma ormai non dovrebbe mancare molto.
Quando la porta viene richiusa alle nostre spalle l’uomo mi toglie con delicatezza la benda.
– Voglia attendere qui, per cortesia. –
Rimango solo. Anche le due belle compagne di viaggio sono sparite improvvisamente.
La sala d’ingresso è oscurata, ma non buia e la luce attenuata dagli scuri socchiusi di due finestre ai lati della porta d’entrata, mi permette di vedere l’ambiente, arredato con gusto ed eleganza, con mobili antichi e sobri ai quali i fiori freschi e le suppellettili tolgono eccessi d’austerità.
Un ampio tappeto persiano è al centro della stanza.
Non è che un vestibolo, una sala d’attesa, ma non ci sono sedie, perciò attendo in piedi, né mi dispiace; dopotutto sono stato comodamente sdraiato per due ore…
I minuti trascorrono in questo silenzio ricco di profumi naturali e di penombra.
La bellissima donna bruna mi manca già, lo ammetto. Stava seduta come una regina, sopra di me, distaccata da tutto come se il mondo intorno a lei fosse stato fatto per servirla, per appagare i suoi più segreti desideri, per farlo sempre, senza che lei debba chiedere e io, che un’ora prima ero pieno di me stesso, sicuro, consapevole della mia posizione di privilegio sugli altri, uomo in piena carriera ma mai abbastanza sazio, mai abbastanza contento, nel vederla ho sentito venire meno il mio coraggio, l’impudenza e la sfacciataggine delle quali ho fatto mestiere, la superbia di cui mi so capace e poco dopo mi sono ritrovato sotto i suoi piedi come una cosa iniqua, da schiacciare, da ignorare, come un tappeto di pelle avvolto da poca stoffa, un involucro di carne viva sopra il quale lei può permettersi di poggiare le suole delle sue scarpe eleganti e griffate senza guardare in giù, un cuscino umano che la bella dominatrice può far sanguinare come e quando vuole, quasi che il sangue, il mio, sia lo scarto di ciò che le appartiene.
Tocco la piccola ferita per farla bruciare, così che il lieve dolore mi riaccompagni al ricordo di lei.
E’ in questo momento che la porta in fondo alla sala d’aspetto si apre.
Una giovane donna dai capelli castano chiari, ondulati, sciolti e lasciati morbidamente cadere fin sopra i seni tondi e sporgenti, appare alla luce discreta del mio luogo d’attesa.
Indossa ben poco: calze nere, probabilmente in seta, reggicalze di pizzo nero e scarpe di pelle amaranto, scollate, tacchi cromati e punte sottili.
Il resto è a nudo, ed è un nudo perfetto come se l’avesse scolpito il Canova.
Al guinzaglio tiene un giovane uomo dalla muscolatura possente; egli sta con le mani e le ginocchia a terra, guarda in basso e non si muove.
– Si accomodi, dottor D’Adua. – Dice la donna.
Vado verso di lei come un paziente sotto ipnosi, rigido per qualche resistenza inconscia e quasi del tutto privo di volontà.
Entro in una stanza completamente buia, della quale distinguo soltanto il pavimento in cotto rosso.
La poca luce che penetra dalla sala d’aspetto illumina una sola poltrona in pelle scura, all’inglese.
– Si sieda, dottore. La Signora arriva subito. –
La donna si porta a meno di quattro metri da me, affiancata dal suo poderoso animale che cammina a quattro zampe, nudo.
Quando lei si ferma e si gira verso la mia poltrona, l’uomo si pone di traverso, immobile come una scultura di pietra.
Il guinzaglio di pelle è sottile e lo è anche il collare.
Penso che una massa di muscoli come quella potrebbe spezzarlo in due con la forza delle sole mani, uno strappo e via! Niente di più.
Ma il giovane dal corpo erculeo non lo farebbe mai, è chiaro. Dev’esserci qualcosa di ben più potente che lo costringe alla sottomissione, a tenere la testa bassa e gli occhi a terra, fissi sulle scarpe della sua conduttrice e non è certamente quel simbolico laccio di pelle congiunto al collare per mezzo di un piccolo moschettone; più verosimilmente è la mano della sua padrona, la grazia con la quale stringe il guinzaglio tenendolo teso come la corda di un’arpa, la seduzione del suo corpo nudo e dei pochi indumenti che indossa.
E’ strano, ma davanti a questa scena insolita non provo alcun disagio!
Dal fondo della stanza buia si apre una porta e una splendida figura di donna si staglia sulla soglia; costei richiude l’uscio scomparendo ancora nell’oscurità e avanza lentamente verso di noi.
Nel medesimo tempo la prima, quella dai capelli castani, lascia cadere a terra il guinzaglio ed esce attraverso la stessa porta dalla quale mi ha fatto entrare, senza richiuderla, così che la poca luce proveniente dal vestibolo renda visibili me e il giovane dai muscoli potenti, che rimane immobile.
Mi alzo in piedi.
La nuova ospite mi raggiunge entrando nel cono di visibilità.
– Benvenuto, Dottor D’Adua. Sono Paola Di Saba. Si sieda, prego! –
Le stringo la mano masticando tra i denti un “buongiorno signora” quasi impercettibile.
Paola Di Saba è di una sconcertante bellezza: capelli biondi, lunghi e mossi sopra le spalle, viso dall’ovale perfetto, occhi chiari, azzurri, forse verdi, lineamenti precisi e delicati, seni solidi, eretti, pieni, gambe nervose, esatte, se così si può dire quando si finisce in penuria d’aggettivi.
– Vedo che ha già il segno dell’iniziazione, Dottor D’Adua… –
– Carlo. Mi chiami pure Carlo, signora… quale segno? –
Paola Di Saba sorride.
– Allo zigomo, lì, sotto il suo occhio sinistro! –
Mi tocco, lo faccio bruciare… ricordo.
– Ah… questo! Niente di grave… un banalissimo incidente. –
– Già! Un incidente… mi scuso per averla costretta a viaggiare in quel modo, Carlo, ma qui siamo piuttosto gelose della nostra intimità. Non amiamo i curiosi e gli invadenti. Spero che mi vorrà comprendere. –
– Certamente, signora. Non si deve scusare affatto. Il viaggio è stato comunque confortevole… –
– Immagino! – Interrompe lei. – Se intende dare inizio alla sua intervista, mi chiami pure Paola. Sarà più facile per entrambi. Si accomodi! –
Mi risiedo sopra la poltrona inglese.
Paola prende posizione sul suo trono naturale, la schiena possente del giovane uomo, immobile e forte come il marmo.
– Avevo un mazzo di fiori per lei, ma… –
– Rose rosse, sì, grazie. Davvero molto belle. Mi sono già state consegnate da Sebastiano. –
– Il suo autista? –
– Esattamente. –
Anche lei indossa ben poco: una camicetta azzurra, aperta fino alla fessura dei bellissimi seni, calze scure, velate, autoreggenti, sandali aperti, leggerissimi, soltanto tre sottili strisce di pelle rossa a cavallo delle dita, un’altra alla caviglia e, immancabilmente, tacchi altissimi.
Perfettamente a suo agio, seria ma serena, osserva con pazienza il mio silenzio.
Accavalla le gambe. Non posso vedere, né mi spingo a farlo, ma qualcosa mi dice che non ci sia altro, sotto la camicetta; né reggiseno, né mutandine.
Paola avverte il mio disagio e prende la parola.
– Prima di cominciare, Carlo, mi dica che cosa intende fare con questa intervista. –
– Niente che non abbia il suo benestare, innanzitutto. In verità non lo so ancora. Ho visto una tavola firmata da lei, a Roma; molto delicata… complimenti, innanzitutto! –
– Grazie. Che cos’era? –
– Era un pastello, credo. Una figura femminile con una mela in mano, in perfetto equilibrio sopra la testa di un uomo coi polsi legati. Mi ha incuriosito, così ho cercato di rintracciarla… –
– Sì, ricordo quel disegno. Ne ho prodotti tre o quattro. –
– Stampe? Serigrafie? –
– No. Sempre originali. Stesso soggetto, ma ogni volta ridisegnato. Non amo i sistemi di riproduzione. Dequalificano il prodotto. Preferisco riproporre l’immagine, ma sempre nella sua unicità d’esecuzione. Prosegua, Carlo! –
– Sì… come le ho detto, Paola, non ho un’idea precisa. Vorrei la sua collaborazione… magari vorrei poter vedere altre tavole, se fosse d’accordo. –
– Senz’altro. –
La Signora Di Saba chiama un certo Achille a voce poco più alta di quella che usa parlando con me. Una porta si apre e Achille, presumibilmente, fa il suo ingresso con una serie di cartelle in mano, raggiunge la donna, s’inginocchia ai suoi piedi e le porge il materiale.
– Ah, Davide… dov’è Achille? –
– In applicazione, mia Signora. Sapevo che avrebbe chiamato, così sono rimasto in atelier. –
– Bravo. In applicazione con chi? –
– Con Rea, mia Signora. –
– Va bene, Davide. Dalli al dottor D’Adua. –
L’uomo bacia il piede di Paola, non quello della gamba accavallata, che mi sarebbe parso più comodo, più a portata, bensì l’altro che poggia a terra. Si rialza, si avvicina a me e mi porge le cartelle ma, naturalmente, non s’inginocchia.
– Prego, dottore. –
– Grazie. – Prendo i disegni e me li appoggio sulle cosce.
Confesso a me stesso di essere spiazzato, stupito e leggermente sconvolto.
La gentilezza, la cortesia e nel contempo la signorile dignità di questi uomini, nonostante tutto, mi sorprende.
L’autista, il giovane dal corpo vigoroso sopra il quale Paola Di Saba sta seduta, questo Davide in cravatta e camicia che si prostra ai piedi della sua padrona con la più totale naturalezza, che le bacia il piede per semplice etichetta, mi tolgono la capacità di giungere a qualche conclusione scontata.
Non sono servili; sono educati a servire.
Ho l’impressione di vivere in un altro mondo, in un tempio matriarcale dove le cose che accadono, accadono per consuetudine e normalità, come se fossero d’ordinaria amministrazione.
Questa non è una casa, e tanto meno uno studio grafico; è un regno. Il Regno di Saba!
Prendo tempo. Apro le cartelle e le osservo con calma.
I disegni sono molto belli: difficile descriverli uno per uno.
Spero che Paola mi vorrà concedere di pubblicarne alcuni in modo che tutti possano capire quello che penso, che provo e che vedo.
Innanzitutto le tavole sono per la maggior parte a punta di pastello ben temperato, di tratto fine, anche se le carte talvolta sono spesse e ruvide come quelle destinate ai colori ad acqua.
I lavori sono realizzati da mano paziente e sicura, meticolosa, attenta ai particolari.
Noto, inoltre, che fra tante figure femminili due sono più spesso ripetute: la donna bionda che soventemente è ritratta assomiglia a Paola, mentre la seconda è quasi certamente la splendida bruna ai cui piedi ho viaggiato per due ore.
Uno dei disegni le ritrae insieme, sedute sulle schiene di due uomini. La composizione è chiasmica, ovvero: la donna che credo sia Paola Di Saba poggia i piedi sulla testa dell’uomo sopra il quale è seduta la bruna, mentre quest’ultima permette al maschio che sostiene la bionda di leccarle la punta dello stivale.
Feticismo, un certo sadomasochismo, azioni di dominanza femminile, ma senza eccessi, senza pellami e lattice, senza la pesantezza più spesso volgare delle imbracature di cuoio, dei cappucci, delle pesanti catene, degli strumenti di tortura o quant’altro, oggetti di sottomissione apparentemente coercitiva.
Le donne indossano con disinvoltura indumenti intimi, scarpe dai tacchi alti, talvolta stivali, vestiario elegante, fine, ma niente che non sia vicino alle cose di tutti i giorni. Gli uomini sono nudi oppure vestiti normalmente, sono legati da corde senza nodi inestricabili, o vengono tenuti a guinzagli esili e lunghi come quello che porta al collo il “sedile” di Paola.
C’è raffinatezza in tutto quello che vedo: forse c’è dolore, ma non violenza, se non in pochissimi casi dei quali, senz’altro, chiederò spiegazione alla Signora Di Saba.
Devo farmi coraggio ed entrare nel vivo dell’intervista.
– Sono molto belli, Paola. Sono alquanto diversi da ciò che si vede solitamente. Alludo per esempio ai disegni di Stanton, per citare uno dei più famosi disegnatori erotici del mondo. Oppure ad un altro autore, contemporaneo, un italiano del quale non ricordo il nome, un emergente, con soggetti di evidente feticismo, di adorazione del piede femminile, ma sempre un po’ troppo camuffati da un che di parodistico, di gioco a rimpiattino, tesi a non dare esiti precisi… intendo dire, né di qua né di là! I giapponesi si limitano a sfruttare banalmente le figurine stereotipate dei giochini virtuali: caramelle d’infima qualità. Stanton è senz’altro più chiaro, più autentico, più artista, ma rimane sempre imbrigliato nel fumetto erotico, di tutto rispetto, ovviamente, ma sempre fumetto resta. Qui c’è più sostanza: ogni tavola è in sé completa e non ha bisogno dell’apporto di un’altra, per essere raccontata. Lei, Paola, è decisamente più esplicita, più diretta, più… disinibita? –
– I prodotti grafici che escono da qui sono semplici oggetti di comunicazione. Non invento le scene: le detto. Raccontano quello che normalmente accade durante la giornata. Per questo, forse, sono più espliciti. –
La risposta mi sorprende: quello che vedo su queste tavole, accade normalmente? Cerco di guadagnare tempo.
– Ma… se li intende come mezzi di comunicazione, perché rifiuta le tecniche di riproduzione più comuni? Perché non vuole che siano più ampiamente divulgati? –
– Beh, Carlo… è una domanda strana, da parte sua! Dovrebbe capirlo da solo. Non faccio comunicazioni alle masse. Sono messaggi diretti soltanto a quanti possono comprenderli, perciò ne curo la qualità insieme all’autenticità: un individuo, un messaggio. –
Vero: avrei dovuto pensare un po’ di più, prima di porre la domanda. Quello che sto sperimentando oggi non ha precedenti. Né avrei incontrato tante difficoltà per avere un appuntamento, se l’intenzione di Paola fosse stata quella di allargare l’area di ricezione dei suoi prodotti…
– Ha ragione, mi scusi… posso chiederle che cosa significa che… che Achille, mi pare che si chiami così, che Achille è in applicazione? –
Paola si accomoda meglio sulla schiena del suo trono personale, stende le belle gambe incrociando le caviglie e a braccia tese poggia le mani sopra l’enorme schiavo, la destra sulla spalla, la sinistra sulla natica: l’uomo non muove un solo muscolo.
– Innanzitutto è bene chiarire un punto che forse prima le è sfuggito, Carlo. Quando ho affermato che non invento le scene, ma le detto, intendevo fra le altre cose dire che non disegno, ma firmo. Sotto di me ci sono due disegnatori che vengono dalla stessa scuola, quindi abbastanza simili per tecnica. Uno è più portato verso le figure femminili, l’altro ha maggiori capacità d’impaginazione e una buona mano nel disegnare oggetti o immagini simboliste. In breve, si compensano. Non sempre, però, ottengono il risultato che desidero. A questo punto io o una delle mie compagne li mettiamo sotto applicazione, ovvero gli facciamo vivere in prima persona quanto dovranno in seguito eseguire graficamente. Tutto qui. –
– Già, tutto qui… –
Una simile risposta non me l’aspettavo; va oltre la mia capacità d’immaginazione e oltre i miei più nascosti “desiderata”.
– Vorrei farle una domanda alla quale, Paola, può legittimamente non rispondere. –
– Prego! –
Mi carico di sicurezza, respiro a fondo.
– Che genere di considerazione ha, degli uomini? –
Paola ride e sembra divertita. Ha un sobbalzo e ricade pesantemente sopra la schiena del suo schiavo, come avrei potuto fare io sopra il robusto cuscino di questa poltrona inglese. L’uomo non ha fatto la minima piega.
Che bestia! Penso. Deve avere gambe e braccia indistruttibili come colonne di granito; è lì da almeno mezz’ora e quasi sembra che non respiri, che non ne abbia bisogno!
Paola ora si siede di traverso, sopra le spalle di lui, e solleva le gambe appoggiandogliele sui glutei.
– Non se la prenda se rido, Carlo! Era una domanda talmente ovvia che me l’aspettavo, sì, ma all’inizio dell’intervista! Invece è arrivata adesso: un po’ in ritardo ma, inesorabilmente, è arrivata! Va beh, gli uomini? Li apprezzo! Non sempre li amo ma li apprezzo. Se questo può toglierle ogni dubbio, Carlo, le dico che sono totalmente eterosessuale e che non me ne faccio un problema, ovviamente. Quando mi va li uso anche per l’amore, nel modo più comune, intendo: amplesso tradizionale, ma sopra ci sto io, e loro fanno quello che dico io. Era questo, che voleva sapere? –
– Sì, no… beh, anche! Ma le chiedevo… che considerazione ne ha, come li giudica… –
– Li giudico per quello che sono, a seconda di quello che sono! Perché me lo chiede? –
– Temo di essermi espresso male, Paola. Voglio dire… li giudica suoi pari o inferiori a lei? –
Paola mi fissa per qualche istante, riflessiva.
– No, non giudico nessuno per generalizzazioni o per assiomi. Rispetto alle donne gli uomini sono più abili in talune cose e meno in altre. Ogni singolo uomo, inoltre, è diverso, ha in sé qualcosa di eccezionale, di unico, e qualcosa di banale. Gli uomini esistono a compensazione dell’esistenza delle donne, e per nient’altro. Non li considero inferiori, benché lo siano di fatto, ma semplicemente subordinati. Non li umilio per principio o per vendetta, sia chiaro! Non ho battaglie bibliche, anzi prebibliche, da portare a termine. Li lascio essere come sono, cioè sottomessi alla donna. –
– E questo non è già un assioma? –
– Se lo è, è l’unico. – Risponde lei sorridente e maliziosa.
Senza riflettere, sfodero tutto il mio orgoglio di maschio.
– Ne è così certa, Paola? – Chiedo con tono di sfida. – Non crede di esagerare un po’? Non crede che l’uomo sopra il quale lei siede comodamente potrebbe spezzarla come un giunco? –
La Signora Di Saba fa scivolare le sue splendide gambe a terra e si pone di rimpetto a me lanciandomi un’occhiata fulminante.
– Quest’uomo ha la forza di un bisonte, Carlo! Potrebbe spezzare sia me che lei insieme, uno per braccio! Solo che lei morirebbe, mentre io no. –
Ironizzo. – E a cosa si dovrebbe un tale miracolo? –
– Lo si deve al fatto che io sono Paola Di Saba e lei è soltanto un uomo. Mi perdoni se sono così schietta; non intendo offenderla. I muscoli sopra i quali sto comodamente seduta, Carlo, non agiranno mai contro di me. Non possono: non appartengono a lui, ma a me. Sono cosa mia! Semmai agirebbero contro di lei, amico mio, se lo ordinassi. Costui, se solo lo voglio, mi porgerebbe la gola e io potrei schiacciargliela sotto il tallone fino a soffocarlo: non reagirebbe. Si lascerebbe uccidere. Capisce? –
Rido.
– Questa è bella! Ma come può affermarlo? Ci ha provato? –
Paola non sembra aver gradito la mia risata; il suo bel viso da regina del Regno di Saba immediatamente s’ adombra.
– Ovviamente, Dottor D’Adua! Nessuno degli uomini che sono al nostro servizio è sfuggito ad un certo collaudo! Qui non entra chiunque; qui entrano soltanto quelli che noi decidiamo di fare entrare, dopo averli attentamente e severamente selezionati, a loro rischio e pericolo. Gli scarti non arrivano nemmeno al cancello più esterno di questa casa! Non le è già parso abbastanza evidente? Vuole vederlo con i suoi occhi? –
– No, lasci stare. Non mi sembra il caso… (la curiosità è forte e m’invade come un morbo; dopotutto è stata lei a lanciarmi questa sfida!)… anzi, perché no? Diciamo che questo non farà parte dell’intervista. Dal momento che l’invito è venuto da lei, in questo caso, e che io continuerei a non crederle, se non me lo provasse… sì! Vorrei proprio vederlo con i miei occhi! –
Certo di averla messa in difficoltà, mi accomodo meglio sulla poltrona.
Paola si alza in piedi. Immediatamente il colosso si stende sulla schiena, si sdraia a terra e le porge la gola.
La donna gli gira intorno, va dietro di lui in modo che io possa guardarla frontalmente e senza togliersi la scarpa gli appoggia il piede sinistro sulla gola.
Il pomo d’Adamo dell’uomo s’incastra sotto l’incurvatura del sandalo rosso, alla base del fiosso.
L’estremità di Paola sembra una piccola cosa elegante, sopra il collo taurino del maschio…
Lei attende alcuni istanti, mi fissa negli occhi, forse a volermi dire – Sei ancora in tempo per ripensarci – ma io mi sento stregato da quest’immagine di donna conturbante, sensuale e bellissima che tiene sotto il suo piede delicatamente velato di seta scura un poderoso e quanto mai inerte esemplare di uomo.
A questo punto Paola, sempre fissandomi negli occhi, inizia a schiacciare la gola del giovane, e spinge… spinge…
Non lo guarda nemmeno: tiene i suoi splendidi occhi fissati, con severità accusatoria, dentro i miei.
Poco dopo sento il rantolo della vittima e vedo il suo volto diventare erubescente, violaceo, vedo gli addominali tendersi, ma le braccia, le sue enormi braccia da lottatore non si muovono da terra, restano distese lungo i fianchi, non lo difendono. Anche la sua erezione è allo stremo, enorme e proporzionale alla massa dei suoi muscoli.
Non ha più ossigeno, è paonazzo e gli occhi scompaiono verso l’alto, sotto le palpebre vibranti: agonizza, ma non cerca scampo, non chiede pietà, rantola e si lascia soffocare, come se sapesse già che prima della morte, una morte esemplare, perderà i sensi e poi… e poi non sentirà più niente: si sacrificherà per devozione verso la sua padrona e a causa della sciocca, morbosa curiosità che mi ha spinto ad una sfida inutile, oltreché già perduta…
Mentre tutto questo accade lei, la Signora Di Saba (adesso so che lo è davvero), non guarda mai a terra, come se ciò che giace e muore sotto il suo bel piede non abbia il minimo valore.
A questo punto ho paura; paura di attendere, di desiderare troppo.
– Basta, Paola! Le credo… le credo! Lo lasci vivere, per carità! Mi sentirei colpevole… la imploro! –
Senza togliere il piede la donna allenta la pressione lasciando al giovane il tempo di riprendersi e di riossigenare i polmoni prima di rialzarsi.
Finalmente lo guarda; quando vede che la sua respirazione è ritornata normale, gli libera la gola e ritorna davanti.
Immediatamente l’uomo recupera la precedente posizione e la fa sedere.
Ora che vedo del giovane e possente servo di Saba l’altro suo profilo m’accorgo che il tacco di Paola gli ha aperto una lunga e sottile ferita poco sopra il collare: il sangue, lentissimo, giunge sotto la gola e qualche goccia ogni poco cade a terra.
Paola continua a fissarmi con severità.
– Si ritiene soddisfatto? –
C’è un chiaro tono d’accusa nella sua voce. Temo di aver perso parecchi punti a mio favore, se mai ne ho avuti.
– Le chiedo scusa, Paola. Non volevo arrivare a questo. No, non mi ritengo soddisfatto. Sono assolutamente… sconcertato! –
– Va bene, è scusato! – Risponde lei accarezzando la testa del giovane come si fa con un cane da combattimento, dopo averlo messo a dura prova, tra la vita e la morte.
– Sì, sono sconcertato! Ma… come arrivate a… a costringerli ad una sottomissione così, come si può dire… così definitiva? –
– Guardi che qui non c’è alcuna costrizione, Carlo! Ognuno di loro, se lo desidera, può andarsene come e quando vuole! Il fatto è che nessuno di loro lo desidera. La sconcerta anche questo? –
– Sì, parecchio… intende dire che si sottomettono a lei, a voi, per libera scelta? –
– In un certo senso, sì. Un uomo che entra in questa casa non viene costretto a sottomettersi per forza o per mezzo di strumenti da psichiatria criminale. Si rassegni, Carlo! Non ci sono trucchi né magie! Una volta entrato, un uomo si sottomette naturalmente, sia a me che alle mie compagne. Nient’altro! –
– Che cosa vuol dire “naturalmente”? –
Paola sospira, per farmi capire che sto solo fingendo di non capire, ma che ho capito benissimo.
– Vuol dire, Carlo – riprende lei con pazienza – che la loro è più che una sottomissione: è un’ammissione d’inferiorità, di subordinazione, o di dipendenza, se preferisce. E questo, le ripeto, è del tutto naturale. –
Ho capito, lo ammetto a me stesso, e so che a questo punto devo crederle ma in qualche modo temo l’uscita dall’argomento, perché non so dove potrebbe portarmi l’altro.
– Ma, Paola… nessuno si è mai ribellato? –
– Nessuno. Nemmeno lei! –
Stoccato, lo riconosco.
– Che cosa c’entro io? –
Paola mi guarda quasi con compatimento.
– Lei si è ribellato, Carlo? –
Fingo di non capire.
– E a che cosa, scusi, mi sarei dovuto ribellare? –
– Al tacco di Rea, per esempio. –
– Quella che sta tenendo il suo Achille sotto applicazione? –
Paola Di Saba si spazientisce.
– Senta, Dottor D’Adua! La pianti di girarci intorno! Lei sa benissimo di che cosa parlo, ma fatica ad ammetterlo a se stesso. Sì, esatto! Rea è quella che in questo momento sta tenendo Achille sotto applicazione, ma è anche la splendida ragazza bruna che le ha marchiato la faccia! Si è ribellato? –
Se potessi nascondermi, sprofondare sotto terra, adesso lo farei volentieri, ma una forza oscura, provocatrice, autolesionista, mi costringe a menare il gioco verso una direzione sconosciuta.
– Le ho detto, Paola, che si è trattato di un incidente… –
– Ma davvero? C’era qualcosa che le impediva di girarsi, di chiedere a Rea di spostarsi, di stare attenta, oppure di potersi mettere con la testa dalla parte opposta, invece che restare là, con la faccia sotto i suoi tacchi? E una volta marchiato, ha fatto qualcosa per togliersi da lì, per evitare di farsi cavare un occhio alla buca successiva? Lo ha fatto, Dottor D’Adua? –
– … no… non l’ho fatto! –
– E perché, Dottor D’Adua? –
– Non… non lo so. Non lo so davvero. Potrebbe dirmelo lei, Paola… –
La Signora Di Saba ritrova la sua dolcezza: ha vinto e ne è soddisfatta.
– Sì, glielo dirò io, Carlo. Perché di fatto è avvenuto, ed è avvenuto naturalmente. Vuole, con tutta serenità, riconoscerlo? –
– Sì! Lo riconosco… e lo ammetto! Ero schiavo della sua volontà, della sua indifferenza… e della sua bellezza. Non ero in grado di ribellarmi. –
Paola si sposta, si rilassa; mette una gamba oltre la spalla del suo colosso, tra il collo e il poderoso deltoide, la fa dondolare avanti e indietro, mentre l’altra rimane dov’è, così che non posso non vederle la cosa splendida tra le cosce; come supponevo, non ha mutandine.
Lei se ne accorge, mi legge il desiderio in faccia e forse vede anche, sulla mia fronte, scendere una fredda goccia di sudore. Ma non chiude le gambe.
– Vede, Carlo… io so abbastanza cose, di lei. So che è laureato in Scienze Politiche, so che ha quarantadue anni, so che si tiene in forma, che è uno sportivo, che ha fatto il paracadutista… Ecco. Lei, per esempio, ha un corpo sano, forte, muscoloso e asciutto; non sarà un Ercole come il mio sedile ma è senza dubbio un uomo temibile, per forza fisica. Eppure la sua forza è svanita ai piedi di Rea, davanti al fascino di una donna avvenente, sensuale, dotata di carattere, ma fisicamente più fragile e debole rispetto ad un uomo. Lei si è comunque sentito dominato, lentamente si è annullato del tutto, ha ceduto alla grazia femminea di Rea e chissà cos’altro sarebbe potuto accadere, se il viaggio fosse durato più a lungo.
Il romanzo prosegue’ in edizione cartacea in vendita nelle principali librerie italiane
IL TEMPIO ‘ 224 PAGINE Borelli editore
il blog di Pizzo Nero
Tratto da “Il Tempio” di Paola Enrica Sala, secondo capitolo.
Mamma mia ruben, mamma mia... Ti prego, scrivimi a gioiliad1985[at]gmail.com , mi piacerebbe condividere con te le mie esperienze…
ciao ruben, mi puoi scrivere a gioiliad1985[at]gmail.com ? mi piacerebbe condividere con te le mie esperienze...
Davvero incredibilmente eccitante, avrei qualche domanda da farvi..se vi andasse mi trovate a questa email grossgiulio@yahoo.com
certoo, contattami qui Asiadu01er@gmail.com
le tue storie mi eccitano tantissimo ma avrei una curiosità che vorrei chiederti in privato: è possibile scriverti via mail?