Morbida, la lingua si avvolse sul capezzolo gonfio, facendo gemere un’altra volta la donna distesa sulle pelli.
La luce delle torce tagliava il buio della tenda con lame dorate e tremolanti, disegnando ombre come ghirigori sui corpi distesi.
Kyrja aprì per un momento gli occhi, per guardare la sua compagna che fremeva sotto le sue carezze, i suoi baci, le sue abili mani.
Ekra ansimava rapidamente, la testa rivolta verso il fianco destro, gli occhi chiusi, le labbra aperte.
La giovane si spostò su di lei, scostando i pochi vestiti che coprivano ancora il corpo della sua amante.
Ekra aprì le gambe senza muovere nessun’altro muscolo, ferma in attesa di quel gioco, fatto da quando si conscevano.
Kyrja unì le mani, accostando i pollici, poi tese le dita medie e gli anulari, intrecciando contemporaneamente le altre falangi.
Quindi piegò le spalle in avanti, chinò leggermente il busto e si portò le mani unite tra le gambe, infilandosi dentro i pollici e brandendo le lunghe ed affusolate dita come uno strano, snodabile fallo quadrato.
Ekra si mosse, alzò il bacino e spinse in avanti, per permettere alla compagna la penetrazione, quindi si allargò le grandi labbra con le dita e con un cenno, muta, implorò la penetrazione.
La bionda ragazza in ginocchio non si fece pregare, accostò la punta dell’improvvisato cazzo alla bruna distesa e la infilò con un colpo secco, duro, cattivo.
Il contraccolpo del movimento dell’altra le si trasmise dentro, lungo i pollici, fino a farle vibrare il ventre, poi la pancia, quindi i seni, compressi tra le braccia tese verso il centro delle cosce.
I suoi capezzoli si tesero ancora di più e la catenella che univa i due anelli che li attraversavano urtò per l’ennesima volta sulla pancia della giovane.
Era il simbolo delle guerriere, la casta più rispettata della loro tribù.
La sua catenella era formata da un solo filo di anelli d’argento, data la sua giovane età, ma ne andava fiera.
Guardò il corpo della donna sotto di lei, e senza doverle contare guardò per l’ennesima volta le tre file di anelli d’oro che univano i capezzoli dell’altra guerriera.
I muscoli sodi e snelli guizzavano sotto la pelle delle due donne, coperte di sudore, ansanti ma al contempo attentissime a non fare nessun rumore, a non emettere il minimo suono.
Kyrja sapeva che se le sue due compagne di guardia all’ingresso della tenda l’avessero scoperta, la sua fine sarebbe stata certa.
Sarebbe stata prima privata delle insegne di guerriera, strappate dalla carne viva davanti a tutta la tribù dalla Prima Madre in persona, poi sarebbero seguite le peggiori sevizie fino al sopraggiungere della morte.
Stava compiendo quello che forse era la peggiore delle colpe, il più sordido dei crimini, la peggiore offesa alla comunità.
Stava stancando la Prescelta proprio la notte precedente la Sfida.
Kirja amava Ekra dalla prima volta che l’aveva vista, il giorno della sua accettazione tra le guerriere.
Quella amazzone alta, dal fisico perfetto, con i seni piccoli, sodi, uniti dalle tre catenine d’oro era già un mito tra le ragazze della sua comunità, ma il vederla da vicino, il sentire il suo sguardo di fuoco accarezzargli le curve del fisico già formato l’aveva persa, e si era giurata di diventare sua.
E ci era riuscita, era la sua preferita da oramai tre anni. Tre lunghi anni nei quali Kyrja aveva scoperto le gioie dell’amore, il profumo della pelle, il sapore dell’altra donna.
Era arrivata a conoscerla perfettamente, sapeva cosa fare, come e quando, per ampliare il suo ed il proprio godimento.
Ekra iniziò a roteare il bacino, spingendosi verso l’amante.
Ad ogni affondo Kyrja iniziò ad allargare le dita, strappando ansimi sempre più profondi alla compagna.
Poco alla volta entrò sempre più in profondità, spingendo con il suo bacino.
I pollici dentro di lei facevano un ottimo lavoro, stimolandola nei punti giusti.
La clitoride si sfregava ad ogni movimento contro gli indici piegati, e nei momenti di maggiore affondo toccava con la sua quella della compagna, che iniziò a mugolare.
Kyrja sentì il calore delle cosce della donna trasmettersi attraverso la sua pelle, concentrarsi sulla punta dei suoi pollici ed esplodergli dentro come una vampata, e per un lungo attimo perse il controllo di se.
Temendo di essere scoperta si sforzò di riprendere il controllo di se stessa, e si sfilò le dita da dentro quindi, continuando a godere, languidamente si sdariò accanto alla monumentale bruna.
Accostò le labbra all’orecchio della donna e le sussurrò:”tocca a te, ora… ”
Puntò le dita contro l’ingresso ed iniziò a spingere.
Prima due dita, poi tre scomparvero dentro la fica grondante di umori.
Poi infilò il quarto dito, e strinse la mano nascondendo il pollice nell’incavo del palmo.
Si fermò solo un attimo, poi riprese la pressione, lenta, costante, inesorabile.
Le catenine appese ai capezzoli di Ekra iniziarono a tintinnare emettendo un suono leggerissimo, ma che nel silenzio della tenda sembrava fragoroso.
Kyrja appoggiò la mano libera contro il petto dell’amante, poi si avvicinò alla bocca e sussurrò: “adesso, fallo adesso…”, quindi contemporaneamente posò le sue labbra a chiuderle la bocca e spinse con un colpo più forte degli altri la mano dentro di lei.
Le nocche oltrepassarono l’orifizio, allargando oscenamente Ekra prima che le piccole labbra si riserrassero intorno al polso di Kyrja, ed un attimo dopo il corpo della guerriera bruna iniziò a sussultare, scosso dalle contrazioni del godimento.
L’urlo di dolore e piacere insieme fu ingoiato dalla bionda, che teneva la sua bocca serrata contro quella dell’altra. Kyrja si fece scuotere seguendo i movimenti del corpo dell’amante, concentrandosi solo sulla bocca da rendere muta e sulla mano dento l’altra donna.
Quando sentì le contrazioni affievolirsi si sfilò con tutta la delicatezza di cui era capace dal corpo quasi esanime di Ekra, che ebbe un ultimo, lungo sussulto, poi gli si lasciò cadere accanto.
Solo dopo qualche minuto la donna bruna riuscì a calmare il suo respiro e si girò verso l’altra, supina ad occhi chiusi.
“Kyrja, è ora che tu vada. Non c’è più molto tempo, oramai.”
La bionda aprì gli occhi, rivelando le lacrime che a stento riusciva a trattenere.
“Ho paura, Ekra… ho paura di non rivederti mai più…”
“Non sono parole degne di una guerriera, Kyrja…” rispose la donna “… e poi mi offende la tua sfiducia… sai che non ho mai perso, no?”
Il sorriso illuminò il volto bruno della guerriera, ed un riflesso le fece lampeggiare lo sguardo.
Kyrja si sentì più che mai innamorata, e più che mai ebbe paura di perderla.
Ma non poteva mostrarsi meno che una guerriera, soprattutto di fronte a lei.
“Hai ragione, sono una sciocca.”
“No, sei una donna innamorata.” Ekra sorrise, poi aggiunse” Non preoccuparti, neanch’io ho intenzione di perderti… ora vai, ogni minuto in più è un rischio inutile.”
La giovane donna si sollevò e indossò il corto gonnellino di pelle che le copriva i fianchi, quindi gli stivali e le bardature di pelliccia. Si sistemò con un gesto automatico le striscie di pelliccia che incorniciavano i seni, stringendo i lacci che li alzavano presuntuosi, e fece dondolare la catenella tra i seni.
Ekra sfiorò con una carezza il petto florido della ragazza, poi prese tra le dita la catenella.
“Tra un po’ ne avrai anche tu una d’oro, e forse più di una…”
“A domani, allora…”
“A domani. Vai, adesso.”
La donna si allontanò lesta e silenziosa, scomparendo alla vista dell’amante tra i teli della tenda.
Ekra si voltò, sospirando. Kyrja avrebbe avuto le catene d’oro, ne era sicura.
E se il giorno dopo non sarebbe andata bene, avrebbe comunque avuto le sue.
Kyrja si allontanò silenziosamente attraverso i coni d’ombra delle fiaccole dell’accampamento, fin quando le fu possibile camminare normalmente.
Non aveva sonno, anche se ormai il sole era calato dietro le montagne da molto tempo.
Si incamminò verso la parte alta della valle dove sorgeva l’improvvisato villaggio, salutando distrattamente le compagne che incontrava lungo il cammino, assorta nei propri pensieri.
Giunta sulla sommità della scarpata che fungeva da quinta naturale all’immenso anfiteatro si sedette a guardare i fuochi brillanti come diamanti nel buio, cercando di indovinare tra le strade ed i crocevia la tenda dove la sua compagna attendeva il sorgere del sole.
Fu attraversando con lo sguardo il vuoto oscuro dell’arena al centro della valle che i suoi occhi incrociarono le tende dell’altro accampamento, posandosi senza saperlo su quella dell’avversaria di Ekra.
M’jolie si rigirava nervosamente sul suo giaciglio dal momento in cui il sole era scomparso dietro le colline.
I movimenti delle guardie poste ai quattro lati della tenda le tenevano compagnia in quella nottata che si preannunciava lunga.
M’jolie aveva paura.
Era stata scelta a rappresentare la sua gente tra tutte le donne adulte perché era la più potente, la più agile e la più dotata della sua tribù.
A nessuna era venuto in mente che M’jolie poteva aver paura.
La mano gelida e vischiosa che le attanagliava le viscere non la lasciava andare, la accarezzava lungo la schiena senza che lei potesse fare nulla.
Sapeva che la donna del nord che riposava nell’accampamento al di la dell’arena stava raccogliendo le sue forze, concentrandosi e chiamando in suo aiuto i suoi dei per trionfare nella sfida del giorno sucessivo.
A M’jolie non importava di morire, non era quella la sua paura.
Era il pensiero di non farcela che la atterriva.
Tutte le donne della sua tribù si erano affidate a lei, in lei avevano riposto le speranze per la sopravvivenza della stirpe.
E lei, che non aveva mai avuto paura nella sua vita, ora la stava conoscendo nella sua forma di terrore più cupo, sordo, implacabile.
Si alzò dal suo giaciglio e prese ad aggirarsi all’interno della tenda.
Subito una delle guardie si affacciò, allarmata.
“Non è nulla, Er’tina, non preoccuparti. Non riesco a dormire…”
La donna annuì, poi si volse a dare uno sguardo all’esterno.
Quindi entrò nella tenda, chiudendo dietro di se i teli per celare la luce delle torce.
“Sei nervosa, vero M’jolie?”
“Si, a cosa serve mentire?”
“Lo so, ne ho viste tante prima di te. Lo sono tutte, e lo sarei anch’io se toccasse a me.”
Poi si voltò di nuovo, come a controllare per l’ennesima volta, quindi mise una mano dentro il tascapane che portava sulla schiena. Ne trasse un oggetto bianco, rilucente alla luce delle fiamme.
“Prendi questo, so che non potresti per non stancarti, ma ti stancheresti di più se non dormissi per tutta la notte.”
Posò il lungo pezzo d’avorio sulle pelli del giaciglio e si allontanò rapidamente verso l’uscita.
“Quando ti sarai addormantata verrò a riprenderlo, non possiamo farlo trovare qui.”
Uscì nel buio della notte, lasciando sola la ragazza.
M’jolie si avvicinò e prese il pezzo di avorio, soppesandolo.
Perché no, si disse? sempre meglio che stare qui a pensare a domani…
La tunica di lino cadde a terra, non più tenuta dal fermaglio sulla spalla, rivelando il corpo colore del bronzo perfettamente modellato.
I muscoli disegnavano curve che davano esattamente il senso del misto di potenza, agilità e rapidità che la ragazza riusciva a liberare durante i combattimenti.
La pelle era liscia quasi ovunque, tranne che per le cicatrici che la ornavano come medaglie a ricordo delle sue avventure.
L’obelisco di avorio sembrò pesarle più del solito tra le mani.
Era diverso dal suo, che non aveva potuto portare con se, al pari di ogni altro oggetto personale.
Non le erano state lasciate neanche le armi, solo la corta tunica di lino che la copriva fino a qualche istante prima.
Quasi meccanicamente accostò l’avorio candido ad un capezzolo, che si irrigidì per il contatto con la superficie fresca dell’oggetto.
Suo malgrado M’jolie ebbe un senso di piacere dalla reazione del suo corpo, e prese a passarsi il fallo di avorio sulle punte dei seni.
Presto dal centro del ventre iniziò a sentire il richiamo della propria voglia, e si adagiò sul giaciglio.
Con le dita iniziò ad esplorarsi la zona intorno al pube, priva di qualsiasi pelo come ogni altra parte del suo corpo.
Le grandi labbra si erano gonfiate e sporgevano, rivelando tra la pelle scura il rosso fuoco della carne in attea del piacere.
La clitoride si indurì e le si espose come dotata di vita propria, impaziente di assaporare il piacere.
Il fallo le girò intorno, senza sfiorarla, come per un dispetto, come a scherzare prima della concessione del suo tocco.
M’jolie si portò le dita della mano libera alla bocca, ed iniziò a succhiarle ed insalivarle.
Poi prese a passarsele sui capezzoli, duri e svettanti.
Tornò ad umettarsi la punta della dita, poi le sostituì tra le labbra con il lungo pezzo di avorio, liscio per la lavorazione e per l’uso.
Lo assaggiò, sapeva già di se.
Le venne la tentazione di morderlo mentre si stringeva un capezzolo tra le dita, poi lo sfilò facendolo scorrere tra le labbra chiuse intorno al fusto.
Una lunga striscia di saliva salutò l’uscita della punta bagnata dalla sua bocca, striscia che le si adagiò sul petto, tra i seni, mentre portava l’avorio non più freddo a riempirla.
Si penetrò senza troppi riguardi, iniziando a scorrersi il pezzo dentro fino a sentirlo toccare le pareti più segrete, mentre si spalmava la saliva sul petto, sui capezzoli, si stringeva i seni e la mente si allontanava sempre più dalle paure e dai pensieri.
Ora la mano fredda che le attanagliava le viscere era scomparsa.
Al suo posto c’era la sua mano, che accompagnava il movimento costante e potente di quell’aratro che la scavava dentro, che la faceva ardere di una febbre di passione.
Con l’altra mano si accarezzò ancora i seni, poi la fece scendere lungo la pancia fino al ventre, e poi posò la punta delle dita sulla clitoride.
Immediatamente un calore conosciuto le si irradiò lungo le membra, aumentando la voglia di giungere alla fine.
Sfilò l’obelisco lucido e lo puntò dritto verso il piccolo forellino che fino ad allora si era contratto come a reclamare la sua parte di voglia.
Tirò su le gambe, raccogliendole contro il petto, ed espose ad un inesistente spettatore la curva piena del culo, che incorniciava le grandi labbra aperte, vogliose, lucide dei suoi stessi umori.
Con la punta delle dita spostò i suoi succhi a lubrificarsi, poi passò il braccio che sorreggeva l’avorio dietro la schiena, come a sorreggersi, e posò l’altra mano tra le gambe.
Posò la punta arrotondata contro il buco, spinse leggermente e ruotò l’oggetto, una volta da una parte, una volta dall’altra.
Quindi, nel momento stesso in cui le dita della mano libera iniziavano a penetrare la fica, spinse con decisione per riempirsi le viscere, trattenendo a stento un urlo.
Le era sembrato più piccolo, la stava aprendo, la posizione non era certo comoda.
Decise di infischiarsene, voleva godere, era stanca di attendere.
Sempre più velocemente riprese a muovere le mani, si arava le carni con le dita, con l’avorio, con i denti.
Quando l’esplosione di piacere la agguantò, la scosse, la scaraventò in un mondo ignoto e conosciuto, luminoso ed oscuro, M’jolie si portò alla bocca la mano libera mordendosi le carni fino a sanguinare pur di non urlare, di non essere scoperta e rimossa dall’incarico affidatole.
Quell’incarico che ora avrebbe portato avanti senza paura, senza il timre di non farcela.
Chiamò sottovoce Er’tina, che entrò in un attimo, come se fosse rimasta semplicemente dietro la tenda, e forse lo aveva fatto.
Senza una parola le restituì il fallo d’avorio, dopo averlo ripulito alla meglio con la tunica appallottolata a terra, quindi si voltò dall’altra parte decisa a riposare per attendere il sorgere del sole.
Er’tina rimise al suo posto l’oggetto, diede un ultimo sguardo al sedere dell’amica cogliendovi le tracce della saliva e del piacere appena preso, poi uscì dalla tenda e riprese il suo posto di guardia.
Il lato assegnatogli era quello dell’ingresso, quello rivolto verso l’arena, buia e silenziosa come il nulla.
Alle spalle del buio si ergeva, maestoso, il Tempio dell’Ordine.
Er’tina si interrogò sui misteri che si celavano al suo interno, chiedendosi quali riti preparatori stessero operando le Sacerdotesse, al sicuro dietro le mura del tempio-fortezza, impenetrabili.
Diede un ultimo sguardo alle luci dietro le finestre, concentrandosi sulla più alta, quella della torre al centro del complesso, poi distolse lo sguardo e riprese, coscienziosamente, a sorvegliare la Prescelta.
Anche con la luce delle lampade ad olio dietro le spalle l’uomo non era visibile nel riquadro della stretta finestra che affacciava sulla spianata.
Attendeva, silenzioso e rassegnato, il sorgere del sole.
Alle sue spalle, posati sulla tavola addossata alla parete opposta al giaciglio, le Sacerdotesse avevano già portato quanto sarebbe servito per il giorno successivo.
I vasi con le polveri, gli olii e gli unguenti erano disposti secondo un ordine preciso, come prescritto dal rituale che si ripeteva ad ogni luna nuova.
Poteva descrivere il tavolo senza guardarlo. conosceva ormai a memoria il drappo carminio di velluto che copriva il legno, poteva vedere perfettamente i vasi di ferro, di rame, di bronzo, ognuno familiare con il suo colore, i suoi graffi, il suo contenuto.
Poteva descrivere tutto quello che sarebbe successo, da quel momento in poi.
Al sorgere del sole il corno sarebbe risuonato lungo la valle, e l’attività dei due accampamenti sarebbe ripresa, febbrile.
Poi, al nuovo suono, le donne sarebbero corse a schierarsi lungo i bordi dell’arena.
Quindi sarebbero entrate le Prescelte al centro dell’arena, ed al terzo suono del corno avrebbero iniziato a combattere fin quando una delle due non avesse più potuto andare avanti.
E quando questo succedeva, voleva dire che la donna era morta.
Nessuna, a sua memoria, aveva cessato di combattere prima della morte, la vittoria era troppo importante.
Quando veniva decretata la vittoria dalla Sacerdotessa Madre, cinquanta donne fertili della tribù vittoriosa sarebbero entrate nel tempio, e sarebbe toccato a lui fecondarle tutte nei successivi tre giorni.
Tre giorni di donne nude sul suo letto, con le gambe aperte, lubrificate dalle Sacerdotesse, che aspettavano il contatto con lui, il suo seme dentro, e poi venivano portate via, gambe all’aria, ed avanti la prossima.
Droghe, unguenti, lenimenti, tutto veniva usato per permettergli di onorare il suo scopo.
Alla fine dei tre giorni era un solo unico dolore, la pelle era scomparsa per lasciare il posto alla carne viva, dal suo membro usciva solo sangue.
Ed aveva tempo per riposare fino alla luna successiva, sperando che almeno questa volta tra le partorienti ci fosse qualcuna che potesse offrire alle Sacerdotesse il suo sostituto.
Quanto tempo era che andava avanti la storia? lui non lo ricordava, ed oramai non faceva più differenza.
La Sacerdotessa Madre gli aveva spiegato il suo compito, tanti anni prima.
E lui si era sentito orgoglioso ed onorato di essere stato il prescelto.
Prescelto? sorrise, amaro.
Dopo la Grande Luce si diffuse quella strana malattia, che attaccava i geni umani distuggendo il cromosoma maschile.
Iniziarono a nascere solo donne, ed i pochi uomini che nascevano erano la cosa più preziosa sulla terra.
L’Ordine nacque dopo un conflitto che sterminò un numero impressionante di donne, che decisero di radunare gli uomini in Templi ed utilizzarli come bene comune.
Adesso era molto tempo che non anscevano più bambini, ed i templi a mano a mano chiudevano.
Uno alla volta, e le Sacerdotesse diventavano guerriere, o si trasferivano in altri Templi, o semplicemente morivano.
Era un po’ che non arrivavano nuove sacerdotesse, si disse.
Per quanto ne sapesse, lui era l’ultimo uomo della terra.
grammaticalmente pessimo........
Ciao Ruben, sei un mito! Hai un modo di scrivere che mi fa eccitare! La penso esattamente come te. Se…
Ti ringrazio, sono felice che ti piacciano. Vedremo cosa penserai dei prossimi episodi, quando si chiuderà anche la sottotrama di…
Davvero molto bello. Piacevole come gli altri e decisamente pregno di sentimenti espressi senza risultare melensi o ripetitivi. D'impatto leggiadro,…
Come ti ho detto, in pochi e poche sanno sa scrivere in maniera così eccitante sia dare un senso ad…