Roberta stava tornando a casa.
Aveva trascorso una giornata in campagna, da un’amica che si era trasferita in un piccolo paese.
Si sentiva come rigenerata da quelle ore tranquille, trascorse all’aria aperta.
Mancavano solo una trentina di chilometri al suo rientro a casa e la sua piccola auto camminava spedita su quella strada secondaria tra le colline, che le aveva insegnato la sua amica.
Era meno veloce della superstrada, ma non c’era mai traffico e si accorciava di parecchi chilometri.
L’auto ebbe un sussulto. Roberta, istintivamente, guardò l’indicatore della benzina.
Tutto a posto: navigava in zone tranquille, più o meno a metà.
Poi vide la spia arancione.
Si era accesa una sola volta, quando l’auto era nuova.
Il capo officina della concessionaria le aveva spiegato che le auto di oggi erano ‘intelligenti’, perché erano dotate di una specie di computer, chiamato centralina, che pensava a tutto.
Quando c’era qualcosa che non andava, si accendeva quella spia arancione, ma non c’era da preoccuparsi, il computer avrebbe impostato un programma di emergenza che le avrebbe comunque permesso di arrivare sana e salva a casa o in officina.
La spia arancione si era spenta. Tutto a posto.
L’auto riprese a sussultare. La spia si era accesa di nuovo.
Il motore si spense di colpo. Roberta fece appena in tempo ad inserire le ‘quattro frecce’ e ad accostare in un piccolo spiazzo erboso, a lato della strada.
Provò a rimettere in moto. La spia era sempre accesa ed il motore non dava segni di vita: evidentemente il programma di emergenza non aveva funzionato.
Prese il cellulare dalla borsetta poggiata sul sedile a fianco.
Aprì il telefono che, per tutta risposta, fece sentire quell’irritante musichetta che faceva sempre, sia all’accensione che allo spegnimento, poi rimase tra le sue mani, muto, spento ed inutile.
Aveva dimenticato di ricaricarlo prima di partire ed ora era veramente nei guai.
Stava facendo notte, era sola su una strada poco frequentata, distante parecchi chilometri da un abitato o anche da una casa, un bar, un posto qualsiasi.
Avrebbe dovuto chiedere aiuto a qualche automobilista.
Era prudente per una donna sola, con la notte che si avvicinava, mettersi a fermare le macchine?
In ogni caso l’alternativa era dormire in macchina, cosa spiacevole ed altrettanto insicura.
Scese dall’auto e cominciò a far segni alle poche auto che passavano.
Nessuna si fermava.
Vide arrivare un grosso camion. Meglio di no, i camionisti hanno sempre nella cabina foto di donne in pose sconce e poteva farsi venire qualche idea sbagliata.
Il camion passò oltre, scompigliandole i lunghi capelli scuri con lo spostamento d’aria.
Dietro il camion c’era una piccola auto nera, vecchiotta ma ben tenuta.
Si fermò.
Ne scese un signore di mezz’età.
Era alto e slanciato, aveva l’aria di un vecchio gentiluomo inglese di campagna, di quelli che fanno lunghe passeggiate con il cane e bevono Whisky dopo pranzo, seduti tranquillamente su una vecchia poltrona.
Era vestito in maniera sportiva ma curata ed aveva un’aria educata e rassicurante, insomma sembrava il salvatore ideale.
Si informò del problema, poi rientrò in macchina per chiamare con il suo cellulare il meccanico del paese vicino, dove lui viveva.
Uscì subito dall’auto scusandosi con lei: era mortificato ma aveva lasciato il telefono a casa.
Sarebbe dovuto tornare in paese per avvertire di persona il meccanico oppure ‘
‘capisco che per una donna sola può essere poco prudente accettare il passaggio di uno sconosciuto, però credo che non sia neanche bello rimanere qui, in mezzo alla strada, di notte. Se crede, può venire con me in paese e poi tornare con il meccanico, oppure, se preferisce, può aspettarmi, cercherò di far presto’.
Faceva freddo, era stufa di stare ferma lì, in mezzo alla strada. Salì nell’auto del suo gentile salvatore.
Dopo pochi chilometri lui le indicò le luci di un abitato, a metà delle montagne che si trovavano alla loro destra. Quello era il paese dove erano diretti.
Infilò una stretta via secondaria, che si arrampicava a larghe curve su una collina: ‘arriveremo prima, non vorrei che il meccanico chiudesse, nel frattempo’.
La strada spianò e si trovarono ad attraversare un piccolo bosco.
Sulla destra, seminascosta dagli alberi, c’era una grande costruzione in mattoni rossi dall’aria abbandonata, con un grande portone di ferro.
Il muso dell’auto puntò improvvisamente verso la costruzione.
Roberta sentì l’auto sobbalzare sul viottolo sconnesso che portava dritto verso il portone.
L’uomo abbassò l’aletta parasole.
Premette il pulsante di un telecomando fissato all’aletta ed il portone si aprì velocemente, come una grande bocca nera pronta ad inghiottire l’auto con i suoi occupanti.
La macchina sobbalzò sulla soglia leggermente rialzata ed entrò.
Il portone basculante si chiuse alle loro spalle con un sordo rumore di ferraglia mentre l’uomo spegneva il motore dell’auto.
Era avvenuto tutto così rapidamente che Roberta non aveva neanche fatto in tempo a rendersi conto di quello che stava accadendo.
L’uomo scese dall’auto, fece il giro ed aprì la portiera di destra.
‘Scendi’.
Il tono della sua voce era diventato brusco ed imperioso.
Lei era rimasta immobile, stupita e spaventata.
La prese per un braccio e la tirò fuori dall’auto, senza tanti complimenti.
Non capiva bene dove si trovasse, sembrava una via di mezzo tra un magazzino ed una officina. Nel grande ambiente c’erano macchinari arrugginiti, attrezzi agricoli e meccanici, un banco di lavoro con una morsa ed un trapano a colonna, poi, alle pareti, diversi armadi di ferro.
Al centro si trovava un vecchio divano, stinto e sdrucito.
Ogni oggetto dava l’idea di sporco, di polveroso, di un posto abbandonato e sinistro.
‘Spogliati, signora’.
Le parole dell’uomo le diedero una scossa.
In quel momento comprese tutta la gravità della situazione.
‘No’.
Disse soltanto no, mentre faceva due passi indietro per tenersi a distanza dall’uomo.
Lui sembrò ignorare il suo movimento e si diresse verso la parete di destra.
Tolse qualcosa appeso al muro e tornò verso di lei.
‘Adesso tu ti libererai di quello che hai addosso. Puoi scegliere di farlo da sola oppure, se preferisci, posso pensarci io usando questa, ma ti assicuro che sarà molto spiacevole, per i tuoi bei vestiti e, soprattutto, per quello che c’è dentro’.
L’oggetto che aveva chiamato ‘questa’ era una lunga frusta. Per farle capire meglio di cosa si trattasse la fece schioccare in aria e poi, subito dopo, senza preavviso, la colpì violentemente sul braccio sinistro, subito sopra il gomito.
Roberta urlò e si portò la mano destra nel punto in cui la frusta aveva colpito.
La manica del cappotto si era strappata ed anche il maglione sottostante si era rotto.
In mezzo ai fili di lana spezzati poteva vedere la stoffa della sua camicetta bianca.
Fortunatamente i vestiti avevano attutito in parte il colpo, ma il braccio le bruciava decisamente.
Un secondo colpo arrivò sul braccio destro, nello stesso punto.
‘Devo continuare?’
Roberta si slacciò il cappotto, se lo sfilò e lo mise sul divano.
Guardò il pesante maglione beige con entrambe le maniche lacerate dalla frusta.
‘Il maglione, signora’, disse l’uomo agitando la frusta.
Si sfilò il maglione. Il lunghi capelli scuri le ricaddero disordinatamente sulla camicetta bianca.
Si accorse di avere freddo. Quel posto grande e tetro non era certo riscaldato. Le finestre avevano i vetri rotti e da fuori entrava l’aria gelida della notte.
‘Ora la gonna’.
‘No, per favore’.
Per tutta risposta la frusta colpì il pavimento a pochi centimetri dai suoi piedi, sollevando una nuvoletta di polvere grigia.
Roberta slacciò rapidamente la pesante gonna di lana marrone, che cadde in terra, coprendole i piedi. Fece poi un passo di lato, si chinò a raccoglierla e la posò sul divano, sopra gli altri indumenti.
‘Le scarpe’.
Roberta si chinò e si sfilò i mocassini marroni.
Rabbrividì, sia perché il pavimento era ruvido e freddo, ma soprattutto per quello che si stava preparando.
‘La camicetta’.
Cominciò a slacciare i bottoni. Le tremavano le mani.
L’uomo, con la frusta in mano, la guardava impaziente: ci stava impiegando troppo tempo.
Doveva sbrigarsi, perché avrebbe potuto frustarla di nuovo.
Alla fine la camicia venne via e si andò ad aggiungere, sul divano, agli altri vestiti già tolti.
Ora aveva veramente freddo ed i lunghi capelli, che le facevano il solletico sulle spalle, le ricordarono che era rimasta soltanto con il reggiseno.
‘Le calze’.
Pezzo a pezzo la stava facendo spogliare. Lui ordinava e lei doveva eseguire.
Lui elencava i nomi dei suoi capi di abbigliamento e lei doveva fare la cosa giusta, come se fosse una bambina che stava imparando i nomi delle cose e lui fosse il suo maestro, che controllava se aveva appreso bene la lezione.
Si sarebbe potuta rifiutare?
Si guardò le braccia nude, su entrambe, poco sopra il gomito, nel punto in cui la frusta l’aveva colpita, c’era un vistoso segno rosso.
Pensò a cosa sarebbe successo se l’avesse colpita nuovamente, senza la protezione del cappotto e dei vestiti e rabbrividì.
Si sfilò il pesante collant marrone. Lei era molto freddolosa e d’inverno aveva l’abitudine di coprirsi parecchio.
Il contatto dei piedi nudi con il pavimento le restituì pienamente la sensazione di sporco, che dava quell’ambiente. A terra c’era polvere, terra, trucioli di legno e chissà che cos’altro.
Era rimasta in slip e reggiseno e lui la stava osservando con un misto di attenzione e di piacere.
Roberta aveva passato da poco la cinquantina ma aveva un fisico perfetto: snello, slanciato e senza un filo di grasso.
Le girò intorno, poi ritornò al punto di partenza, soddisfatto dell’esame.
‘Niente male, signora, niente male’.
‘Ora possiamo togliere il resto’.
‘Per favore, la prego, ho freddo’.
Che cosa stupida aveva detto. Quell’uomo si apprestava a violentarla, forse dopo l’avrebbe anche uccisa, e lei si preoccupava del freddo, anzi, peggio, pensava che lui, impietosito, l’avrebbe fatta rivestire, o almeno le avrebbe lasciato addosso quelle ultime due cose, solo perché sentiva freddo.
‘Mia cara signora, non ti devi preoccupare, faremo solo un cambio di vestiti, perché, questa sera, sei invitata ad una festa, ed i tuoi abiti non sono adatti. Alla fine sarai vestita benissimo, te lo posso assicurare. Sarai la reginetta della serata’.
‘Su, su, ora il reggiseno’.
Roberta si tolse il reggiseno.
Lo sguardo di lui si posò più in basso e la donna si filò anche le mutandine.
Istintivamente Roberta cercò di coprirsi, mettendo l’avambraccio sinistro davanti ai seni e la mano destra sul pube.
‘Le braccia. Le braccia lungo i fianchi’.
Le sua braccia ricaddero in basso e rimasero lì, con le dita aggrappate alle cosce.
‘Molto bene. Vediamo, tette un po’ piccole ma ben fatte, due belle gambe lunghe e dritte e poi ‘ un culo veramente notevole. Farò proprio bella figura alla festa’.
Si diresse verso un armadio di metallo e lo aprì. Era pieno di vestiti da donna di tutti i colori.
Tornò con qualcosa di rosso in mano.
‘Questa sera indosserai questo’.
Lo aveva detto con tono tranquillo, ma che non ammetteva repliche. Quello era il vestito e quello avrebbe dovuto indossare.
Era un abito leggerissimo, corto e trasparente, certamente inadatto per quella stagione, e poi, non voleva metterlo senza biancheria intima.
‘Solo questo?’
‘Non ti preoccupare, per il tipo di festa in programma stasera, non servirà nient’altro’.
Roberta pensò che era meglio che restare nuda e, soprattutto, che poteva essere pericoloso contrariarlo, così indossò il vestitino rosso, senza discutere ancora.
Aveva due bretelle sottilissime ed era molto scollato.
Cercò di tirarlo su il più possibile, per non scoprire troppo il seno, anche se era così trasparente ed aderente che praticamente era come se fosse nuda.
Si vedevano distintamente i seni, mentre i capezzoli sembravano quasi saltar fuori dalla stoffa e, guardando più in basso, risaltava in maniera netta la massa scura dei suoi peli pubici.
E poi era cortissimo. Aveva la gambe completamente scoperte e dietro finiva praticamente all’attaccatura delle natiche.
‘No, no, così non va!’.
Si avvicinò e infilò entrambe le mani nella scollatura.
Roberta fece un grido di sorpresa, fino ad ora non l’aveva neanche sfiorata.
Le prese i seni e, con un gesto deciso, li tirò in su, poi tirò in giù il vestito e lo risistemò.
‘Queste tette sono già un po’ piccole, vanno messe in evidenza, non certo nascoste’.
Ora aveva praticamente quasi tutto il seno fuori dal vestito. La stoffa partiva circa un centimetro sopra i suoi capezzoli.
‘Che misura porti di scarpe?’.
‘Trentasette’.
‘Piedino piccolo da principessa. Vediamo cosa si può fare’.
Rovistò in uno scatolone e tornò con un paio di stivali rossi.
Erano di finta pelle, vistosi e dozzinali.
Un tacco altissimo, spropositato, e sotto la pianta una zeppa di parecchi centimetri.
Non sarebbe mai riuscita a camminarci, lei che non aveva mai sopportato i tacchi troppo alti.
La lampo posteriore scorreva a fatica ma alla fine riuscì ad aprire il sinistro.
Erano freddi e duri ma la misura era giusta.
Si accorse, calzandoli, che erano lunghissimi, finivano infatti a metà coscia, con una grande e vistosa fibbia dorata.
La stava vestendo come una prostituta, come una di quelle poverette che vendevano il proprio corpo per quattro soldi, lungo i viali di periferia delle città.
Comunque non aveva scelta, quelle erano le scarpe destinate a lei e quelle avrebbe dovuto mettere, perché non puoi certo discutere quando sei nuda davanti ad un uomo con una frusta in mano.
Quando si rialzò ebbe l’impressione di stare sui trampoli. Si sentiva altissima ed instabile.
Lui le fece sfilare l’orologino d’oro, i piccoli orecchini di corallo ed il filo di perle che portava intorno al collo, che furono sostituiti rispettivamente, da un enorme orologio di plastica rosa a forma di cuore, da due grandi anelli dorati e da una vistosa collana di gigantesche perle di plastica bianca.
La stava trasformando in un’altra donna, evidentemente aveva in testa un piano ben preciso. Era come se la stesse preparando per una rappresentazione teatrale. Il guaio era che lui conosceva sicuramente sia il copione che il personaggio, mentre lei avrebbe scoperto tutto solo quando si sarebbe alzato il sipario.
Prese un metro da sarto e le misurò polsi e caviglie.
Andò verso un altro grande armadio di metallo e lo sentì rovistare a lungo.
Non riusciva a capire cosa stesse facendo, ma sentiva un rumore di ferraglia come se lui stesse cercando qualcosa in mezzo a chiodi e viti.
Tornò con degli strani aggeggi di ferro ed una pinza.
Le prese il polso sinistro e le mise uno robusto bracciale di ferro. Era composto da due metà incernierate. Lo chiuse e le due parti aderirono strettamente al suo polso, trasmettendole una fastidiosa sensazione di freddo e di costrizione. Dalla parte opposta alla cerniera c’erano due anelli, attaccati il primo ad una metà il secondo all’altra.
Prese un grosso chiodo piegato ad ‘U’ e lo fece passare per entrambi gli anelli, poi con la pinza piegò la parte dritta che sporgeva.
Rapidamente, prima che lei potesse opporsi, fece lo stesso con il polso destro.
Roberta si guardò con terrore i polsi: praticamente la stava incatenando.
Si accorse che i due anelli non erano uguali: il sinistro aveva, sul lato interno, un grosso anello tondo, mentre l’altro, nella stessa posizione, terminava con un robusto moschettone.
Capì subito lo scopo di quel marchingegno, quando lui le passò le braccia dietro la schiena e fece scattare il moschettone, bloccandole così i polsi.
La spinse a sedere sul divano e le prese in mano il piede sinistro.
Le mise un anello simile, ma più grande, visto che doveva contenere la caviglia e lo stivale.
Fece lo stesso con il piede destro, poi prese una catena lunga una ventina di centimetri e legò insieme le due caviglie.
Roberta si rese conto che, qualunque cosa lui avrebbe deciso di farle, non avrebbe potuto opporre la minima resistenza, con le braccia bloccate dietro la schiena e le gambe costrette al massimo a fare dei passettini, a causa della catena.
Poi la fece alzare.
Se prima era difficile camminare su quella specie di trampoli, ora, con le braccia dietro la schiena e quella maledetta catena che le impediva i movimenti, era un’impresa.
La fece camminare lentamente, sorreggendola, fino al fondo del grande locale, dove c’era una specie di lavatoio di cemento.
La mise a sedere su una sedia di paglia mezza sfondata, poi aprì il rubinetto dell’acqua e bagnò uno straccio.
‘Dobbiamo rifare il trucco, signora, serve qualcosa di più adatto alla serata’.
Cominciò a strofinarle il viso con lo straccio bagnato.
Vedendo che il trucco stentava a togliersi si aiutò con un po’ di pasta lavamani.
Era una sensazione fastidiosa, tra il gelo dell’acqua che le bagnava il viso e le scorreva sul collo e sul seno, inzuppandole il vestito, e lo sfregare ruvido della pasta lavamani, che le stava arrossando la pelle.
Alla fine l’asciugò con un altro straccio e prese una cassettina nera.
Dentro c’era tutto il necessario per il trucco.
Lavorò sul suo viso per una mezzora buona.
Roberta poteva vedere i progressi grazie ad uno specchio sporco e sbeccato, appeso sopra al lavatoio.
Sicuramente sapeva il fatto suo, ma lei non si sarebbe mai truccata in quella maniera.
Era tutto eccessivo, caricato, quasi grottesco.
I suoi grandi occhi scuri, ora apparivano troppo grandi, perché ne aveva marcato il contorno in una maniera vistosa. I colori usati per la pelle intorno erano troppo accesi e contrastavano con il marrone dei suoi occhi.
Aveva coperto perfettamente le rughe del suo viso, inevitabili in una donna della sua età, ma il colore forte del fondo tinta ed il rosso accentuato sulle sue guance le davano un’aria volgare ed un po’ sordida.
E poi la bocca. Roberta aveva una bocca grande, con le labbra sensuali e ben modellate, ma lui le aveva completamente ridisegnate, usando un rossetto dal colore molto forte, ingrandendole a dismisura.
Il trucco era finito. La fece alzare e la condusse di nuovo al divano.
‘Sei pronta, possiamo andare alla festa’.
Andò di nuovo verso l’armadio dei vestiti e prese una pelliccia sintetica bianca.
Se tutto l’insieme del suo abbigliamento e del suo aspetto aveva un’aria volgare, le pelliccia era veramente orribile.
Il pelo, folto, riccio ma dall’aspetto ‘plasticoso’ era quanto di peggio si potesse immaginare.
Le liberò i polsi e glie la fece indossare.
Le arrivava quasi fino ai piedi, ma sul davanti i bottoni terminavano all’altezza del pube, mentre, sul retro e sui fianchi presentava degli spacchi che, praticamente, risalivano fino al sedere.
La pelliccia odorava di muffa, inoltre, camminando con quell’affare addosso, sarebbe stata costretta a mostrare quasi completamente il suo corpo, ma era così infreddolita, dalla lunga permanenza in quell’ambiente gelido, ricoperta soltanto da quello striminzito abitino rosso, che l’accettò quasi con gioia.
Le legò nuovamente i polsi dietro la schiena e la condusse dall’altra parte dello stanzone, dove era parcheggiato un furgone bianco dall’aria malmessa.
Aprì le porte posteriori.
L’interno era vuoto tranne una vecchia poltrona, piazzata spalle al senso di marcia, contro la paratia che separava la parte adibita al carico dalla cabina di guida.
Dovette aiutarla a salire, spingendola per il sedere, a causa della catena e degli stivali.
La mise a sedere sulla poltrona, poi, prima di uscire, fece passare, più volte, una grossa catena intorno alle sue braccia.
Le porte si chiusero con un rumoraccio di ferraglia.
Sentì il rumore del motore che si metteva in moto.
Iniziava il viaggio Che viaggio sarebbe stato?
Dove l’avrebbe portata, conciata così?
L’avrebbe lasciata su uno di quei viali di periferia, in mezzo alle prostitute, quelle vere?
Sarebbe tornato all’alba a prendersi il suo incasso?
Era assurdo.
Non si fa prostituire per la prima volta una donna a cinquanta anni.
E poi lei sarebbe scappata alla prima occasione, non era una di quelle minorenni confuse che non sanno cosa fare, era una donna intelligente e sicura di sé.
Aveva parlato di una festa.
A che tipo di festa si porta una donna combinata così.
Un’orgia, sicuramente.
Come era vestita, anzi, in realtà come era ‘svestita’, era il segnale evidente che si sarebbe trovata in un luogo pieno di uomini che non aspettavano altro che scoparsela.
Immaginava già un locale scuro e fumoso, pieno di maschi ‘allupati’ che si contendevano donne vestite come lei.
Le sembrava già di sentire decine di mani che la toccavano da tutte le parti e lei, con le braccia legate dietro la schiena non avrebbe potuto far nulla per impedirlo.
Oppure l’avrebbero slegata, si sarebbero divertiti a vederla dibattersi e lottare, finché alla fine, stanchi del gioco, avrebbero deciso che si poteva cominciare.
Allora qualcuno l’avrebbe afferrata da dietro per le braccia, qualcun altro le avrebbe allargato le gambe e …
Non avrebbero neanche dovuto perdere tempo a spogliarla, sarebbe bastato sollevare il bordo di quell’abitino rosso, che a malapena ricopriva il suo corpo.
Cominciava ad avere le idee più chiare ed era sempre più spaventata.
Doveva però ammettere, che, oltre alla paura, che le sembrava perfettamente logica, in una situazione del genere, c’era in lei anche un qualcosa di indefinibile ed inquietante, come se la possibilità di essere dominata e posseduta con la forza, fosse, tutto sommato una cosa che le potesse piacere.
In ogni caso anche sapendo cosa le stava per accadere non poteva far nulla.
Il massimo che poteva augurarsi era che ‘dopo’ l’avrebbe liberata e fatta tornare a casa.
Dentro al furgone era buio, riusciva a malapena a vedere qualche sprazzo di luce dalle fessure delle porte posteriori.
Era parecchio che stava lì.
Non aveva pensato a guardare l’orologio quando erano partiti, ma sicuramente almeno mezzora, forse anche un’ora, era trascorsa.
Il furgone si fermò.
Passarono alcuni minuti poi le porte si aprirono.
Rimase per un attimo abbagliata dalla luce forte che entrava da fuori.
Lui la liberò dalle catene e la fece scendere.
Si era cambiato d’abito.
Indossava un vestito grigio, elegante, ed un soprabito nero.
Erano in una specie di garage.
Lui aprì una porticina e la fece entrare in uno stretto corridoio.
Da lì partiva una ripida scala.
Dovette farla un gradino per volta perché la catena alle caviglie le impediva movimenti troppo ampi.
Fu diverse volte sul punto di cadere, ma l’uomo, da dietro, la sorreggeva, tenendo maliziosamente le mani poggiate sul sedere, attraverso gli spacchi della pelliccia.
Alla fine della scala si trovò in un piccolo atrio, con davanti una grande porta e vetri a due ante.
Lui aprì la porta e si trovarono in un grande salone, arredato con tendaggi, tappeti e mobili antichi.
Al centro c’era una grande tavola rettangolare apparecchiata con quattro sedie, due sul lato lungo ed una ciascuna sui due lati corti.
Sull’altro lato lungo c’era soltanto una poltroncina rossa ed era apparecchiato per una sola persona.
In fondo al salone c’era un grande camino acceso con due poltrone ed un divano, su cui erano seduti tre uomini.
All’apparire di Roberta e del suo accompagnatore, si alzarono e vennero loro incontro facendo un piccolo applauso.
Erano vestiti elegantemente e sembravano sinceramente felici del loro arrivo.
‘Era ora, Ettore. Cominciavamo a preoccuparci’.
‘Dovete capire che le signore, quando si devono preparare per qualcosa di importante, si fanno sempre un po’ desiderare’.
Roberta era perplessa. I foschi presagi che l’avevano accompagnata per tutto il viaggio si erano rivelati (per ora) infondati.
Da un lato era contenta ed un po’ rinfrancata, per l’aria piuttosto tranquilla che si respirava in quella sala, dall’altro si sentiva a disagio in quell’ambiente curato ed elegante, in mezzo a delle persone che sembravano civili, ben educate, acconciata in quella maniera orribile e volgare.
Avrebbe voluto dirgli ‘guardate, io non sono quella che potrei sembrare, sono stata costretta a vestirmi così, è una mascherata, una rappresentazione’.
Si presentarono educatamente, le fecero togliere la pelliccia e la fecero accomodare a tavola, sulla poltroncina, che era per ‘l’ospite d’onore’.
Si comportavano come se lì ci fosse una gran dama e non una puttana mezza nuda, truccata in maniera volgare, con le mani legate dietro la schiena e le caviglie incatenate.
La cena era buona ed abbondante, ma lei non aveva proprio appetito.
I quattro uomini si offrirono a turno di imboccarla.
All’inizio lei pensò di rifiutare il cibo, poi riflettendo, decise che avrebbe accettato di mangiare, cercando così di prendere tempo e di assecondarli.
Mangiò delle mozzarelline freschissime, poi del prosciutto.
I quattro, a turno, si sporgevano verso di lei, tagliavano dei piccoli bocconi ed aspettavano che aprisse le labbra, come potrebbe fare un passero con i suoi piccoli.
Anche se preoccupata per come si sarebbe svolto il resto della serata, non riusciva a non essere un po’ lusingata per le attenzioni che quegli uomini le stavano dedicando.
Mangiò delle pennette al salmone, poi un’insalata di mare molto buona.
Ogni tanto le offrivano anche dei pezzetti di pane.
A turno, i due seduti di fronte a lei, le avvicinavano il bicchiere per farle bere acqua o vino.
Roberta in genere non consumava alcolici, ma quella sera bevve parecchio vino.
Alla fine, oltre alla confusione che aveva dentro a causa della strana situazione, era anche decisamente frastornata per tutto quello che aveva bevuto.
Dopo il dolce le fecero anche bere un bicchiere di Cognac e questo le diede proprio il colpo di grazia.
Avvertiva delle vampate di calore, si sentiva ondeggiare e non riusciva più a distinguere chiaramente i contorni degli oggetti che erano a tavola.
L’uomo che l’aveva portata lì, Enrico, no, … forse Ettore, ‘ qualcosa del genere, ricordava che al loro arrivo gli altri lo avevano chiamato per nome, si alzò e le disse qualcosa all’orecchio.
Dovette ripeterlo tre volte, perché Roberta era profondamente confusa, e poi non si aspettava minimamente, a quel punto della serata, una simile richiesta.
‘Ora, mia cara signora, ti infili sotto il tavolo e, con quella bella boccuccia, fai un bel servizietto a tutti quanti’.
Certo, sicuramente si aspettava che dopo la cena, quei quattro uomini l’avrebbero potuta violentare.
Era preparata e rassegnata a questo, perché non avrebbe potuto opporre alcuna resistenza.
Si sarebbero presi il suo corpo, però lei non avrebbe mai collaborato.
Non c’era alcun motivo e non ne aveva alcuna intenzione.
Era stata muta fino ad ora, ma adesso sembrava un fiume in piena.
Lo stordimento dell’alcol sembrava esserle passato di colpo, ed aveva iniziato a parlare, ad alta voce, con un tono giovane e squillante, insospettabile per una donna della sua età.
‘…non farò mai una cosa del genere, ve lo potete scordare. Non ho nessuna …’.
Ettore la zittì con decisione e poi la fece alzare dalla poltroncina.
La condusse lontano dal tavolo e la fece accomodare sul divano, poi si sedette vicino a lei.
‘Vedi, cara mia bella signora, è veramente un peccato che tu ti sia impuntata su una simile sciocchezza. La serata stava andando benissimo, i miei amici erano soddisfatti dell’ospite che avevo portato. Tutto filava liscio e invece …’.
Si alzò e prese una cesta di vimini poggiata a terra vicino al grande camino.
‘Sai cosa sono questi?’.
Nella cesta c’erano delle aste di ferro nero che terminavano con una specie di piattello, a volte tondo a volte quadrato, del diametro di qualche centimetro, sempre del medesimo materiale. Alcune, all’estremità opposta, avevano una impugnatura di legno.
‘Sono dei piccoli oggetti del passato contadino. Servivano a segnare la proprietà del bestiame. Con questi aggeggi, gli allevatori marchiavano le mucche, i cavalli e le pecore.
Era importante per evitare dispute sul possesso del bestiame, perché una volta impresso, sarebbe rimasto per tutta la vita dell’animale.
Ora, invece, si usa un microchip sotto pelle. Eh, il progresso!
Sono stati fatti tanti anni fa, da qualche artigiano, fabbro o maniscalco, su indicazione dell’allevatore.
A volte c’è un numero, oppure una lettera, in altri casi un disegno o un segno convenzionale.’
Roberta era perplessa e spaventata, ma non riusciva ancora a capire il senso di quel discorso, anche se intuiva che si stava preparando qualcosa di sgradevole.
‘Perché ti parlo di questi oggetti? Vedi i miei amici sono persone educate, ma sono poco abituati a sentirsi dire di no. Quando succede diventano crudeli, parecchio crudeli.
Qualche mese fa, c’è stata una cena come questa. Avevo portato una bella signora bionda, che purtroppo fece una questione simile.
I miei amici l’hanno sollevata di peso e l’hanno messa su questo’, indicò un tavolino di cristallo basso e largo, con la struttura in tubi di acciaio cromato, posto davanti al divano ‘e si sono un po’ esercitati sul suo sederino, con questi aggeggi, dopo averli ben scaldati sul fuoco.
Quando la signora si è ripresa, è andata dritta dritta sotto il tavolo ed ha fatto tutto quello che doveva fare. Sembrava che non avesse fatto nient’altro che quello per tutta la vita.
Brava, veramente brava.
è un vero peccato che questo debba accadere anche a te, perché la signora bionda non aveva un culetto bello come il tuo, anzi, ad essere sinceri, era piatto ed un po’ flaccido’.
Roberta cominciò a singhiozzare, la sua sicurezza era svanita di colpo. Riuscì a dire tra le lacrime ‘ti prego, lo farò, farò tutto quello che mi chiederete, ma non mi far fare una cosa così orribile’.
‘Mi spiace, ma credo che i miei amici abbiano già deciso, e poi crediamo che questo trattamento migliori, come si potrebbe dire, sì, migliori il rendimento.
Comunque, ti assicuro, che si tratta di una esperienza un po’ dolorosa, ma si sopravvive benissimo. Hai presente quando si cuoce la carne alla brace? Si sente un rumore simile a quello di una bistecca quando viene posata sulla griglia, poi si spande nell’aria un odore di carne arrosto. è un po’ diverso perché sembra che la carne umana abbia un gusto differente.
Eccoli, stanno venendo’. Roberta si voltò terrorizzata, i tre uomini si erano alzati e si stavano dirigendo verso di loro.
Uno prese il tavolino di cristallo, lo mise di traverso e lo avvicinò al camino, mentre gli altri due la sollevavano dal divano e la rimettevano in piedi.
Le liberarono le braccia e le gambe e la misero a cavalcioni del tavolino, con le spalle al camino.
Fecero passare i suoi piedi all’esterno delle gambe del tavolo
Legarono strettamente insieme, con delle catene, caviglie e gambe del tavolo.
Sembrava che stessero seguendo un copione ben preciso, provato e riprovato chissà quante volte.
Ora Roberta era in ginocchio, a gambe larghe, bloccata su quel maledetto tavolino.
Poteva muovere liberamente le braccia ma non le serviva a nulla.
Poteva anche decidere se rimanere dritta con le cosce in posizione verticale, oppure abbassarsi fino a posare il sedere sul piano del tavolo.
Si sedette. Il piano di cristallo era freddo e contrastava con le vampate di calore che le arrivavano da dietro, dal camino acceso, vicinissimo.
I tre uomini erano scomparsi alla sua vista, ora erano alle sue spalle e stavano sicuramente preparando il suo supplizio.
Il quarto, Ettore, era seduto sul divano, di fronte a lei, fumava tranquillamente la pipa e la guardava con attenzione.
Le arrivavano a tratti, brandelli di conversazione dei tre uomini.
‘…questo è troppo grande, lei è molto magra’.
‘Sì, però ha il culo bello grosso’.
‘… Ettore ha guardato i suoi documenti, pare si chiami Roberta, prendiamo questo con la lettera R’.
‘Perché non li facciamo scegliere a lei’.
‘Giusto, visto che il sederino che si scotterà è il suo’.
‘Mettiamoli tutti a scaldare, poi si vedrà’.
Ora sentiva più caldo venire da dietro, sicuramente avevano attizzato il fuoco per far arroventare meglio quegli aggeggi.
Improvvisamente si sentì prendere le mani. Uno di loro le tirò le braccia in avanti, fino a costringerla a sdraiarsi sul tavolo.
Qualcuno le arrotolò il vestito fino alla vita, poi due mani robuste, premendole sui fianchi, la bloccarono contro il piano di cristallo impedendole di muoversi.
Altre due mani le attanagliarono le cosce.
Era completamente immobilizzata. Avrebbe potuto solo muovere le braccia e la testa.
‘Tenetela ben ferma, perché se si muove viene male e bisognerà rifarlo’.
‘Per il primo abbiamo scelto questo qui, con la R, potrai sempre dire che ti sei fatta incidere la tua iniziale’.
Per il terrore aveva chiuso gli occhi, ma una vampata di calore vicino al viso la costrinse a riaprirli.
Si trovò davanti un grande disco con dentro una R in corsivo. La lettera era alla rovescia. Già, come nei timbri. Ma non sarebbe sparita con un po’ di sapone.
L’asta era rossa per una ventina di centimetri, poi si faceva più scura, fino a riprendere il colore normale del ferro.
‘Non lo far freddare, dammelo che lo rimetto un paio di minuti sul fuoco’.
Ancora due minuti di questa orribile attesa, poi ‘
Sentì la presa delle mani che la bloccavano farsi più salda.
Era il momento.
Ettore aveva ragione: lo sfrigolio che sentì era proprio simile a quello di una bistecca.
Durò solo un attimo, poi fu sovrastato da un dolore, lancinante, terribile, insopportabile.
Sembrava che quel ferro rovente, dopo aver bruciato la sua pelle, entrasse in profondità, scavando nella sua carne.
Non sentì l’odore, non voleva sentire l’odore della sua carne che bruciava.
Poi le sembrò che tutto, lentamente, diventasse scuro, mentre i rumori si affievolivano, come una dissolvenza in nero di un film.
Tornarono le immagini, tornarono i suoni.
Tornò anche il dolore. Meno di prima, ma comunque fortissimo.
L’odore. Aveva commesso l’errore di annusare. Era un odore di carne bruciata diverso dal solito, forse un po’ dolciastro. Pensò a cosa lo causava. Le veniva da vomitare.
Si accorse di essere di nuovo seduta sul tavolino.
Due mani sotto le ascelle la tenevano da dietro, mentre qualcuno le dava degli schiaffetti sul viso e le spruzzava dell’acqua fresca.
Era svenuta. Era svenuta per il dolore.
‘Possiamo continuare?’.
‘Aspetta, falla rinvenire per bene. Deve essere completamente cosciente’.
Maledetti, volevano essere sicuri che sentisse tutto, che provasse quel dolore atroce fino in fondo.
La costrinsero nuovamente a sdraiarsi.
La prima volta l’avevano marchiata a sinistra, ora avrebbero ripetuto la stesa cosa dall’altra parte, a destra.
Aspettò. Uno di loro avrebbe preso per il manico uno di quei ferri arroventati e lo avrebbe premuto contro la sua carne, tenendolo fermo per il tempo necessario a lasciare il suo segno indelebile.
Certo, ora era preparata, ma non era per niente una cosa bella. Aveva già provato una volta quel dolore orribile e non avrebbe voluto sperimentarlo nuovamente.
Avrebbe voluto urlare, ma era paralizzata.
Di nuovo le mani che la tenevano strinsero la presa.
Ora.
Questa volta non notò lo sfrigolio. Sentì subito il dolore, solo il dolore.
Riuscì ad urlare, o almeno era convinta di aver urlato.
Quanto tempo quel ferro rovente era rimasto a contatto con la sua carne?
Le sembrava un’eternità.
Alla fine lo tolsero.
Sentì anche la presa delle mani che si allentava.
Rimase sdraiata sul tavolino, mentre, di nuovo, tutto diventava scuro.
Si svegliò distesa a pancia in giù sul divano.
Aveva nuovamente le braccia legate dietro la schiena e le catene alle caviglie.
Era tornato tutto come prima, tranne che per l’aggiunta di un dolore insopportabile al sedere.
Senti la voce di Ettore: ‘vieni qui o vuoi fare un altro giro con quegli arnesi?’.
Doveva tornare verso il tavolo, non avrebbe potuto sopportare ancora una cosa simile.
Si alzò a fatica, barcollava.
A metà strada inciampò. Riuscì a cadere sulle ginocchia senza sbattere la faccia sul pavimento.
Troppo rischioso provare a rialzarsi, decise di continuare a muoversi in ginocchio. Avanzava piano, a causa delle catene, ma si muoveva senza sosta, stava facendo del suo meglio e loro avrebbero aspettato, non l’avrebbero riportata al camino, o almeno lo sperava.
Era arrivata davanti al tavolo.
Si fermò un attimo, a riprendere fiato, poi si infilò sotto.
‘A sinistra, a sinistra’.
Era buio, si distinguevano a fatica le gambe divaricate dell’uomo con i pantaloni calati sotto le ginocchia.
Avanzò lentamente, un ginocchio dopo l’altro, cercando di non perdere l’equilibrio.
Aveva un pene piccolo, dall’aria molliccia.
A chi apparteneva? L’uomo alla sua sinistra lo ricordava basso, cicciottello, con lo sguardo spento ed un’aria triste. Era completamente calvo, tranne due ciuffi grigi sopra le orecchie.
Quando lo sfiorò con le labbra ebbe un sussulto e si drizzò un poco.
Lo mise in bocca. Le faceva un certo ribrezzo, ma il dolore che provava unito al pensiero di quelle che le sarebbe capitato se si fosse rifiutata nuovamente, furono sufficienti a convincerla.
La signora bionda, stava per fare come la signora bionda, quella dal sedere piatto e flaccido.
Il suo sedere non era piatto e flaccido, era ‘ sfigurato, marchiato a fuoco. A sinistra una lettera R, come se fosse la sua iniziale, a destra, a destra non lo sapeva, ma faceva poca differenza.
Lui infilò una mano sotto il tavolo e cominciò a guidarne il movimento: su e giù, su e giù.
Era un po’ cresciuto ma rimaneva sempre piccolo e molliccio.
Venne quasi subito, per fortuna.
Fu anche gentile, perché le avvicinò il tovagliolo per pulirsi. Lei prima ci sputò dentro lo sperma rimastole in bocca, poi ci strofinò contro le labbra.
‘A destra, a destra.’
si spostò sul lato lungo del tavolo.
Questo era decisamente più grande: lungo e dritto.
Chi era il proprietario?
Un uomo alto e magro, ma con le spalle possenti. Da giovane doveva aver fatto molto sport. Aveva un viso che sembrava intagliato nel legno, con i capelli corti e lisci, appena un po’ grigi.
Questo ricordava della persona che era seduta, durante la cena, di fronte a lei a sinistra.
Le aveva versato il vino diverse volte.
Mentre con la bocca si muoveva in su ed in giù, lo sentiva pulsare ed ingrossarsi.
Pensò che era decisamente meglio del primo.
Ma che pensieri le passavano per la testa?
Forse, a causa della situazione, stava impazzendo.
L’uomo venne con gran veemenza, riempendole la bocca.
Dovette sputare diverse volte e qualcosa pure inghiottì.
Cercò di pulirsi la bocca ed il mento con il bordo della tovaglia e si spostò a destra.
Cominciava ad essere stanca di quella posizione, ma era solo a metà.
Il terzo lo ricordava grande e grosso, con una voce flebile e petulante.
Durante la cena rideva spesso.
Aveva un ‘coso’ corto, largo ed un po’ storto.
Non potendo usare le mani, bloccate dietro la schiena, incontrò parecchie difficoltà a prenderlo con la bocca, perché la punta sbatteva contro un coscia.
Dovette aiutarsi con la lingua, cosa che lui apprezzò molto.
Apprezzò così tanto che durò veramente poco.
Fu gentile anche lui, come il primo, e le avvicinò il tovagliolo.
Restava l’ultimo, quello che l’aveva catturata e portata lì: Ettore. Se veramente si chiamava così.
Si spostò sul secondo lato corto.
Fu una sorpresa: aveva un pene veramente fuori misura.
Non che lei ne avesse visti tantissimi, però questo era veramente gigantesco.
Era stanchissima, aveva dolore al collo ed alla schiena, a causa della posizione scomoda mantenuta troppo a lungo.
Ettore stava durando parecchio, o almeno le sembrava così.
Si sorprese a pensare che, tutto sommato le stava piacendo.
Possibile?
Le piaceva fare pompini ad uomini sconosciuti, inginocchiata sotto ad un tavolo?
Le piaceva essere incatenata?
Le piaceva essere marchiata sul sedere?
Aveva paura a dare una risposta a queste domande, perché temeva che non sarebbe stata quella desiderata.
Passi per le prime due, ma la terza. Sentiva ancora un dolore molto forte, eppure, nonostante ciò, il fatto che le sue chiappe avrebbero portato per sempre il segno di quella serata la faceva provare una sensazione strana, non del tutto spiacevole.
Quando venne il momento, di proposito, lui le allontanò il viso.
La faccia di Roberta fu investita da numerosi schizzi di sperma.
Uscì fuori dal tavolo sputando disperatamente.
‘Facciamo una piccola pausa’ disse Ettore ‘credo che la signora abbia bisogno di ripulirsi un po”.
La portò in bagno. Quando Roberta si guardò allo specchio, le prese un colpo.
Aveva la faccia completamente impiastrata di sperma. Le era arrivato dappertutto, sulla fronte, sulle orecchie, in mezzo ai capelli.
Le era colato lungo il collo, impiastricciandole la collana di plastica, i seni ed il vestito rosso.
Le liberò le braccia e rimase a guardarla mentre si ripuliva.
‘Devo fare pipi’.
‘Dovrai farla davanti a me, non mi fido a lasciarti sola, e poi, non mi dire che ti vergogni, mi hai appena fatto un pompino’.
Tornarono nella sala.
Si svegliò stanca ed indolenzita.
In lontananza si vedeva il chiarore dell’alba.
Si rese conto di aver dormito in macchina.
Sì, certo, la macchina si era guastata, ricordava vagamente.
Poi ‘ aveva fatto un sogno strano.
Alzò il braccio sinistro per vedere che ora era.
Invece del suo grazioso orologino d’oro, di marca, si trovò davanti una patacca orribile, di plastica rosa, a forma di cuore.
Era rimasta senza fiato.
Guardò meglio la manica. Non indossava il suo cappotto scuro, ma una orribile cosa sintetica, bianca e pelosa.
Ai piedi ‘ ai piedi naturalmente aveva degli stivali di plastica rossa.
Per scrupolo si guardò addosso, sotto la pelliccia bianca.
Aveva un vestitino rosso, trasparente, scollato e succinto, sporco e pieno di macchie.
Le cominciavano ad arrivare una serie di fitte dolorose, che le ricordarono tutto ciò che le era realmente accaduto quella notte.
Ma più di tutto sentiva un dolore terribile di dietro. Per un attimo le sembrò pure di avvertire uno strano odore, come di carne arrosto.
Girò la chiave del quadro.
Le spie, una ad una si spensero, anche quella arancione.
Provò a mettere in moto. Il motore partì al primo colpo.
A casa si accorse che nella borsa c’era un bigliettino.
gentile signora,
è stata una serata molto interessante.
Mi sono accorto che dopo il necessario ‘incoraggiamento’, lei ha mostrato di apprezzare molto il nostro intrattenimento.
Se in futuro vorrà partecipare ad altre serate, sarà la benvenuta.
Più o meno tra un mese, vorrei organizzare una cena simile.
Le telefonerò qualche giorno prima per sentire la sua disponibilità.
Se pensa che la cosa le interessa, la prego di conservare i vestiti di questa notte, perché gradiremmo vederla con lo stesso abbigliamento.
Naturalmente, se tornerà, non sarà necessario eseguire nuovamente quello ‘scottante’ lavoro al suo posteriore. Penso che avrà capito che si è trattato soltanto di uno spiacevole ma necessario rito di iniziazione.
Cordialmente
Ettore
I vestiti!
Era rimasto tutto in bagno, perché, appena arrivata a casa, si era messa nella vasca, per togliersi tutto lo sporco di quella notte terribile.
Prese una busta. Più tardi sarebbe uscita ed avrebbe buttato tutto in un cassonetto, così di quella notte non sarebbe rimasto nulla, a parte i segni che avrebbe portato per il resto della vita.
Quando uscì, non portò fuori la busta con i vestiti e gli stivali.
Aveva preso soltanto il vestitino rosso, per lasciarlo in tintoria.
Cosa avrebbe risposto quando Ettore l’avrebbe invitata ad una nuova cena?
Sinceramente non lo sapeva, e questo non la faceva affatto stare tranquilla.
Gli altri, nel frattempo, avevano sparecchiato la grande tavola.
Ettore la mise a sedere in pizzo al tavolo, poi le liberò le caviglie dalle catene.
Le divaricò le gambe e le legò nuovamente alle zampe del tavolo.
Le infilò una mano sotto il vestito e le accarezzò i peli del pube.
Lei strillò.
Continuò a strillare anche dopo che lui spostò la mano più in basso e le cominciò a massaggiare la vagina.
Ora aveva le mani libere, così cercò di graffiargli le dita che si stavano intrufolando tra le sue parti intime.
Uno degli altri le bloccò le mani.
Ettore riprese a toccarla, sempre più in profondità, eccitato dalla sua reazione.
Roberta non gridava più e respirava con la bocca aperta.
Sentiva che il suo sesso, stimolato dalle dita dell’uomo, si stava aprendo.
Anche lui se ne era accorto e stava moltiplicando i suoi sforzi.
è possibile provare piacere, avere un orgasmo, mentre ti stanno violentando?
Aveva sempre creduto di no, ma evidentemente si sbagliava.
Ettore si fermò improvvisamente, si calò i pantaloni.
L’abbrancò con decisione per le natiche spingendosi contro il suo corpo.
Roberta sentì il suo pene entrarle dentro di colpo.
Era stato molto facile sia perché la sua vagina era ormai completamente aperta, sia perché quella posizione, con le gambe fortemente divaricate, era molto favorevole.
Il suo orgasmo, trattenuto a lungo mentre lui la toccava, esplose come un fuoco d’artificio.
Poi lui la scopò con così tanta energia da lasciarla senza fiato.
Poi vennero gli altri.
A turno lo fecero tutti e quattro, più volte.
Roberta ormai passava da un orgasmo all’altro gridando e muovendosi, tanto che, dopo un po’, le liberarono le gambe, per premiarla della sua collaborazione.
Quando decisero di fermarsi, lei era stanchissima.
Era tutta imbrattata, dalla pancia alle cosce.
Dalla sua vagina, arrossata e dilatata, un rivoletto di sperma alimentava un pozza che, dal piano del tavolo, scolava lentamente sul pavimento.
La slegarono e la fecero riposare un po’ sul divano.
Ripulirono alla meglio il tavolo ed il pavimento.
Camminava a fatica, a gambe larghe.
Chiese di andare ancora in bagno ed Ettore l’accompagnò.
Fece di nuovo pipi davanti a lui.
Avrebbe voluto lavarsi, ma lui disse che non c’era tempo.
‘Ti aspetta l’ultima parte, il gran finale, non penserai mica che ti rimandiamo a casa senza provare pure quel bel culetto’.
Roberta cominciò a strillare e a dimenarsi, terrorizzata.
‘Guarda, ti faccio vedere una cosa’.
La mise con le spalle allo specchio, le sollevò il vestito e poi la costrinse a girare la testa di lato.
Le piaghe delle ustioni causati dalla marchiatura avevano un brutto aspetto.
‘I miei amici, per ora ci sono andati leggeri, ma se ti rimetti a fare scherzi, saranno guai seri, cerca di allargare il culetto, senza fare tante storie, non mi dirai che non l’hai mai fatto prima?’.
‘No. No. Mai!’.
‘Attenzione! Notizia importante. Questa bella signora, da quelle parti è ancora vergine. Bisognerà fare un po’ di attenzione, non capita spesso una cosa così interessante, cerchiamo di non sciuparla al primo colpo.’
Aveva parlato ad alta voce per farsi sentire dagli altri, rimasti nel salone.
La misero di nuovo sul tavolo, questa volta a pancia sotto, sempre con le gambe divaricate e legate alle caviglie.
Ora era veramente spaventata.
Decisero prima di lubrificarla con un po’ di vaselina e poi di procedere in ordine di dimensione, dal più piccolo al più grande.
Nonostante la vaselina, provò molto dolore già con il primo, quello ‘piccolo e molliccio’.
Il secondo la fece sanguinare dolorosamente.
Con il terzo, invece andò meglio. Pensò che forse il suo ‘buco’ si stava abituando.
Quando alla fine arrivo Ettore, i tessuti dell’ano si erano allentati a sufficienza, per permettere di apprezzare la cosa.
Riuscì a farsi liberare definitivamente dalle catene e così, mentre lui la prendeva da dietro, lei poté darsi tutto il piacere necessario masturbandosi.
Riusciva a sentire distintamente ogni cosa: la sua vagina aperta e bagnata, con il clitoride gonfio e duro, il pene dell’uomo in mezzo alle sue chiappe che si spingeva sempre più profondamente nel suo corpo, ed il dolore, ora non più così forte, della marchiatura a fuoco, come atto necessario ad ottenere la sua completa sottomissione.
Continuarono per un po’, finché lei si addormentò.
grammaticalmente pessimo........
Ciao Ruben, sei un mito! Hai un modo di scrivere che mi fa eccitare! La penso esattamente come te. Se…
Ti ringrazio, sono felice che ti piacciano. Vedremo cosa penserai dei prossimi episodi, quando si chiuderà anche la sottotrama di…
Davvero molto bello. Piacevole come gli altri e decisamente pregno di sentimenti espressi senza risultare melensi o ripetitivi. D'impatto leggiadro,…
Come ti ho detto, in pochi e poche sanno sa scrivere in maniera così eccitante sia dare un senso ad…