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La verità nascosta:

Sto cercando di capirci qualcosa, sono perso nel labirinto del Fauno, non riesco più a raddrizzare la rotta dei miei pensieri, non so proprio cosa fare. In ogni caso, a livello interiore ne uscirò sconfitto, si è assurdo sapere di avere perso senza neanche aver giocato la partita, senza neppure essere felice per la tua vittoria. Quello che per me dovrebbe essere l’alba e già un tramonto di una giornata non vissuta. Devo ragionare, trovare una via che sia la meno impervia, quella che lascerà alla mia vita meno stanchezza mentale, meno stress, meno sensi di colpa.

Io ti amo e ti ho amata dal primo momento che ti ho vista, dalla prima domanda che mi hai fatto: « hai una sigaretta? », ma il mio è un combattimento tra quello che provo per te e quello che sono io: quello che sono diventato attraverso gli anni, non sempre semplici della mia vita, quello che ha formato la mia essenza, il mio carattere, le mie ragioni, i miei principi. Non so davvero cosa fare, ed il fatto che tu, non mi abbia neppure accennato a ‘quella’ possibilità, spezza molto di quello che credevo per noi, per il nostro futuro. Qui non servono le briciole di Pollicino o il filo di Arianna per aiutarmi a trovare un espediente per uscire da questa situazione particolarmente complicata. Non c’è via d’uscita per me, sono condannato in contumacia, senza aver compiuto il fatto. Una sorte di Sacra Inquisizione ha destinato a me delle enormi colpe per qualsiasi cosa scelga di fare.

Oggi abbiamo 40 anni, abbiamo passato gli ultimi 10 anni, da marito e moglie, da coppia perfetta, “belli come due semidei”, così ci prendevano in giro i nostri amici, ed è stato tutto meraviglioso, io soddisfatto della mia, seppur piccola, Casa Editrice; tu antropologa riconosciuta nel mondo, stimata.

Poi, 2 anni fa, la tua rincorsa affannosa alla ricerca della maternità, destabilizzando equilibri e la solidità del nostro mondo. Il rapporto, tra noi, è diventato un incontro di pugilato: io in un angolo, tu nell’altro. Tutto quello che era attrazione, sensualità e fusione dei nostri corpi si sono sfaldate in meccanicismi trascinati da un solo scopo: un bambino. Analisi su analisi, la mia spermatogenesi diceva che non avevo una massiccia produzione di seme fertile, ma nulla contrastava una possibile fecondazione. I cinque giorni prima dell’ovulazione, come evidenziato nel nostro calendario, con scritte cubitali, per me erano una via crucis, un tormento, un’odissea di scopate, tre volte al giorno: mattina presto, pausa pranzo, sera. La cosa, detta così, può sembrare positiva, invece no, era una palestra alla ricerca dell’inseminazione: zero erotismo, zero baci, zero carezze. Il mio cazzo dritto dentro te, dovevo venire e poi alzarti le gambe per far fruire meglio i miei spermatozoi, per potenziare la riuscita del, possibile, lieto evento. Il mio studio dove lavoro è a casa e non avevo scampo. Una volta sono mancato, perché ero dal meccanico e mi ha catechizzato così: « Ecco, quando bisogna fare le cose importanti tu non ci sei mai, non sai prenderti le tue responsabilità. Così non possiamo andare avanti. ». Insomma, ne hai fatto un dramma di dimensioni bibliche, anche quando ti ho ricordato che avevo: già la mattina provato a ‘ingravidarti’, e che dopo cena c’era un’altra puntata delle nostre 15/16 ‘scopate’ in 5 giorni, ma tu avevi continuato con le sue litanie, con le tue accuse, non capendo che già mi colpevolizzavo per tutti quei test ‘negativi’ di gravidanza. Ero io quello difettato, quello imperfetto, che non riusciva a farti vivere quel sogno che smaniavi più del nostro rapporto, più del nostro futuro.

Eppure è un ricordo lucente, vivido il ‘quello’ che era prima, il tuo caldo e morbido corpo, il cercare di non dimenticare o trascurare ogni centimetro della tua pelle dai miei baci. E quando arrivavo ‘lì’ la piccola palude tiepida, i tuoi viscosi e odorosi liquidi mi dicevano che mi desideravi, che mi volevi. E io baciavo e leccavo il tuo piccolo bottone rosa, nascosto solo in parte, dai tuoi soffici peletti scuri, e lo sentivo indurirsi, irrigidirsi al calore dei miei baci mentre fremevi e sospiravi. E quando entravo dentro te, i tuoi occhi si illuminavano, per poi schermarsi di una lieve patina traslucida, quando irrompendo ti cingeva tutto il corpo l’arrivo dell’estasi dell’orgasmo, e tu gridavi, ti agitavi.. fremevi sotto di me. Dove è finito tutto questo? Dove sono finite le mie mattine di risvegli con le gambe dolenti e i pensieri ancora su di te, sul tuo perfetto corpo. Dove siamo finiti noi?

Dove c’era dialogo e comprensione si era insinuato in noi il silenzio, la sopraffazione torbida di pensieri ostili, e come un iceberg staccatosi dal ghiacciaio prende sempre più la via del mare aperto, ci siamo allontanati anche noi, ognuno certo ed al riparo delle proprie convinzioni, delle proprie idee.

Poi la proposta di un interessante lavoro, per te, un viaggio di un mese in India, per studiare la scoperta delle radici dei Bondo o Bonda, “è un gruppo etnico e linguistico di origine austroasiatica che vive sulle colline isolate del distretto del Malkangiri, nel sud ovest dello stato di Orissa”, così me l’avevi spiegato, dicendo che però era meglio restare con me, e continuare, nella speranza che quel benedetto test indicasse: ‘positivo’. Ho cercato di convincerti che, forse, un mese di pausa, stemperare un po’ di quella tensione, di quelle piccole, forse grandi, sconfitte per ad ogni rimando della tua gravidanza, ci sarebbe servito; perlomeno per ritrovare un po’ di noi stessi, un po’ di quello che si era smarrito.
E così, i primi di giugno, ti accompagno all’aeroporto e ci salutiamo con uno strano sentore, quasi a odorare, che potrebbe anche farci male quel periodo di distacco, quel mese dove respirando senza l’oppressione dell’altro potrebbero cambiare molte cose.

Quel mese vola via come un temporale estivo, mille pensieri, mille domande che vanno a dissolversi quando, i primi di luglio, torni a casa. Arrivi con un’aria rilassata, sei sorridente, sembri tornata quella di prima. La stessa sera vuoi fare l’amore, e spregiudicata e maliziosa ti presenti in cucine completamente nuda, abbronzata dal sole orientale, bella come un dipinto, come un’opera d’arte. E mi spogli, mi abbassi i pantaloni della tuta ed i boxer in un colpo solo, quasi a forza, e prendi in mio pene rilassato nella tua bocca, e lo senti irrorarsi di sangue, divenire duro dentro il caldo delle tue labbra. E, spiazzato da quel ‘tuo ritorno al prima’ della tua maniacale ricerca di un figlio’, mi diventa davvero grosso, marmoreo, inflessibile da farmi quasi male, e tu ti metti con la pancia appoggiata al tavolo, sposti indietro il tuo culetto, apri le tue gambe quasi ad invitarmi, e io entro, i miei 22 cm scompaiono dentro a quell’antro caldo e meraviglioso. Spingo forte, tu respiri convulsamente e trattieni le grida, io con le dita di una mano strizzo, quasi a volerti far male, il tuo capezzolo, e l’altra la faccio roteare sul clitoride, mentre continuo a pompare sempre più intensamente. Poi, dopo che hai appoggiato, sfinita, la testa sul tavolo, ti prendo per i fianchi, affondo gli ultimi colpi decisi, e sento il mio corpo svuotarsi, la mia mente librarsi in cielo, una beatitudine mi avvolge e ti vengo dentro. Quando esco, alcune gocce del nostro godere cadono sul marmo del pavimento della cucina. Mi guardi e ci sorridiamo, sembriamo quelli di un tempo, quelli pronti, insieme, ad affrontare il mondo, a combattere come Don Chisciotte tutti i mulini a vento.

Torniamo alla nostra vita, mi racconti poco dell’India e di quella tribù, non è da te, di solito al ritorno di un viaggio mi fai un dettagliatissimo resoconto, che potrei andarci io a illustrare ai tuoi capi le tue deduzioni e quello che hai scoperto. Ogni tanto ti vedo distante, più silenziosa, immersa nei tuoi pensieri. Poi, i primi di agosto, mi accenni ad un ritardo del ciclo, dicendomi che questa è la volta buona, il figlio di quella sera in cucina, mi dici, di quell’inebriante e splendido rapporto, che così intenso era da tempo che non riuscivamo ad avere. Una settimana dopo, apri la porta di casa, con il respiro accelerato, e quasi piangendo mi dici di essere incinta, e che sei certa, sei sicura tutto andrà bene . I giorni e i mesi successivi ad ogni tua visita ginecologica ci sembra di toccare le vette del paradiso, felici di ogni piccolo millimetro di crescita di quel fagiolino che è lì protetto nel tuo corpo. Le sere, a tele spenta, viaggiamo con la mente di possibile nomi, di quello che sarà: maschietto o femminuccia?, immaginandoci il suo futuro, inventandoci storie e sognando per quell’esserino, che tra qualche mese spazzerà via la nostra vecchia vita, donandocene un’altra, tutta nuova di zecca. La notte faccio fatica a prendere sonno, preso dallo smaniare, dal desiderare che il tempo corra via veloce e senza intoppi, a volte mi ritrovo a pregare, cosa mai fatta in vita mia. Mi rendo conto, con incredulità, che spesso chi non crede, o non è abituato a farlo, si trova lì, a mettersi nelle mani di un Dio che ti aiuti a risolvere tutte le cose che noi, esseri umani anche volendo, non potremmo mai fare: e allora prego e spero nella sua benedizione e mi dico: “Dio fai che vada tutto bene, che nasca sano e forte, e che abbia una vita serena e piena di soddisfazioni.”, e lentamente cedo al sonno. Ma anche quando cado nelle mani di Morfeo, dio dei sogni: figlio di Ipno e di Notte, entro in una visione onirica in cui il bambino è protagonista di immagini che mi sembrano reali anche se sto dormendo. Insomma, quel piccolo cuore che batte ha già cambiato la mia vita, e conto i minuti e le ore per poterlo accarezzare, baciare, con la paura ed il timore di potergli far male, magari stringendo troppo quel corpicino di neonato, così malleabile e delicato. E tutto prosegue per il meglio, la gravidanza scorre lineare, ovvio, con i soliti acciacchi e affanni che una donna vive in quel periodo.

Di colpo siamo in macchina, corro all’impazzata, si sono rotte le acque, il momento è arrivato. Entriamo in ospedale, ti distendono su una barella e scompari via lungo il corridoio verde chiaro, io resto lì, con i caldo ed il sudore della tua mano che ho appena tenuto tra le mie, e ti dico che andrà tutto bene e un sacco di altre stupide frasi di circostanza, dettate dall’emozione e dalla trepidazione di quegli istanti. Ho chiamato i tuoi, mia madre e tutti, ora, sono con me fuori, ognuno con il suo modo per nascondere l’agitazione e la speranza nei propri cuori. Non me la sono sentita di assistere al parto, ritenendolo un momento solo tuo, credendo, con assoluta umiltà, che i primi secondi in cui vedrai il suo viso, il suo corpicino spettino solo a te, a sua mamma. Mi fanno entrare nella tua stanza, sei stanca, pallida dal parto, allunghi le mani verso di me e piangi, piangi e singhiozzi. Cerco di pensare a cosa possa dire per te, so che sono lacrime di gioia, di sfogo e mi commuovo anch’io. Il bimbo, al momento, non c’è: è un maschietto di 3 chili, in piena salute; ora è con un’infermiera che lo sta lavando. Poi la ragazza in bianco entra, con un fagottino in mano, sembra esitare, avanza a piccoli passi, tu piangi più forte, io non capisco. Mi da in mano quel piccolo asciugamano con dentro un visino che non vedo, alzo un lembo di quella bianca stoffa spugnosa e vedo, osservo, scruto… Il colore del viso di quella meravigliosa creatura si stacca nitidamente dal chiarore che lo avvolge, è di pelle scura, non è figlio mio. Il tuo singhiozzare aumenta, io istintivamente ritorno all’infermiera quel corpicino, e lei mi guarda con occhi tristi, velati dalla compassione. Non riesco a respirare e mentre tu mi chiami, quasi gridando, io esco dalla stanza.

Passo oltre mia madre e i miei suoceri, non degnandoli di uno sguardo, quasi corro fuori dall’ospedale, certo che lì all’esterno tutto sarebbe ritornato normale, come il risveglio da un incubo. La mia mente è completamente priva di un solo pensiero: sono sconcertato, basito, impietrito. In un barlume di lucida pazzia, mi è venuta in mente la storia biblica della Genesi, dove Sara per essersi voltata verso Sodoma, contravvenendo alle parole di due messaggeri, che le avevano proibito di girarsi mentre Dio faceva piovere sulla città fuoco e zolfo, venne trasformata in una statua di sale. Questo è quello che sono, una statua. Poi mi desto, mi risveglio ed il cervello inizia ad elaborare milioni di cose tutte insieme, senza soluzione di continuità. Penso a te, al tuo viaggio in India, alle date che coincidono, a come hai potuto?, con chi? Cerco di escogitare un modo per uscirne, e come un cancellino spazza via le linee di gesso, elaboro un modo, senza riuscirci, di sopprimere, di rimuovere quell’universo di sofferenza e squallore che ho dentro.
Prendo la macchina, quando vedo sul cellulare il nome di mia madre che mi sta chiamando, schiaccio il tastino verde e le dico: «Non so, non ci credo» e chiudo subito.

Sono arrivato a casa mi siedo in cucina, sento i brividi di freddo, la sensazione che due braccia, da dietro, mi stritolino la cassa toracica; non sono così forte per gestire una cosa del genere, nessuno può esserlo, dovrei chiederti spiegazioni? In un delirio di follia vedo le tue labbra dirmi: «E’ stato l’Arcangelo Gabriele, mi ha detto: “Non temere, perché hai trovato grazia presso Dio. Ecco concepirai un figlio, lo darai alla luce e lo chiamerai Gesù. Sarà grande e chiamato Figlio dell’Altissimo”». Ma io non sono Giuseppe, non faccio il falegname, non c’è neppure una cazzo di grotta, né un asinello né un bue, E tu sei la cosa più distante che possa esserci dalla Madonna, non credi? Ma il problema che mi pongo è un altro e riguarda solo me, non te, che, con il tuo tradimento hai fatto scendere la ghigliottina sulla mia vita per sempre, e mi imponi di decidere tra condanna o perdono, con una creatura appena nata che non sa nulla di tutto questo. Come posso amare il figlio del tuo peccato, il bimbo concepito in un viaggio di lavoro, magari in una stupenda notte, in una spiaggia indiana.

Perché mi hai fatto questo? Ora preparo una piccola valigia, me ne vado al mare, lontano dalla falsità più aberrante di queste stupide foto che ci ritraggono sorridenti e felici, lontano da quel che è stato nostro e che non lo sarà più. Oppure riuscirò a perdonarti? A capirti? A comprenderti? Per ora apro una bottiglia di vino, che spero mi aiuti a spazzare via quell’uragano di meschinità in cui mi hai fatto piombare.
Mi hai scritto due email, le ho cancellate senza leggerle, ogni parola scritta da te, in questo momento mi darebbe solo nausea, voglia di vomitarti tutti i miei malesseri addosso e non devo scendere così in basso, non è nel mio carattere. Meglio trincerarsi ognuno nel proprio silenzio.

Nella mia casa al mare ieri è venuta Anna, la tua amica del cuore, mi ha cercato, non avrei voluto vederla, fino all’ultimo ho cercato una scusa, ma poi preso da un’enfasi insensata e illogica le ho detto di sì. Abbiamo bevuto un po’ di vino, prima di cenare insieme, ho saputo che tu e ‘lui’ siete tornati a casa, che lui è bello, che tu stai bene. Ma quel ‘tu’ e quel ‘lui’ non fanno più parte del ‘me’ di questi giorni, e, sinceramente, credo neanche di quello di domani. Impossibile cicatrizzare una ferita così profonda, amputare è la parola che più rende l’idea di quello che provo. Perché, non mi hai preparato ad un’eventualità del genere? Perché non mi hai detto nulla del tradimento? Perché mi ha concesso tutte quelle ansie e aspettative di curiosità e speranza per un ‘nostro’ figlio? Cosa speravi, che se fosse nato con la mia pelle ed i miei occhi la tua impura storia indiana non sarebbe mai venuta a galla? Ecco il perché di quel tuo seducente e provocante comportamento di quella sera in cucina. Era come darmi una possibilità che nello spregiudicato gioco della sorte di geni e cromosomi, fossero i miei ad averti fecondata, e non i suoi: quelli di questo uomo fantasma che alberga costantemente in me.
Anna mi ha fatto cenno che non e hai parlato di lui, e di quello che, innegabilmente, è successo portandoci a questo devastante finale. Abbiamo continuato a bere e a parlare, mi ha detto che non ha creduto, finché non ha visto, che tu potessi avermi tradito e portato avanti tutta la gravidanza senza neppure dirmi una sola parola su quello che era successo. La tua amica è stata molto dolce con me, e quando non ho più retto e mi sono messo a piangere mi ha abbracciato con compassione, è stato un contatto molto intenso, e tu lo sai bene che mi è sempre piaciuta. Qualcosa dentro me si è scosso, per qualche istante non ti ho pensato.

Poi a fine serata, era troppo brilla per guidare e le ho proposto di dormire lì, con me. Ero sotto la coperta sul matrimoniale, quando uscendo dal bagno della camera, mi sono accorto che non aveva indossato la tuta che gli avevo dato, ma che era in mutandine con una magliettina bianca sopra. Si è stesa vicino a me, c’era un po’ di freddo e si è avvicinata con il suo corpo, e sentivo le sue tettine sotto la maglietta appoggiate al mio fianco, una strana e potente tentazione, un sordido sentimento di rivalsa, di fartela pagare, come uno stupido ‘voler pareggiare i conti’. Mi sono girato verso lei, respirava piano, la mia mano a accarezzato delicatamente il suo viso e ci siamo baciati, a lungo. Mentre le sfioravo il pancino ha voluto ritrarsi, si è scostata da me. Ma ormai qualcosa era scattato, e ci siamo ritrovati vicini, ero eccitato, e la mia voglia di possedere Anna è sempre stata forte, fin da quel bacio che ci siamo dati prima di cominciare la storia con te. Sono sceso con il viso tra le sue gambe, le ho sfilato il perizoma, lei era immobile e non ha fiatato, ho leccato le sue grandi labbra ed ho sentito la sua fica bagnarsi all’istante, aveva il sapore buono del ‘tradirti’, del farti quello che tu avevi fatto a me. L’ho baciata a lungo e con enfasi, le poggiavo il mio labbro superiore sul clitoride e con la lingua entravo dentro lentamente, e lei è venuta tra sottili sospiri. Ho continuato e le sue mani mi hanno preso la nuca e mi schiacciavano verso la sua fica, ora ansimava più forte, godeva ad ogni pressione. Poi sono salito, le nostre labbra incollate in un sensuale cercarsi, e l’ho penetrata, ha avuto un sussulto, ma quando la nostre membrane hanno aderito alla perfezione, ho cominciato un movimento ritmico e lei trepidava e mi desiderava, mi voleva. Abbiamo fatto l’amore fino ai primi raggi del sole, quando abbracciati ci siamo addormentati. E’ stato meraviglioso, estremamente passionale, altro che tutti quegli assurdi amplessi pre gravidanza con te, quello scopare per concepire un figlio, fatto di leggi fisiche dimenticando la chimica dei corpi. E mi vien da sorridere se penso che tutte quelle performance, sono solo servite ad avere un bimbo da un altro.

Così è cominciata la mia storia con Anna, mi piace stare con lei, è una donna, oltre che bellissima, intelligente ed intraprendente e vista le sua laurea in Lettere e la sua passione per i libri in pochi mesi l’ho assunta nella mia Casa Editrice.
Non ti ho dimenticata, questo è certo, ho fatto come gli struzzi ho messo la testa sotto la sabbia. Non sarei riuscito a perdonarti, non sarei più stato capace di toccarti, di far l’amore con te, in un corpo avuto da un altro e questo lo hai sempre saputo. Vigliaccamente, quasi a pulirmi la coscienza ti mando ogni mese un assegno per quel bimbo, che avrebbe dovuto vederci genitori felici ed invece ci ritrova sconosciuti attori di una storia durata 10 anni.
E’ passato un anno, oramai mi sono staccato da quelle sensazioni tanto opprimenti, so che stai bene e che Abram cresce felice, molto di più che se ci fossi io con voi, con tutte le mia contraddizioni ed il mio non accettare la tua colpa ed il suo non essere mio figlio.

Anna aspetta una bambina, e la nostra relazione ha preso una forza, quasi, inaspettata.
Hai mantenuto la mia volontà di non vederci e non sentirci più, ci siamo visti per le carte del divorzio, senza parlarci. Non ho bisogno di sapere cosa è successo laggiù, oramai il calendario della nostra vecchia cucina ha voltato pagina e su quella nuova non si leggono più i tuoi giorni, segnati in grande, delle tue ovulazioni.
Poi una mattina come tante esco a prendere la posta, e trovo una lettera senza mittente, la apro seduto in cucina, sono solo a casa, e leggo:

“Ciao sono io, sono quattordici mesi che devo dirti una cosa, prima mentre aspettavo Adam non ne ho avuto: né la forza né il coraggio. La mia paura di essere abbandonata e lasciata da te sarebbe stata troppo devastante, una cosa a cui non avrei creduto di riprendermi. Ma ora ho Adam che mi illumina le giornate, e mi ruba tutto l’amore che ho. In India una notte sono stata violentata da due uomini… non c’è stato nessun.. meglio lasciar stare.. Ti auguro ogni bene con Anna e con la piccola che presto vedrà il mondo. ”

Ho chiuso la lettera e ho iniziato piangere……

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