Giada era uscita molto presto come tutte le mattine dei giorni feriali, anzi, più che molto presto avrebbe quasi potuto dire molto tardi, riferendosi alla notte.
Quando si era incamminata per la strada deserta della borgata di periferia dove abitava da qualche anno, era ancora buio fitto.
Non le piaceva alzarsi presto ed aveva sempre avuto una certa paura a percorrere nell’oscurità le strade deserte, ma doveva arrivare presto al lavoro e non c’era altra soluzione.
L’autobus era passato puntuale e lei si era era seduta a fianco a due donne di mezz’età, dall’aria assonnata.
Quando l’autobus si fermò al capolinea scese insieme agli altri passeggeri e, mentre passava davanti al bar, si guardò un attimo allo specchio posto di lato alla porta d’ingresso.
Vide, come al solito, una ragazza con i capelli castani ed il viso rotondo, imbacuccata in un giaccone scuro, da cui spuntavano un paio di jeans.
Una ragazza piccola di statura ed un po’ cicciottella. Un tipo tutto sommato insignificante.
Giada aveva diversi buoni motivi per vestire così. Innanzitutto il suo lavoro richiedeva un abbigliamento comodo e pratico, poi l’orario a cui doveva uscire di casa e l’ambiente difficile della borgata in cui viveva, consigliavano ad una donna giovane e sola di evitare di vestirsi in maniera da dare nell’occhio.
A tutto questo andava aggiunto il fatto che lei non amava mettere in mostro il proprio corpo, e poi pensava che i seni piccoli, le gambe corte e non particolarmente slanciate, non fossero particolarmente adatti a vestiti aderenti e scollati, minigonne vertiginose e tacchi alti.
Quelle erano cose adatte a Rosalba, la sua amica, con cui divideva il piccolo appartamento.
La metropolitana era già pronta sulla banchina e, come lei entrò, sentì il ‘beep beep’ che annunciava la chiusura delle porte.
Era in perfetto orario, sarebbe arrivata in ufficio giusto in tempo per iniziare il suo lavoro.
Quando anni prima aveva preso il suo bel diploma di ragioneria, aveva pensato ad un futuro in un ufficio, ora, otto anni dopo aver terminato gli studi, poteva dire di esserci riuscita a metà: lavorava in un ufficio, ma quando gli impiegati non c’erano.
Tutte le mattine, dalle 6 alle 8, passava l’aspirapolvere sulla moquette di corridoi e stanze, svuotava i cestini della carta, spolverava le scrivanie e poi, dopo essersi messa i guanti di gomma, si armava di straccio e spazzolone per pulire i pavimenti dei cessi, infine, con detergente e disinfettante, strofinava i sanitari finché non diventavano lucidi ed immacolati.
Due ore di lavoro faticoso e poco gratificante, in cambio di quattro soldi, un lavoro che, a causa dell’orario infame, le impediva di far tardi la sera, in compenso le lasciava molte ore libere per guardare le vetrine dei negozi del centro, solo guardare perché mancavano i soldi per comprare, poi, alle 17, altre due ore in un altro ufficio, dall’altra parte della città.
Pensò a Rosalba, la sua amica. L’aveva lasciata a casa che dormiva.
Anche Rosalba aveva un lavoro da quattro soldi come lei: commessa part time in un negozio di abbigliamento. Lavorava solo di pomeriggio e la mattina dormiva sempre, visto che aveva una vita notturna molto movimentata,
Rosalba era l’opposto di Giada: alta e bionda (tinta), tette grandi (aiutate dalla chirurgia plastica) su un corpo magro e slanciato. Vestiva sempre in maniera vistosa ed attirava gli sguardi degli uomini.
Si poteva permettere abiti costosi pur lavorando poco, grazie a quelli che lei ironicamente chiamava zii.
Rosalba andava spesso con uomini maturi e facoltosi. Si trattava in genere di professionisti cinquantenni, che la pagavano bene.
All’inizio avevano discusso aspramente.
‘Ti sei messa a fare la puttana!’
‘Assolutamente no. Io non batto il marciapiede. Ho semplicemente qualche zio che paga bene per fare un po’ di sesso con me. Sono solo quattro o cinque, lo faccio esclusivamente con loro e, se non mi va, gli dico pure di no. è l’unica maniera per campare decentemente senza spezzarmi la schiena, e poi mi diverto pure.’
Giada, uscita dalla metro, raggiunse l’ufficio. Aveva le chiavi con sé e si mise subito al lavoro, dopo aver indossato il camice azzurro.
Doveva fare presto, perché non era gradita la sua presenza dopo le otto, quando iniziavano ad arrivare gli impiegati.
Alle otto meno dieci aveva terminato. Lasciò aperte le porte dei bagni, per far asciugare il pavimento, rimise a posto nello stanzino gli attrezzi ed i detergenti, si tolse il camice e si infilò di nuovo il giaccone.
Alle otto meno cinque mentre usciva dal portone, incrociò il primo impiegato che entrava.
Svoltò a destra per il vicolo. Non era una scorciatoia, ma preferiva quella stradina non trafficata, al corso pieno di macchine ed autobus, infestato dal rumore dei motori e dalla puzza dei gas di scarico.
Non c’era alcun motivo di preoccuparsi di fare cattivi incontri. Il centro alle otto di mattina, non era certo la borgata di notte.
Lei quando camminava per le strade male illuminate del suo quartiere di periferia, era sempre vigile ed attenta, ma qui, ora, non c’era alcun motivo di stare all’erta.
Così, quando il furgone le tagliò la strada, rimase sorpresa, attonita.
Il mezzo si era fermato davanti a lei, con la porta laterale scorrevole spalancata.
Si scosse solo quando si sentì prendere per le ascelle ed issare dentro.
Udì il fragore metallico della portiera che si richiudeva, poi il furgone partì di scatto, sobbalzando.
Non era sola, all’interno del mezzo c’erano tre uomini vestiti di scuro, con in testa un passamontagna.
Uno di loro le aveva passato un braccio sotto le ascelle e lei sentiva distintamente le dita dell’uomo che le palpavano un seno attraverso il maglione.
Con l’altra mano le teneva chiusa la bocca, nel caso la ragazza avesse deciso di mettersi a gridare.
Il tragitto non fu lungo e quando alla fine il furgone si fermò, la incappucciarono prima di farla scendere.
Quando le tolsero il cappuccio nero, Giada si trovò in uno stanzone spoglio e disadorno, circondata da sette uomini, tutti con un passamontagna sul viso.
Era spaventata, terrorizzata e si stava giusto chiedendo quale sarebbe stata la sua sorte quando uno dei suoi rapitori venne verso di lei e le disse con tono deciso ‘spogliati’.
Giada si mise a piangere, iniziò a supplicare, ma l’uomo sembrò ignorarla.
Lui tirò fuori dalla tasca un lungo coltello e le disse semplicemente: ‘ora tu, da brava, ti togli i vestiti, o preferisci che ci pensi io, con questo?’, brandendo minacciosamente il coltello.
Giada, singhiozzando iniziò a liberarsi dei suoi abiti.
In breve i suoi vestiti finirono su una sedia, di lato al tavolo situato al centro della stanza, ordinatamente piegati.
Per ultimo si tolse le scarpe ed i calzini.
Giada rabbrividì, quando i suoi piedi nudi vennero a contatto con il pavimento freddo e sporco.
Gli uomini guardavano con interesse quella giovane donna piccola di statura, con indosso soltanto slip e reggiseno bianchi.
I loro sguardi scorrevano sui piccoli seni, sul sedere grande e carnoso, sulle sue gambe piene ed un po’ tozze.
Uno di loro si soffermò a guardare le sottili catenine d’oro che cingevano le sue caviglie.
Era l’unico vezzo che Giada si concedeva, perché le sembrava che facessero apparire un po’ più snelle, o meglio meno tozze, le sue gambe.
Non le toglieva mai, anche quando non servivano, come quando indossava i pantaloni per andare al lavoro.
‘Tutto.’
la voce tagliente dell’uomo con il coltello la fece sobbalzare, poi le sue dite andarono alla chiusura del reggiseno.
Chiuse gli occhi e sporse in avanti il braccio che teneva l’indumento.
‘Ho detto tutto.’
Riaprì gli occhi. L’uomo brandiva in una mano il coltello, mentre nell’altra teneva il suo reggiseno.
Giada, piangendo, si sfilò lentamente le mutandine e le porse all’uomo.
In quel momento si sentì prendere da dietro, da due robuste braccia.
La sbatterono violentemente, di schiena, sul tavolo e lei rimase per un attimo stordita.
L’uomo passò ad un altro la sua biancheria intima, richiuse il coltello e se lo mise in tasca.
Quando l’uomo si abbassò i pantaloni e le mutande, la ragazza cominciò a gridare.
Dietro la tenevano ferma, con la schiena bloccata al tavolo, mentre l’uomo si avvicinava a lei, con il pene eretto che ondeggiava minaccioso.
Giada cercò di tenerlo lontano scalciando ma l’uomo fu rapido ad afferrarle entrambe le caviglie.
Ora le sue grandi mani la stringevano proprio in corrispondenza delle catenine d’oro.
Stringevano abbastanza forte da impedire a lei di sfuggire alla presa, ma non così tanto da farle male.
L’uomo era robusto e riuscì a bloccare il movimento convulso delle sue gambe, poi, dopo averla costretta all’immobilità per qualche secondo, iniziò a fare forza.
Lentamente, inesorabilmente, le gambe di Giada si stavano aprendo, lasciando indifeso il suo sesso.
Ora le sue gambe erano completamente divaricate e, tra le sue cosce aperte, si vedeva la fessura della sua vagina, in mezzo ai peli folti e scuri.
Giada non amava troppo depilarsi lì e lo faceva solo d’estate, per evitare che i peli uscissero fuori dal costume.
‘Ma che bella fichetta pelosa.’
Era paralizzata dal terrore. L’uomo era ormai vicinissimo. Poteva sentire la punta del suo pene che le faceva il solletico, poi lui, all’improvviso, le lasciò libere le caviglie.
Ormai non avrebbe avuto senso provare a scalciare per tenerlo lontano, visto che lui era praticamente attaccato al suo ventre.
Rimase ferma, con le gambe allargate e piegate, finché l’uomo non le prese forte con una mano i peli del pube e tirò verso l’alto.
Gridò per il dolore, poi vide che lui lo spingeva dentro di lei.
Il pene dell’uomo si fece strada nel suo sesso completamente secco, impreparato alla penetrazione e Giada gridò più forte.
Vide con orrore quel coso che entrava rapido dentro di lei, allargandole dolorosamente la vagina.
‘Fica stretta. Non ti preoccupare, quando avremo finito lo sarà molto di meno.’
Faceva male, si sentiva come se qualcuno la stesse spaccando in due, ma lui non sembrava preoccuparsene e prese a fare avanti e indietro dentro di lei.
Le sembrò che fosse passata un’eternità quando il suo violentatore, con qualche contrazione più forte delle altre, terminò la sua opera, riempiendo di sperma la sua vagina.
Quelli che la tenevano bloccata dietro la lasciarono libera e Giada riuscì a sollevarsi, rimanendo seduta sul tavolo.
Le girava la testa ed il dolore lancinante in mezzo alla gambe le ricordò quello che era accaduto.
Guardò in basso. La sua povera ninetta (nel gergo familiare, da bambina, la chiamavano così) era stropicciata, allargata e impiastrata di sperma e sangue.
Un altro uomo era pronto davanti a lei, anche lui con il capo coperto da un passamontagna e nudo dalla cintola in giù.
La costrinsero di nuovo a sdraiarsi mentre si avvicinava a lei, tenendosi il pene eretto con una mano.
‘Giada? Mi sembra che ti chiami Giada. L’ho letto dal tuo documento nella borsetta. Oggi va così: dovrai passare la giornata con noi. Puoi continuare a gridare ed a piangere, oppure puoi provare a rilassarti, tanto non cambia nulla.
Non puoi scappare, il posto è isolato e nessuno sentirà le tue grida e noi, comunque, ti scoperemo finché ne avremo voglia.
Ora, se tu ti metti tranquilla, magari riesci anche un po’ a divertirti.’
Quest’uomo doveva essere pazzo, come poteva pensare che lei si sarebbe divertita.
Giada sussultò.
Le stava carezzando le labbra, aperte ed arrossate per lo stupro appena subito, con la punta del pene, dopo averle divaricato le ginocchia.
Si muoveva dolcemente, smetteva, poi ricominciava.
Ad un certo punto lei, con un gesto istintivo, allargò di più le cosce.
‘Ah, bene! Vedo che ti piace il mio cazzo. Non vedi l’ora che te lo ficchi dentro, vero?’
Le sfuggì un gemito e pensò che doveva vergognarsi: provava piacere a farsi scopare da uno sconosciuto.
L’uomo continuava imperterrito e Giada si accorse che il suo ventre aveva iniziato a muoversi ritmicamente.
‘Vediamo se possiamo fare qualcosa di meglio.’
Le sue dita si mossero agilmente, scoprendole il clitoride.
‘Guarda che bel cosino che ho trovato.’
Quando lo toccò leggermente con la punta del pene, lei sobbalzò e le scappò dalle labbra un gemito di piacere.
Iniziò a strofinarle la punta del pene sul clitoride e Giada prese a muoversi in maniera sempre più evidente.
‘Ma che sta succedendo al tuo cosino? Guarda come è cresciuto.’
‘Per favore, basta!’
‘Basta cosa?’
‘Non ce la faccio più.’
‘Vuoi che ficchi il mio uccello nella tua bella patatina pelosa, vero?’
‘Per favore …’
‘Lo devi dire chiaramente, ti voglio sentir dire che vuoi essere scopata.’
‘Sì, per favore, voglio ‘ essere scopata … subito!’
L’accontentò prontamente e la penetrazione riacutizzò il dolore lancinante che aveva provato poco prima, ma fu questione di un attimo, perché il piacere che ora provava, cancellò quasi del tutto la sofferenza.
Questa volta le sembrò durare poco e raggiunse l’orgasmo subito prima di lui.
Ebbe solo un momento di vergogna quando vide gli sguardi di quegli uomini puntati su di lei, ma non c’era tempo.
Il terzo si fece avanti subito e, questa volta, nessuno dovette tenerla ferma sul tavolo.
Quando anche l’ultimo si allontanò da lei, soddisfatto, era stanchissima.
Chiese di andare in bagno e dovettero aiutarla a scendere dal tavolo.
Attraversò a fatica la stanza, camminando a gambe larghe. Si sentiva bagnata ed indolenzita e lo sperma di tutti quegli uomini le colava lentamente tra le gambe.
Sperò che la rimandassero a casa, invece la fecero salire di nuovo sul tavolo.
Quando la fecero mettere a pancia in giù, capì le loro intenzioni, ma era troppo stanca per protestare.
Era sdraiata con il petto poggiato sul tavolo e le gambe penzoloni.
‘Guarda che bel culone morbido.’
Era la voce del primo, quello che l’aveva violentata con tanta brutalità.
‘Sarà uno spasso ficcarlo in mezzo a queste chiappe tonde e sfondarti il culo.’
Fu presa dal panico e riprese a piangere, a supplicare, anche se era convinta che sarebbe servito a poco.
Smise solo quando sentì qualcosa che si incuneava in mezzo al suo sedere.
Le stava esplorando l’ano con un dito.
Faceva male, sentiva l’unghia lunga e forte che le raschiava la carne e intanto si spingeva in profondità.
Gridò per il dolore quando le dita diventarono due.
‘Giada, ma sei tutta stretta. Scopi poco vero?
Vedrai che oggi ti rimetti in pari.’
Le due dita si muovevano dentro di lei, procurandole fitte dolorose, poi finalmente le tirò fuori.
Fu questione di un attimo: si sentì allargare a forze le natiche, poi lui lo spinse dentro.
Mentre l’uomo le spingeva a fondo il pene nell’ano, qualcuno le teneva la testa e le spalle bloccate contro il piano del tavolo.
Giada non aveva neanche la forza di gridare, sentiva le lacrime che le bagnavano il viso, mentre il dolore aumentava.
Aveva l’impressione che, ad ogni spinta, il suo ano si allargasse sempre di più.
Le venne dentro, poi lo estrasse subito e lo ripulì strofinandolo sul suo sedere.
‘Ah! Un’inculata favolosa, come non ne facevo da tempo.’
Per secondo si ripresentò quello che l’aveva convinta a rilassarsi.
Riprese a stuzzicarle il clitoride, da dietro, finché lei non cominciò a gemere e muoversi.
Quando fu sicuro che Giada fosse eccitata a sufficienza, le allargò le chiappe e glie lo spinse dentro.
Entrò facilmente, nel suo ano dilatato e indolenzito.
Ora il dolore le sembrava lontano, come se appartenesse ad un’altra donna, ma per il resto sentiva tutto.
Sentiva le mani dell’uomo aggrappate alle sue natiche, sentiva il suo pene che entrava sempre più profondamente dentro di lei e sentì anche lui che si irrigidiva un attimo, prima di svuotarsi nel suo corpo.
Gli altri si susseguirono, uno dopo l’altro, portando a compimento lo sfondamento del suo culo, come dicevano, ridendo, tra di loro.
La fecero di nuovo scendere dal tavolo. Aveva le gambe rigate di sangue e non riusciva a stare in piedi.
Quando il primo di quegli uomini la fece inginocchiare davanti a lui e le avvicinò il pene alla bocca, Giada fece un ultimo, timido, tentativo di ribellione, abortito con la semplice minaccia di tirar fuori il coltello.
Le spiegò quello che doveva fare e si raccomandò di stare attenta ai denti, se voleva uscire viva da quella casa.
Le aprì a forza le labbra con le dita e glie lo ficcò dentro, poi la costrinse a muoversi in su ed in giù.
‘Tieni bene le labbra a contatto. Ecco, brava, bene così.’
‘Ora succhia, su, da brava, succhia meglio. Che c’è? Non mi dire che ti fa schifo?’
Lo tirò fuori dalla sua bocca proprio sul più bello, impiastrandole la faccia ed i capelli.
Poi fu la volta degli altri.
Le avevano messo una sedia sotto la pancia, per evitare che, stremata, si sdraiasse in terra.
Sentiva le loro voci, che commentavano:
‘Dai su, succhia ancora!’
‘Avevi la fica stretta, il culo stretto, ma la bocca ce l’hai bella larga.’
‘Fammelo bene il pompino, sennò ricominciamo tutto da capo.’
Alla fine la lasciarono in pace.
Fuori stava facendo buio.
Si sentì sollevare.
‘Adesso ti porto in bagno, così ti dai una sistemata.’
Dei sette, era quello più gentile, che, dopo la prima violenza brutale, l’aveva fatta godere.
Dovette quasi portarla in braccio, per quanto Giada era sfinita.
Quando si vide riflessa nello specchio del bagno, quasi le prese un colpo: era ridotta uno schifo, con la faccia ed i capelli incrostati, la vagina sporca e ferita e le gambe ricoperte da un impasto di sangue e sperma.
L’uomo la fece entrare nel box doccia ed aprì l’acqua calda.
Lei si appoggiò alla mensolina dove erano tenuti i flaconi di sapone e di shampoo, per non cadere.
L’uomo, manovrando la doccia, cominciò a far scorrere l’acqua sul suo corpo.
La schifezza che aveva addosso, lentamente si staccava dalla sua pelle e finiva nello scarico, portata via dall’acqua calda.
Era una sensazione piacevole e Giada lo lasciò fare, anche perché non sarebbe stata in grado di lavarsi da sé.
Le passò a lungo il getto d’acqua tra le gambe, allargandole le natiche, poi la fece voltare e cominciò a bagnarle la pancia.
Quando le aprì la vagina con le dita e cominciò a lavarla dentro, lei trasalì ma era troppo stanca per protestare.
Dopo questa prima sciacquata, prese il bagno schiuma e la insaponò completamente.
Dopo averla risciacquata a lungo, fino a togliere ogni traccia di sapone dalla sua pelle, si dedicò ai capelli di Giada.
Alla fine, dopo due passate di shampoo, la mise a sedere su un panchetto di plastica e le mise addosso un accappatoio.
Lei si fece frizionare bene la pelle. Ora cominciava a sentirsi un po’ meglio.
Per ultima cosa lui le porse il phon ed una spazzola e Giada si asciugò i capelli.
‘Abbiamo finito, poi rivestirti. Torni a casa.’
Poggiò sul bordo del lavandino i vestiti che molte ore prima era stata costretta a togliersi, sotto la minaccia del coltello, e la lasciò sola nel bagno.
Quando la ragazza, ancora malferma sulle gambe, tornò nello stanzone dove si era consumata la violenza nei suoi confronti, i suoi sette rapitori l’attendevano.
Erano completamente vestiti e uno di loro teneva in mano un cappuccio nero.
‘Devo metterti questo, così noi potremo toglierci il passamontagna.’
La condussero fuori bendata e la fecero di nuovo salire sul furgone.
Il tragitto, questa volta, fu più breve.
La fecero scendere, poi sentì il rumore della portiera che sbatteva, infine il rombo del furgone che si allontanava.
Giada si tolse rapidamente il cappuccio. Era in una via isolata, vicino al capolinea della metropolitana.
In lontananza solo un furgone grigio, troppo distante per capirne il modello, e, meno che mai, per poterne leggere la targa.
Cominciò a camminare lungo lo stretto marciapiede, in direzione della metro.
Maledetti bastardi. Ora che non era più loro prigioniera, sentiva una rabbia che cresceva dentro di lei.
Dovette rallentare il passo perché il dolore, diminuito durante quella lunga doccia calda, ora si era riaffacciato prepotentemente.
Adesso vado alla Polizia e vi denuncio, bastardi, bastardi.
Ripassò davanti al bar dove diverse ore prima si era specchiata.
Era la stessa ragazza del mattino, con gli stessi vestiti e con gli stessi capelli pettinati alla stessa maniera.
L’unica differenza stava nel suo viso, non più fresco e giovane, ma stanco e distrutto.
Già, adesso vado in commissariato e gli dico che sono stata rapita e violentata a turno da sette uomini, che hanno approfittato di me per tutto il giorno, però non so descriverli, non so dove sia avvenuto il fatto, né posso dire nulla del furgone con cui sono stata trasportata.
E poi non ho affatto l’aspetto di una donna violentata: non ho un segno addosso, nessuna traccia di sperma sul mio corpo o sui miei vestiti, anzi, i miei abiti sono perfetti, come se fossero stati appena lavati e stirati, mentre la mia pelle è perfettamente pulita ed io odoro di bagno schiuma e di shampoo.
Guardò l’ora, era troppo tardi per andare a pulire l’ufficio del pomeriggio, e poi non era proprio in grado di lavorare.
Andò a prendere l’autobus che l’avrebbe riportata a casa.
Dalla fermata fino a casa sua doveva percorrere circa 500 metri. Una passeggiata, ma non quella sera, viste le sue condizioni.
L’aria fresca della notte fece sbollire la sua ira.
In fin dei conti sarebbe potuto andarle molto peggio.
Ripensò a quanto accaduto. Il primo brutale stupro, come il doloroso sverginamento del suo culo (perché lei non l’aveva mai fatto prima) erano stati dei brutti momenti, ma non poté che ricordare con piacere l’uomo n’ 2, quello l’aveva fatta godere con tanta abilità.
Rosalba era già rientrata. Stava mangiando un toast in cucina.
‘Ciao Giada, hai una brutta cera. Stai bene?’
‘Tutto a posto, Rosi.
Piuttosto, ti vorrei chiedere una cosa.
Che dici, si potrebbe rimediare qualche zio anche per me?’
grammaticalmente pessimo........
Ciao Ruben, sei un mito! Hai un modo di scrivere che mi fa eccitare! La penso esattamente come te. Se…
Ti ringrazio, sono felice che ti piacciano. Vedremo cosa penserai dei prossimi episodi, quando si chiuderà anche la sottotrama di…
Davvero molto bello. Piacevole come gli altri e decisamente pregno di sentimenti espressi senza risultare melensi o ripetitivi. D'impatto leggiadro,…
Come ti ho detto, in pochi e poche sanno sa scrivere in maniera così eccitante sia dare un senso ad…