Questa sera il cielo è più buio, ma buio davvero. Sento in lontananza dei lupi abbaiare, sarà per fame o per amore? O per semplice compagnia. Come me, che da sola in questa casa troppo grande, ripenso al mio amico, unico e vero, che all’alba di un giorno normale ha aperto il cancello portandosi via voce ed odore. E pensare che prima d’allora non conoscevo l’amore, prima d’allora, mai il mio cuore s’era gonfiato di sangue e passione, mai un fiatone improvviso m’aveva privato di parole e concetti, ragione e buon senso. Non capivo come gli uomini s’accoppiassero, o quale magnete nascosto potesse generare tragedie, figli e destini, quale assoluto sentimento potesse farli impegnare per sempre, giurando amore e giocandosi una vita. Consideravo tutto ciò fragile ed insicuro, sospeso in precario equilibrio sopra un flebile filo, che una vertigine di troppo avrebbe inesorabilmente annullato, cadendo nel vuoto senza rimedio. E mai nel tempo, da giovane, o qualche anno più tardi, mi ero sorpresa ad offrirmi, ad invaghirmi di qualcuno senza sapere come sarebbe finita, senza che la ragione m’avesse dato il consenso. Non credo di essere mai stata sola, tranne quando per libera scelta li accomodavo alla porta senza nessuna spiegazione. Era facile liberarmi di loro, era semplice non sentirsi in difetto di dire o spiegare quando non s’avverte emozione, quando il cuore pompa come qualsiasi muscolo senza altra funzione. Mi spiace se qualcuno ne abbia in qualche modo sofferto, in preda a questa malattia che ora m’assale, ma i patti erano chiari sin dall’inizio, sin da quando m’appoggiavano gli occhi o li sceglievo tra i tanti perché l’astinenza non conosceva rimandi.
Vivevo in una villa, fuori dal paese, ereditata da tempo insieme ad una rendita che mi permetteva di coltivare zucchine, melanzane e pomodori senza viver di questo, senza doverli offrire al mercato. Le rose sul viale m’impegnavano le giornate, come i bulbi d’inverno e la siepe d’alloro che fitta, potavo d’estate. E degli uomini ne avevo bisogno ad intervalli regolari, nei giorni di festa o nella bella stagione, o quando il freddo s’infila da sotto le gonne e ti fa ricordare che niente più scalda del caldo di un uomo, perché niente provoca più brivido quanto il tepore acquoso di un fiato eccitato. E li andavo a cercare in mezzo alla folla o nell’aperta campagna, al mercato del venerdì pomeriggio o al bar sulla provinciale dove non rischi d’incontrare le solite facce, che avevano impresso il ricordo di ciò che due volte non gli era permesso. Ed erano camionisti o agenti di commercio, bambini cresciuti o mariti con mille problemi che ti montano meglio perché scaricano rabbie e rivincite mai concesse. E bastava un niente che potesse fargli invertire il tragitto, che potesse scrollarli di un pensiero di troppo, quando davanti ad una donna che accavalla le gambe non rimaneva che attendere un lasciapassare, un visto di frontiera che scavalca confini, un cenno d’intesa che immancabilmente arrivava senza perdere troppo tempo. E mi seguivano premurosi accomodandosi in giardino, ridicoli con la voglia di sotto che già pesava tra le gambe malferme e il timore stampato sulla faccia di farsi scappare la preda insperata. Gentili e galanti si sforzavano di mostrare la loro parte migliore, inconsapevoli che soltanto il tempo avrebbe potuto fare di meglio, ma il tempo s’esauriva nel rendersi conto di essere arrivati in Paradiso, nel salire le scale ed attendere solo qualche secondo che la voglia ingrossata indovinasse il percorso. E si spogliavano senza vergogna perché nessun giudizio si sarebbe incollato nel tempo, nessuna opinione li avrebbe tacciati di considerazione indelebile, perché domani non sarebbero esistiti, non sarebbe rimasto nemmeno l’odore intenso dei loro vestiti da viaggio, come la loro forma del viso che la notte scontorna quando si guarda la luna. E senza remore pigiavano dentro senza timore di non essere maschi abbastanza, senza paure di sentirsi falliti quando il sesso di maschio non segue il cervello. Non m’interessava nulla di loro, se avessero un passato da ascoltare, una madre malata o delle mogli e dei figli in trepida attesa. Non era per questo che mi concedevo, non era per questo che avrebbero potuto farmi cambiare idea, o farmi pensare che obbedire ad un uomo e governarlo fosse comunque meglio che restare da sola. E non era per questo che li trattenevo per una notte soltanto, anche quando il mio sesso non s’era saziato e reclamava, stretto tra i denti, altri giorni di luce. E mi prendevano come mai con le loro mogli avrebbero fatto, scaricando, nella notte che si rischiara, vizi e passioni accumulate nel tempo. E mi concedevo come mai puttana ai bordi delle loro fantasie si sarebbe offerta, come mai donna di strada l’avrebbe accolti in preda all’orgasmo. E non c’era tariffa che allontanava il desiderio, e non c’era poesia che appassiva le voglie, ma soltanto il sesso che accoglie quello più duro di maschio, quello più umido di femmina che nulla e nient’altro vorrebbe che fosse. E mi offrivo per tanto e per tutto inseguendo il piacere fin dove l’uomo di turno si sarebbe ritratto se donna libera non l’avesse permesso. Non c’era domani che avrebbe potuto frenare l’istinto, non c’era ricordo che avrebbe fermato quell’uomo a non prendere regalo senza bisogno di compiere gli anni, senza promettersi amore eterno alla luce del sole. E la calma piatta dell’alba mi sorprendeva da sola nel letto, arrossata e dolente mi rigiravo contenta che altro non potevo pretendere di meglio, perché nessuna promessa m’avevano strappato di notte. Ma quella mattina mi si avvicinò un uomo che non avevo previsto, che non chiedeva altro di essere quello che appariva. ‘Signora, sono il suo cane.’ Mi disse rimanendo in piedi davanti alle mie gambe vellutate di nero e malizia che smisero immediatamente di accavallarsi. ‘La prego, non mi dia più considerazione di quanta ne chiedo, non vorrei essere altro.’ Timidamente s’informò solo se avevo un giardino e se potevo evitargli la museruola nelle notti di luna. Era un bell’uomo con l’aria vissuta e trasandata, le mani bianche di chi aveva conosciuto il peccato e una luce opaca negli occhi chissà per quale distratto destino. Elegante a suo modo si mise a sedere in precario equilibrio e guardando le mie gambe mi disse che di femmine ne aveva già fatta collezione e di nomi di donna ne avrebbe potuto recitare un intero rosario, sgranando più volte le perle e ricominciando daccapo. Ora povero in canna di soldi, futuro e speranza non possedeva altro che quel che vedevo e come un cane randagio per strada non cercava altro che una donna che facesse da padrona. Ed erano mesi che cercava un guinzaglio, una sorta di catena che lo strozzasse alla gola ogni volta che l’istinto di uomo prendeva il sopravvento, ogni qualvolta ridotto a pensare che nessuna donna sulla terra potesse arrivare al suo pari. Ed ora cercava di smentire passato e convinzione andando in giro per città e campagne, bordelli e stazioni ad offrirsi cane a femmina qualunque che aveva la capacità di considerarlo tale. Non uomo ridotto in rovina che ha perduto dignità e decenza, ma cane, soltanto cane orgoglioso di esserlo, orgoglioso di fare la guardia o chiedere di uscire per qualche bisogno. Non capivo e non capii nemmeno me stessa quando gli feci cenno di andare, e mi seguì con la lingua di fuori fino alla villa tenendosi a qualche metro di distanza, perché uomo e animale non possono avere la stessa cadenza. Rimase per tutto il tempo in giardino ad annusare gli odori più intensi ed a limitarsi il territorio. Ed a sera non ci fu verso di farlo entrare, di godere quel tepore di casa che a mille altri era stato concesso, di varcare la soglia come il mio sesso senza chiedere permesso. Mi chiese solo una coperta ritirandosi fintamente comodo dentro un cuccia in disuso, rannicchiandosi beato come se di meglio non avrebbe potuto avere. E durante la notte lo sentii abbaiare, avvicinandosi al recinto ad ogni insolito rumore, a bere l’acqua nella ciotola che di nascosto gli avevo preparato. E la mattina lo vidi soddisfatto, si fece accarezzare e mi chiese di essere legato perché dell’uomo che risiedeva al suo interno non c’era da fidarsi. Passarono giorni uguali dove ruoli e distanze non subirono mutamenti, senza che il mio compagno accennasse a diventare umano, senza che il mio istinto di donna s’abbassasse a divenire cagna. Alle volte sembrava contento, altre pensoso rimanendo per ore a fissare il sentiero che curva all’orizzonte tra le more e i desideri, tra la gioia di sentirsi animale e la malattia di non voler guarire. Alle volte sembravo serena senza la smania che prende a noi donne, rilassata al punto di godermi l’intorno di pace che rilassa la carne e da benessere ai sensi. Ma ad ogni respiro sentivo che il cuore cominciava ad irrorarsi di sangue più caldo, come se quell’animale riempisse un vuoto che non conoscevo, come se quell’essere così sottomesso parlasse direttamente al mio bisogno inconfessato di rimanere me stessa, amando qualcuno che ti protegge la notte e t’accompagna di giorno. E senza avvertirne la presenza passarono giorni e passarono lune, finché il suo muso s’infilò senza malizia tra le mie gambe, umido e protettivo cercando solo di dimostrarmi la sua infinita riconoscenza d’averlo accolto come in nessun altro modo avrebbe voluto, come se sentirsi cane fosse la città del sole. Ma i miei battiti avevano cambiato rumore e le mie cosce non rimasero insensibili a quella lingua che andava oltre la riconoscenza fino a sfiorarmi il sesso senza mutande. E l’allargavo senza uomo che mi chiamasse puttana, che m’appellasse troia per sentirlo più duro, ma soltanto per un concetto che gli altri chiamano amore senza nessun compromesso o ricatto che da quel punto in poi ti cambia la vita. E allargavo le cosce e mi sentivo cagna, ma cagna davvero perché cane e nient’altro mi cercava nell’intimo per gratitudine, senza altri fini che fanno del sesso una lotta di potere e sottomissione. E mi voleva da dietro guardando la luna, guardano il recinto tra le foglie d’alloro, perché solo un cane può prenderti da cagna senza pensarti cagna o mignotta che sia perché ti concedi senza guardagli la faccia. E godeva di piacere convinto, abbaiando alla luna e colando saliva dalla lingua infuocata, e senza che la voglia s’annidasse perversa nel suo cervello nel vedermi umiliata, nel darsi e non darsi secondo un preciso disegno che fa del sesso di maschio l’unico strumento di piacere. E passarono ancora giorni, amandoci muti sotto la pioggia o contro il muro dove l’odore di pipì copriva le parole non dette, dove, come cane e cagna, l’istinto di possesso animale non sarebbe continuato dopo l’orgasmo. E dopo l’amore tutto tornava come prima, come cane e padrone, come gioia e dolore che s’avvertono insieme senza mai mescolarsi. Ma ogni sera prima di chiudere a chiave la porta lo invitavo ad entrare, a cenarmi davanti o dormirmi accanto nel letto, ed ogni sera le sue resistenze erano sempre di meno finché in un’alba più scura un buco nella rete lo fece scappare. E ora ripenso quando di giorno s’appisolava tra le rose in giardino o quando di notte s’accomodava nella cuccia in disuso senza mai pretendere di essere altro che cane, senza mai arrogarsi qualche diritto in nome dell’amore o d’avermi montata in faccia alla luna.
Grazie Rebis
Bellissima storia, molto realistica
Pisellina… fantastico! Un buon mix di Femdom e umiliazione
Storia molto intrigante. Per favore, continua! :)
In tutte le volte in cui Maria ordina a Serena di spogliarsi, Serena rimane sempre anche a piedi nudi oppure…