Stava rientrando alla base.
Un volo assolutamente di routine, come ne aveva fatti tanti, in quella strana guerra.
Sarah, cioè il capitano dell’aeronautica Sarah Dolphin, stava sorvolando con il suo caccia le ultime catene di montagne brulle e pietrose. Tra un po’ sarebbe cominciata la pianura e poi avrebbe finalmente visto la pista della sua base.
Il rumore dei colpi di arma automatica, contro le ali del suo aereo, arrivò brusco ed improvviso.
Troppo bassa, sono troppo bassa.
Cloche indietro e manetta tutta in avanti. L’aereo aveva risposto immediatamente, salendo di colpo, quasi a candela.
Per anni si era addestrata a combattere contro ipotetici caccia nemici e poi l’avevano mandata a fare questa guerra, dove il nemico non aveva aerei, carri armati e neanche missili, a parte qualche piccolo aggeggio in grado di colpire soltanto chi volasse a bassa quota.
Per lei, che normalmente viaggiava a migliaia di metri dal suolo, i nemici non esistevano. Era una fortuna perché, per chi stava a terra, il pericolo si nascondeva dietro ogni buca che poteva celare una bomba, o dietro un qualsiasi essere umano, uomo, donna, vecchio o bambino, che poteva decidere di farsi saltare in aria, oppure tirare fuori un AK 47, il famoso Kalashnikov, e cominciare a sparare all’impazzata.
Non si doveva mai volare troppo bassi, perché l’aereo, per quanto relativamente protetto dalle armi leggere, poteva subire danni.
Sarah ridusse la manetta e stabilizzò l’aereo in volo orizzontale.
Fu in quel momento che sentì la vibrazione.
Era stato solo un attimo, poi era cessata.
Riprese di nuovo e, contemporaneamente si accesero un paio di spie rosse.
Ridusse ancora i giri della turbina, ma la vibrazione, accompagnata da un rumore anomalo ed inquietante, sembrava aumentare.
Era troppo bassa e troppo lontana dalla base per sperare di raggiungerla.
Inviò il mayday alla torre e si dedicò con grande attenzione al controllo del velivolo.
L’aereo stava diventando instabile, mano mano che si avvicinava alla velocità di stallo. Tra breve, se la turbina non avesse ripreso a funzionare regolarmente, si sarebbe dovuta lanciare.
Ricordava, da bambina, un vecchio film in bianco e nero sulla seconda guerra mondiale: il protagonista, un pilota di caccia della RAF, dopo un durissimo duello con tre caccia tedeschi, era stata colpito. La cabina del suo Spitfire era piena di fumo, mentre lui, a fatica, faceva scorrere il tettuccio, per potersi lanciare fuori con il paracadute.
Ora era tutto più semplice e decisamente più tecnologico: bastava spingere un pulsante per essere sparati fuori, verso l’alto, insieme al sedile.
Il paracadute si sarebbe aperto automaticamente, visto che il pilota, in seguito alla fortissima accelerazione, era probabile che perdesse i sensi per qualche secondo.
Aveva sollevato la protezione trasparente del grande pulsante rosso che azionava il dispositivo e continuava a tenere d’occhio la strumentazione.
Il cicalino d’allarme che annunciava l’imminente stallo la scosse di colpo.
Era giunto il momento.
Una scarica di adrenalina fortissima, un’accelerazione incredibile, anche per chi era abituato a pilotare aerei da caccia ed era fuori, sparata verso il cielo.
Si risvegliò stordita e confusa. Era a metà di una collina sassosa e scoscesa. Più in là, oltre la stretta valle, a metà della montagna di fronte, i resti del suo aereo stavano finendo di bruciare, proprio mentre il sole tramontava.
Con il buio non sarebbero venuti a prenderla.
L’avrebbero recuperata la mattina dopo. Verso l’alba avrebbe sentito il rumore degli elicotteri che si avvicinavano, allora sarebbe venuta fuori ed avrebbe sparato un razzo di segnalazione.
Sarebbero partiti, per le ricerche, dall’ultima posizione indicata dal trasponder dell’aereo, sarebbe stata una cosa facile.
L’unica cosa a cui doveva stare attenta ora, era non finire prigioniera.
Il buio della notte l’avrebbe anche aiutata in questo.
Un mese prima avevano avuto un breve stage proprio su questo argomento.
Il colonnello Scott, davanti a decine di piloti, aveva spiegato bene cosa fare nel caso malaugurato di cattura da parte del nemico.
Già, ma chi era il nemico?
Il nemico erano i talebani. La cattura da parte loro prevedeva, una prigionia lunga e dura, che si poteva concludere con la liberazione dietro lo scambio con una decina di talebani detenuti, per ogni militare o, del taglio della testa, se le trattative non andavano a buon fine.
Il nemico erano però anche le bande che fiancheggiavano i talebani, oppure gruppi di predoni indipendenti, assolutamente incontrollabili.
In questo caso il problema maggiore era individuare con chi trattare, ma, per il resto, era sufficiente una grossa somma di denaro o un quantitativo di armi, per riportare a casa il militare rapito, sperando di riaverlo tutto in una volta.
In ogni caso la prigionia avrebbe comportato vessazioni e torture, sia fisiche che psicologiche.
Nel caso di combattenti indipendenti erano possibile anche lo stupro del prigioniero.
A queste parole, lo sguardo di tutti i presenti era andato su di lei e sul Maggiore Rose Bell, uniche donne presenti.
Il suo vicino di banco, un tipo biondo con i capelli a spazzola, le aveva inviato un sorrisetto ironico, che si era subito spento, quando il colonnello aveva aggiunto che certi trattamenti non erano riservati soltanto al gentil sesso.
‘Ho in cura da diversi mesi un sergente dei marines che è stato prigioniero per due mesi di una banda irregolare. I suoi carcerieri lo hanno regolarmente sodomizzato tutte le notti, utilizzando all’inizio un bastone, per predisporlo meglio. Naturalmente questi fatti non vengono mai resi pubblici.’
Il tizio con i capelli a spazzola si era rimangiato il sorrisetto.
Sarah si liberò del seggiolino e del paracadute, nascondendoli in un anfratto del terreno ed iniziò a percorrere uno stretto sentiero.
Anche se probabilmente non c’era nessuno nel raggio di chilometri, era meglio allontanarsi un po’ dal luogo dove era caduto l’aereo.
Era molto buio perché la luna era coperta dalle nuvole e, in quella valle, completamente deserta, l’assenza totale di fonti di illuminazione, rendeva difficile distinguere anche la traccia del sentiero.
Il vento, forte e teso, fece apparire il disco bianco della luna e li vide.
Anche loro avevano visto lei.
Accidenti, gli era finita proprio in bocca.
Erano cinque persone a cavallo. Tre uomini e due donne con il burqa. Il convoglio era composto in tutto da una decina di quadrupedi, cavalli o muli, cinque pieni di fagotti e masserizie, gli altri usati come cavalcature.
Nelle mani del primo della fila era comparso l’immancabile Kalashnikov. Era a dieci metri di distanza e glie lo puntava addosso.
Sarah non poté fare altro che alzare le mani e metterle sopra la testa, mentre un uomo ed una donna uscivano dalla fila e muovevano verso di lei, passando di lato al sentiero, in modo da non finire sulla linea di tiro del Kalashnikov.
Un minuto dopo, il piccolo convoglio aveva ripreso la marcia con Sarah in mezzo, costretta a seguire a piedi uno dei muli, con i polsi legati ad una corda attaccata alla sella dell’animale.
Si fermarono dopo una mezzora, di fronte ad una casupola di pietre.
Quello del Kalashnikov, che sembrava essere il capo, le sciolse i polsi e la portò dietro la piccola costruzione.
Le porse una pala e le fece segno di scavare, tenendola sempre sotto tiro.
è possibile morire a trentacinque anni perché un fottutissimo afgano ha deciso di riempirti di proiettili 7,62?
Sarah cominciò a scavare. La terra era dura e piena di sassi.
Aveva scavato soltanto per due palmi quando le fece cenno di fermarsi.
Si riprese la pala e le indicò di metterci dentro i vestiti.
Il giubbotto, i pantaloni e la camicia finirono nella buca, insieme agli stivali.
La notte afgana, in quella valle di montagna era fredda e Sarah rabbrividì, ripensando anche alle parole del colonnello Scott.
Non la tranquillizzava per niente stare in piedi, in mutande e reggiseno, davanti ad un afgano armato.
Con un gesto molto eloquente, infilò la canna del Kalashnikov in mezzo alle coppe del reggiseno e Sarah fu costretta a togliersi il resto.
A questo punto ricomparve la pala e lei fu costretta a seppellire i suoi vestiti.
Le due donne con il burqa la trascinarono dentro la casetta.
Erano molto robuste. Una la prese da dietro, immobilizzandole le braccia, mentre l’altra si toglieva il burqa.
Non era una donna, ma un uomo grasso, con la faccia sfregiata, che la guardava sogghignando.
Evidentemente, quel travestimento serviva a non dare nell’occhio, perché la presenza di donne tra di loro, avrebbe fatto pensare ad una famiglia e non ad un gruppo di banditi.
Era finita in Afganistan perché l’aveva chiesto, visto che il suo matrimonio stava andando a rotoli, e così aveva deciso di staccare per un po’.
Sarah, è un mucchio di tempo che non scopi. Beh, stai per farlo con un bandito afgano.
Si era calato i larghi pantaloni e si stava carezzando l’uccello, pronto ad assaporare il piacere di scoparsi una troia infedele, che fino a poco prima aveva tirato bombe in testa a lui e ad i suoi compatrioti.
Il colonnello Scott, aveva raccomandato, nel caso malaugurato dello stupro, di reagire con moderazione e dignità, per non peggiorare la situazione.
Fottuto bastardo, psicologo del cazzo, vorrei vedere tu al posto mio cosa faresti.
Non aveva idea di come fosse un comportamento dignitoso in caso di stupro, ma sicuramente lei stava sbagliando tutto, gridando e scalciando disperatamente, nel tentativo di sfuggire alla violenza.
L’uomo sembrava eccitato e divertito dai movimenti convulsi di questa giovane straniera bionda. Per un po’ l’assecondò, facendo una specie di balletto, in cui scansava agilmente i calci che Sarah cercava di rifilargli.
Ad un certo punto si fermò e disse qualche parola all’altra (o l’altro) che le teneva le braccia da dietro.
Improvvisamente lei si sentì afferrare forte le tette. Le dita erano affondate nella carne e glie le stavano strizzando dolorosamente. Si rese conto di avere le mani libere ma di non essere in grado di usarle, perché paralizzata da quella stretta dolorosissima.
Quello davanti a lei si era avvicinato e le stava forzando con le mani le labbra della vagina, cercando di tenerle il più aperte possibile.
Un attimo dopo era dentro di lei.
La scuoteva con grande energia, mentre l’altro, sì, ormai era sicura che fosse un uomo, perché sentiva il suo pene gonfio e duro che le premeva in mezzo alle chiappe, continuava a stringerle le tette sempre più forte.
Le venne dentro. Sentì lo sperma caldo che l’invadeva poi il pene scivolò fuori di lei, mentre la facevano curvare in avanti.
Avvertì come il rumore di uno sputo, poi quello dietro cominciò a passarle la mano sull’ano, spingendo dentro le dita.
Beh, se non altro non avrebbero usato il bastone, come con il sergente dei marines.
Nonostante la rozza lubrificazione le fece parecchio male.
Ora stava piegata a novanta gradi, con le gambe allargate, e mentre quello dietro glie lo spingeva sempre più profondamente nel culo, l’altro la costringeva a stare piegata, tirandole verso il basso le tette. Ad un certo punto la tirò ancora un po’ in giù e Sarah sentì la punta del suo pene che gli faceva il solletico sulla bocca.
Colonnello Scott, se un capitano pilota dell’aeronautica, fa un pompino ad un bandito afgano, l’azione è considerata decorosa o meno?
Colonnello Scott! Perché non mi risponde?
Erano venuti quasi contemporaneamente, uno nel suo culo e l’altro in faccia, perché lo aveva tirato fuori nel momento finale, schizzandole completamente il viso ed i capelli.
L’avevano lasciata in terra, nuda e dolorante ed erano usciti dalla stanza.
Ecco, adesso verranno gli altri tre e vorranno divertirsi anche loro.
Aveva freddo, perché, anche se si stava avvicinando l’estate, la temperatura di notte, in quelle zone di montagna, scendeva molto.
Vide che in un angolo le avevano lasciato dei vestiti: una casacca, un paio di pantaloni ed un burqa.
Indossò quegli indumenti, fatti di lana grezza e ruvida e si mise sopra il burqa come una coperta.
Per fortuna gli altri tre non si presentarono, lasciandola dormire fino all’alba.
Al mattino, molto presto, la portarono fuori e la misero sopra un mulo.
Le legarono i polsi, uniti, al pomo della sella e poi le calarono sopra il burqa.
Dall’esterno, nessuno avrebbe potuto supporre che sotto ci fosse un ufficiale dell’aeronautica.
Diverse volte Sarah sentì e vide passare degli elicotteri.
La stavano cercando, ma con le mani legate alla sella, non avrebbe potuto far alcun gesto per richiamare la loro attenzione. Al massimo avrebbe potuto gridare, ma sarebbe stato assolutamente inutile, data la distanza.
I muli ed i cavalli camminarono tutto il giorno. Sarah era stanca ed affamata.
Non era abituata a cavalcare a quando si fermarono per la cena, era così indolenzita che dovettero tirarla giù di peso dal mulo.
Si erano fermati vicino ad una costruzione simile a quella del giorno prima.
Quando la fecero entrare nella casetta fatta di pietre, Sarah non ebbe più dubbi sulle loro intenzioni.
Dentro le tolsero il burqa, poi il capo, quello che le aveva puntato il Kalashnikov la prima volta, si avvicinò a lei con un coltellaccio.
Vide con orrore la lama che si avvicinava al suo sesso.
Un movimento rapido, sulla stoffa dei pantaloni mantenuta tesa, e Sarah si ritrovò completamente nuda e scoperta in mezzo alle gambe.
Con i pantaloni aperti a quella maniera, non avrebbero dovuto perdere tempo a spogliarla.
Infatti non persero affatto tempo.
Per ore si trovò sempre con qualcuno dentro di lei. Si alternavano, instancabili, ora riempendole la vagina di sperma, ora ficcandole il loro cazzo sempre più profondamente nel culo, a quando erano stanchi, la costringevano a succhiarglielo.
La mattina dopo, nel rimetterla in sella, le riservarono un’attenzione molto particolare.
Sulla sella poggiarono, longitudinalmente, un pezzo di un grosso ramo opportunamente scortecciato, poi la fece sedere, con il pezzo di legno che premeva sulla labbra della vagina.
I pantaloni aperti con il coltello ed il peso del suo corpo, impossibilitato a puntellarsi, perché la sella non aveva staffe, fecero subito penetrare il legno nel suo sesso.
Quando iniziò la marcia Sarah si rese subito conto che, il dondolio dell’andatura del mulo, le provocava un massaggio sulle labbra e sul clitoride, doloroso e piacevole allo stesso tempo. Probabilmente non avevano mai visto un vibratore, ma a volte, la mancanza di mezzi aguzza l’ingegno umano.
Attraverso i buchetti del burqa non vendeva quasi nulla ma sentiva l’odore del suo sesso che lentamente si stava eccitando.
Ogni tanto le sfuggiva un gemito e allora, i suoi compagni di viaggio ridevano rumorosamente.
Si fermarono verso mezzogiorno, davanti ad una grotta e ne approfittarono per farla scendere.
Quando il capo, dopo averle sollevato il burqa e fatto allargare le gambe la penetrò, Sarah raggiunse l’orgasmo quasi subito. Erano ore che cavalcava con quell’accidente di ramo che le massaggiava la fica e non ne poteva veramente più.
Si accorse che aveva preso per le spalle il suo violentatore e ne stava assecondando il movimento.
Colonnello Scott, lo so, il mio comportamento non è abbastanza dignitoso.
Dice che mi sta piacendo troppo? Non dovrei collaborare con il nemico?
Ma io non sto collaborando, sto solo scopando.
Gli altri quattro, che stavano osservando la scena, ridevano e commentavano rumorosamente.
Dopo che tutti e cinque ebbero avuto le loro soddisfazioni, ripresero la marcia.
Per fortuna, questa volta, le risparmiarono il ramo sulla sella.
Verso il tramonto incontrarono un gruppo di persone più numeroso, da quel poco che lei poteva vedere attraverso il burqa, dovevano essere almeno una dozzina.
I due capi confabularono a lungo, poi vennero decisi verso di lei.
Le sollevarono completamente il burqa, ora non vedeva più nulla perché la stoffa scura e pesante, alzata fino alle spalle, le occludeva completamente la visuale.
Due mani cominciarono a toccarla dappertutto. Stavano esplorando il suo corpo, carezzandole le gambe, palpeggiando le tette ed il culo, infine le dita entrarono nelle squarcio dei pantaloni per saggiare bene la consistenza della sua fica e del suo ano.
Rimisero a posto il burqa e Sarah tornò a vedere.
I due uomini stavano contando i soldi.
Venduta!
Era stata venduta ad un nuovo padrone, questa sera avrebbe dovuto soddisfare un gruppo più numeroso.
Quella notte capì la differenza tra cinque e quattordici (il numero esatto dei componenti della banda che l’aveva presa in custodia).
In particolare significava molto meno tempo per dormire.
Si era resa conto che dopo la cavalcata con il ramo, le sue resistenze si erano completamente esaurite. Non poteva far nulla per impedire che loro abusassero di lei e allora, tanto valeva prendere quanto di piacevole ci poteva essere in tutta la faccenda.
Quando l’avrebbero liberata (ma l’avrebbero liberata?) non avrebbe detto al colonnello Scott, né a nessun altro, che in fin dei conti non era stato così male farsi scopare da una ventina di banditi afgani.
Riuscì a recuperare un po’ di sonno durante il giorno. Ormai si era abituata al mulo ed era in grado di fare dei brevi sonnellini, mentre cavalcava.
Rimase con loro per una settimana.
Una volta cercò pure di fuggire.
Dopo essersi divertiti con lei per diverse ore, si erano dimenticati di legarla, e Sarah era scappata.
Era stata un’azione tanto istintiva quanto stupida: dove poteva andare una donna americana di trentacinque anni, nuda e bionda, in mezzo alle montagne dell’Afganistan.
Per di più era anche scalza, e dopo qualche centinaio di metri, i suoi piedi, non abituati a camminare su quelle pietre aguzze, erano pieni di graffi e di ferite.
L’avevano ripresa quasi subito e poi l’avevano convinta a non riprovarci più.
Mentre due di loro la tenevano ferma, il capo aveva preso una grossa pietra e l’aveva colpita con forza, prima su un piede e poi sull’altro.
Era rimasta annichilita, senza fiato, incapace di gridare, a guardarsi i suoi piedi fratturati, che rapidamente si gonfiavano.
Aveva commesso un grave errore che le sarebbe potuto costare la vita.
Uno di loro se l’era caricata sulle spalle e l’aveva riportata indietro, fino al piccolo accampamento.
L’avevano lasciata lì, da una parte, senza neanche legarla, perché ora non ce n’era più bisogno: in quelle condizioni non era in grado di camminare, al massimo poteva fare pochi metri sulle ginocchia.
La venne in mente quella mendicante che aveva visto diverse volte fuori della base, seduta per terra con i piedi rossi e deformati.
Aveva sempre pensato che fosse affetta da qualche malformazione, ma ora non ne era più così sicura: forse anche lei era stata vittima di una simile punizione.
Il viaggio a dorso di mulo in quelle condizioni, fu molto doloroso, perché ad ogni scossone, i suoi piedi nudi sbattevano sulla pancia dell’animale, provocandole delle fitte dolorose.
Quando fece buio montarono le tende e la trasportarono in quella più grande.
Sarah si concentrò su quello che poteva chiamarsi il suo nuovo lavoro, cercando di non pensare ai suoi piedi. Il piacere, che ormai lasciava scorrere liberamente dentro di sé, non le faceva sentire il dolore delle fratture.
Ormai collaborava pienamente e non cercava più di nascondere i suoi orgasmi.
In realtà a quegli uomini importava ben poco se lei godesse o meno, anzi, aveva l’impressione che per loro, se lei fosse stata addormentata, o addirittura morta, non sarebbe cambiato nulla.
Ora che la sua mobilità era fortemente limitata a causa dei suoi piedi, erano cambiate le sue posizioni. Avevano trasportato nella tenda una grossa cassa su cui l’avevano messa sdraiata con le gambe allargate, visto che Sarah non poteva stare in piedi.
Per evitare di aspettare troppo a lungo il loro turno, mentre uno di loro la scopava, ce n’era sempre un altro, messo a cavalcioni, che glie lo ficcava in bocca.
Sarah succhiava e gemeva, poi ogni tanto sentiva lo sperma che le riempiva la gola o la vagina. A quel punto l’uomo si allontanava da lei e veniva subito rimpiazzato da un altro.
Quando pensarono che potesse bastare, la girarono a la misero in ginocchio, sempre sulla cassa.
Aspettò pazientemente che il primo di loro glie lo ficcasse nel culo.
Si muoveva con molta energia e lei dovette puntellarsi forte con le braccia, per non finire con la faccia contro il coperchio della cassa. Il movimento ritmico che l’uomo stava imprimendo al suo corpo le faceva sbattere le tette contro le braccia tese.
Era stanchissima ma sapeva che avrebbe dovuto aspettare tutti gli altri, prima che la lasciassero in pace.
Quando riuscì finalmente a prendere sonno, mancava poco all’alba.
L’aspettava un altro giorno di viaggio, su quel maledetto mulo che le spaccava la schiena e le provocava dei dolori atroci, quando i suoi piedi sbattevano sul pelo ispido dell’animale.
La sua prigionia finì improvvisamente, così come era cominciata.
La mattina del decimo giorno raggiunsero una strada sterrata che si snodava tra le montagne.
C’era un pickup giapponese, scorticato e pieno di ammaccature, che li aspettava.
La sdraiarono sul pianale in mezzo a dei sacchi.
Si sentì ricoprire con una specie di coperta, poi il furgone partì.
Il viaggio durò un paio d’ore e terminò davanti al posto di polizia di un piccolo villaggio.
Lì c’era un’ambulanza che la portò, dopo un lungo tragitto, fino all’ospedale militare.
C’era voluto parecchio tempo per cancellare i segni della prigionia.
Quelli esterni, erano stati eliminati facilmente: due infermiere l’avevano messa in una vasca con l’acqua calda ed avevano asportato ogni traccia di sporco dalla sua pelle.
Un altro segno, interno, dopo delle analisi che lo avevano rilevato, era stato eliminato con un piccolo intervento.
No, il capitano Sarah Dolphin non voleva un figlio con il padre afgano, da scegliere tra una ventina di banditi, di cui neanche ricordava bene la faccia, o comunque preferiva non ricordare.
La cosa più complicata era stata sistemare i suoi piedi.
Il chirurgo si era mostrato gentile e disponibile e le aveva spiegato molte cose.
‘Sarah, nei piedi, come nelle mani, ci sono un mucchio di ossicini, molto delicati.
Alcuni di questi sono stati letteralmente sbriciolati, altri si sono spezzati, ma la cosa peggiore è che è andato tutto fuori posto. Cinquanta anni fa, lei, nella migliore delle ipotesi, avrebbe camminato tutta la vita con le stampelle, oggi siamo in grado di farla tornare più o meno come prima, nel senso che potrà camminare, guidare la macchina e probabilmente anche un aereo da caccia, ma non potrà partecipare ad una maratona.’
Sarah pensò che non aveva mai corso una maratona e quindi non era una grossa perdita.
Cinque lunghi e dolorosi interventi, sei mesi di riabilitazione e fisioterapia, per farla tornare a casa.
Tornava a casa, alla chetichella, perché quello che le era accaduto non avrebbe fatto buona pubblicità alla guerra in corso, e quindi era meglio non parlarne.
Tornava a casa, su un aereo militare, e avrebbe trovato ad attenderla suo marito.
Lui sapeva cosa le era accaduto, ma non sapeva che, in quei giorni, il suo comportamento non era stato abbastanza dignitoso.
Non l’aveva detto al colonnello Scott, non l’aveva detto alla psicologa che l’aveva seguita in ospedale e non l’avrebbe detto neanche a suo marito.
Mah, scritto malissimo
Buongiorno. Ottimo inizio del tuo racconto. Aspetto di leggere il tuo prossimo racconto in qui tu e il tuo amico…
Ciao purtroppo non sono brava nello scritto, Se vuoi scrivermi in privato . delo.susanna@gmail.com
Per un bohemienne come me, che ama l’abbandono completo al piacere e alle trasgressioni senza limiti, questa è forse la…
Ho temuto che non continuassi… sarebbe stato un vero peccato, il racconto è davvero interessante