Caterina chiuse la porta di casa e scese le scale a piedi.
Sopra la tuta da ginnastica blu aveva messo un giaccone impermeabile, ai piedi portava un paio di scarpe da trekking nere ed in mano teneva una grande borsone.
Aveva l’aspetto di una signora che andava a fare ginnastica in palestra per mantenere in forma il suo fisico.
In forma lo era decisamente: quarantacinque anni con poche rughe, un viso magro e curato, con due grandi occhi marroni, i capelli scuri, lunghi ed ondulati, e poi un fisico notevole, snello e ben fatto, una di quelle donne di cui tutti dicono ‘da giovane ha fatto sicuramente la modella’.
No, lei non aveva mai fatto la modella, insegnava matematica in un liceo, da tanti anni, e soprattutto, non stava andando in palestra quella sera.
Una giornata brutta e piovosa, che annunciava l’inverno imminente. Stava facendo buio e le nuvole, che si erano addensate sulla città, minacciavano un acquazzone da un momento all’altro.
Aveva pensato di rinunciare, ma erano giorni che aveva deciso.
Con l’auto avrebbe dovuto attraversare tutta la città, il posto scelto era lontano.
Cominciò a piovere, chiuse il finestrino e azionò il tergicristallo.
Guidò per quaranta minuti buoni, poi parcheggiò la sua piccola auto in una via secondaria.
Ora doveva prepararsi.
Prese dal cassettino del cruscotto una scatola con il necessario per il trucco, ed abbassò l’aletta parasole.
Lo specchietto di cortesia aveva anche due piccole luci laterali.
Fondo tinta pesante, contorno degli occhi assai marcato, molto rosso sugli zigomi, rossetto dal colore violento ad evidenziare le labbra.
Era un trucco molto vistoso, come lei non faceva mai quando usciva la sera, e meno che mai avrebbe azzardato per il giorno, quando andava a scuola.
Era il trucco che faceva solo ‘quella sera’, una volta al mese.
Si tolse la giacca della tuta, sotto aveva un vestito rosso trasparente e scollato, che metteva in evidenza i suoi grandi seni. Era stata la sua unica concessione al chirurgo estetico, tempo prima. Visto che doveva dargli una sistemata, perché con gli anni stavano un po’ cedendo, aveva anche voluto ingrandirli, e di parecchio. Il chirurgo non era molto d’accordo, ma lei era stata irremovibile e così, ora, aveva una quarta abbondante che, su quel corpo magro e slanciato, sembrava ancora più abbondante.
Sistemò con compiacimento le sue ‘belle tettone’ nel vestito, aggiustando l’ampia scollatura. La divertiva chiamarle così, e poi quella era l’unica sera che le lasciava libere dalla costrizione del reggiseno.
Si sfilò i pantaloni della tuta. Il vestito era cortissimo e sotto indossava un paio di autoreggenti a rete, scure e vistose.
Si sistemò le calze, tirandole un po’ su. Sotto il vestito era completamente nuda: per quell’incontro mensile non aveva certo bisogno di biancheria intima.
Infine si tolse le scarpe da trekking.
Dal borsone estrasse un impermeabile di plastica, un ombrello ed un paio di scarpe con il tacco altissimo, tutti e tre rossi e ci mise dentro gli indumenti e le scarpe che si era tolti.
Restavano i capelli. Rapidamente li divise in due e fece due grandi trecce che fissò con degli elastici rossi.
Le professoressa di matematica del liceo aveva lasciato il posto ad un’altra donna, vestita in maniera succinta, provocante e un po’ volgare, dal corpo snello, il seno grande e due lunghe trecce, come a cercare l’equivoco un po’ pruriginoso che lei fosse ancora un’adolescente.
Prese anche una piccola borsetta bianca e scese dalla macchina.
Mise il borsone nel bagagliaio, poi si chinò di lato, vicino allo sportello di guida, come per sistemarsi una scarpa, e nascose le chiavi dell’auto in un piccolo vano dietro il passaruota.
Più avanti c’era il capolinea degli autobus.
Erano quasi tutte linee periferiche che portavano ai confini della città.
C’era una moltitudine di persone che aspettava per tornare a casa dopo una lunga giornata di lavoro.
Filippine corte ed un po’ cicciotttelle, con i capelli neri e lisci e quella faccia da bambolina che non capivi mai se avevano diciotto o quaranta anni.
Donnone bionde, sulla cinquantina, dall’aria stanca e sfatta, sicuramente badanti Ucraine, Moldave o di qualche altro paese del genere.
Operai rumeni, con le mani ancora sporche di calce.
E poi un mucchio di altra gente: magrebini e cinesi, donnone africane, di quelle nere nere, alte e con un grande sedere sporgente; gli italiani erano in minoranza su quei traghetti che avrebbero terminato il loro viaggio ai confini della città, dove vivevano solo quelli che ne erano stati espulsi o quelli che invece ambivano ad entrarci ma ancora non ci erano riusciti.
Quando sulla vettura salì quella donna vestita di rosso, ci fu un attimo di silenzio seguito da un breve mormorio.
Caterina fece il biglietto e si sedette su un sedile alto, sopra il passaruota, in modo da mostrare le gambe.
Gli uomini sbirciavano, qualcuno con discrezione, ma la maggior parte in maniera ostentata, d’altra parte una donna di quel tipo si può guardare impunemente.
L’autista, seduto al suo posto in attesa della partenza, l’aveva vista dallo specchietto interno. Sorrise. Sapeva dove sarebbe scesa: faceva quella linea da diversi anni e conosceva benissimo le due o tre fermate delle puttane.
Caterina accavallò le gambe. Sapeva benissimo quello che sarebbe successo con quel vestito: il bordo inferiore risalì rapidamente scoprendo l’elastico dell’autoreggente e mostrando un bel pezzo di carne nuda.
Gli sguardi degli uomini si erano concentrati su di lei.
Sicuramente stavano cercando di vedere il colore delle sue mutandine, o capire se le portasse o meno.
Si mosse, con noncuranza, e la gonna salì ancora. Ora non potevano avere più dubbi, sotto era nuda, al massimo avrebbero potuto immaginare un ridottissimo tanga.
Stava giocando con loro, era molto eccitata per tutto quello che stava accadendo, ma il bello sarebbe venuto dopo, non aveva certo fatto tutta questa messinscena per far vedere le cosce a qualche passeggero di un bus di periferia.
L’autobus partì e cominciò subito a piovere forte.
Forse avrebbe fatto bene a rinunciare, quella sera si sarebbe bagnata ed avrebbe preso un mucchio di freddo, vestita in quella maniera.
No, aveva deciso, era quello il giorno stabilito ed avrebbe continuato fino al posto prescelto.
Ricontrollò il contenuto della borsetta: pochi soldi, tre pacchetti di fazzolettini ed un barattolo di salviettine umide, una confezione di preservativi, un cellulare e lo spray urticante, perché non si sa mai.
Niente chiavi, niente documenti, nessun oggetto che potesse ricollegare quella donna alla professoressa di liceo.
Ricordava che quando era venuta a lavorare in quella scuola, quindici anni prima, tutti i colleghi maschi, anche quelli sposati e di una certa età, avevano provato a fare gli scemi con lei, anche in maniera pesante.
Uno addirittura, nell’ascensore riservato ai professori, le aveva piazzato una mano sul sedere. Lei, dopo avergli rifilato una ginocchiata nel punto giusto, lo aveva lasciato nella cabina dell’ascensore, piegato in due, ad ululare.
Nel giro di un mese si era sparsa la voce che la nuova professoressa, quella giovane, carina e con un gran bel culo, non ci stava.
Per rafforzare questa immagine, veniva a scuola sempre vestita in maniera più che seria: mai gonne corte o vestiti scollati, o peggio succinti.
Così, quando aveva rifatto il seno, pochi avevano notato il generoso aumento di volume, giusto un paio di colleghe avevano accennato alla faccenda, e lei aveva tagliato corto dicendo che era l’effetto di una cura ormonale che stava facendo.
Aveva avuto, in quegli anni, diverse storie con uomini, ma sempre al di fuori del suo ambiente di lavoro.
Da una paio di anni aveva iniziato questa strana attività.
Era cominciato tutto per gioco, ad una festa di carnevale, in cui si era mascherata da prostituta. Era una serata in cui le coppie si mascheravano a tema ed il suo partner dell’epoca si era vestito da protettore, presentandosi con la camicia aperta sul petto villoso ed una grossa catena d’oro al collo.
Era stata una serata divertente ma le era rimasto come un chiodo in testa, avrebbe voluto scoprire cosa si poteva provare a vivere realmente una situazione simile.
Da una lato aveva orrore di una simile esperienza: farsi scopare da uno sconosciuto, dietro un cespuglio, o in macchina, per poi farsi mettere in mano dei soldi.
Dall’altro questa cosa, sporca, trasgressiva e tutto sommato pericolosa, l’attirava irresistibilmente.
Ricordava da bambina, quando passavano in auto per certi viali di periferia e lei chiedeva chi fossero quelle signorine.
Non aveva dimenticato le risposte evasive ed imbarazzate dei suoi genitori, spesso concluse bruscamente da sua madre, rivolta al marito, che diceva ‘e tu guarda avanti’.
Alla fine si era decisa. Aveva tirato fuori il costume di carnevale di quella sera, aveva fatto qualche adeguamento, tipo eliminare le mutande bianche ed accollate usate la sera della festa, ed un po’ di prove davanti allo specchio, poi, dopo aver pianificato bene ogni dettaglio, aveva cominciato.
Le regole erano ben precise:
1)solo una sera al mese
2)un solo cliente, scelto per bene, e poi via a casa
3)sempre posti diversi e lontanissimi da casa sua, per ridurre il rischio che qualcuno potesse riconoscerla
4)non troppo vicino alle prostitute vere, che avrebbero potuto non gradire la sua concorrenza, senza pensare al rischio di trovarsi faccia a faccia con qualche protettore adirato e contrariato
Ricordava che una delle prime volte era stata poco attenta ed era stata inseguita a lungo da due africane inferocite. Se l’avessero raggiunta l’avrebbero massacrata di botte.
Aveva corso a lungo scalza, lungo il ciglio di una strada isolata, e l’aveva scampata solo per il passaggio provvidenziale dell’autobus e perché tutti i giorni correva un’ora nel parco di fronte casa.
Quando era salita con le calze rotte, i piedi sporchi ed insanguinati e le scarpe in mano, si era sentita trafiggere dalla disapprovazione dei pochi passeggeri: ‘zoccola, te la sei cercata. Vergogna, vergogna’.
Nessuno aveva parlato, ma le espressioni delle persone erano chiarissime.
Invece che farla desistere, quella disavventura l’aveva eccitata. Aveva provato di nuovo, il giorno successivo, ed era andato tutto bene.
Premette il campanello. Era arrivata.
Aveva scelto il posto con cura: abbastanza vicino alla fermata del bus, su una strada poco frequentata ma abbastanza battuta dai ‘clienti’ e, per ultimo, abbastanza lontano dai punti dove stazionavano quelle vere.
Scese dall’autobus e si incamminò a piedi, dopo aver aperto l’ombrello.
Dietro la curva c’era uno spiazzo erboso riparato da un albero.
L’erba bruciacchiata in diversi punti e vari rifiuti abbandonati, indicavano che quel posto era stato usato in passato per quel tipo di attività.
Fazzolettini, cicche e pacchetti di sigarette vuoti, sbiaditi dal sole ed ammollati dalla pioggia, costellavano tutta l’area.
Aveva fatto diversi sopralluoghi, di giorno e di notte, ed era abbastanza sicura che andasse bene e, soprattutto, non avrebbe dato fastidio a nessuno.
Si appoggiò all’albero, sbottonò l’impermeabile e tirò un po’ su i seni, per metterli meglio in mostra.
Aveva scelto con cura il punto, perché la auto, uscendo dalla curva, illuminavano per un attimo l’albero e la chioma della pianta la riparava dalla pioggia.
La pioggia aumentò.
Accidenti. Aprì l’ombrello.
Cominciava a sentire freddo vestita così. Passavano poche auto e nessuna rallentava. Forse non era la giornata adatta.
Sul ciglio della strada si era formata una pozzanghera fangosa, che cresceva a vista d’occhio.
Gli schizzi, causati dalle macchine, si avvicinavano pericolosamente all’albero.
Passò un camion. Istintivamente Caterina abbassò l’ombrello, ma l’onda di acqua e fango la inzuppò comunque, dalle caviglie fino ai piedi.
Aveva le scarpe piene d’acqua.
Basta, sarebbe tornata a casa, se continuava a stare lì si sarebbe ammalata, e poi, con quel tempo da lupi, nessuno si sarebbe fermato.
Vide i fari di un’auto uscire dalla curva.
Quando il fascio di luce la colpì si osservò le gambe, erano zuppe e piene di fango.
L’auto accostò e si fermò.
Lei si avvicinò e contrattarono rapidamente il prezzo.
‘Dove?’.
‘Non certo per strada con questo tempo, dovremo farlo in macchina’.
‘Ma sei tutta bagnata, mi sporcherai i sedili’.
‘Se non ti sta bene lasciamo perdere e me ne torno a casa, che ne ho abbastanza’.
Aprì lo sportello e la fece salire.
Fecero solo un chilometro, poi lui svoltò su un vialetto sterrato.
‘Facciamo di dietro, intendo il sedile di dietro, naturalmente’. Disse ridacchiando.
‘Se vuoi fare anche di dietro di dietro, si può, basta pagare’.
Con quel suo travestimento, diventava un’altra donna, la vera Caterina non avrebbe mai parlato di certe cose in questi termini.
Lui prese una grossa coperta dal bagagliaio e foderò con cura il divano posteriore.
Lei gli diede un preservativo e si sistemò sul sedile, di traverso, con le spalle alla portiera e le gambe allargate.
Cominciò a toccarla.
‘Accidenti che belle tette’.
‘Se fai il bravo, per altri dieci euro te lo faccio mettere lì in mezzo’.
‘Ti do cinquanta e facciamo tutto, va bene?’.
‘Va bene ma non in bocca, quelle cose non le faccio’.
Filò tutto liscio e rapido.
Non era sempre così, ricordava un rappresentante di commercio, che era venuto in mezzo alle sue cosce, prima di cominciare, sporcandole tutte le calze. Poi si era pure messo a piangere. L’aveva pagata lo stesso, anzi aveva lasciato pure la mancia, ma come poteva spiegargli che lei non lo faceva per quei quattro soldi ma solo per il gusto di provare un’emozione. Quella sera, così, era dovuta tornare con le gambe completamente nude e le calze nella borsetta avvolte in un fazzolettino. E meno male che non faceva freddo.
Lui si scostò e Caterina si pulì rapidamente con un fazzoletto, poi passò una salviettina bagnata. Ci teneva a fare le cose per bene ed amava la pulizia.
Aprì un pezzetto di finestrino e buttò fuori le cartacce, mentre lui, dall’altro lato, faceva lo stesso.
Gli diede un altro preservativo e si mise carponi sul sedile.
Le arrotolò completamente il vestito e le afferrò le tette.
Si muoveva veloce e con energia, lei sentiva il pene che faceva avanti e indietro nel suo culo, mentre le carezzava i capezzoli con il palmo delle mani.
Sembrava sapere il fatto suo, la lunga attesa sotto la pioggia era stata ben ripagata.
Si ripulirono di nuovo poi lei si tolse completamente il vestito e si sdraiò.
Lui le salì sopra e lei gli prese il pene tra le mani.
Ci mise poco a farlo ritornare duro come prima.
Lui lo piazzò in mezzo ai suoi seni, poi Caterina, con le mani li strinse uno contro l’altro.
L’uomo ansimava e gemeva. Quando venne, Caterina, con il palmo della mano, parò lo schizzo di sperma, per evitare di essere colpita in faccia. Le era accaduto solo una volta e non voleva che capitasse di nuovo.
Si risistemarono, tornarono a sedersi davanti e lui la pagò.
Uscì in retromarcia sulla strada principale e tornò indietro.
‘Ti riporto al punto di prima?’.
‘Certo’.
Appena l’auto fosse scomparsa alla sua vista, si sarebbe incamminata fino alla fermata dell’autobus e sarebbe tornata a casa.
Poteva bastare per questa sera. Una bella doccia e poi davanti alla televisione.
Questo doveva essere un bel tipo. Chissà che faccia aveva.
Dalla voce doveva essere giovane.
Lei cercava di non guardare mai in faccia quegli uomini. Erano solo clienti, che dopo quella volta non avrebbe mai più rivisto.
Cambiava sempre posto. Non voleva che sapessero nulla di lei e lei non voleva sapere nulla di loro.
Non avrebbe fatto eccezioni neanche questa volta, neanche se scopava meglio degli altri.
Mancavano due curve al suo posto, sarebbe scesa e non l’avrebbe visto mai più.
L’auto, inaspettatamente svoltò sulla destra imboccando una stradina sterrata.
‘Ehi, cosa fai, dove stai andando?’.
Aveva sempre pensato al rischio di un’aggressione. Si leggeva spesso sui giornali di prostitute rapinate, stuprate, sfregiate o peggio, uccise.
Aveva pensato spesso a questa eventualità ed aveva concluso che era tutto sommato improbabile.
Lei conosceva bene la matematica, visto che la insegnava e se un simile evento poteva capitare ad una prostituta di professione che, per anni ed anni, tutti i giorni, vedeva decine di clienti, per una come lei, che lo faceva una sera al mese, con una sola persona, era veramente improbabile.
Improbabile ma non impossibile.
Cercò di aprire la borsetta per prendere la spray urticante, ma lui glie la strappò di mano e la buttò sul sedile di dietro.
Cercò di aprire lo sportello ma le portiere erano state bloccate.
Provò a piantargli le unghie in faccia ma una potente gomitata la mandò a sbattere contro lo sportello. La macchina si fermò davanti ad una vecchia roulotte, arrugginita e con i vetri di una finestra sostituiti da tavole di legno.
Caterina era ancora stordita dalla gomitata ricevuta, quando l’uomo aprì lo sportello e la tirò fuori dall’auto.
La prese per le trecce e la trascinò fino all’ingresso, mentre lei gridava.
La fece entrare e la buttò a sedere su una specie di divano sdrucito.
Aveva perso una scarpa e le calze si erano strappate.
Non si mosse quando lui riuscì per recuperare la scarpa.
Rientrò, chiuse la porta ed accese la luce.
‘E adesso voglio proprio sapere chi cazzo sei’.
Per la prima volta lo guardò bene in faccia.
Non doveva avere più di trentacinque anni, alto robusto, capelli biondi corti, occhi grigi ed una brutta cicatrice sulla guancia sinistra.
Dall’accento doveva essere straniero, forse romeno.
Era vestito in maniera vistosa e volgare.
Molto probabilmente un protettore romeno.
Lei era sempre stata molto brava nel gioco di azzeccare il mestiere delle persone guardandole.
Questa volta, però, se aveva indovinato, si era veramente cacciata in un brutto pasticcio.
‘Ti ho visto la prima volta sei mesi fa. Stavi lungo la strada col tuo bel vestitino rosso, le calze a rete e le tette di fuori. Non mi sono fermato perché stavo con due delle ragazze. Le ho accompagnate al loro posto e sono tornato di corsa dove ti avevo visto.
Sparita.
Ho aspettato, pensando che se lavoravi lì, saresti tornata finito il cliente.
Ho aspettato un mucchio di tempo, poi sono tornato a controllare ma tu in quel posto non sei più tornata né quella sera né i giorni successivi.
Poi sei ricomparsa due mesi fa, da un’altra parte. Mentre passavo stavi salendo nella macchina di un cliente. Anche quella volta, sparita.
Ora ti ritrovo qui.
Voglio sapere chi cazzo sei, capito?
Ti ho guardata bene.
Non hai nulla da spartire con le mie ragazze.
Non c’entri nulla con quelle stupide ragazzine albanesi e romene, e neanche con le poche italiane rimaste, mezze tossiche e sdentate, meno che mai con quelle negrone puzzolenti dal culo grosso.
Tu sei un’altra cosa. Tu hai classe, hai sicuramente studiato, hai un bel corpo curato ed in buone condizioni. Tu potresti lavorare benissimo in un appartamento con clienti scelti e fare un mucchio di soldi. Non sei il tipo da venti euro a scopata sul sedile dell’auto o in mezzo alle fratte.
Anche se sembri cavartela bene, sono sicuro che non batti il marciapiede. Chi fa quel lavoro si sciupa subito e tu non sei giovane, dovresti avere trentacinque quarant’anni, ma a quell’età, dopo anni ed anni passati in strada, dovresti avere le mani spaccate dal freddo, le tette all’altezza dell’ombelico, la fica slabbrata ed il culo rotto.
Invece tu sei fresca come una rosa, hai due tette favolose, una fichetta calda ed accogliente ed un culetto bello stretto.
Me ne sono accorto subito, quando prima ti ho provato’.
Avrebbe dovuto dirgli la verità, non tutta ma qualcosa, non aveva scelta.
Forse se avesse capito che non intendeva fare concorrenza alla sua attività e prometteva di non farlo più, l’avrebbe lasciata andare.
Raccontò così che delle volte era presa da una specie di raptus, ma evitò di dire che lo faceva sistematicamente, tutti i mesi, da più di due anni, senza naturalmente accennare a qualsiasi cosa potesse tradire la sua identità.
L’uomo, mentre lei cercava di giustificarsi, scuoteva la testa.
‘Tu devi essere matta. Non ti rendi conto con cosa stai giocando. Un paio di clienti sono andati in giro a chiedere di quella mora con le trecce, che era tanto brava. Le mie ragazze sono fidate, ma se qualcuna di loro si mette in testa l’idea che nella mia zona si può lavorare senza che io lo sappia, può succedere qualcosa di brutto. Accade, per esempio, che qualcuna prova sul serio a mettersi in proprio e finisce che si fa male, parecchio male, ed è l’ultima cosa che io voglio’.
Squillò un cellulare.
‘Ciao Goran, sì, l’ho trovata, è qui con me nella roulotte. è una pazza che pensava di provare forti emozioni. No, non ho ancora deciso cosa fare di lei. Ci voglio pensare un po’.
Oh, certo, è un bel tipetto, te la farò vedere, se decido di tenerla’.
La telefonata l’aveva spaventata a morte.
‘La prego, non mi faccia del male, non tornerò, non lo farò mai più, ho capito’.
‘Per ora rimani qui, vedremo con calma domani mattina, ora ho da fare’.
‘Aspetta un attimo’.
Uscì ed andò verso la macchina.
Tornò subito con in mano la borsetta e l’ombrello e glie li porse.
Poi prese una piccola macchina fotografica con il flash .
‘Ti voglio fare qualche foto, può sempre tornare utile’.
Le fece diversi scatti, appoggiata all’ombrello e con la borsetta in mano, poi senza.
‘Ora togli l’impermeabile’.
‘Facciamo anche il primo piano’.
‘Ora togliti il vestito’.
Caterina era rimasta ferma.
‘Ho detto togli il vestito’.
Rimase nuda, solo con le calze e le scarpe rosse e lui scattò ancora diverse foto.
Raccolse da terra un affare di metallo con la serratura simile alle manette che usa la Polizia, almeno lei pensava fosse simile, perché nessuno la aveva mai messo le manette, e glie lo chiuse sulla caviglia destra. All’aggeggio era attaccata una robusta catena che finiva ad un gancio che sporgeva dal pavimento della roulotte.
Le ridiede il vestito, poi aprì un armadio chiuso a chiave e ci mise dentro l’impermeabile, la borsetta e l’ombrello, infine lo richiuse.
Si mise chiave in tasca ed uscì.
La catena era lunga e le permetteva di muoversi per tutta la roulotte, ma non di arrivare alla porta.
Era molto grande, sembrava una di quelle case viaggianti usati dai circhi, ma era vecchia e rovinata.
Non c’era un telefono e la sua borsetta, dove teneva il cellulare, era irraggiungibile.
Nel cucinino trovò solo un pezzo di pane duro ed una bottiglia d’acqua, meglio di niente, perché aveva fame e sete.
Approfittò per andare in bagno, prima lui tornasse, poi si mise a riposare sul divano.
L’uomo tornò la mattina presto e si buttò sul letto, dall’altra parte della roulotte.
‘Vieni qui’.
Lei ubbidì e andò da lui facendo sferragliare la catena sul pavimento.
‘Toglimi le scarpe’.
‘Cosa?’.
‘Sei sorda? Sei al mio servizio e finché sei con me farai quello che dico io.
Senti, ho parlato con un po’ di amici, qualcuno mi ha consigliato di tagliarti la gola e di buttarti in un fosso, qualcun altro di tirare un bel bicchiere d’acido sul tuo musetto da signorina per bene, qualcun altro ancora di tagliarti il naso e le orecchie.
Io non posso fartela passare liscia, però, tutto sommato mi sei simpatica, quindi, per ora, ti tengo con me, però cerca di non farmi pentire, altrimenti do ascolto ai miei amici’.
Gli tolse prontamente le scarpe, poi, su sua indicazione, preparò un piatto di pasta per entrambi.
Dopo mangiato lui uscì di nuovo.
Tornò nel pomeriggio.
Si mise a cavalcioni di una sedia e la chiamò.
‘Ci ho pensato bene. Sei fortunata: non seguirò i consigli degli amici.
Allora, ti piace fare la puttana, ti piace vestirti così e farti scopare da sconosciuti che poi ti pagano, giusto?’
Non aspettò la sua risposta e continuò.
‘Certo, avresti dovuto cominciare molto prima, se volevi coltivare certe ispirazioni. Ora è un po’ tardi. A proposito quanti anni hai? Trentotto, quaranta?’.
‘Quarantacinque’. Su questo non aveva motivo di mentire.
‘Complimenti, molto ben portati.
Allora, ho deciso di accontentarti. Io faccio questo di lavoro, quindi hai trovato la persona adatta. Se vuoi fare la puttana ti farò fare la puttana, ma sul serio, per bene, non qualcosina una volta ogni tanto, però, vista la tua età, dovremo cercare di recuperare il tempo perduto. Farò in modo che quando avrai finito, avrai realmente l’esperienza di una battona di una certa età, ma, inevitabilmente, anche l’aspetto, la prima cosa ti farà sicuramente piacere, la seconda temo proprio un po’ meno’.
Era rimasta stupita. Certo, era meglio che essere sgozzata o sfregiata, però lei voleva solo tornare a casa, cambiarsi e riprendere il suo lavoro a scuola, voleva ricominciare la sua vita di tutti i giorni. Quell’intrusione in una vita che non era la sua, l’aveva già stancata.
Cominciò a piangere, ma l’uomo non sembrava molto commosso.
‘Ti ho già trovato qualcosa da fare stanotte: sarai Biancaneve’.
Dopo queste parole la lasciò nuovamente sola.
Tornò dopo il tramonto.
Aveva portato pizza e birre.
Dopo aver mangiato la slegò e le fece togliere i vestiti.
‘Questi non servono, non devi stare per strada, e poi, la mora con le trecce ed il vestitino rosso non c’è più.
A proposito, leviamo queste trecce, molto meglio con i capelli sciolti’.
Le fece indossare un maglione rosa a collo alto ed un paio di calzini di lana, poi le diede un paio di scarpe da ginnastica.
Nient’altro.
Il maglione era caldo ma la lana ispida a contatto con la pelle nuda, le dava fastidio.
Ma la cosa che più la disturbava era dover rimanere nuda, dalla vita in giù davanti a quell’uomo.
‘Allora, Biancaneve da chi andava? Dai sette nani.
Questa sera tu sarai Biancaneve, anche se il costume originale non l’ho trovato; ti porterò a trovare i sette nani.
Beh, veramente, il più piccolo è una volta e mezzo me. Sono sette africani, che lavorano nelle campagne per pochi soldi. Sette bei negroni del centro Africa, con sette bei piselloni.
Sono lontani da casa da parecchio tempo, sentono tanto la nostalgia della loro terra e del culone delle loro mogli e, poverini, non hanno neanche i soldi per pagarsi una che batte il marciapiede. E poi molte con i negri non ci vogliono andare.
Tu hai problemi razziali?’.
Caterina scosse la testa.
‘D’altra parte tu lo fai per il piacere, non certo per i soldi. Gli ho fatto un prezzo così basso che non potevano dire di no. Se rimangono soddisfatti ti richiameranno sicuramente, e poi, magari si sparge la voce.
Ah, dimenticavo. Sono anche musulmani e muoiono dalla voglia di scoparsi una cagna infedele’.
Le fece indossare un cappotto nero e la caricò in macchina.
Girarono a lungo per la campagna finché l’auto non si fermò davanti ad una vecchia casa colonica parzialmente diroccata.
L’accompagnò alla porta e, prima di lasciarla, le riempì di preservativi le tasche del cappotto.
‘Dovrebbero bastare anche se temo che loro non sappiano neanche cosa siano, e poi ho paura che la misura per i loro piselloni non l’hanno ancora fatta’. Aggiunse ridacchiando.
Bussò.
Dopo pochi secondi comparve un negro enorme vestito con un lungo camicione bianco.
La tirò dentro e la porta si chiuse alle sue spalle.
Era uno stanzone freddo e scuro con sette letti disfatti in fila su un lato ed una serie di borsoni con i vestiti dall’altro.
In mezzo, qua e là, buttate alla rinfusa, numerose paia di scarpe.
In un angolo c’era un fornello da campeggio scrostato con sotto una bombola del gas e più oltre un lavandino sporco e sbeccato, con una pila di piatti sporchi.
In fondo c’era una porta semiaperta e sicuramente era quella del bagno, a giudicare dall’odore spiacevole che arrivava da lì.
Gli altri sei erano tutti in fila, in piedi, oltre l’ultimo letto, con i loro camicioni bianchi.
Erano neri, giganteschi e riusciva a distinguere facilmente solo i loro grandi denti bianchi.
Parlavano Italiano?
Doveva cercare di spiegarsi con loro.
Certo non avrebbe potuto convincerli ad organizzare un torneo di Bridge, però poteva cercare di ridurre i danni, provando a spiegargli che era lì per accontentarli, che avrebbe cercato di soddisfare le loro richieste, con un minimo di calma e, soprattutto che era il caso che mettessero il preservativo.
Riuscì a dire solo poche parole, poi il settimo, quello che aveva aperto la porta, le tolse di dosso il cappotto, la prese per le braccia e la sollevò.
Caterina rimase per un attimo in aria agitando disperatamente le gambe nude, poi si ritrovò di colpo scaraventata su un letto, con la schiena su una coperta sudicia e le braccia immobilizzate, mentre le allargavano a forza le cosce.
Le tolsero il maglione e, per un momento, ebbe la vista oscurata dalla lana che le passava davanti agli occhi.
Quando poté vedere di nuovo, si trovò uno di quegli uomini vicinissimo, praticamente in mezzo alle sue gambe.
Successe in un lampo: si alzò il camicione e, senza tante cerimonie, prese quel coso nero che aveva tra le gambe e glie lo ficcò dentro di colpo.
Era veramente enorme e Caterina urlò di dolore e pensò che la faccenda della misura dei preservativi, forse non era una battuta.
Per sua fortuna durò solo pochi minuti, prima che la inondasse letteralmente.
Fece appena in tempo a vedere la sua vagina aperta ed insanguinata che arrivò il secondo.
Stessa storia: su il camicione e poi dentro.
Urlò di nuovo, ma i sette nani non sembravano preoccupati o impressionati.
Continuarono per un bel pezzo e siccome le sembravano tutti neri ed uguali, non riusciva a capire quando finiva il giro e cominciava un nuovo turno.
Avrebbe preso l’AIDS?
Nei posti da dove venivano loro era sicuramente molto diffuso, quindi, statisticamente ‘
Già, statisticamente, era improbabile che lei, facendolo una volta al mese con un solo cliente avesse dei problemi ‘
Si fermarono un attimo, forse erano stanchi.
Invece la presero di peso e la misero a cavalcioni di un altro letto, con la gambe ben allargate.
Uno di loro si sputò su una mano poi si mise dietro a lei.
Sentì il camicione, sollevato, che si posava sulla sua schiena piegata a novanta gradi, poi la mano bagnata di saliva che cercava di aprirle l’ano.
Quando entrò dentro credette di morire.
Urlò così forte che per un attimo si fermarono tutti, anche quello che la stava inculando.
Poi riprese con gran vigore. Ogni volta che spingeva lei aveva la sensazione che il suo culo si allargasse e quel coso entrasse sempre più profondamente. Alla fine poteva sentire le palle dell’uomo che le sbattevano sulle natiche.
Quando venne fuori ebbe la sensazione che oltre allo sperma dell’uomo uscisse anche del sangue.
Ma non ebbe molto tempo per capire se questa sensazione era corretta, perché, si fece subito sotto un altro e poi, a turno, lo fecero tutti gli altri. Sentiva il loro sudore, le loro grida di incoraggiamento, i loro commenti, ma soprattutto sentiva un dolore fortissimo: i sette nani musulmani stavano impalando la cagna infedele, usando i loro cazzi enormi.
Pensò che se riusciva ad immaginare cose simili stava realmente impazzendo.
Non comprendeva quello che dicevano ma avevano l’aria di essere soddisfatti, sicuramente si stavano divertendo da matti.
La lasciarono tranquilla per qualche minuto, sdraiata su un letto.
Si passò una mano dietro e se la ritrovò rossa di sangue.
Uno di loro si avvicinò e le mise il pene vicino alle labbra.
No. questo no. Non lo aveva mai permesso ai suoi clienti, perché non le piaceva e perché non voleva correre rischi. Riguardo ai rischi, comunque, se non aveva preso l’AIDS quella sera, non si sarebbe contagiata neanche pungendosi con mille siringhe infette.
Si scostò schifata e l’uomo avvicinò di nuovo il pene alla sua bocca.
Lei si scansò ancora e gli gridò contro.
Lui, per tutta risposta, prese un coltello enorme e lo avvicinò alla sua vagina, aperta e dolorante.
Sentiva il freddo dell’acciaio e la punta che le faceva il solletico. Un piccolo movimento e l’avrebbe massacrata.
Prese in bocca quel coso nero, duro ed impiastrato di sperma e cominciò a succhiarlo.
Il coltello era sempre lì, pronto a sventrare il suo sesso.
Si mise a passargli la lingua intorno alla punta, infine cominciò a muoversi su e giù.
Il coltello era sparito.
Se doveva farlo tanto valeva farlo per bene, forse si sarebbero stancati prima e l’avrebbero lasciata un po’ in pace.
Venne quasi subito, riempendole la bocca.
Appresso, vollero provare tutti gli altri.
Per finire fecero tutti un altro giro davanti ed un ultimo dietro.
Poi la fecero andare in bagno.
La raggiunse cercando di non inciampare nelle scarpe buttate in terra, appoggiandosi al muro.
Il cesso faceva schifo e fece pipi in piedi. Aprì il lavandino e si passò con le mani un po’ d’acqua fredda, giusto per togliere il grosso, si sarebbe pulita per bene nella roulotte, se fosse sopravvissuta a quella notte.
Tornò nella stanza. Camminava a fatica, a gambe larghe, e si accorse che ancora perdeva sangue, non sapeva bene se dalla vagina, dall’ano o da tutti e due.
Si buttò distrutta su uno dei letti e si addormentò di colpo.
Si risvegliò. Uno di quei uomini stava giocherellando con le sue tette.
‘Basta, per favore’.
Tanto non avrebbe capito.
Mise il suo coso in mezzo alle sue tette, le strinse forte con le mani, una contro l’altra, come se fossero le due metà di un panino e quello fosse una sorta di Hot Dog e prese a fare su e giù.
Quando venne lei era troppo stanca per mettere una mano e parare gli schizzi di sperma che le finirono regolarmente sul viso e sul collo.
Naturalmente anche gli altri vollero provare questo nuovo gioco.
Quando ebbero finito, quasi non riusciva a respirare: aveva la faccia completamente ricoperta.
Bussarono alla porta. Il suo uomo era venuta a riprenderla.
La trovò distesa su uno di quei letti sudici, nuda e con le scarpe da ginnastica con cui era entrata.
L’avvolse nella coperta che teneva in macchina e la portò fuori di peso.
Tornati alla roulotte, accese lo scaldabagno e mise uno sgabello di plastica sotto la doccia. Aprì l’acqua ed aspettò che fosse calda, poi la mise a sedere sullo sgabello, con le spalle poggiate alla parete.
Ci mise dieci minuti buoni per lavarla e ripulirla dal sangue e dallo sperma che la impiastravano dalla testa ai piedi.
Lei lo guardava con gli occhi semichiusi e si lamentava debolmente.
Pensò che aveva passato tutta la notte sveglia, lavorando duramente.
Anche le sue ragazze, giovani ed allenate avrebbero avuto difficoltà.
La mise sul letto e le diede un’occhiata.
Forse avrebbe avuto bisogno di un punto o due alla fica, mentre dietro c’era poco da fare: era stato l’ultimo a godersi quel bel culetto stretto, quasi vergine.
Le tette tutto sommato sembravano quelle di prima, non dovevano essere state molto sollecitate.
Il viso ‘ beh, sembrava invecchiata di cinque anni in una notte.
‘Adesso ti riposi due o tre ore, mangi un boccone, e poi riprendiamo a lavorare’.
‘No, ti prego, sto troppo male, non ce la faccio’.
‘Devi farcela, siamo appena all’inizio. Ti è già passata la voglia?’.
‘No, basta, voglio tornare a casa’.
‘Allora, stammi bene a sentire’.
Caterina aveva aperto completamente gli occhi e ora sembrava essersi un po’ ripresa.
‘Non ti sto chiedendo cosa vuoi fare. Fino a ieri io neanche sapevo chi fossi. Sei tu che mi sei finita tra i piedi.
Io ti sto dicendo cosa devi fare. Ti sto dicendo cosa farai oggi, domani ed in futuro.
Non è più come prima, non sei più la signora per bene che gioca e ogni tanto si maschera da puttana, si fa scopare da uno che non conosce tanto per vedere che effetto fa, poi torna a casa ed è tutto finito. Cosa fai al ritorno? Ti cambi da qualche parte, magari in un bagno pubblico? Non torni certo a casa conciata così, vero? Ti rimetti la tua camicetta accollata e la gonna grigia a pieghe, e torni a casa tranquilla? Magari hai pure un marito premuroso e dei bambini che aspettano la mammina?
Ora non hai alternative, a meno che non consideri un’alternativa finire in un fosso con la gola tagliata. Puoi fare una sola cosa: la puttana.
Farai la puttana oggi, domani e dopodomani, di giorno e di notte, finché io non dirò che può bastare.
Andrai con chiunque voglia farlo, senza poterti rifiutare, dovrai essere sempre disponibile, giorno e notte finché lo vorrò io.
E, ricordati, dirò basta solo quando avrai fatto l’esperienza necessaria, quando ti avranno scopato così tanti uomini che potrai dire di aver fatto la puttana per una vita intera.
Dirò basta quando la tua fica ed il tuo culo saranno così allargati che potrai tagliarti le unghie mentre ti fottono, perché neanche te ne accorgi più.
Poiché hai già quarantacinque anni dovrai fare in fretta. Ti auguro, per il tuo bene, di avere abbastanza energie per riuscirci, perché sarà dura. Il giorno ti farò lavorare con le altre ragazze e la notte andrai sempre in giro, come è successo ieri.
Ti lascerò solo qualche ora per riposare.
Quando non lavorerai, starai qui da me, nella roulotte, sempre legata con la catena, perché non mi fido.
Sarai sempre vestita con questo maglione e basta, perché, tutte le volte che avrò voglia di scoparti, non dovrò neanche fare la fatica di alzarti la gonna.
E se verrà a trovarmi qualche amico gli offrirò un caffè ed il tuo culo, e se ne vorrà ancora, gli verserò un’altra tazza e poi lui ti inculerà di nuovo, e se gli amici saranno quattro, preparerò il caffè per tutti e quattro e ti farai inculare da tutti e quattro.
La mattina, dopo che ti sarai un po’ riposata, dovrai dare una sistemata alla casa e preparare il pranzo, poi ti porterò a lavorare con le ragazze e sarai sempre tenuta d’occhio. La sera di nuovo a casa, cena e poi via, a passare la notte con un po’ di gente. Ci sono un mucchio di persone che vorrebbero levarsi uno sfizio simile ma non hanno i soldi. Quei negretti di stanotte hanno pagato un euro ognuno. Pensa, solo un euro per avere una donna a disposizione per tutta la notte. Visto che tu non lo fai per i soldi ho pensato che ti potevo offrire ad un prezzo simbolico, e poi, se vogliamo accelerare i tempi sarà necessario che tu ti dia molto da fare’.
Caterina era rimasta senza parole al pensiero che quella notte da incubo non era stata un caso unico, ma sarebbe diventata la normalità per il suo futuro. Un futuro orribile.
‘Però, in via eccezionale, visto che è stato il primo giorno e sei stanca, solo oggi ti darò qualche ora in più di riposo, poi ti porterò alla casa rossa, dove conoscerai Amina e le tue colleghe di lavoro’.
Mangiarono un po’ di pizza che lui aveva preso lungo la strada, poi lei tornò a letto.
Era stanchissima, perdeva ancora sangue e le girava la testa.
La fece alzare verso le cinque, la portò in bagno dove la fece truccare.
‘Quello dell’altra sera va benissimo, è perfetto’.
La casa rossa era una vecchia cantoniera in disuso. La tinta rosso mattone, tipica di quelle costruzioni, era scorticata e macchiata in più punti.
Al piano terra c’erano un bar ed una trattoria, frequentati dai camionisti di passaggio.
Al piano di sopra, attraverso una scala posta sul lato posteriore si arrivava all’appartamento.
Il posto era tenuto da Amina, come l’uomo le aveva spiegato bene in macchina.
‘Amina ha fatto questo lavoro per tanti anni ed ora, che non è più adatta, gestisce per me l’attività. Dovrai sempre ubbidire a lei come se gli ordini venissero da me.
Non ti far ingannare dal suo aspetto, perché è sveglia e decisa.
Tiene un’automatica nel cassetto ed un coltello in tasca, e ti assicuro che sa usare entrambi, te lo dico nel caso volessi fare qualche scherzo’.
Amina era tutto l’opposto del suo nome che sembrava evocare dolci fanciulle da mille e una notte: era una vecchia negra bassa e cicciona, con due braccioni enormi ed una massa considerevole di capelli crespi, ormai grigi, legati dietro la nuca con un fermaglio di legno.
‘Togliti i vestiti ed appendili qui, tutti, le scarpe le lasci a terra’.
Furono sufficienti queste parole, dette con un tono fermo, che non ammetteva repliche, a farle capire che non era a il caso di mettersi contro di lei.
‘Ivan, ma la mandi in giro così, solo con questo maglione addosso?’.
‘Non le serve altro, perché non va in giro, è sempre a casa mia legata con la catena, non mi fido, e farai bene a stare attenta anche tu’.
Aveva scoperto che l’uomo si chiamava Ivan, anche se la cosa non le sembrava particolarmente utile.
L’appartamento era composto da un grande ambiente in cui erano state ricavate le stanze per le ragazze. Più che stanze si trattava di box con le pareti di legno, malamente foderato con carta da parati. Non avevano neanche la porta, ma un semplice tenda di stoffa colorata.
I primi due box avevano la tenda chiusa e si sentivano rumori provenire dall’interno, mentre il terzo aveva la tenda tirata da una parte.
‘La tua stanza è quella di destra, vai dentro, ti metti i vestiti, poi quando sei pronta, mi chiami che ti spiego tutto’.
Nella stanza c’era un letto, un tavolinetto, una sedia e, dalla parte opposta, un piccolo paravento che nascondeva un vecchio lavandino ed un bidet di plastica con un supporto di metallo. Completavano la dotazione un asciugamano e del sapone.
I vestiti erano un bustino aderente nero, che iniziava sotto il seno e terminava poco sopra l’ombelico, un paio di autoreggenti simili a quelle che aveva indossato due sera prima, quando era iniziata la sua brutta avventura, e delle scarpe bianche, con il tacco alto.
Amina le spiegò bene ogni cosa.
Sul tavolinetto c’era una piatto con i preservativi. Il cliente doveva metterlo sempre. Se si rifiutava doveva chiamarla. Non voleva guai con infezioni e malattie varie.
Il cliente pagava prima ad Amina, lei non doveva prendere soldi in nessun caso e doveva fare solo quello per cui aveva pagato.
Il cliente poteva chiedere qualsiasi cosa, tranne i pompini.
Una volta che il cliente era uscito doveva lavarsi, senza perdere tempo ed avvertirla quando era pronta per il prossimo.
Si lavorava dalle 15 alle 20, sette giorni su sette.
‘A messa ci puoi andare la domenica mattina’, aveva aggiunto ridacchiando.
Per ultima cosa le sfoltì i peli del pube con le forbici e poi ci passò delicatamente un rasoio.
‘Altrimenti, con tutta questa pelliccia, mi passi più tempo a lavarti che a lavorare’.
La lasciò sola e tirò la tenda.
Le pareti di legno sottile, facevano passare ogni rumore.
Sentiva le voci delle due ragazze. Una era acuta e squillante, l’altra bassa e potente.
Le arrivavano i mugolii di piacere degli uomini che si alternavano nei due box.
Sopra ogni altra cosa sentiva la voce imperiosa di Amina che distribuiva le ordinazioni come se quella fosse una pizzeria: una margherita al tavolo due, due capricciose al sette…
Naturalmente le ordinazioni erano di altro genere, tipo dietro a sinistra, avanti e dietro al centro, e via di seguito.
A destra non arrivava nulla, forse Amina non si fidava, forse voleva farla iniziare con un cliente più adatto.
‘Dietro a destra’.
Era venuto il suo turno.
La tenda si aprì ed apparve un uomo basso e tarchiato, con la barba lunga. Puzzava di vino.
Lei non l’avrebbe mai scelto uno così, ma ora non era nella condizione di fare la schizzinosa.
‘Ciao. Facciamo in fretta che ho un carico da consegnare, dai girati’.
La fece mettere a quattro zampe sul letto, si abbassò i pantaloni e prese un preservativo dal piatto.
Avrebbe sopportato tutto questo dopo la terribile notte con i sette africani?
Dopo parecchie ore, sentiva meno dolore, ma non era sicura di essere già in grado di ricominciare.
Tutto sommato andò meglio di quanto temesse.
‘Dai, sbrigati, lavati’. Era la voce di Amina da fuori.
‘Avanti a destra’.
Altro camionista, questo aveva meno fretta, forse aveva già consegnato il carico.
Comunque ci mise poco.
Questa volte la voce di Amina non la sollecitò a lavarsi, forse non c’era nessuno in attesa.
Una pausa, in cui riprese ad ascoltare i suoni e le voci che venivano dagli altri box, poi un nuovo cliente, poi un altro ancora.
L’ultimo cliente aveva problemi, non ci riusciva.
‘Fagli una sega e mandalo via, peggio per lui se gli si ammoscia, non è colpa nostra, sono passate le otto e si chiude’.
Fece uscire l’ultimo cliente, mortificato per il fallimento, si lavò e si tolse i vestiti.
Quando uscì dal box, completamente nuda, la altre due tende erano aperte, l’orologio a muro segnava le otto e dieci, le altre ragazze erano andate via, le avrebbe conosciute domani.
Ivan l’attendeva in piedi vicino ad Amina.
Mentre i due parlavano si rimise il maglione ed il cappotto.
‘Allora, può andare?’.
‘Sì, sì, domani però, puntuale alle tre’.
Mentre scendevano le scale Ivan contava una mazzetta di banconote.
‘Niente male, per essere alle prime armi ed aver lavorato solo mezzo pomeriggio’.
Per tutto il tempo della cena Caterina sperò che Ivan non la costringesse a passare una nottata simile a quella prima, era sicura che non l’avrebbe sopportata.
Chissà forse se ne era dimenticato, forse non aveva trovato nessuno disposto a scoparla per un euro, oppure aveva un po’ di pietà.
‘Dai che andiamo’.
‘Dove?’.
‘Niente sette nani, oggi, stai tranquilla, sarà una serata di tutto riposo’.
Per tutto riposo intendeva quattro manovali polacchi, per fortuna già ubriachi prima del suo arrivo. Tennero duro fino alle tre, poi, uno ad uno crollarono addormentati.
Per un attimo pensò di fuggire, ma si accorse che la porta di casa era chiusa e non riuscì a trovare in giro le chiavi.
Alla fine si mise a dormire anche lei, pensando a cosa l’aspettava l’indomani.
Il giorno successivo si svolse esattamente come le aveva detto Ivan.
Alle undici suonò la sveglia, pulì il bagno e la cucina della roulotte, poi a mezzogiorno si mise a cucinare.
Che buffo, lei non faceva mai le pulizie per casa, aveva una signora che veniva tre volte a settimana ed ora era diventata serva, anzi schiava, se considerava la catena alla caviglia con cui Ivan la teneva sempre legata.
All’una arrivò Ivan, mangiarono poi si andò a truccare.
Alle due e mezza erano già in macchina.
Arrivarono alla casa rossa alle tre meno dieci.
Le altre due non erano ancora arrivate, si tolse i vestiti ed andò nelle sua stanza.
Sentì Amina che parlava con lui.
‘Ivan, sei sicuro che riuscirà e reggere? Mi sembra già molto stanca prima di cominciare? Guarda che qui si lavora duro, non so se ce la farà a fare anche quelle notti che mi hai detto’.
La discussione finì perché arrivarono le altre due ragazze.
Amina le disse di venire fuori dalla stanza. Evidentemente voleva fare le presentazioni. Le due compagne di lavoro di Caterina erano entrambe nere, ma assolutamente diverse tra di loro.
Lilly, era alta e minuta, con due grandi occhi scuri spaventati, sembrava una gazzella che stava per essere raggiunta dal leone, nella savana, come si vedeva spesso nei documentari. Aveva un’aria fragile e doveva essere molto giovane.
Madre Terra in realtà non si chiamava così, aveva un nome africano impronunciabile, e Caterina le aveva affibbiato questo soprannome azzeccatissimo.
Anche lei era molto alta, ma aveva un fisico possente: due spalle enormi, due tettone spropositate, bilanciate più in basso da un sedere grande e sporgente. Le cosce poi sembravano quelle di un campione di ciclismo. Aveva una faccia larga, un po’ butterata, ed un’espressione sempre ostile.
Erano assolutamente agli antipodi.
Tra le due c’era sicuramente competizione, perché una parte dei ricavi andava a loro, tolto il compenso per Amina e la percentuale per il protettore, che non era Ivan, ma quel Goran, con cui il suo carceriere si era consultato per telefono.
Amina nel cassetto teneva tre mazzette di banconote che contava solo alla fine, al momento di spartire.
La mazzetta di destra, finiva tutta in tasca ad Ivan, perché lei avrebbe dovuto lavorare senza prendere nulla. Il suo compenso sarebbe stato la libertà alla fine di tutto.
In quei primi giorni constatò quanto fosse duro quel lavoro. Decine di uomini, brutti e puzzolenti, che entravano ed uscivano a piacimento dal suo corpo, spesso senza neanche guardarla in faccia.
Tra uno e l’altro poi si doveva sbrigare: una lavata veloce con l’acqua gelata, perché quel dannato lavandino aveva solo il rubinetto dell’acqua fredda.
Loro pagavano ed Amina ordinava, avanti, dietro ecc…
Vedendo che se la cavava bene ed i clienti apprezzavano, cominciò a farla lavorare di più. All’inizio il suo mucchietto di banconote era il più piccolo, poi, con il passare dei giorni superò quella di Madre Terra e si avvicinò a quello di Lilly, che era stata fino a quel momento la più richiesta.
Madre Terra non sembrò apprezzare: se prima la guardava con diffidenza, ora le lanciava degli sguardi pieni di odio. Se non ci fosse stata Amina, l’avrebbe strozzata con quelle braccia enormi.
Dopo due settimane era diventata la prima, il box di destra lavorava ormai ininterrottamente e gli sguardi della sua enorme collega si facevano sempre minacciosi.
Anche Lilly prese a guardarla con ostilità.
Delle volte aveva pensato alla fuga, non poteva certo farlo quando era nella roulotte perché Ivan non la liberava mai dalla catena, ma lì tutto sommato avrebbe potuto tentare qualcosa, forse chiedere aiuto ad un cliente, magari più in là, quando sarebbe entrata un po’ in confidenza con qualcuno.
Un giorno, per un solo momento, pensò di essere salva.
Senza essere annunciato da Amina, entrò un poliziotto in divisa.
Si alzò di colpo, stava per abbracciare il suo salvatore quando questi parlò.
‘Ciao, tu devi essere quella nuova, sei carina. Dai, un’inculata sola, veloce veloce, che sono di pattuglia e devo rientrare’.
Fu presa dalla disperazione mentre lui, dopo aver posato la pistola e le manette sulla sedia prese a fare quello che facevano tutti gli altri.
Venne poi a sapere che diversi poliziotti erano clienti di quel posto. Naturalmente non pagavano nulla in cambio di chiudere un occhio sull’attività.
Comunque la sua nuova vita era perfettamente organizzata e pianificata in ogni momento della giornata.
Quando Ivan tornava a pranzo, mentre si cuoceva la pasta, ne approfittava per farle fare un ripasso, come diceva scherzando.
Prendeva un preservativo dalla scatola di metallo (sul mobile di lato al letto c’era una scatola di latta sempre piena di preservativi) e provvedeva ad anticipare quello che sarebbe successe nel pomeriggio nella casa rossa, oppure a proseguire quello che era accaduto la notte prima in qualche casa abbandonata in mezzo alla campagna
Poi andava a girare la pasta. Quando tornava, la metteva pancia sotto e lei sentiva nuovamente aprire la scatola di latta.
Tutti i giorni così, avanti e dietro. Diceva scherzosamente che faceva bene alla salute: ‘un’inculata al giorno leva il medico di torno’.
Un giorno, mentre lei cucinava e lui stava apparecchiando la tavola, bussarono.
Era il famoso Goran, l’amico di Ivan.
Lo fece accomodare e mise un piatto anche per lui.
‘E’ lei? è carina, avevi ragione. Dici che posso?’.
‘Ma certo, ti ho spiegato come stanno le cose. Gli fai un piacere, sto cercando di farla esercitare il più possibile e qualche botta in più non può farle che bene’.
‘Vai sul letto che al pranzo ci penso io’.
Goran la fece mettere ginocchioni sul letto.
Caterina sentì il rumore della scatola di latta che veniva aperta.
Le arrotolò il maglione fin sotto le ascelle e le prese i seni tra le mani.
‘Ha due gran belle tette, non me lo sarei aspettato. Dai bella, di la verità a zio Goran, queste però te le sei fatte fare?’.
Poi si accostò, lo ficcò tutto dentro e cominciò a fotterla allegramente, canticchiando, mentre faceva avanti e indietro, tenendosi alle sue tette.
Venne fuori e buttò il preservativo. Caterina fece per spostarsi.
‘Aspetta non ho finito’.
Ancora la scatola che si apriva, ancora lui che la prendeva da dietro, ma stavolta lo abbassò e le entrò dritto nella vagina.
Si aggrappò ancora alle sue tette e la scopò con gran gusto.
‘Ivan, mi piace proprio questa. Sentì, ma ogni tanto, se passo, che dici …’.
‘Goran, ma vuoi scherzare, puoi venire quando vuoi, pure tutte le mattine, magari non prima delle 11, così la facciamo un po’ riposare’.
Così da quel giorno, oltre ad Ivan, ebbe la presenza costante di Goran.
Delle volte venivano anche altri. Sembrava che un mucchio di gente frequentasse quella roulotte, che tutti sapessero cosa contenesse quella scatola di latta e, soprattutto, che tutti volessero scoparla.
Ormai, a parte le poche ore passate a dormire e qualche breve momento dedicato a lavarsi, vestirsi o mettere in ordine la roulotte, sembrava che la sua vita fosse in funzione soltanto di essere penetrata dagli uomini.
Decine e decine di uomini che entravano ed uscivano dal suo corpo, a loro piacimento, senza neanche chiedere permesso.
Non riusciva neanche a contare, nell’arco della giornata, quante volte la scopassero e quante volte la inculassero.
Avrebbe potuto contare le bustine aperte dei preservativi, ma così avrebbe avuto solo il conteggio di quello che succedeva nella roulotte e nella casa rossa, mentre quelle terribili notti, passate con frotte di uomini di tutte le parti del mondo, sfuggivano ad ogni possibile controllo.
Un giorno Ivan si presentò a pranzo con un piccolo dolce ed una candelina.
‘E’ il tuo primo anniversario. Oggi è un mese esatto che tu sei qui’.
Solo un mese? Le sembrava di aver passato tutta la vita a fare quello che stava facendo ora.
Alla fine del pranzo, con la torta con la candelina accesa, volle pure scattare una foto ricordo con l’autoscatto, poi la fece alzare.
La fece mettere in piedi davanti al divano e le fece togliere il maglione, che portava sempre in casa.
La fotografò diverse volte, nuda con solo i calzini di lana ai piedi, poi aprì un mobile, una specie di scrivania con la ribalta.
Dentro c’era un computer portatile con una stampante collegata.
Dopo cinque minuti le fece vedere una cosa interessante, almeno disse così.
L’ultima foto scattata, quella nuda davanti al divano, a confronto con un altra, fatta esattamente un mese prima.
Caterina aveva dimenticato quelle foto scattate al momento del suo burrascoso arrivo alla roulotte.
In quella più vecchia c’era una donna bella e curata, con due lunghe trecce scure che finivano su due seni, grandi, rotondi e sodi, con i capezzoli appuntiti. Aveva un corpo snello e perfetto, con la pancia piatta, senza smagliature. Aveva due gambe lunghe e dritte, rivestite da due calze a rete e calzava delle scarpe rosse con il tacco altissimo.
Era truccata in maniera pesante e volgare e questo contrastava un po’ con il suo fisico snello.
Ma l’elemento più anomalo era lo sguardo. Sembrava spaventata, anzi terrorizzata da qualcosa.
La seconda foto mostrava una donna simile, per certi aspetti, ma molto più vecchia e dallo sguardo un po’ spento, quasi rassegnato.
I capelli sciolti e scompigliati, rughe sulla fronte e sul collo, due occhiaie profonde.
Il seno, anche se di volume simile a quello dell’altra foto, aveva un’aria inflaccidita. Era sceso in basso e tendeva ad allargarsi, perdendo la forma rotonda ed i capezzoli puntavano tristemente in giù.
Se poi la sguardo andava in mezzo alle gambe, il confronto era impietoso.
La prima donna aveva un bel ciuffetto di peli scuri e subito sotto una ‘fichetta’ piccola e rosea, dalla forma delicata. La seconda, completamente depilata, aveva una ‘cosa’ slabbrata, deformata e semiaperta.
Caterina non si era resa conto, giorno dopo giorno, di come il suo corpo si stesse degradando, ora, di colpo, aveva capito cosa stesse accadendo e come sarebbe andata a finire.
Ivan la fece sdraiare sul letto ed aprì la scatola di latta.
Sembrava una giornata tranquilla, nell’appartamento della casa rossa.
All’improvviso si scatenò il putiferio.
Sentiva delle urla terribili venire dal box di Lilly.
C’erano diverse persone, uomini e donne che gridavano insieme.
Sbirciò attraverso la tenda e fece appena in tempo a vedere un giovane biondo con gli occhiali portato fuori da due uomini, seguiti da Goran.
Era un cliente abituale di Lilly, lo aveva visto altre volte. Ora però aveva gli occhiali rotti e perdeva sangue dal naso.
‘Caricatelo su quel cazzo di furgone e …’ disse rivolto al biondino ‘parti subito, senza voltarti, prima che ci ripensi, e non provare a tornare mai più qui’.
I due portarono via di peso il cliente, poi si accorse che c’era anche Ivan. Lui e goran entrarono nel box di Lilly.
Si sentivano urla, colpi sordi e la ragazza che piangeva.
Dai discorsi intuì che i due si erano innamorati ed avevano progettato di fuggire insieme.
Ivan entrò improvvisamente nel box di Caterina. C’era un suo cliente che aveva iniziato a spogliarsi quando era scoppiato il casino, ed era rimasto lì, con i pantaloni a mezz’asta, indeciso sul da farsi.
Ivan gli mise in mano cento euro.
‘Mi spiace, oggi si chiude prima, questi sono per il disturbo’.
‘E questi sono per dimenticare di essere stato qui oggi’, disse porgendogli altri cento euro.
Il cliente uscì di corsa, felice di essere uscito da una situazione imbarazzante e di averci guadagnato duecento euro.
Ivan tornò nel box a fianco.
Parlavano ancora e Lilly singhiozzava.
Ad un certo punto si udirono delle urla terribili, sembrava veramente che il leone avesse ghermito l’antilope ed ora ne stesse mangiando le carni mentre era ancora viva.
L’intravide appena, attraverso la fessura della tenda, mentre la portavano fuori, semi avvolta in una coperta.
Sembrava avere le gambe e la pancia sfigurate, come se fossero ustionate. Aveva la testa rovesciata all’indietro, forse era morta o forse era solo svenuta.
Amina fece uscire dai box lei e Madre Terra.
Per la prima volta non vide odio nello sguardo di quella donna. Sembrava terrorizzata.
Amina appariva nervosa ma recuperò subito il controllo della situazione.
Quando Ivan tornò, andarono via subito.
Anche se non lo dava a vedere era scosso.
Quella sera mangiarono con calma: niente serata fuori casa per lei.
‘Mettiti sul letto, ti voglio far vedere una cosa’.
Andò in bagno e prese un piccolo contenitore con il contagocce, poi un bicchiere d’acqua in cucina.
‘Hai delle gambe bellissime, le disse carezzandole le cosce nude’.
Era la prima volta che le faceva un complimento simile.
Poi, improvvisamente, prese il contagocce e fece cadere una goccia di liquido sull’interno della sua coscia destra.
La pelle bruciava e fumava.
La tenne ferma mentre, urlando disperatamente, cercava di dimenarsi.
Dopo pochi secondi prese il bicchiere d’acqua e lo versò dove aveva fatto cadere quella roba micidiale.
L’acqua diluì immediatamente l’acido, eliminando l’effetto corrosivo.
Caterina guardava la gamba ferita: un buco rosso e profondo, del diametro di una moneta da un euro.
‘La nostra cara Lilly si era innamorata ed ha pensato bene di fuggire col suo fidanzatino.
Così ha perso il fidanzatino, che sarà già a centinaia di chilometri da qui e si guarderà ben dal tornare da queste parti, in più ha perso il lavoro, anzi, non potrà più fare quel lavoro, forse, non potrà fare più nessun lavoro.
Ti ho appena fatto vedere cosa può fare una goccia di quell’acido. Con lei ne abbiamo usata mezza bottiglia, puoi immaginare il risultato.
Ricordati bene, tutte le volte che ti verrà in mente di farmi uno scherzo, dai un’occhiata a questo, disse indicando la ferita sulla gamba.
Lilly non fu rimpiazzata subito e questo comportò un discreto aumento di lavoro.
Per soddisfare tutti i clienti spesso si finiva più tardi. Quindi era normale lavorare fino alla otto e mezza, qualche volta fino alle nove.
Tornava a casa ogni sera sempre più stanca ed aveva sempre meno tempo per recuperare le energie.
In ogni caso, la fatica e la terribile esperienza dell’acido le avevano tolto dalla testa ogni pensiero di ribellione.
‘Buongiorno Caterina, oppure devo dire professoressa?’
Ivan era entrato nella roulotte dicendo così.
Aveva un giornale in mano e lei fece un salto, sentendo quelle parole.
Era un quotidiano di quel giorno aperto sulla cronaca locale. Sopra una foto di una donna che era inequivocabilmente lei, un grande titolo: ancora mistero fitto sulla scomparsa della professoressa.
La fece mettere sul letto carponi ed aprì la scatola di latta.
‘Ti voglio leggere questo articolo, molto interessante, nel frattempo provvedo’.
Le lesse tutto l’articolo, dopo averle posato il giornale sulla schiena, mentre la inculava per bene.
Ora Ivan sapeva tutto di lei: nome, cognome ed indirizzo. Questo era un grosso guaio, perché, se una volta liberata (ma l’avrebbe realmente liberata, alla fine?) avesse voluto farle ancora del male, avrebbe saputo come rintracciarla. Non le sarebbe stato possibile scendere dall’autobus e sparire, come aveva sempre fatto.
Venne a trovarli Goran con diverse altre persone. Disse che avevano tutti bisogno di ripetizioni da parte della professoressa, perché a scuola erano dei somari.
Quel pomeriggio non sarebbe andata alla casa rossa, era troppo pericoloso, perché qualche camionista avrebbe potuto riconoscerla.
La giornata non andò perduta perché la decina di persone presenti nella roulotte si diede molto da fare, al punto che Igor dovette mettere altri preservativi nella scatola.
Verso sera venne Maria. Era una delle sue ragazze che aveva fatto in passato la parrucchiera. Bisognava cambiare aspetto a Caterina per evitare che qualcuno la riconoscesse.
Lavorò a lungo tagliando prima le lunghe chiome della donna e poi cercando di tirar fuori un taglio molto corto.
Ne uscì fuori una specie di caschetto ispido ed un po’ asimmetrico.
‘E’ una schifezza!’. Gridò Igor irritato.
‘Senti, io facevo la shampista, ho fatto del mio meglio, e poi è un mucchio di tempo che non faccio più questo lavoro’.
Caterina, quando si vide allo specchio scoppiò a piangere.
Il giorno dopo Igor fece venire un’altra parrucchiera che risistemò un po’ quel disastro, ma ormai il guaio era fatto.
Dal giorno dell’articolo sul giornale, lei ebbe anche un nome. La chiamarono tutti Ketty.
Anche con il nuovo taglio di capelli, riprese la vita di prima: il lavoro alla casa rossa non mancava e tute le notti andava in giro a ‘portare la luce del piacere ai diseredati’, come diceva Ivan, che a volte aveva una discreta vena poetica.
Era tornata anche diverse volte dai sette nani.
Era andata decisamente meglio, non perché qualcosa il loro fosse cambiata, ma perché il suo corpo si era ormai adattato.
Anche se ormai sapeva cosa aspettarsi, rimaneva sempre stupita dalla loro sessualità così genuina ed inarrestabile.
E lei? Le sue passate incursioni mensili nel mondo della prostituzione la eccitavano moltissimo, e spesso raggiungeva l’orgasmo mentre si faceva scopare dai clienti, perché era lei che preparava e gestiva tutta la cosa.
Ora invece era un oggetto nelle mani di altri, ed era venuto meno ogni piacere.
Solo con Ivan a volte provava piacere. Aveva letto che il rapporto tra carceriere e prigioniero può essere strano e morboso e lui era sicuramente carceriere, anzi era molto di più, perché gestiva ed organizzava la sua vita.
Più passava il tempo e più provava piacere. Non era certa se fosse il caso di manifestare ad Ivan i suoi orgasmi, ma era sempre più difficile nasconderlo.
La foto del secondo mese mostrava una donna molto diversa: i capelli cortissimi ne avevano indurito i lineamenti.
Alle occhiaie ed alle rughe, accentuate rispetto al mese precedente, si erano aggiunti due solchi ai lati della bocca.
Il collo, non più parzialmente coperto dai capelli, mostrava rughe e smagliature, mentre i seni stavano irrimediabilmente scivolando verso la pancia.
Cominciava ad ingrassarsi ed a inflaccidirsi. Prima di allora aveva sempre fatto una vita sana: sport e camminate quando poteva, palestra ed un’alimentazione accurata.
Ora era sempre chiusa nella roulotte o nel box di legno della casa rossa.
E poi mangiava malissimo. Sempre di fretta, spesso i suoi pasti erano pizza al taglio, supplì e patatine, o peggio degli hamburgher orribili di un bar ambulante a poca distanza dalla roulotte.
Così aveva messo su pancia, il sedere si era ingrossato, mostrando numerose smagliature ed anche le sue bellissime gambe cominciavano a perdere colpi: sembravano appesantite, con qualche grinza sulle ginocchia e le prime smagliature sulle cosce, e non era solo l’effetto della mancanza delle calze a rete, rimpiazzate da un triste paio di calzini di lana.
Le mani, dalle dita lunghe ed affusolate, non più adeguatamente curate e costrette al contatto continuo dell’acqua gelata, erano diventate rosse e rugose.
Si stava rapidamente smontando, pezzo per pezzo.
Erano bastati solo due mesi per combinare tutti questi disastri.
Quanto tempo l’avrebbe ancora tenuta con lui?
Se solo avesse allentato un po’ la pressione.
Provò ad accennare il discorso con Igor.
‘Vuoi smettere dopo solo due mesi? Ma tu non hai idea dell’aspetto di una puttana di strada a fine carriera? Ti stai preoccupando per qualche segnetto.
Quanti anni credi che abbia Amina? Ha solo cinque anni più di te’.
Non poteva essere, Amina era una vecchia orribile. Si sarebbe fermato solo quando lei sarebbe stata come quella donna?
‘Igor si mise a ridere. Ma no, tu non diventerai mai brutta come Amina, anche da giovane non era molto bella’.
Si fermò un attimo pensoso.
‘Certo è un po’ un peccato sciupare una donna bella come te, delle volte ci penso sai.
Specie quando tu te ne vieni mentre ti scopo. Me ne sono accorto sai, e succede solo con me, con Goran e gli altri rimani assolutamente indifferente. Non devi nasconderlo, è normale, perché io sono il tuo padrone ed i cani amano il loro padrone’.
Quel giorno, quando lui la fece mettere a quattro zampe sul letto, proprio come un cane, pensò Caterina (anzi Ketty), manifestò tutto il suo piacere mentre lui la scopava.
Una sera, invece che farle mettere il solito maglione, Ivan, dall’armadio dei vestiti che teneva sempre sotto chiave, tirò fuori un abitino rosa, una paio di calze a rete e dei lunghi stivali bianchi.
‘Oggi si va fuori’.
Sopra le fece indossare una pelliccia sintetica ed uscirono.
‘Questa sera niente case, ti voglio far riprovare quello che facevi quando ti ho conosciuto’.
Passarono davanti al posto che lei aveva scelto quella notte maledetta e proseguirono.
Si fermarono davanti ad una roulotte. Non era come quella dove aveva vissuto gli ultimi mesi, era piccola e tondeggiante, sembrava una specie di uovo.
C’erano due prostitute sedute lì davanti. Una alta e bionda, aveva le caviglie grandi, il nasone ed il mento sporgente. Sicuramente i clienti si sarebbero soffermati più sulle sue forme molto generose, ma spesso non posizionate nei punti giusti, che su questi piccoli particolari.
L’altra, scura di carnagione, sembrava sudamericana. Era mingherlina aveva le gambe corte ed un po’ storte e cercava disperatamente di strizzare e far saltar fuori dal suo vestito aderente, due tettine striminzite.
Beh, sicuramente non l’aveva messa a lavorare con le migliori. Nonostante il suo tracollo fisico era decisamente meglio di quelle due.
‘Questa è Ketty, non lasciatela mai sola e controllate quello che si dice con i clienti, non vorrei facesse scherzi’.
Fu una notte dura, faceva freddo e lei non era abituata a stare fuori tanto a lungo.
Comunque i clienti apprezzarono la nuova venuta.
Visto il successo, Ivan pensò di spostarla dalla casa rossa alla roulotte, sempre di pomeriggio.
La notte continuò invece a girare per varie case, se almeno si potevano chiamare così.
Albanesi, polacchi, magrebini, perfino pakistani, ogni etnia di gente che era venuta a lavorare in Italia, l’aveva sperimentata
Avrebbe potuto scrivere un trattato intitolato ‘cazzi di tutto il mondo’.
Se non aveva niente di meglio per la notte, la riportava alla roulotte ad uovo.
Naturalmente le compagne del turno di pomeriggio erano diverse, perché lei era l’unica a lavorare così tanto.
Ed i risultati si vedevano.
Mano mano che le foto mensili si aggiungevano, poteva seguire i suoi cambiamenti fisici.
Ivan aveva attaccato le foto sopra il letto, in fila.
Aveva superato il quinto mese.
L’ultima foto mostrava una donna irriconoscibile, se confrontata con quella bella signora con le trecce, eppure erano passati solo cinque mesi.
I seni, pieni di grinze, si erano letteralmente sgonfiati. Lembi di carne flaccida pendevano dalle sue braccia ingrassate. La pancia, piena di pieghe, pendeva verso il suo pube.
Il suo sesso, slabbrato e deformato da migliaia rapporti avuti in così breve tempo, a volte dava poca soddisfazione agli uomini che la scopavano.
E lei? Lei ormai non sentiva più nulla. Ricordò le parole di Ivan, quando le aveva spiegato cosa avrebbe dovuto fare. Aveva ragione, ora avrebbe anche potuto tagliarsi le unghie mentre la fottevano.
Le era venuto un sedere grasso e flaccido e le cosce si erano ingrossate. Solo la parte inferiore delle gambe rimaneva magra ma appariva ossuta ed erano comparse numerose varici.
Il viso, in compenso, si era fatto smunto e scavato.
Il lavoro ne risentì, un po’ perché i clienti, per quanto distratti e di bocca buona, cominciavano ad apprezzarla di meno, un po’ perché le sue forze cominciavano a calare.
Era una vita durissima e si sentiva, per la prima volta nella sua vita, vecchia, irrimediabilmente vecchia.
Solo le serate nelle case continuavano a gonfie vele. Lei non doveva far nulla, solo farsi scopare e fingere un minimo di partecipazione.
Certo, non sempre andava liscia.
Una volta, si trovò con dei pastori Macedoni che, dopo essersela passata per tutta la notte, cercarono di farle ballare un accidenti di danza popolare del loro paese.
Nuda, in piedi sul tavolo della cucina, un vecchio mangiacassette gracchiante con una specie di tarantella ritmata dai tamburi ed accompagnata da loro che battevano le mani fuori tempo, completamente ubriachi.
Ogni volta che lei sbagliava un passo la colpivano con le cinghie dei pantaloni.
Tornò a casa piena di segni sulle gambe e sul culo e quella volta Ivan si incazzò parecchio: si fece dare dei soldi, per risarcimento, dai pastori e non la mandò più lì.
Ma il peggio successe con degli albanesi.
Litigarono su chi doveva essere il primo. Uno tirò fuori un coltello, un altro spaccò una bottiglia, poi si scatenò l’inferno.
Alla fine si fece male solo lei, che tornò a casa con un brutto taglio sulla pancia, fatto dalla bottiglia rotta, gli incisivi superiori ed un canino spezzati da un pugno che aveva sbagliato bersaglio.
La profonda cicatrice sul labbro superiore, che inutilmente cercò di coprire con il rossetto ed i denti mancanti peggiorarono ancora il suo aspetto.
L’inverno stava finendo e le temperature più alte le davano un po’ di sollievo, perché era stato veramente difficile passare pomeriggi e notti in mezzo alla strada, esposta al freddo ed alla pioggia.
Insieme al freddo stavano andando via, progressivamente, anche le sue energie.
Se ne era accorto anche Ivan, che la trattava con meno durezza e le concedeva qualche ora in più di riposo.
Venne il sesto mese e si portò la primavera.
Delle volte faceva caldo e dopo aver sopportato per tanti mesi il freddo ed il gelo, era piacevole trovarsi fuori in quelle giornate tiepide. Almeno quando non pioveva.
Anche quel giorno pioveva, anzi diluviava.
Dopo pranzo, per la prima volta, dopo tanto tempo, le tolse la catena, anche se non doveva portarla fuori.
‘Vieni a letto’.
Questa volta fu diverso. Ebbe l’impressione, per la prima volta, di non essere scopata. Chissà forse lui provava davvero qualcosa per lei, nonostante tutto il male che le aveva fatto.
Rimasero nel letto uno affianco all’altro, mentre la grandine batteva sul tetto di metallo della roulotte.
‘E’ stato un peccato averti fatto tutto questo, ma Ivan è così. Ivan è cattivo e può solo fare del male. Una volta, tanto tempo fa, non ero Ivan, avevo un altro nome’.
Smise di parlare. Appariva turbato, come quando lui e Goran avevano fatto quella cosa terribile alla povera Lilly.
Riprese a parlare.
‘Oggi sono sei mesi esatti, torni a casa tua’.
Non disse altro.
Tornare a casa? Era possibile?
Avrebbe ripreso l’autobus nella direzione opposta, non dopo un’ora ma dopo sei mesi, sarebbe tornata alla sua auto, si sarebbe rimessa la tuta e sarebbe tornata a casa, così, come se niente fosse?
Verso sera la fece alzare, andò all’armadio e tirò fuori i vestiti con cui era arrivata.
Caterina indossò il vestito rosso e si accorse che non le scendeva più sui fianchi, perché si era allargata notevolmente. Ivan le diede delle forbici e fu costretta a scucirlo su entrambi i lati.
Si infilò le calze. Pezzetti di fango essiccato si staccarono mentre le faceva salire o meglio cercava di farle salire. Le cosce, ingrossate, facevano resistenza ad essere imprigionate da quelle rete elastica, ma alla fine riuscì più o meno a sistemarle.
Le scarpe le facevano male, i suoi piedi, esposti troppo a lungo al freddo erano pieni di calli.
Andò in bagno e si truccò per l’ultima volta.
Avrebbe voluto rifarsi le trecce, ma i suoi lunghi capelli non c’erano più
Ivan aveva in mano la macchina fotografica per l’ultima foto.
Le diede l’ombrello, la borsetta e l’impermeabile.
Quando uscirono aveva smesso di piovere.
L’accompagnò fino al posto dove si erano incontrati la prima volta.
La baciò.
Forse era il suo modo di chiedere scusa, significava che se non fosse stato Ivan, le cose sarebbero andate in maniera diversa.
La macchina andò via e lei si incamminò verso la fermata dell’autobus.
Riprese a piovere forte ed aprì l’ombrello.
Quando l’autobus si arrestò a quella fermata in mezzo alla campagna, sotto un diluvio torrenziale, i pochi passeggeri si voltarono per vedere chi stava salendo.
Solo una puttana vecchia e sfatta.
Quella strana figura, vestita di rosso, fece il biglietto e poi si mise a sedere su un posto in alto, sopra il passaruota, slacciò l’impermeabile ed accavallò le gambe.
L’uomo di fronte a lei la osservò con curiosità.
Sicuramente sotto doveva essere nuda, ma avrebbe fatto meglio a coprire quella carne flaccida e sfatta.
Lo sguardo andò più su.
E poi quel vestito trasparente. Avrebbe potuto risparmiarsi di mettere in mostra quelle tette appese, da vecchia.
La guardò in faccia. Quanti anni poteva avere?
Chi lo sa. Si diceva che quel lavoro, dopo diversi anni, fa sembrare vecchia una donna ancora giovane.
Quanti anni? Cinquantacinque, forse di più.
Caterina incrociò il suo sguardo.
Non c’era bisogno che dicesse nulla. Scavallò le gambe e riallacciò l’impermeabile.
Apri la borsetta. C’era tutto, anche il cellulare, ovviamente scarico.
C’erano anche i cinquanta euro che gli aveva dato Ivan la prima sera, i suoi ultimi soldi guadagnati giocando a fare la puttana.
C’era anche una busta. Conteneva sette foto.
Avrebbe voluto prendere la prima, quella con le trecce e lo stesso vestito ed andare da quel tizio di fronte e dirgli:
‘Guarda, questa qui sono io, solo sei mesi fa, su questo stesso autobus, cos’hai da guardare con quell’aria schifata?’.
Naturalmente non lo fece.
L’autobus arrivò al capolinea e si incrociò con la folla di persone che saliva.
Poveracci di tutto il mondo.
Chissà fra loro c’era pure qualcuno di quelle notti.
Poteva essere benissimo, in quei sei mesi era stata scopata da tanti uomini che, secondo la statistica …
Chissà se la macchina c’era ancora dopo tutto quel tempo. Se non l’avesse trovata al suo posto sarebbe stato un bel guaio perché non avrebbe potuto recuperare la sua tuta e sarebbe dovuta rientrare a casa conciata così.
Avrebbe sicuramente incontrato mezzo condominio.
Non la riconobbe subito, perché era ricoperta di terra.
Sarebbe partita dopo sei mesi?
Forse sì perché aveva cambiato la batteria da poco.
In ogni caso la cosa importante era recuperare la tuta e le scarpe.
Alle brutte avrebbe attraversato la città con l’autobus.
Recuperò le chiavi, prese il borsone dal bagagliaio ed entrò.
Per prima cosa tolse l’impermeabile le calze e le scarpe.
Si guardò intorno, non passava nessuno, allora si tolse anche il vestito e poi, rapidamente, si mise la tuta.
Abbassò l’aletta parasole e si struccò. Meglio non accendere la luce, aveva bisogno di tutta la corrente rimasta per mettere in moto.
Girò la chiave al primo scatto. Il quadro si era illuminato.
Provò. Il motorino girava piano.
Un colpo, due colpi. Niente.
Al terzo, quando cominciava a girare ancora più piano, il motore si avviò.
Guidò piano nel traffico della sera, perché aveva un po’ perso l’abitudine e perché pensava a cosa fare.
Cosa poteva dire alla Polizia che la cercava, ai vicini di casa, ai colleghi di scuola?
Che per quei sei lunghi mesi aveva fatto la puttana, giorno e notte, facendosi scopare da migliaia di uomini?
Che era ridotta in questo stato proprio a causa di quel particolare lavoro e che, dopo aver preso davanti, dietro ed in bocca il cazzo di tutti i disperati della città, aveva sicuramente l’AIDS e stava covando dentro di sé tutte le possibili malattie veneree di questo mondo?
La professoressa di matematica non poteva dire cose del genere.
Avrebbe parlato di una perdita di memoria che l’aveva fatta vagare come una barbona per tutto quel tempo.
In fin dei conti, era tornata, questo bastava a chiudere il caso.
Lungo la strada buttò in un cassonetto quei vestiti che non avrebbe mai più messo.
Parcheggiò ed entrò nel portone di casa.
grammaticalmente pessimo........
Ciao Ruben, sei un mito! Hai un modo di scrivere che mi fa eccitare! La penso esattamente come te. Se…
Ti ringrazio, sono felice che ti piacciano. Vedremo cosa penserai dei prossimi episodi, quando si chiuderà anche la sottotrama di…
Davvero molto bello. Piacevole come gli altri e decisamente pregno di sentimenti espressi senza risultare melensi o ripetitivi. D'impatto leggiadro,…
Come ti ho detto, in pochi e poche sanno sa scrivere in maniera così eccitante sia dare un senso ad…