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C’erano punti oscuri. Licius si concesse di pensarlo.
Ovviamente, erano noti a lui e a pochi altri. Marduk era solo un esecutore.
Non poteva vedere l’interezza dell’arabesco di possibilità in movimento. Lui invece sì.
Licius fece il suo rapporto al suo capo con dovizia di particolari, senza omettere nulla.
-È una situazione tremendamente calda.-, disse questi, un uomo di sessant’anni dal pizzetto curato e il viso patrizio. Era in alto, molto in alto nella cupola.
Licius non si faceva illusioni: col tempo, anche lui sarebbe arrivato in alto. Molto.
-Sei sicuro che questo esterno, Marduk, sia affidabile?-, chiese il capo.
-Assolutamente. Ho predisposto un dispositivo d’emergenza, in caso.-, disse lui.
-Non devo ricordarti cosa potrebbe accaderti se fallirai, vero?-, chiese l’uomo. Licius annuì.
Sapeva benissimo che se avesse fallito, il minimo sarebbe stato un esilio in qualche buco dimenticato dagli déi.
-Mi chiedo ancora se affidarci a elemnti esterni sia stata una buona idea.-, ammise l’uomo.
-Come lei ben sa, i Chin hanno fonti nei nostri servizi. I trattati commerciali sono stati fatti con la consapevolezza da ambo le parti che la pace è più vantaggiosa della guerra, ma ovviamente ciò significa anche che sia noi che loro sapevamo che tale pace avrebbe solo fornito il tempo per preparare un nuovo conflitto.-, spiegò Licius, -Quando questa faccenda è esplosa, quando quella donna è fuggita, insieme agli altri, ho voluto avvisare i gruppi di livello uno. Operativi Pretorius e Silencium. E dopo poche ore, anche i Chin sapevano. Siamo compromessi, signore. Lei lo sa e io lo so. Quindi preferisco rivolgermi ad agenti esterni perché, paradossalmente, potrebbero essere molto meno compromessi di noialtri. E se anche lo fossero, è pur vero che la cosa funziona nei due sensi.-.
-Hai infiltrato i Chin?-, la voce dell’uomo pareva un soffio, gravida di aspettativa, e forse persino di una gelosia che sfociava nel timore di essere surclassato dal suo sottoposto.
-Non è ciò che ho detto.-, chiarì Licius.
-Ma l’hai fatto capire. Chi ci dice che questa conversazione non stia venendo registrata?-, chiese l’uomo, -Magari da qualcuno al soldo dei loro?-.
-In tal caso, sono convinto che avranno i loro bei grattacapi. In questa guerra, le armi sono inganno e sotterfugio, e le informazioni, vere e false, sono l’arma più devastante.-, rispose Licius, secco. L’uomo del Potere tacque. Forse, per la prima vera volta.
-Mi garantisci che hai tutto sotto controllo?-, chiese.
-Lo garantisco.-, annuì Licius.
-Bene. È tutto quel che il Senatus chiede.-, disse lui. Chiuse il collegamento.
Licius posò il palmare. Tutto ciò che aveva detto era vero. Ed era falso.
Aveva mischiato abilmente verità e finzioni, manipolato sia Ferelea e Marduk che l’uomo con cui aveva parlato. Tutto per una sola e unica ragione.
Il Potere Assoluto.

Marduk si fermò. Tosse. Rauca, parve scavare nei polmoni.
“Non ora, merda. Non adesso.”, ma quando sennò?
Il medico gliel’aveva detto. Stai a riposo, non affaticarti. Stronzate. Aveva scelto di imbarcarsi in quell’avventura per dare merda a lui e alle sue statistiche, o forse solo per sentirsi vivo.
E ora rischiava di sputare i polmoni… Si ricompose. Scatarrò in un fazzoletto un bolo biancastro. Lo cestinò al primo punto di raccolta che trovò.
Si guardò attorno. Passanti, gente. Nessuno badava a lui. Diversi erano africani.
Era vicino alla residenza di Saida Pulchra Rea.
Pulchra Rea. Bella cosa, nella lingua antica di Roma nata dai Licanei.
Un nome, un programma. Certamente scelto per l’impatto che avrebbe dovuto suscitare.
“Se fa l’intrattenitrice, di certo vorrà apparire.”, ragionò Marduk, “Ma anche una spia ragionerebbe così. Cosa meglio che una scena gradevole spinge ad abbassare la guardia?”.
Era logico. Il poveraccio che aveva ucciso era stato un mero esecutore, forse meno ancora. Manovalanza a malapena consapevole della reale situazione. Saida probabilmente era ad un altro livello. Quanto altro? Cosa sapeva precisamente? Da dove prendeva le informazioni?
Tutte domande che Marduk si era posto a lungo. Ma era inutile indugiare. Parlarle era la sola via, la domanda era come approcciarla.
Era fuor di dubbio che avrebbe potuto sicuramente essere rischioso affrontarla di petto, quindi Marduk si ripromise di attuare una strategia differente.
Di avvicinarvisi per sottintesi, magari dopo un intermezzo erotico che permettesse a Saida di vederlo unicamente come un cliente.
Ma se lei si fosse rivelata ostile, lui aveva già deciso come agire.
Avrebbe sparato. Per primo. E fanculo le risposte. Gli premeva ben più rimanere vivo.
Chiaramente, il problema principale era proprio che stava andandosi a infilare nella tana della leonessa. Un passo obbligato, che però non intendeva compere senza prendere precauzioni.
Compose un numero sul palmare e chiamò.

L’intrattenitrice nuda si guardò nello specchio a parete. Si piaceva. Si piaceva molto.
A trentasette anni era ancora un’autentica sfida all’età, un traguardo conquistato con fatica e costanza, allenamenti e rinunce.
Le gambe, l’addome e i fianchi non mostravano ancora segni dell’età. Le pochissime cicatrici che aveva erano state coperte da tatuaggi, o eliminate tramite chirurgia estetica.
Era bella, e soprattutto, ne era ben consapevole. Moltissimi dei suoi clienti tendevano a tremare come budini vedendola. L’aspettativa era giustificata.
E lei si permetteva di esigere prezzi da capogiro. D’altronde, il meglio si paga sempre adeguatamente, no? Indugiò sulle curve voluttuose ancora per qualche istante.
Si spruzzò addosso del profumo. Essenze nebulizzate. Un tocco di raffinatezza. In Africa non sarebbe servito: gli uomini laggiù preferivano il suo profumo naturale, l’odore muschiato della sua pelle, ma le genti di quei luoghi erano differenti, forse più sofisticate. Nel tempo, aveva imparato ad apprezzare molte loro peculiarità. Fissò le sue tette. Erano ancora belle sode e tenevano, sfidando orgogliosamente la gravità. Passò al viso. Pochissimo rossetto, rigorosamente appena in contrasto col colore della sua pelle bruna.
“Perfetto.”, pensò con un sorriso. I capelli? Sfilò il nastro che li legava. Una cascata nera.
Si piaceva così. Selvaggia. Come una pantera a caccia. Assolutamente perfetta.

C’erano momenti in cui Ferelea dubitava delle proprie scelte. Ne aveva fatte molte.
Aiutare Marduk a riprendersi era stato un atto dettato dalla pura amicizia, dalla pena di averlo visto ridotto come un rottame.
Eppure, quell’atto aveva scatenato una situazione interamente diversa. L’aveva forzata a vedere le cose in maniera differente rispetto a prima. Aveva strappato lentamente la patina di distacco che lei si era sforzata di creare.
Inizialmente sarebbe dovuto essere solo un lavoro, no? Un semplice contratto. Rischioso, ma nulla più. Eppure, ora stava muovendosi tutto in modo così schifosamente rapido, e con così tanti nemici…
Ferelea annuì a sé stessa. In quel momento, Antonia Livia Svea, la sua altra sé, riemergeva dalle profondità della mente per ricordarle con spietata chiarezza che non era solo un’informatrice ma anche un’essere umana. E che Marduk non era solo una pedina.
Ma era anche quello il momento in cui lei ricordava con crudele chiarezza il gioco erotico guidato dalla figura velata che le aveva ingiunto che Marduk era proprio solo quello: una pedina sacrificabile. Il ricordo di quel momento, della presa che quell’individuo aveva avuto su di lei era talmente inebriante da far vacillare la risolutezza della sua preoccupazione.
Quelle mani su di lei, dentro lei, e quelle labbra…
Bastava così poco? Sì! Bastava così poco! Alla fine anche lei era vessata, quasi per ironia, dalla stessa smaniosa promiscuità delle Amazzoni del Kelreas che aveva tanto voluto emulare. Per certi versi era appropriato, no?
“Anche se significava immolare Marduk?”, si domandò. La domanda l’avrebbe tormentata a lungo, già lo sapeva. Eppure sapeva anche che c’era moltissimo altro in gioco.
Posò il palmare, dichiarando la propria resa. Marduk se la sarebbe cavata. Ne era convinta.
O almeno, così si ripeté.

Il vicinato attorno al palazzo dove Saida Pulchra Rea riceveva gli ospiti era il classico quartiere a basso reddito con numerose insulae, veri e propri appartamenti massici, capaci di ospitare più moduli abititativi per ogni piano. Era letteralmente un’alveare. Gente andava e veniva continuamente. Molti erano africani, ma c’erano anche diversi europei. Brutte facce da coscritti ed espressioni patibolari condite da sguardi tutt’altro che amichevoli.
Marduk tenne la testa bassa, superando due accattoni che si disputavano l’onere di sorvegliare i mezzi privati parcheggiati a bordo della strada a colpi di stampelle.
Miseria e povertà, certo. Ma anche sospetto, e rabbia, tanta rabbia. Non sorprendeva certo che la criminalità fosse in aumento da qualche anno a quella parte e in particolare in quelle zone. La miglior dimostrazione che il sistema della Confederatio non era né il migliore né privo di difetti di sorta. La guerra non ha migliorato le cose, per molti di loro.
Arrivò al citofono di uno degli edifici. Notò quanto fosse meno trasandato o imbrattato di graffiti rispetto ad altri. Estrasse il palmare. Chiamò il numero della donna.
-Ci sono.-, disse. Essenziale, rapido. Lei comunica il piano e chiude. Perché perder tempo?
Apre la porta e supera l’androne. Esce qualcuno. Un uomo dal viso caucasico, forse slavo.
Marduk lo supera, salendo le scale. Primo piano. Porta a destra. Bussa.
-È aperto.-, una voce di donna dall’interno, piacevole, calda, una nota di accento e il timbro tipico degli africani. Marduk si accorse di provare un’eccitazione che non credeva più possibile.
Sentì il sesso inturgidirsi al pensiero di quella donna. Da un certo punto di vista ne fu contento: Saida Pulchra Rea doveva essere comunque un bel vedere.
E lui era molto che non aveva una donna. In realtà, dopo la malattia aveva tagliato i legami con l’altro sesso. Salvo un paio di scopate con alcune prostitute dappoco che non gli avevano lasciato altro che una maggior stanchezza e un senso di vuoto amplificato, era scivolato dentro sé stesso, lasciandosi ricadere nell’autocompatimento, sì, ma non solo. Non era stato solo quello a infliggergli un ennesimo colpo.
Era stato quel voler tornare indietro, a sabotarlo. Ma ce l’aveva fatta no?
Ed era lì per continuare a farcela. Non che ciò entrasse necessariamente in contrasto con un eventuale intermezzo erotico. Entrò.
Il profumo all’interno era un piacevole mix di spezie. Profumo da ambiente, sicuramente costoso. Marduk notò anche l’arredamento dell’anticamera. Notevolmente essenziale.
Superò l’anticamera e la vide. Rimanendo a bocca aperta: pareva una creatura uscita da miti ancestrali di bellezza. La prima cosa che lo colpì furono le gambe, inguainate in delle ghette semitrasparenti che non lasciavano nulla all’immaginazione. Erano pilastri d’ebano sottili, slanciati. Coperta da appena un indumento intimo di colore nero, la sua intimità era velata, ma intuibile, un paradiso a portata. Lo stomaco e la vita erano semplciemente perfetti e il seno era della giusta misura, non eccessivo come certe donne che prediligevano la chirurgia degli Aesteti, né misero come altre non benedette dal Dio della Fertilità, Priapus.
Saida Pulchra Rea non apparteneva ad alcuna delle due categorie: le sue tette erano sode, non eccessive, coperte da un reggiseno leggero senza imbottitura che lasciva intravedere i capezzoli. C’era un profumo attorno a lei. Marduk annusò, sentendo l’eccitazione che pareva solo rafforzarsi. Non lo riconosceva, non era un esperto in tal senso ma gli piacque molto.
E infine c’era il collo, le braccia e il viso. Il primo era sicuramente setoso, levigato, su questo l’uomo era sicuro, le seconde erano in forma, non toniche né tantomeno flosce. S’intuiva che quella donna curava il proprio corpo.
“Magari addestrandolo a uccidere…”, pensò fugacemente lui. Doveva stare in guardia, altro che no: Saida era l’unico contatto con quel sicario che lo aveva cercato. Doveva capire.
Doveva riuscire a saperne di più. Ma soprattutto, a capire cosa lei (e per transizione i suoi eventuali superiori) sapesse di lui.
Sicuramente, se l’aveva identificato, non lo stava dando a vedere: il sorriso di denti bianchi sulla pelle scura appariva totalmente rilassato, così come l’espressione di quel viso ben proprozionato e splendidamente privo di imperfezioni, avvolto da una cascata di capelli neri che le scendeva sino alle spalle, senza però corpire alcun dettaglio del viso o celare la fronte appena bombata. Gli occhi lo fissavano, erano neri anche quelli, ma non intravedeva in essi alcuna sfumatura di ostilità.
“Possibile che questa donna non abbia idea di chi io sia? Se così fosse, allora la pista africana finisce qui.”, pensò Marduk. Sorrise a sua volta vedendola. Pista o no, quella era un gran pezzo di femmina, poco ma sicuro. E lui di donne così non ne aveva viste per parecchio.
-Benvenuto! Io sono Saida.-, lo accolse lei.
-Marius.-, rispose porgendo la mano. La nera la strinse il tempo necessario per annullare la distanza tra loro e posargli un bacio sulle labbra. Si cominciava bene. Di certo non perdeva tempo. Lo accompagnò in una saletta attigua. Due poltrone una in faccia all’altra, un tablinum a lato con una bottiglia d’acqua da un litro, piena.
-Allora, è la prima volta?-, chiese la nera.
-No.-, ammise lui. La vide prendere un bicchiere d’acqua e versarlo per sé, e accettò quello che lei le stava offrendo, riempito sotto i suoi occhi, -Ho già avuto qualche esperienza così.-.
-E ora sei venuto da me.-, disse mentre prendeva posto sulla poltrona accanto a quella su cui si era accomodato l’uomo.
-Già.-, annuì lui, -Diciamo che il tuo nome è saltato fuori durante uno scambio di opinioni.-.
Era una versione estremamente purgata ed edulcorata della verità, ma se quella donna aveva intuito alcunché, non lo diede a vedere in alcun modo. Bevve qualche sorso.
“O è totalmente innocente, o talmente colpevole da saper fingere a un ottimo livello.”, pensò l’uomo mentre accarezzava con lo sguardo il corpo di lei. Dannazione, era una visione…
Lei se ne accorse, sorrise, aprendo con discrezione le cosce. Seduta davanti a lui lo fissava negli occhi, ma lasciava intendere una sicura disponibilità a qualunque eserczio amoroso.
-Capisco. E chi è che ti avrebbe parlato di me? Un mio cliente?-, chiese.
-Un uomo. Hassain Bur’ah.-, buttò lì Marduk. Era la stoccata finale: se quella donna avesse avuto a che fare col tentativo di farlo fuori non avrebbe potuto evitare di tradirsi.
-Ah, lui. Sì, mi ricordo…-, Saida parve non dare adito ad alcun coinvolgimento se non quelli squisitamente tipici della sua professione. Marduk annuì.
Fingere così sfacciatamente non era impossibile, ma era estremamente difficile…
Ed era pressché sicuro, anche osservando il resto, il modo in cui si muoveva e quello in cui parlava, che lei non stesse realisticamente fingendo.
-Ti ha parlato lui di me, quindi.-, disse lei, -Ti ha detto belle cose?-, chiese.
-È stato estremamente parco di dettagli.-, replicò Marduk.
-Immagino che ti piacerebbe averne qualcuno in più, no?-, chiese lei, sorniona, ammiccante.
Un suo piede si sfilò dalle scarpe dal tacco vertiginoso, andando a sfiorare la gamba destra dell’uomo, verso l’interno. Un gioco di seduzione che Saida non pareva voler interrompere.
-Immagini benissimo.-, sorrise lui. Il piede della nera scivolò sino alla coscia.
Lui lo accarezzò appena, sino alla caviglia, piano.
-Mi piace l’idea.-, soffiò appena lei, fremente.
Piaceva anche a Marduk. Si sforzò di ricordare che quella donna probabilmente sapeva qualcosa, ma era abbastanza sicuro che non fosse coinvolta con Bur’ah, se non per questioni relative alla sua professione.
-Quindi… che ne dici se…-, Marduk accarezzò il polpaccio della nera, dolcemente, piano.
Saida sorrise, di nuovo. Incantevole e tentatrcie a un tempo.
-Dico di sì, tesoro.-, sussurrò, -La sola domanda è quanto tempo.-.
Marduk tacque per un lungo istante. Si guardò attorno. Statuette africane su un mobile parevano fissare la sala come guardoni di mezzanotte.
-Quanto costa il paradiso?-, chiese a nessuno in particolare. Saida rise.
-Trecento Calus, se vuoi limitarti a un solo giro…-, disse. Il suo piede sfiorò appena il cavallo dei calzoni di Marduk. L’uomo emise appena un gemito. Era una tortura lenta.
-Seicento se vuoi stare di più, e comprende un massaggio lungo, rilassante, e poi un secondo giro.-, mormorò lei. Il piede tornò a solleticare zone proibite. Marduk lo intercettò con la mano. Passò un dito lungo la palma del piede. La nera sorrise appena.
-Oppure anche di più…-, sussurrò, -Ma per quello suggerirei di parlarne dopo…-.
-Un giro lo faccio sicuramente. Il poi… se possibile preferirei pianificarlo meglio in seguito.-, disse lui. Saida sorrise. Ritrasse la gamba. Si alzò. Si sedette sulle ginocchia di Marduk, un peso tutt’altro che spiacevole.
Lo baciò quasi aggressivamente, con voluttà che era alquanto difficile simulare.
Le mani di Marduk indugiarono sul quel corpo, accarezzarono seni e natiche, e s’infilarono tra le cosce inguainate dalla seta elasticizzata.
Trovarono tessuto, e calore, un umidore che non poteva certo esser frutto di alcuna finzione.
Lui sfiorò appena l’intimità di lei attraverso il tessuto. La nera lo fissò negli occhi, interompendo il bacio. Aveva uno sguardo di fuoco.
-Lo vedi come sono bagnata per te?-, chiese.
-Vedo.-, sussurrò Marduk. Si sentiva d’acciaio. Merda, l’ultima cosa che voleva era concludere prima ancora di aver copulato adeguatamente.
-Hassain ti avrà detto che sono ninfomane…-, sussurrò la nera mentre lo baciava piano.
-Ha… omesso questo particolare…-, mormorò l’uomo. Saida sorrise.
-Un errore che gli perdonerò. A patto che tu sia bravo. E non ti preoccupare: non ho nessuna malattia.-, disse lei. Marduk annuì appena. Alcune malattie sessualmente trasmissibili incutevano un giusto timore nei frequentatori di lupanare vari, ma Saida non pareva una qualunque, né economica. E questo la metteva ben al di sopra della media.
-Vuoi vedere i documenti?-, chiese lei. Se era una provocazione, era ben giocata.
Ma in sé, poteva fidarsi: Saida non era una meretrice da strada che la dava a tutti. Era selettiva, pulita e, almeno da quel che aveva potuto vedere sin lì, indipendente.
-Mi fido.-, sorrise lui.
-Allora vieni, la mia stanza è di qua. Lì staremo molto più comodi.-, commentò la donna.

Seguì quella nera venere nel suo antro. Il letto occupava gran parte della stanza, un giaciglio imperiale con un copriletto in seta. Raffinatezza notevole. Anche qui un incensiere diffondeva profumi sublimi. C’era un ritmo di percussioni, lento, ossessivo, emesso da un amplificator collegato a un riproduttore musicale Liricus. L’ultimo grido in fatto di filodiffusione.
Marduk si tolse il cappotto e la maglia. Saida sorrise vedendo il petto nudo. Indugiò un momento sulle cicatrici che portava. Non chiese.
Lui appese l’impermeabile all’appendiabiti sul muro. Aveva la pistola in una delle tasche, scarso peso e minimo ingombro. Meglio se Saida rimaneva all’oscuro della sua presenza.
E ciò significava sincerarsi che lei non avesse modo di cercarla. Forse era innocente, ma lui sapeva per esperienza che veder spuntare un arma da fuoco rendeva nervosi.
-Facciamo una doccia?-, chiese. Era una prassi rodata. Molte intrattenitrici preferivano mettere a disposizione tale possibilità ai clienti, sia prima che dopo l’amplesso.
-Volentieri!-, esclamò Saida. Lo guidò sino al bagno, dove una cabina doccia trasparente in vetro faceva bella mostra di sé. La nera estrasse una bottiglietta dal ripiano.
Luctio Oralis, una sostanza con cui ripulirsi la bocca, abbastanza aggressiva tra le altre cose.
Marduk accettò un po’ di quel composto al forte odore di mentolo, eseguendo quella pulizia mentre Saida faceva lo stesso. Poi la nera prese a spogliarsi. Piano.
Era un bel vedere, e poté solo divenire un vedere prorompentemente più bello mentre Marduk vedeva nuovi dettagli arricchire quel fisico stupendo. Tolse le mutandine con disinvoltura, rivelando la vulva già schiusa, glabra. Una statua d’ebano quasi perfetta salvo poche imperfezioni, e nessuna cicatrice che suggerisse una qualsiasi attività ad alto rischio da agente. Marduk si accorse di star sorridendo in modo ebete, a vederla.
Lei sorrise. Gli aprî i calzoni. Il sesso dell’uomo svettò in libertà.
-Mica male…-, disse. Lui sorrise, sornione. Forse lo diceva a tutti, ma era comunque bello da sentire. Spesso e volentieri dopo la malattia, Marduk si era chiesto se sarebbe mai stato in grado di avere una donna di nuovo. Per lungo tempo non aveva osato.
Ma ora… ora era stato chiamato a osare. E voleva osare. Sfiorò i seni di lei. I capezzoli erano già belli turgidi e pronti, a riprova che sulla sua eccitazione non aveva mentito.
-Doccia. Ora.-, ordinò lei, -O ti scopo qua fuori.-, minacciò.
Lui eseguì, non senza sorridere. Si trovarono insieme sotto il getto, lavandosi a vicenda.
La bocca di Marduk indugiò su quei seni notevoli, suscitando in Saida gemiti modulati. La donna rispose accarezzando il petto, le cicatrici e scendendo sino al sesso. Prese a manipolarlo. Lui dovette fermarla. Rischiava davvero di venire. Era passato tanto tempo.
E quella donna era una bomba: due dita sfiorarono il sesso della nera trovandolo aperto. Lei gliele prese. Senza semettere di baciarlo, prese a masturbarsi con le sue dita. Come se lui fosse stato solo questo, un giocattolo erotico e niente più.
La visione era comunque di un certo peso e Marduk decise di andare al sodo.
-Saida… ti voglio…-, disse in un fiato. Lei si tolse le dita dalla figa rorida e le succhiò piano.
Poi sorrise. Uscirono, si asciugarono. Tornarono all’alcova.

L’alcova li accolse. Saida baciò Marduk con tanto impeto da far impallidire molte delle amanti che l’uomo aveva avuto. Non si oppose minimamente alle carezze di lui, nemmeno a quelle più intime e presto l’uomo si accorse che gli umori della nera stavano prendendo a colare in modo non indifferente.
Non avrebbe resistito molto, tanto più che Saida pareva perfettamente intenzionata a ricambiare le sue attenzioni e di fatto sfiorava il sesso e i punti più sensibili. Sembrava capire con estrema chiarezza quando il suo partener era prossimo a perdere il controllo e si fermava o rallentava prolungando quell’agonia fantastica. Lui scese a leccarla. I suoi succhi erano dolci, dal sapore e dal profumo intenso. Stava veramente raggiungendo il limite.
-Scopami!-, ringhiò lei, con tono perentorio distendendosi sul letto mentre gemeva durante un primo orgasmo grazie a tocchi e lingua. Marduk la raggiunse.
Non ci andò piano, d’altronde Saida pareva più che pronta alla sua invasione. Le entrò dentro scivolando in una guaina calda, bollente e umida.
L’urletto strozzato della nera fu una dichiarazione di resa solo temporanea: lei lo avvinghiò a sé con le gambe, stringendolo con forza tale da fargli quasi male, per tenerlo dentro di sé più a fondo possibile. Si scambiarono baci famelici, fremendo, muovendosi in modo sincopato.
Non stavano indossando protezioni di sorta, ma sicuramente l’africana era stata previdente da premunirsi da gravidanze indesiderate.
E infine, Marduk cedette dopo pochi frenetici colpi di reni.
-Io…-, ebbe la forza di dire.
-Sborrami dentro!-, esclamò lei. Un ordine a cui lui fu felicissimo di non poter disobbedire.
Eiaculò potentemente riversando un carico di seme tra le pieghe roventi di Saida. La donna lo abbracciò con braccia e gambe, con tutta sé stessa, baciandolo in bocca con foga mentre godeva.
Infine, Marduk giacque riverso sulla schiena, la mente che si snebbiava.
Saida si alzò. Uscì un attimo. L’uomo si guardò attorno. Stanza normale. Niente di inaspettato. E nulla che potesse suggerire alcunché. Si fece forza per strapparsi a quel meraviglioso stato di assoluta quiete. Sicuramente Saida Pulchra Rea era una garanzia nel mondo dell’intrattenimento erotico. Nessun dubbio su questo.
Ma ora, doveva avere alcune risposte, e non le avrebbe avute standosene lì a indugiare nel post-amplesso. Si risolse a marciare verso la giacca. Infilò la mano nella tasca con la pistola.
Vuoto. L’arma non c’era. Impossibile: Saida era sempre rimasta con lui…
-Non una mossa, Marduk Atbash.-, disse la voce della nera. Aveva una sfumatura dura, ostile.
-Come hai fatto?-, chiese lui voltandosi piano, mani alzate.
Si trovò davanti una scena surreale. Saida Pulchra Rea, in tenuta da intrattenitrice.
“Non può essersi ricomposta così in fretta. E non può avermi sottratto la pistola:”, ragionò.
La nera era perfetta, come se non avessero mai fatto sesso. Come se tutto fosse stato un fottuto sogno. Escludendo l’ovvio, scartato l’inverosimile…
-Tu non sei Saida Pulchra Rea, oppure la donna con cui ho fatto sesso non lo era.-, disse.
-Notevole istinto, agente Atbash.-, disse la nera, la pistola di Marduk impugnata senza particolare scomodità. Era avvezza a muoversi con le armi, il che confermava che non era solo un intrattenitrice. Posto che quella donna lo fosse.
-Lieto di averti divertita.-, sibilò lui. Si guardò attorno. Nessun’arma. E la maledetta troia che lo puntava era stata purdente. Manco a parlarne di attaccarla così da vicino. Niente con cui distrarla. Si decise a stare al gioco, a prendere tempo.
-Credo, agente, che tu abbia commesso un enorme errore, una leggerezza imperdonabile da un uomo del tuo calibro e delle tue capacità. Sono delusa, ammetto. Ma non sorpresa. Hawo è brava-, disse lei, -Non a caso, è mia sorella gemella.-.
Ora tutto si spiegava. Erano due gemelle. Ciò significava che usavano gli stessi mezzi per comunicare, avevano conti e armi sullo stesso nominativo. Gemelle monozigote. Identiche.
Semplicemente perfetto. Suo malgrado, Marduk era ammirato. Tacque, stupito.
Saida, anzi Hawo come l’aveva chiamata sua sorella riapparve. Nuda, discinta, apparentemente incurante della sua nudità o del fatto che il suo cliente potesse star per venire ucciso. Realisticamente lei era l’esca. Tutto prendeva forma, almeno da quel lato.
La trappola più vecchia del mondo ma con una variabile che non sarebbe mai stato in grado di prevedere. Quante probabilità ci sarebbero state?
-L’hai mandato tu, l’assassino, vero?-, chiese Marduk all’indirizzo della gemella armata.
-Un tentativo debole. Un errore che sto pagando qui e ora. Ma poco importa: tu sei qui e da questo quartiere non uscirai. Sei solo, nessuno sa che sei qui. E come immagino saprai, noi possiamo farti sparire.-, nel tono della donna c’era solo l’ombra della sensualità della sorella.
-Posso sempre negoziare. Ho informazioni. E posso cedervele.-, tentò lui.” Guadagna tempo!”.
Ferelea sapeva di Saida. Avrebbe capito. Avrebbe mandato qualcuno. Forse.
E anche se non l’avesse fatto, lui non si sarebbe arreso, non così.
La nera armata scosse il capo mentre l’altra diceva qualcosa. Lingua rude, consonanti non arrotondate, parole gutturali. La sorella rispose nella stessa lingua.
-Mi spiace, agente Atbash. Le informazioni che hai ti verranno strappate in ogni caso. Un doppio agente è sempre pericoloso, e nel tuo caso è un pericolo che non intendo correre. A detta di Hawo sei un maschio non da ridere, e ammetto che vedere le vostre acrobazie è stato… alquanto intrigante. Ma come ho detto, tenerti vivo è un rischio che non posso permettermi.-, decretò Saida, la pistola ancora puntata al suo petto.
Marduk udì la porta aprirsi. Un nero entrò. Grosso. Più di lui e certamente più in forma.
-Jamal ti estorcerà ogni singola informazione che nascondi. Per chi lavori, i tuoi complici, le tue infrastrutture. Tutto. Poi ti farà discretamente sparire. O magari eviterai il dolore della tortura e si passerà direttamente dalla fase uno alla tre, senza bisogno di ricorrere alla tortura. Io, a parti invertite, non disdegnerei la cosa. Se parli ora, ti risparimeremo la tortura. Allora?-, chiese Saida, implacabile e fredda, distante come le stelle fisse, -Cosa sai?-.
-Io so che ti ucciderò, puttana! Tu e tua sorella gemellla!-, ringhiò Marduk.
-Davvero futile. La tua lealtà suggella il tuo destino.-, disse lei. Si scansò e Jamal si mosse, rapido. Marduk tentò di opporsi ma il grosso agì, rapdiamente, e gli immoblizzò le braccia. Gli tappò anche la bocca. Nastro adesivo. Roba da pacchi.
-Prenditi il tempo, Jamal. Il garage sei è sgombro. Non ci disturberanno. Fagli sputare tutto quel che sa. Ci rivedremo dove sai.-, ordinò Saida. Hawo fissò Marduk. Si mise provocatoriamente un dito tra le cosce, andando a lambire la vulva per poi portarselo alle labbra e leccarlo. -Peccato.-, disse soltanto. Marduk imprecò, soffocato dal nastro.
Jamal lo spinse verso l’uscita. Superarono le scale e poi uscirono in una viuzza laterale.
-Sai, sarà divertente. I Licanei sono dei gran bastardi. I miei bisnonni sono stati vessati da voi. Me la prenderò con molta calma… Ovviamente puoi sempre parlare e risparmiarti tutto.-, disse Jamal. Indossava un abito grigioverde da deserto, e impugnava una pistola.
Marduk si sforzò di ragionare, di non farsi prendere dal panico, ma non c’era molto da dire.
Era finita: a meno di un miracolo all’ultimo minuto.
Improvvisamente sentì un rumore. Uno sparo. Silenziato.
-Marduk!-, Sho-Mi, o almeno la sua voce. Pochi istanti dopo l’asiatica tagliò le fascette che legavano i polsi dell’uomo e gli strappò il nastro.
-Déi del cielo, quanto sono contento di vederti! Ti ha mandato Ferelea?-, chiese.
-No. Ma avevo saputo che stavi muovendoti in questa zona. Mi è sembrato saggio venire a controllare cosa succedeva. Quando ti ho visto entrare ho deciso di aspettare e quando ho visto che non uscivi, mi sono messa a cercare qualche indizio. Una fortuna che fossero così sicuri di sé e della loro sorveglianza….-, disse lei porgendogli la pistola.
-Quelle due troie…-, biascicò Marduk. La Justicar si tolse la cappa grigia e gliela drappeggiò addosso. Almeno ora non era più nudo come un verme…
-Sono andate, uomo. Un mezzo terrestre. Impossibile dire dove. Sicuramente hanno alle spalle qualche servizio di un certo peso. Forse l’Unio Africae, o magari gruppi di dissidenti.-, ribatté lei, -E ora dobbiamo andarcene anche noi. Non ci metteranno molto a capire che non sei dove dovresti.-.
Scivolarono lungo la via, Sho-Mi che apriva la strada e Marduk che copriva. Copertura uno su uno, roba da team consolidato, come di fatto erano stati una vita e passa prima.
Arrivarono a un marciapiede. Sho-Mi fermò un horvel di passaggio. Richiese fulminea un passaggio sino alla zona dove stava Marduk. L’uomo entrò subito dopo di lei, proprio mentre qualcuno urlava qualcosa e tutti parevano agitarsi come a un segnale convenuto.
-Vai! Vai!-, esclamò l’asiatica mentre il pilota metteva in moto bruciando probabilmente il motore nello scalare rapidamente le marce. Qualcuno urlò qualcosa, altri si lanciarono verso il mezzo che partì rapidissimo investendo un cestino dei rifiuti e facendo uscire di strada un altro veicolo.
-Merda…-, mormorò l’uomo.
-Guida, e zitto!-, gli ingiunse Marduk piantandogli la pistola in faccia.
L’uomo sbiancò.
-Questa è probabilmente stata la mia fuga più imbarazzante.-, disse.
Sho-Mi non commentò, ma Marduk avrebbe giurato di vederla sorridere.
-La prossima volta non scoparti le mogli di qualche sovversivo!-, imprecò il pilota.
Aveva una cinquantina d’anni e pareva sull’orlo della tachicardia ventricolare.
-Zitto e guida.-, sibilò Sho-Mi.

Arrivato a casa, Marduk si rimise addosso qualcosa. Sho-Mi lo fissò.
-Ne valeva la pena?-, chiese.
-Beh, sì e no. Non ho proprio fatto un buco nell’acqua: a che io abbia capito è coinvolta nell’intera faccenda anche un’altra parte.-, ammise lui. L’asiatica annuì. Lui la fissò, a disagio.
-Immagino che rivorrai il cappotto.-, disse. Lei scrollò le spalle.
-Non è che morirò senza, ma apprezzerei.-, disse, -Più che altro vorrei capire come ti muoverai. Avrai un piano, mi auguro.-.
-Per farmi da balia?-, chiese. Si pentì quasi subito del tono. L’aveva salvato.
-Scusa. Io…-, iniziò lui. Lei fece un cenno per dirgli di aspettare.
-Marduk, da quanto ho capito questa cosa è grossa. Quanto scommetti che non vedrai neanche una minima menzione alla morte di quel tizio che voleva farti a pezzetti nelle notizie di oggi? Qualunque cosa sia, è sicuramente qualcosa di grande.-, disse lei, -Chiunque ci sia dietro, non si fermerà davanti a nulla pur di poter insabbiare tutto alla svelta.-.
-Quindi tu pensi che dietro possa esserci qualche grosso servizio, magari anche dei nostri?-.
Sho-Mi si prese il tempo per valutare la situazione. Marduk andò a prendere dell’acqua. Bevve due bicchieri e ne porse uno alla Justicar che ringraziò con un cenno del capo.
-Considerando quel che mi hai detto, è una possibilità da non trascurare.-, disse.
Marduk annuì. Era stanco, anzi, esausto. Tossì. Fu come se tutti i suoi dolori fossero ricomparsi duplicati. Non era affatto una buona cosa, ma alla fine un po’ se lo era aspettato.
-Bell’affare.-, commentò lui.
-Senti, non c’è scritto da nessuna parte che devi fare tutto da solo…-, fece Sho-Mi.
-Lo so. Lo so.-, fece l’uomo, -Ma… devo. Per me.-.
-Marduk, non punirti ancora per quella cosa…-, mormorò lei. Lui non rispose.
-La malattia non fu colpa tua.-, disse Sho-Mi.
-No. Ma le mie scelte, tutte le mie scelte, mi hanno forgiato, e condotto sin qui. Non posso semplicemente mettermi da parte. Non ci riuscirei.-, rispose Marduk, truce.
-È per quel che è successo a Chin?-, chiese la Justicar a bruciapelo.
L’uomo rimase fermo, zitto. Parve quasi fissare un punto lontanissimo.
-Tu riusciresti davvero a dimenticare, Sho-Mi?-, chiese. Lei tacque.
Marduk rimase zitto, immerso nel ricordo per un lungo istante prima di costringersi a parlare.
-Devo farlo, anche per quello. Anzi soprattutto per quello.-, disse.
-Tu ci credevi negli ideali di Licanes. Ci credevi, ricordo.-, commentò lei.
-E ho visto quegli ideali, e un sacco di gente che ci credeva andare in cenere, venire disgregati, per l’averci creduto.-, mormorò l’uomo, -Non permetterò che risucceda. A nessun costo.-.
-Prima o poi troveranno quella ragazza.-, commentò Sho-Mi, cupa.
-Sì. E troveranno anche me con lei.-, disse lui. Risoluto.
Quando la Justicar se ne fu andata, Marduk si sorprese a chiedersi cosa riservasse il futuro.

Saida espirò, cercando di calmarsi. Quelle che aveva ricevuto non erano buone notizie.
Jamal era morto, ucciso da qualcuno, forse una donna stando ad alcuni testimoni.
Marduk Atbash era riuscito a sfuggirle, e soprattutto, ora sapeva di lei e di Hawo.
Una pessima notizia. La buona era che a tutti gli effetti, lei aveva piazzato alcuni uomini in diverse località nei centri abitati adiacenti.
Prima o poi, la dottoressa Ahn sarebbe rispuntata, ne era certa.
Il centro operativo provvisorio era spartano, ma funzionale. Hawo uscì dal bagno, asciugandosi i capelli con un telo. Nuda, era la perfetta riproduzione di Saida, identica.
-È scappato, vero?-, chiese lei. L’altra non rispose. Evitò di dire ciò che stava pensando, perché era fermamente convinta che imprecare sarebbe solo uno spreco di energie.
Hawo si sedette sul letto, stiracchiandosi voluttuosamente. Delle due, era forse quella più frivola e meno cerebrale, a differenza di Saida che seguiva processi logici e schemi.
Questa loro differenziazione le aveva rese un duo decisamente complementare, e quando l’Unio Africae con i suoi intenti di limitare l’influenza dei licanei nelle zone dell’Africa Sub-Sahariana le aveva reclutare, aveva tenuto conto di quesa particolarità.
Il risultato era stato un addestramento mirato, su entrambe.
Scoprire che Hawo fosse nifnomane era stata la gioia dei suoi istruttori maschi, e un’eccellente avvio alla sua carriera di copertura.
Per Saida invece il caso era diverso. Non era indifferente al sesso, né frigida. In realtà, osservare gli amplessi di sua sorella era… piacevole. Semplicemente la sua minore inclinazione però le garantiva la lucidità che a sua sorella poteva mancare e questo permetteva ad ambedue di agire in coppia, un duo perfettamente bilanciato
Erano state incaricate di ritrovare quella donna, e tutto ciò che sapeva.
Che poi dopo le ultime notizie, pareva essere divenuto un compito ben più complicato.
Ma andava bene. Si concesse di riflettere.
A dispetto di tutte le altre missioni, quella coinvolgeva sicuramente i servizi di Licanes, ma anche altre parti. Forse anche i Chin, anzi, quasi sicuramente. I suoi avevano riferito di movimenti di asiatici. Apparentemente causali, ma non troppo.
Molti, troppi predatori in quella valle…
Richiamò sul palmare la foto della Ahn.
“Perché sei fuggita?”, chiese. Concretamente aveva accesso a risorse, a trattamenti da privilegiata. Eppure aveva buttato tutto alle ortiche ed era scappata.
Per mero scrupolo di coscienza? O c’era altro?
Ci doveva essere un motivo. Aveva richiesto altre info, ma i suoi superiori erano stati parchi di risposte. Volevano mantenere il riserbo più stretto? O magari neppure loro sapevano…
Saida intuiva che c’era dell’altro, ma non riusciva a vederlo con chiarezza.
-Vado a fare la doccia.-, disse ad Hawo. La sorella annuì appena., lo sguardo perso nel vuoto.
Quando faceva quello sguardo, Saida sapeva a cosa poteva star pensando.
-Difficilmente lo rivedrai.-, disse a beneficio di chiarezza futura. L’altra annuì.
-Lo so.-, rispose. Pareva comunque sperarci. Saida si rese conto che forse avrebbe dovuto essere più dura con lei, ma semplicemente non riusciva. Era la sola persona rimastale, la sola costante di una vita di eterne variabili.
“Se solamente non fosse così dannatamente sentimentale…”, pensò.
Non era priva di disciplina, Hawo, ma aveva un’animo romantico, qualcosa che Saida non possedeva assolutamente. Pragmatismo era la sua parola d’ordine.
Si spogliò rapidamente e s’infilò in doccia. Trovare Ahn stava rivelandosi complesso, dispendioso in termini di risorse, e infinitamente più interessante di quanto aveva inizialmente supposto sarebbe potuto essere.

I documenti erano perfetti. Marduk li esaminò tre volte poi annuì. Ferelea annuì a sua volta.
-Licius ha lasciato detto che vuol’essere informato e bla bla bla…-, l’informatrice pareva infastidita almeno quanto lui. L’uomo non si diede pena.
-Avrà le sue informazioni. A tempo debito. Mi pareva di essere stato chiaro.-, disse.
Beh, probabilmente non lo era stato per quell’individuo. Ma d’altronde, non gli importava davvero. Ferelea sorrise, enigmatica.
-Sai, comincio a capire perché disprezzi tanto quelli come lui.-, ammise.
-Già. Sono odiosi. Forse lo sono anche io, a mio modo.-, riconobbe lui.
-Beh, se lo sei onestamente posso dire di preferirti.-, concluse lei con un sorriso.
-A proposito. L’hai poi trovata? Saida?-, chiese Ferelea. Marduk scrollò le spalle.
-Più o meno. Diciamo che ci ho preso: era connessa con i servizi africani, ma non riesco a inquadrare con esattezza se Unio Africae o il Legio Africana Libertas, o altri ancora….-, disse.
-Immagino che sia fuggita.-, commentò Ferelea.
-Cos’altro ti ha detto Sho-Mi?-, chiese Marduk. L’informatrice si strinse nelle spalle.
-Poco. In realtà, non è importante.-, disse.
-Come preferisci.-, annuì lui, -Allora, altro da chiedere?-.
-Lo chiedo a te: ti serve un rifugio, armi… qualsiasi cosa?-, chiese lei. Lui scosse il capo.
Aveva già le sue contromisure sul territorio.
-Ti contatterò quando l’avrò in custodia.-, disse mentre usciva.

Rimasta sola, Ferelea si concesse un sospiro.
Marduk era lanciato, ma a preoccuparla era quel che lui non stava dicendo.
-Non si fida neppure di me.-, disse a nessuno in particolare. Si appoggiò il capo alla mano destra, concedendosi per un istante di avvertire una punta di scoramento.
-Tutta questa faccenda è un fottuto incubo.-, sospirò, -Chin, gli africani, i nostri… Tutti contro tutti e nessuno che abbia la minima voglia di rispettare delle regole… E Marduk dovrebbe riusicre a riportarci Ahn, e magari anche il resto…? Più probabile dovergli preparare un sepolcro vuoto e le libagioni a Yneas e alla Dea Madre…-.
Si alzò. Aveva tempo. Almeno due ore prima del prossimo incontro. Andò verso il suo appartamento. Un modulo abitativo essenziale, funzionale e privo di fronzoli.
D’altronde quello, per lei era un ambiente di lavoro.
Spogliarsi, infilarsi sotto il getto, appoggiarsi alla parete, chiudere gli occhi, lasciare che l’acqua calda si portasse via le tensioni, lavarsi, anche un po’ rimpiangendo il tocco di qualcuno… Desiderandolo, ma senza cedere alla tentazione dell’autoerotismo…
Un rito, quasi. Uscì dalla doccia. Si concesse di far passare un istante prima di rivestirsi.
Uno di troppo: una voce la fece sobbalzare facendole perdere qualche battito cardiaco.
-Un gioco pericoloso, Antonia Livia Svea.-, disse la voce. Era la voce della figura velata.
Ferelea si volse verso la figura emersa dalle ombre. Come fosse riuscita a superare guardie e sistemi di sicurezza era un autentico mistero. Come fosse riuscita ad arrivare in quell’angolo del suo spazio da bagno e per quanto vi fosse stata, erano parimenti misteri.
Molti, torppi misteri. Ferelea fissò la figura, con ira mista a paura, il tutto mescolato a un eccitazione che le faceva onestamente rimpiangere il non essere rimasta un po’ di più in doccia. Magari la figura era entrata prima che lei folle arrivata lì a lavarsi…
L’idea le provocò un brivido tutt’altro che timoroso.
-Quello che stiamo facendo è un gioco letale.-, disse la figura, -E se i tuoi rimorsi di coscienza t’impediscono di andare sino in fondo… allora dovrò trovare qualcuno che non ne abbia.-.
-No… io… so cosa devo fare. È che…-, iniziò lei.
-È che hai ancora una coscienza. Un grave errore, Antonia.-, usava il suo vero nome come uno stiletto. Quello e le parole soppesate, centellinate, riuscirono già nell’impresa di agitarla.
-La coscienza è un mero orpello. Un lusso che non possiamo permetterci.-, disse la figura.
-Lo so… io… so cosa devo fare!-, esclamò lei.
-Allora dillo. Cosa devi fare?-, chiese la figura. Si era avvicinata. Ferelea lasciò cadere le bracia lungo i fianchi. Esposta, indifesa. Tacque per un lungo istante.
-Tabula rasa.-, sussurrò infine. La figura taceva. In attesa d’altro? No. Almeno, lei non credeva.
-Esattamente.-, disse la figura, -E Marduk è solo uno strumento. Una pedina. Te l’ho già detto: abituati a vederlo così, oppure non mi servirai a niente.-.
-No… io… lui è solo un oggetto, un’essere senza altro scopo che i nostri piani…-, mormorò Ferelea. Una parte di lei concordava assolutamente la figura, anche spronata dal personaggio che si era creata. Amazzone del Kelreas. Fiera, indipendente e tutt’altro che bisognosa degli uomini se non per il suo piacere.
Ma un’altra parte di lei, una che in quel momento era silente e che nondimeno lei sapeva esistere e riemergere, dissentiva.
La figura si avvicinò ancora. Posò una mano sul petto della donna, esattamente poco sopra i seni. La fissò, il vuoto nero sotto il cappuccio che pareva risucchiare l’attenzione, forse anche l’anima. Poi emise un rumore. Un ridolio, una risatina beffarda.
-Ti batte il cuore come se avessi corso una maratona… O visto uno spettro.-, disse.
-Sei tu… tu che entri senza invito né preavviso! Tu che continui a violare, a travalicare!-, ringhiô Ferelea in un raro e temerario slancio di rabbia. La figura la fissò, lei ne ebbe l’assoluta, totale consapevolezza. Stava venendo sondata sin nell’animo, se lo sentiva.
Non riuscì a sollevare lo sguardo dalla mano della figura, una mano guantata di lattice nero.
La stessa mano si spostò, andando a ghermire a coppa uno dei seni di Antonia. Strinse.
Le strappò un gemito. Rilasciò la stretta mentre l’altra mano alzava il viso di Ferelea, a incontrare occhi che non poteva vedere.
-E tu, continui a esitare. Ti ho offerto tutto. Potere, contatti, uno scopo. Eppure…-, nella voce della figura ora c’era delusione, pura. Era acida per le orecchie, orribile a udirsi. Ferelea fece per parlare. La stretta sulla tetta aumentò, spegnendole la voce in un mugulio.
-… continui a non capire.-, concluse la voce passando dalla delusione all’assoluta assenza di emozioni percettibili, -Ma forse ciò che ti serve è solo uno sfogo, vero? Nella miglior tradizione del Kelreas che tanto idolatri, magari…-.
Ferelea si accorse di star trattenendo il fiato, il cuore che continuava a pompare, follemente.
-Forse è questo che ti manca. Ma a questo c’è rimedio.-, concluse la figura.
-Io…-, L’informatrice non riuscì a continuare. Un dito le si posò sulle labbra. Imposizione.
-Silenzio. Ora chiudi gli occhi e taci. Se sbircerai anche solo un istante, ti ucciderò qui e ora.-.
Lei eseguì. Chiuse gli occhi. Sentì rumori. Cuoio? Tessuti che si spostavano.
Una parte di lei si domandò se finalmente, dopo una collaborazione di cinque anni circa, stesse per vedere in viso quella figura velata.
Poi delle labbra si appoggiarono alle sue. Non fu un bacio, fu una rivendicazione: le labbra forzarono le sue, aprendo la strada a una lingua talmente invadente da far pensare più a un divorarsi che a un bacio. La mano che prima le aveva imposto il silenzio le strinse la nuca, spingendole la testa contro la bocca.
Non c’era nulla in quel baco che trovasse ripugnante. E accettava pure di sottomettersi.
Era una schiava di un’entità che pareva quasi inumana.
L’altra mano, quella che le ghermiva le tette, giocava ancora coi capezzoli. Ferelea mosse le sue mani, accarezzò un corpo che pareva privo di qualunque attributo sessuale: non sentiva né seni né un pene. Un’inquietante nulla che stemperava l’eccitazione nell’assoluta perplessità e nella totale consapevolezza di non avere la minima idea di cosa fare o come farlo per compiacere quel partner tanto singolare.
Il bocca a bocca era divenuto una sotta tra lingue. Quando la figura ruppe il bacio, l’informatrice inspirò rumorosamente, con avidità.
Non ebbe neppure il tempo di parlare: la mano sulla nuca le impose di ricominciare.
“Ah, ti piace baciarmi, eh?”, si disse, “Allora…”.
Incominciò a rispondere al bacio, con la bocca, la lingua e anche il corpo, aderendo alla figura, provocandola. Solitamente non lasciava indifferente nessuno dei suoi amanti.
Trasalì quando sentì un dito lambirle il clitoride con precisione crudele, un tocco talmente accennato da apparire un sogno, ma così reale da far male.
Il dito se ne andò, scivolando lungo la coscia destra e poi staccandosi da lei. Ferelea mugolò un lamento inintelleggibile. Respirava ancora col naso. La figura si staccò. Lei inspirò.
Una boccata d’aria che tentò di usare per chiedere, per supplicare. Le fu negato: la mano le impose nuovamente il bacio.
Tra le sue gambe, la mano guantata accarezza, sonda. Ferelea sa di star bagnandosi, ma sente anche altro ora. Sulle dita c’è qualcosa. Una sostanza che viene spalmata piano con tocchi lenti, sapienti, sulla sua intimità nei punti più sensibili.
Vorrebbe guardare, ma sa che vorrebbe dire morire. Il respiro successivo le pare una grazia celeste da un dio parsimonioso di generosità. Emette appena un “Cos..?” che subito le labbra della figura riprendono ad assediare la sua bocca come se non l’avessero mai fatto.
E tra le cosce, Ferelea sentì calore. Lento. Si mise a mugolare mentre le dita guantate toccavano, sfioravano e improvvisamente sentì umido, un senso d’umidore prepotente. Uno spasmo di piacere la fece inarcare contro la figura che non pareva intenzionata a darle tregua.
Sentiva la vulva puslare, i capezzoli turgidi, era eccitata come non le era mai successo.
E quel che la spaventava era che quell’eccitazione immane era dovuta a un’essere che non pareva minimamente curarsi del suo stato, si limitava a infliggerle quel godimento come una serie di dolcissime scudisciate che le impedivano anche solo di pensare…
Un secondo spasmo di piacere la portò a eiaculare smegma sulle cosce, sentì proprio la fuoriuscita di liquidi da dentro di sé con un gemito che si spense nella bocca della figura.
Il cuore le batteva così maledettamente forte, il respiro era accelerato tanto che le pause imposte nel loro bacio la lasciavano in debito di ossigeno.
E la figa le pareva andasse a fuoco: i tocchi della mano guantata parevano passare da sporadici e quasi casuali a prolungati e impietosi, senza misericordia né avvisi.
Improvvisamente, avvertì un dito entrarle dentro, scivolare tra le sue pieghe con facilità.
Fremette, strappandosi al bocca a bocca e, invece che respirare, emise un urlo strozzato mentre il dito faceva avanti e indietro, impietoso, meccanico, ritmicamente diretto come un metronomo. Poi ne entrarono due. Ferelea cercò di controllarsi, ma non ci riuscì.
Avvertì il godimento montarle dentro come un’onda che dalla sua vulva si propagava sino alle proppaggini del suo essere, dalla testa ai piedi. Si accorse di star muovendo il bacino ritmicamente contro quel dito, come fosse stato il sesso di un amante, mai sazia di averlo dentro. Si abbracciò alla figura con ambo le braccia, sfruttando lo slancio del bacino per avvinghiarla con le gambe. Si strappò al bacio quando le fu dato.
-Io…-, esalò. Era a corto di fiato tanto da sapere che parlare sarebbe stato impossibile, o quasi, ma la figura non parve curarsene.
-Zitta. E godi.-, impose con tono inumanamente neutro. Il dito le stava pompando dentro, scavandole nell’intimità fino alla cervice e…
La figura glielo girò dentro, andando a stimolare con precisione assoluta un punto sensibilissimo sul canale anteriore della vulva. L’universo mentale di Ferelea, già minato dal piacere, subì il tracollo finale. Si strappò al bacio con forza e urlò il proprio piacere inarcandosi contro la figura, come una supplicante a qualche dio debosciato contro un idolo in pietra, la vulva che pulsava ritmicamente, e le sue secrezioni di piacere che uscivano a schizzi come fosse stata un uomo a star godendo.
La mano che le aveva artigliato la nuca le strinse i capelli castano-ramati imponendole di ribaltare il capo all’indietro mentre l’altra mano continuava a penetrarla con spietata noncuranza dell’incomparabile godimento a cui l’informatrice stava soccombendo.
Con un gemito finale, Ferelea sentì lacrime sorgerle dagli occhi. Stava piangendo dal piacere.
Era semplicemente troppo. Le venne da temere di morire. Il suo cuore batteva senza la benché minima intenzione di stabilizzarsi. E la figura continuava, non paga, mai paga.
“Dea, vuole la mia morte?!”, si chiese con timore. Le dita continuavano, la bocca continuava.
In un ultimo, esiguo lampo di lucidità, Ferelea notò che la figura aveva solo dato piacere a lei, in un modo totale, completamente incurante del proprio.
Poi, in perfetta coincidenza con un ultimo, profondo affondo nella sua intimità da parte delle dita della figura in nero, l’informatrice si inarcò sotto un godimento tale da essere doloroso.
E le terminazioni nervose staccarono i contatti. Scivolò nel buio.

Lie Nu odiava quell’incarico. Aveva la netta, assoluta percezione di essere stata esclusa dall’azione per espressa volontà di Chien. Il timore che potesse anteporre la vendetta al suo dovere l’aveva vista estromessa dal fulcro dell’azione, eppure ciò non significava che non potesse in qualche modo rifarsi. O avvicinarsi a Marduk vendicandosene in altri modi.
-Il pacco è al sicuro.-, disse mentre osservava il corriere portarlo via. Sarebbe arrivato a Fou-li e poi da lì alla Capitale. Il suo solo compito era stato fare da osservatrice.
-Eccellente lavoro, agente Nu.-, disse una voce maschile. Non Chien, ma uno dei suoi.
Sun Di. Un burocrate imbrattacarte privo di ogni talento e un raccomandato che aveva fatto carriera solo grazie a qualche buona conoscenza. Lie odiava quel genere di persone.
Lei era sorta dal nulla: figlia di contadini ed espressamente povera, aveva scalato i ranghi con impegno e dedizione. Uno come Sun Di invece aveva tutto quel che voleva e anche di più.
Era semplicemente intollerabile. Tanto quanto l’impossibilità di arrivare a Marduk.
Ma quell’impossibilità era dettata solo dagli ordini di Chien, e quelli riguardavano lei, non altri.
-Rientrerò alla base a breve.-, disse.
-Motivo del ritardo, Nu?-, chiese Sun Di.
-Niente nomi in chiaro su questa frequenza!-, sbottò lei, -Devo assicurarmi che non ci siano code.-, disse infine a mezza voce. Code. Pedinamenti. Non ce n’erano, ma ovviamente questo Sun DI non poteva saperlo. Lei sorrise quando lui diede il nullaosta.
Scivolò tra i bassifondi della città, c’erano un paio di squallidi negozi e poco distante un bordello neanche troppo discreto. La città di Lordromea era squallida in un modo particolare.
Il puzzo di cibo da strada, cibo licaneo che lei aveva sempre visto come insalubre, la investì.
Tenne duro. Raggiunse un bar. Entrò e si sedette al tavolo. Vide il suo contatto che presto la raggiunse.
-Alla buon’ora.-, disse questi.
-Hai quel che ti ho chiesto?-, domandò lei, secca.
-Ovviamente. Ma tu hai da pagarlo? Non costa poco.-, replicò lui. Lei estrasse una tessera.
Crediti al portatore. Roba non tracciabile. Fondi neri che aveva sottratto a Sun Di.
Tanto quell’idiota non se ne sarebbe accorto tanto in fretta. E comunque, era talmente pieno di transazioni finanziarie che una in più o una in meno non gli avrebbero realisticamente cambiato la vita. La corruzione nei servizi di Chin era talmente radicata da essere patologica.
Per Lie Nu, andava bene. Mostrò una foto sul palmare. Immagine di dossier.
-Marduk Atbash.-, disse.
-Capisco. Vivo o morto?-, chiese l’uomo.
-Morto, molto morto. Devi portarmi la prova che è deceduto. Non una foto, voglio la sua testa.-, charì lei con rabbia.
-Ti costerà un extra.-, sibilò lui, per nulla impressionato dal suo odio. Era un tizio brizzolato, muscoli ancora possenti, sguardo solo vagamente annacquato dall’alcool.
Eppure era uno dei veterani della Battaglia di Jien Xe, quando le forze Chin avevano spezzato tre divisioni licanee. Una morsa letale da cui un pugno di uomini era riuscito a uscire.
Tra i quali lui. Lie Nu sorrise.
-Avrai il tuo extra. E se fai un buon lavoro, forse anche di più.-, disse.
Non aveva il bencheminimo proposito di avanzare proposte a sfondo sessuale, ma il sorriso del mercenario le fece capire che doveva aver inteso proprio quello. Sarebbe rimasto deluso.
-Sarà morto tra due giorni.-, disse lui alzandosi e intascando le carte.
-Non ti serve?-, chiese lei passandogli un’immagine stampata del volto di Marduk.
-Oh, no. Lo conosco. Era a Zhoughanzuou.-, disse l’uomo.
Zhoughanzuou. Lie Nu annuì. Conosceva. Sapeva. Poco prima di Mons Vetera.
La Confederatio e i Chin si erano dissanguati in quella guerra, ma la pace rischiava di ammorbare tutto quanto, di trasformare l’eroismo in mito, il marciume in virtù.
Chien Lie non era diverso: Marduk era il nemico. Lui aveva preferito dimenticare.
Lei non l’avrebbe permesso. Si alzò. Uscì.
-Nessuna coda. Rientro.-, disse.
-Affermativo.-, rispose Sun Di, beatamente ignaro.
Lie Nu sorrise dentro di sé. Presto Marduk sarebbe morto. Un vero peccato che non sarebbe accaduto per mano sua. Ma una volta di ritorno alla stazione, scoprì che un gruppo di tre agenti si era già mosso. Verso una località poco distante. La caccia continuava.

Riprendendo i sensi, Ferelea si accorse di essere nuda. Non sul pavimento del bagno, ma a letto. Il flashback del godimento le arrivò addosso come un treno a levitazione magnetica.
Era stata la scopata più fottutamente epica della sua vita, ma non era stata una scopata, solo una masturbazione con qualche aggiunta eseguita in modo magistrale.
Sentiva la vulva bruciare. Andò a pisciare. Dolore. Fastidio. L’eccitante aveva finito il suo effetto. E ovviamente, della figura in nero, manco l’ombra.
Almeno aveva avuto la galanteria di metterla a letto dopo che era collassata…
Galanteria che lei non aveva potuto ricambiare. Un gran peccato: dopo una simile esperienza, era più che propensa a succhiare il cazzo o a leccare la fica di quell’individuo misterioso.
Il non saperne il genere non le aveva impedito di stringere un legame unilaterale di beneficio.
Le informazioni quella persona erano spaventosamente accurate, le ipotesi quasi sempre esatte, e le avevano permesso di arrivare in alto, molto in alto, nel sottobosco criminale della Confederatio. Ma di questo, nessuno sapeva nulla, o quasi. Solo Licius, che peraltro appariva tremendamente ignaro di retroscena e possibili conseguenze di qualsivoglia sua idiozia.
“Bambini che giocano con armi a raggi…”, pensò lei mentre si lavava nuovamente.
Licius era bellamente inconsapevole della situazione. La figura in nero no.
E questo era ciò che spaventava davvero Ferelea.

Nonostante tutto, Marduk non si era sbagliato.
Ruamaillia, una cittadina provinciale con pochi abitanti rispetto alla media europea e in quella zona. Un luogo anonimo. Perfetto per sparire. Minah Ahn aveva scelto bene.
Ma Marduk non si faceva illusioni: non era certamente l’unico ad aver capito dove fosse la donna. L’essersi tinto la barba di biondo non l’avrebbe reso invisibile e l’essersi rasato i capelli alla maniera dei sacerdoti e dei monaci, ancor meno.
Era ancora tristemente riconoscibile, ma non si faceva illusioni.
I suoi nemici lo avrebbero trovato ugualmente. Si rendeva ben conto di quello.
Si rendeva conto anche del resto. Di essere rientrato nel cerchio rosso del destino da cui aveva tentato di sfuggire quando, anni prima, aveva mollato i Justicarii.
Eccolo lì. Il Justicar fallito. Se n’era andato dopo lunghi colloqui con i suoi mentori, prima che l’Ordine si desse definitvamente alla macchia scomparendo dalla Storia.
Se n’era andato dall’Ordine perché non condivideva la decisione che avevano preso, pur comprendendone la ragione. Non era stato l’unico. Anche Sho-Mi era rimasta indietro.
Anche altri magari erano rimasti, ma Marduk non li aveva mai cercati. Si era dedicato a una carriera come agente, risolutore di problemi tutt’altro che piacevoli e infine, quando la guerra con Chin si era incendiata come un rogo forestale, aveva proceduto a servire nell’esercito della Confederatio.
Il resto era stato un autentico carosello di orrori, una discesa nel peggior girone degli inferni mai concepiti dall’umana immaginazione, una tale quantità di viscerali scorci di follia e violenza da lasciarlo ancora incapace di concepire anche solo lontanamente la normalità.
E poi, dopo la guerra, quasi a bella posta, era arrivata la malattia.
Era durata mesi, l’aveva prosciugato di tutte le sue forze residue. L’aveva quasi ucciso.
Sicuramente, aveva ucciso il vecchio Marduk Atbash.
Quel che rimaneva era lui. Lui che agognava riavere il vigore della sua vecchia vita, lui che si ostinava come uno stupido bufalo da traino a continuare a percorrere una strada in salita di giorno in giorno sempre più impervia.
Eppure non riusciva ad arrendersi. Non era nella sua natura. E di occasioni ne aveva avute…
Tornò a concentrarsi. Entrare al Banatleus e chiedere di Seravia, quello era quel che doveva fare, altro che rimpiangere scelte fatte e roba simile.
Proseguì verso il locale. Ignorando di essere seguito.

-È ad Al-Ruamali.-, disse la nera. Era una bella donna, ma senza essere esteticamente perfetta. Lei e il suo compagno erano i due agenti che l’Unio Africae aveva piazzato in zona.
-Ricevuto. Vi mando qualcuno.-, all’altro capo della linea, Saida annuì. Tutto come previsto.
-Hawo?-, chiese. La gemella annuì. Pronta. Nonostante l’abito tutt’altro che discreto, pareva totalmente concentrata sul suo compito. Non erano lontanissime dalla città.
-Sai cosa devi fare.-, disse Saida porgendole la pistola. Hawo la prese. Nessuna esitazione.
-Lo so.-, disse, -Tu hai trovato qualcosa?-.
-Sì. Ma questo mi fa solo sorgere altre domande.-, rispose la sorella, stringendosi nelle spalle.
Hawo assunse un espressione interrogativa ma Saida non disse altro.
Dopo che la gemella fu uscita per svolgere il suo incarico, Saida tornò alla scrivania. Riprese in mano il localizzatore. Piccolo, discreto, ma attualmente quasi impossibile da distinguere dagli altri componenti della pistola smontata.
Eppure c’era. Marduk Atbash era tenuto sotto sorveglianza. Da chi? E soprattutto, lo sapeva?
Se lo chiese senza trovare risposta.

– Ruamaillia. Individuato bersaglio.-, riferì Hong Po. Il vietnamita era uno degli agenti minori di Chien, che in realtà lo considerava sacrificabile. Eppure era un buon elmento: capacità marziali di buon livello e discrete abilità sul campo. Un agente sacrificabile insieme alla sua cellula. Chien Lie sorrise.
-Ricevuto. Procedi.-, ordinò. Poi si risolse a chiudere la comunicazione e aprirne una seconda, esattamente cinque minuti dopo.
Numero criptato da comunicatore irrintracciabile. Mezzi messi a disposizione dal suo demone personale. Da quell’essere che l’aveva colto in un momento di suprema debolezza.
Da allora, neppure le mani di Ji Xie erano riuscita a placare i suoi timori. Stava giocando una partita pericolosissima. Se il Celeste avesse scoperto il suo doppio gioco l’avrebbe sottoposto certamente al Supplizio della Goccia. E se invece a farlo fosse stato quell’individuo in nero… Beh, a quel punto non aveva motivo di credere che le cose sarebbero andate in modo diverso. E poi c’era Lie Nu. Davvero non si era resa conto che lui aveva notato la sua frustrazione? Davvero non vedeva? Chien sospirò. Poi aprì la comunicazione.
– Ruamaillia. Atbash è lì.-, disse.
-Lo so.-, rispose lo spettro. Chien provò timore. Le informazioni inutili non erano mai ben viste. Doveva parlare. Anche a costo di sacrificare i suoi stessi gregari.
Ma era vero che aveva altre risorse. Le avrebbe attivate.
-Ho sul posto una squadra. Vietnamiti. Tre uomini. Non potrò fermarli.-, aggiunse
-Non ti è chiesto farlo.-, replicò la voce neutra. Totale assenza di emozioni.
Chien seppe che Hong e i suoi erano già morti senza neppure saperlo.

Licius odiava le complicazioni, ma amava trovare modi rapidi per risolverle.
-Ha capito, agente?-, chiese all’uomo in collegamento via palmare.
-Ho capito signore.-, disse la voce dell’uomo. Gannicus Vaian. Un uomo tutto d’un pezzo.
Un licaneo, soprattutto, che poteva vantare una discendenza che affondava le proprie radici ai primordi dell’Impero. Un uomo quindi di cui potersi fidare, non un qualsiasi mercenario.
-Licanes, semper.-, disse Licius.
-Licanes, sempre.-, annuì l’altro. Comunicazione chiusa. Licius sorrise.
Col tempo, tutti avrebbero capito l’errore fatto in passato. L’errore di Calus, di Aristarda Nera.
La Confederatio Licanea era un’utopia impossibile, il sogno febbrile di anime stanche del sangue versato, e ora mostrava tutta la sua vulnerabilità. Serviva un Imperator, serviva un Impero. I barbari in esso avrebbero avuto ruoli adeguati. Sarebbero stati contenuti, vagliati e ricompensati per i loro servigi. Ma non sarebbero mai, mai dovuti ritenersi uguali ai Romanei puri. Il loro ruolo sarebbe sempre stato quello di ausiliari, di servitori.
L’Impero necessitava di uomini capaci di comprendere quella verità. Licius lo era.

Il gruppo da fuoco era di tre elementi. Due da infiltrazione e una cecchina.
La tiratrice, Malcavia, prese posizione su uno dei tetti. Una buona base di tiro sull’uscita posteriore del Banatleus. Il gruppo aveva saputo della direzione di Marduk da alcune info date loro da Lie Nu, attraverso la rete cinese.
Un perfetto gioco a incastro. Armarro, il secondo uomo che sarebbe entrato, sorrise.
Amava quella situazione. Esattamente come il loro leader. L’uomo di Lie Nu, certo, ma prima ancora un mastino della guerra. Un veterano capace.
Pacuvio Sinodeo. Era stato a lungo un soldato della Confederatio finché non aveva disertato per i Chin, salvo poi fare il triplo gioco per alcuni signori della guerra dell’area sarmatica.
Fare il mercenario pagava molto di più, per lui. E non richiedeva di piegarsi a regole morali.
Era fermamente convinto che avrebbero potuto trionfare, sottomettere Chin se solo avessero osato evitare di spacciarsi per i buoni che non erano.
Solo gli idioti combattevano guerre a metà: il solo metro con cui misurare la vittoria per lui era lo sterminio del nemico. E quest’ottica non era mai cambiata, né mentre era con i licanei, né mentre serviva Chin, né tutt’ora.

L’alloggio che Marduk aveva preso era spartano, minimale.
Contattò Ferelea. Poche info, pochissimo da dire. Non intendeva compromettersi.
Cena rapida, roba leggera. Doccia. Ignorò la tosse e i dolori vari.
La malattia stava rialzando la testa. Inutile negarlo. Magari per ora poteva ignorare tutto ciò, sopprimerlo concentrandosi su altro, ma la verità era quella.
Si mosse verso il locale dopo essersi vestito. Elegante, ma non senza un certo grado di protezione. Sperava non fosse necessaria ma non si faceva illusioni, non davvero.
Se tutto fosse andato come da copione, vi avrebbe trovato Minah Ahn, e le risposte che cercava.

Malcavia sospirò. Il bersaglio era arrivato? Stando ai suoi dentro, ancora no.
Davvero una serata di merda, ecco cosa ne pensava: ore bruciate ad aspettare mentre i suoi amici si godevano tutta l’azione di una bella sparatoria. Andava sempre così.
Strinse la presa sul Lens Magnarius, un fucile laser ad alta precisione, capace di trapassare bersagli fino a seicento metri. Sulle lunghe gittate, armi così erano molto più efficienti e affidabili di quelle a munizioni solide.
Con i soldi di quel lavoro si sarebbe concessa una vacanza alle Islae Giudeccae, divenute ormai uno stato a sé nella Confederatio. Un autentico paradiso dove la linea tra legale e illegale sfocava in modo molto più discreto. Per il giusto prezzo laggiù, tutto poteva essere comprato… E lei aveva qualche idea.
Un rumore dietro di sé la fece girare, abbandonando alla svelta i sogni a occhi aperti. Ci provò, a completare il movimento ma fallì: mani ben forti le bloccarono la testa mentre un ginocchio le si piantava nella schiena. La torsione che le spezzò il collo fu subitanea.
L’ultima cosa che vide fu una mano guantata in nero prenderle il fucile.

Forse la cosa più peculiare del Banatleus era la sobrietà.
L’esterno era elegante, discreto, e di norma ci si sarebbe potuto aspettare che l’interno fosse caotico, con musica assordante e atmosfera da baccanale.
No: Marduk notò con immenso piacere che non era così.
L’interno era sobrio: un lungo piano bar con ben tre baristi vestiti in abiti decisamente eleganti che separva due piazze intervallate da divanetti e tavolini, triclini e sedie.
Marduk sorrise, quasi ebete. Era un locale diverso da come se l’era immagnato.
La domanda era se Minah era effettivamente lì.

Hong Po sfilò la lama dal collo dell’agente di sicurezza. Non erano venuti a fare regali.
Lasciò che Dien si occupasse di nascondere l’omicidio e fece segnò a Rhan di entrare attraverso l’ingresso secondario di cui avevano le chiavi.
Il piano era semplicissimo: entrare, prendere Minah, uscire.
Vittime collaterali? Inevitabili, realisticamente, ma non gli importava. C’era troppo in gioco.

La donna che aveva davanti era bella. Anzi, di più. Pelle scura, africana, viso molto piacevole, fronte bombata, corpo da urlo e vestito decisamente molto sexy… Dietro di lei, altri due africani, due uomini, aspettavano che lui si muovesse, non senza cenni d’impazienza.
Ma Algarius, umile impiegato all’accoglienza del Banatleus, non intendeva privarsi di quella grazia, anzi, intendeva sfruttarla per cercare di fare colpo su quella bellezza nera.
-Mi perdoni, sono rimasto ammaliato dalla sua bellezza…-, disse. La nera lo fissò.
-Ha finito?-, chiese con un sorriso ma con una nota d’impazienza.
-Certamente! È un piacere averla con noi, signorina…-, iniziò lui mentre le dava il resto dell’ingresso, un totale di trenta Calus comprendenti bibita e accesso alle sale.
Il Banatleus era diverse cose: una casa di piacere, un bar, un luogo d’incontro, tutto insieme.
E quell’erotica visione aveva scelto di venirci proprio in quella sera, quando lui era di turno!
Algarius benedisse la propria fortuna. Si aspettò un nome, un qualcosa, ma la bellissima ospite si limitò a prendere il resto e superarlo con appena un cenno di saluto.
Dopo aver fatto entrare anche i due, Algarius fu ripreso dal capo, che gli ingiunse di andarsene alla svelta, vista la magra figura e l’attesa che i due ospiti avevano dovuto subire.
Il Banatleus si fregiava di professionalità ed efficienza, ciò che Algarius non aveva dimostrato di possedere. Il giovane sospirò. Era un licenziamento bello e buono.
Solo dopo alcune ore, avrebbe capito quanto era stato realmente fortunato.

Hawo sorrise scendendo nella sala. Era un ritrovo decisamente ben organizzato, ma la nera non era lì per godersi la serata e accalappiare qualche amante occasionale, anche se in tal senso l’offerta c’era. Magari dopo l’azione… Sorrise individuando il bersaglio.
Anche con la barba tinta, il viso di profilo di Marduk era indentificabilissimo.
Il ricordo del loro breve tempo insieme le invase la mente, trasmettendole appena un brivido.
Si riscosse: non era il momento. Un peccato, probabilmente avrebbe dovuto ucciderlo.
-Ore dieci.-, mormorò all’auricolare che aveva nascosto in un’orecchino.
-Ricevuto.-, confermò Asmac, il suo secondo. Moussa, il suo altro gregario, non parlò.
-Non ingaggiamo finché la ragazza non compare.-, disse Hawo.
-Come sai che è qui?-, chiese Moussa. La donna non rispose. Lei non lo sapeva.
Saida lo sapeva. Era stata sua l’idea che Marduk sapesse qualcosa. L’aveva capito estrapolando la deduzione da alcune notizie giunte sottobanco, sparatorie tra Marduk e dei Praefecti, e a detta di qualcuno, una ragazza in fuga.
Era logico pensare che avessero parlato, no? Per Hawo non proprio, ma Saida ne era convintissima e la nera sapeva bene che l’intuito della sua gemella raramente sbagliava.
-Lo so.-, rispose infine, certa.
-E se non c’è?-, chiese Asmac. Hawo su quel punto non aveva dubbi, e che quei due non sapessero che lei non fosse Saida era ininfluente.
-Usate l’immaginazione.-, sibilò con un ghigno.

Gannicus entrò nel locale a passo lento. Individuò alcuni gruppetti, gente che chiaccherava più e meno. I suoi lo seguirono, tenendo d’occhio gli angoli.
-Uno della sicurezza del locale non risponde.-, riferì uno dei suoi.
Bizzarro, e allarmante. Gannicus decise, rapido.
-Geta, Arus, verificate.-, ordinò.
I due gregari annuirono. Erano rimasti all’esterno, ma non erano tutta la sua retroguardia.
“Un buon generale si preoccupa sempre di poter contare su una sicura ritirata.”, aveva detto Proximo Lario in occasione di uno scontro con i lealisti di Septimo all’epoca della guerra civile. Gannicus Vaian aveva studiato i classici militari dell’epoca e anche antecedenti.
Lezioni apprese tramite lo studio gli avevano lasciato in dono una competenza bellica che, congiunta all’addestramento e alle esperienze, lo avevano reso prezioso.

Pacuvio Sinodeo sorrise a una stupenda bionda dal seno prosperoso che riempiva più che dignitosamente il corpetto. Si concesse una battuta, un breve flirt, una carezza audace.
Gli occhi però non sorridevano. Amarro, poco distante, era intento a conversare piacevolmente con un damerino decisamente elegante e, a giudicare dagli sguardi e dai sorrisi, tra i due c’era qualcosa di più che mera conversazione.
Amarro era omosessuale, Pacuvio l’aveva scoperto durante una delle tante sbronze post-lavoro. La cosa non gli aveva mai creato problemi. D’altronde, in quella sua squadra nessuno giudicava nessuno. Non se lo potevano permettere. Erano spade vendute al miglior offerente. Reietti, emarginati, eppure erano quelli a cui tutti ricorrevano quando non si poteva davvero fare altrimenti.
Come il loro bersaglio. Marduk Atbash. Lo vedeva. Stava osservando attorno a sé. Consapevole, molto. Male. Un uomo così attento richiedeva cautela. Ancor più considerando il posto in cui stava agendo. Amarro smise di conversare con l’efebo di turno e prese ad attaccare bottone con un nero decisamente muscoloso. Il pretoriano di qualche riccone? No, l’atteggiamento era decisamente troppo diverso dall’archetipo.
Doveva essere entrato insieme all’altro nero, che se ne stava al bancone più defliato, o magari i due erano con la bellissima donna di colore che Pacuvio aveva occhieggiato poc’anzi.
“Non gliene bastava uno, a quella…”, pensò licenziosamente per un istante. Valutò la possibilità di smarcarsi e parlare a quella venere nera. Magari…
No. Non ancora, quantomeno. Quando Marduk sarebbe morto, a quel punto avrebbe potuto concedersi quella piacevolissima distrazione. D’altronde erano lì per servire la Confederatio.
Prima il dovere, poi il piacere. Portò una mano all’auricolare.
-Malcavia?-, chiese.
Click. Click. Era in posizione. Accendeva e spegneva il microfono del compatto comunicatore. Un modo per non dover parlare ad alta voce.
-Nessun problema?-, chiese lui. Click click click. No. Due click per dire sì, tre per no.
Codice semplice, ideato durante l’ultima guerra. Sempre utilissimo. Pacuvio sorrise.
-Forse ho trovato una compagna di giochi, sai? Potremo dirvertirci parecchio, io te e lei…-.
L’immagine di un trio con la nera, la fulva tiratrice e sé stesso gli causò un’erezione.
Click click. Sorrise al pensiero che anche lei, nonostante non stesse parlando, doveva essere eccitata all’idea. La sua relazione con Malcavia era iniziata più di dieci anni prima. Solo il fatto che spesso erano finiti a svolgere incarichi diversi gli aveva impedito di ufficializzarla.
-Non ti dispiacciono le nere, vero?-, chiese Pacuvio. Click click click.
-Qua ce n’è una che fa girare la testa…-, disse. La nera in questione intanto stava procedendo verso il bancone, poco distante da Marduk. E fu allora che un valletto si avvicinò all’uomo.
Consegnò qualcosa. Un biglietto. Marduk annuì. Si mosse.
-Devo andare.-, concluse lui. Click.

Il fucile da precisione era un’arma energetica, ottima per tiri lunghi e senza la necessità di compensare, o di temere errori di balistica, il suo difetto era la spinta penetrativa, inferiore a quella delle munizioni solidi, e soprattutto l’impossibilità di sfruttare le correnti del vento per aumentare anche solo di poco la gittata.
La figura in nero annuì. Una nera. Poteva solo essere un agente dell’Unio Africae.
Non era il solo problema: una sentinella era appena stata gettata da un asiatico dentro un bidone dell’immondizia. Altri ospiti non invitati alla festa.
A questo si poteva rimediare. Sparò un singolo colpo, silenziato dagli impianti interni dell’arma. L’asiatico, colto alla nuca, crollò in avanti sul bordo del cassonetto, solo una bruciatura nerastra di qualche centimetro in corrispondenza del punto d’impatto.
“Uno in meno.”, pensò. Passi, da un vicolo.
Due uomini. Licanei, poco ma sicuro, parlavano in chiaro. Uno di loro vide qualcosa.
Troppo rischioso. Ma a giudicare dalla pistola che sfoderò, non erano innocui passanti.
I dubbi si dissiparono alla svelta. Inquadrò il bersaglio. Quello più indietro. Sparò.
L’uomo crollò a terra, un ustione precisa sulle vesti a centro del petto.
L’altro si girò. Il laser lo colse alla base del collo. Morte istantanea.
La figura sospirò: questo cambiava la situazione. Tutta la situazione. Qualcuno avrebbe fatto domande. Qualcuno avrebbe voluto sapere. E qualcuno sarebbe stato così idiota da venire a vedere. E non intendeva permettere altre sbavature.
Posò l’arma laser accanto al cadavere di Malcavia. Cambio di piano.

Hong Po non riceveva notizie da Dien. Bruttissima cosa. Lui e Rhan avevano rapidamente violato l’ingresso secondario trovandosi in un dedalo di corridoi. Avevano impugnato le armi, nessun motivo di nasconderle. Un cameriere li aveva incrociati ed era stato ridotto al silenzio.
Rhan emise uno schiocco di lingua. Hong annuì. Svoltarono. Copertura uno a uno, tattica basica per l’irruzione in ambienti stretti.
Hong aveva un gran brutto presentimento. Pessimi Phi, avrebbe detto sua madre, spiriti cattivi. Lui agli spiriti non ci aveva creduto, ma lì, in terra straniera, in quell’operazione vitale per Chin e per gli stati alleati che sentivano l’immane pressione di Licanes lungo i confini, eternamente minacciati dalla guerra futura, avvertiva il profondo turbamento dovuto alla consapevolezza della propria vulnerabilità. Strinse i denti. Aveva una missione da compiere.
Superarono la curva, trovandosi diverse porte. Hong ne saggiò una, con cautela.
Si aprì. Una camera da letto, giaciglio bello vasto, doccia, mobili essenziali.
I due si scambiarono un occhiata. Proseguirono.
Le altre erano in larga parte aperte, camere. Salvo una chiusa.
Che fare? Fermo restando che non avevano idea di dove si trovasse il loro bersaglio…
Rhade bussò.
-Occupato!-, esclamò un uomo, a giudicare dalla voce un vecchio. Lui annuì. Hong procedette. Improvvisamente, il valletto girò l’angolo. Trovarseli davanti lo vide perdere la presa sul vassoio e far cadere a terra bevande. Ebbe la buona creanza di non fiatare.
Rhade sorrise avvicinandosi. Afferrò il giovane per la veste inamidata spingendolo in una delle stanze. Hong sfilò il pugnale. Il ragazzo, poco più che ventenne, si mise a tremare come una canna di bambù nella tempesta. Hong Po estrasse un’immagine sgualcita di Minah Ahn.
-Dov’è questa donna?-, chiese Rhade. La sua padronanza della lingua licanea stentava ed era inquinata pesantemente dall’accento indocinese, ma il giovane crollò subito.
Sciorinò le informazioni tremando come una foglia. Rhade sorrise. Annuì.
E Hong trapassò la nuca del giovane con il pugnale in un punto noto come “la porta del vento”. Da lì, la lama poteva giungere diretta al cervello. Una morte misericordiosa.
L’opposto di quella dei genitori di Hong, morti durante la ritirata di Chin da Whulhan.
Il due si rimise in marcia. Non si curarono di nascondere il corpo se non infagottandolo nelle lenzuola e sbattendolo dentro a un armadio.
Avevano le loro informazioni. Si mossero verso il bersaglio.

Sin dal suo ingresso nel locale, Hawo aveva dovuto respingere diversi corteggiatori, avevano contato ben tre uomini e una donna. Un peccato: avrebbe ben volentieri accettato di accontentarli tutti quanti, possibilmente anche contemporaneamente.
La sua ninfomania e la sua sensualità la rendevano sicuramente un ottimo agente provocatore, ma, come le aveva detto uno dei suoi addestratori dopo una sessione di addestramento alle armi bianche conclusasi con un rovente amplesso, la rendevano anche tremendamente più facile da distrarre, da raggirare, specie se qualcuno fosse stato sufficientemente capace o bello da far sentire lei desiderosa di lui e non l’opposto.
Ma Hawo non era una stupida, anche se parte del suo ruolo poteva richiedere certamente di sembrare frivola. La sua missione aveva la precedenza.
Così, quando aveva visto Marduk muoversi, aveva anche visto altri farlo, in modo discreto.
Normalmente non avrebbero attirato l’attenzione, ma Hawo aveva vissuto abbastanza nel mondo spietato dello spionaggio da intuire che diversi di quelli che si erano mossi non l’avevano fatto per caso, ma seguendo un piano preciso. Ne individuò due in particolare.
Uno era intento a parlare con Moussa. Scambiò appena un’occhiata con Asmac.
Tempo di agire, si decise. Si diresse verso i servizi igenici.
Urtando appena Marduk con il gomito, scusandosi senza guardarlo.
Avrebbe davvero voluto vedere la sua espressione, ma non l’aveva fatto a caso.

Hawo! Marduk ne era sicuro: quella donna era Hawo, o Saida, poco ma sicuro.
Ma perché palesarsi a quel modo? Stringendo il biglietto che aveva in mano, l’uomo capì in un lampo. Era un avvertimento, una specie. Doveva esserlo. Oppure un invito a seguirla?
Se Hawo (o Saida) sapeva che lui era vivo, sicuramente lo sapevano anche altri.
E sicuramente qualcun altro sapeva del suo motivo per essere lì, al Banatleus, quella sera.
Chi? Chi lo sapeva? Guardandosi attorno, Marduk vedeva solo nemici.
E uno in particolare lo fissò. Un uomo, il cui viso era ruvido, coperto da una barba scura curata, ma gli occhi, furono gli occhi a ricordargli quelli di qualcuno.
Qualcuno che aveva conosciuto…
Si diresse verso i servizi a sua volta. Doveva capire, tanto più che quella era la strada per raggiungere le camere e il retro, dove appunto, Minah lo aspettava.

Pacuvio sospirò. Era sicuro che Marduk l’avesse riconosciuto. Vide anche un altro muoversi. Licaneo anche lui, molto, troppo sicuro di sé.
Stava andando tutto in vacca, e pesantemente.
-Preparati ai fuochi d’artificio, Malca…-, disse l’auricolare.
Click click in risposta. Sorrise. Si diresse verso Marduk ma con passo calmo, pacato.
Amarro era sparito. No, era scivolato verso sinistra. Il nero lo seguiva, ma con passo lento.
Strano. Molto strano.
-Amarro, molla il tuo nuovo amico: il bersaglio si muove.-, disse.

Amarro si bloccò. Merda, proprio in quel momento?
Si volse verso l’altro. Un vero peccato, ma il lavoro chiamava.
-Mi spiace… il lavoro chiama.-, disse. Il nero sorrise. Lo attirò a sé abbracciandolo.
Amarro avvertì un principio di erezione non indifferente. Avvertì anche una puntura, alla schiena. Un ago! Fece per divincolarsi, ma il nero lo tenne stretto.
Veleno! L’aveva avvelenato! Stupido, stupido stupido che era stato!
Sentiva l’ossigendo mancargli. Il nero lo baciò. Brutalmente, senza dargli scampo.
Qualcuno protestò ma furono in pochi, i più ignoravano la scena.
Amarro sentì il suo cuore battere stanco, come se fosse prossimo a fermarsi.
Il nero gli sorrise. Incoraggiante, amichevole. E crudele come la morte stessa.
-Mi spiace.-, sussurrò l’africano. Amarro non riuscì a parlare. La sua mente sprofondò in un gorgo abissale.

Pacuvio aveva visto la scena. Non capiva. Ignorò. Doveva ignorare.
-Malca, nuovo piano. Raggiungimi all’uscita secondaria di questo buco. Uccidiamo Marduk e ce ne andiamo.-, disse. Click click. Affermativo. Marduk era entrato oltre la porta che dava sul retro del locale. Andava bene. Lo avrebbe raggiunto. Ma prima occorreva liberarsi delle incognite presenti. Il nero sosteneva Amarro che pareva in qualche modo rilassato, quasi addormentato. Il disegno di Pacuvio si chiuse: aveva capito.
Era pieno di agenti nemici. Bene: significava tornare alla sua direttiva primaria. Uccidere i nemici. Estrasse la pistola. Basta fare regali.
Sparò due colpi. In aria. Nella sala parve esplodere una bomba. Panico, urla. Salvo per pochi elementi. Che si mossero. E non per fuggire.

Pochi istanti prima.
Hawo scivolò nei bagni. Non dovette attendere molto. Marduk entrò. Lei gli arrivò addosso.
Lo baciò. Dritto in bocca, con la lingua. Il ricordo del loro amplesso di qualche giorno prima era ancora bello fresco nella sua mente e contribuì a rendere quel bacio passionale.
Suo malgrado, l’agente non pareva indifferente. Reagì al bacio con la lingua, per un istante dimentico di tutto salvo che di loro. La mano di Hawo s’infilò tra le sue gambe.
Come sospettava: anche lui si ricordava molto piacevolmente di lei.
Marduk ruppe il bacio allontanandosi. Estrasse la pistola, Hawo si bloccò a metà movimento.
-Non sei contento di vedermi?-, chiese, -O hai due pistole?-.
Lui non rispose, non subito. La sua espressione era comica.
-Che cosa vuoi?-, chiese. Lei sorrise, sorniona.
-Mi sembra qualcosa che vuoi anche tu!-, esclamò.
-Falla finita. So che sei qui per Ahn, e non siamo gli unici!-, ringhiò lui. Lei sorrise.
-L’ho visto. Ma, a differenza di tutti gli altri, io ti offro un patto.-, disse.
-Vuoi la ragazza. Lo so.-, sibilò lui.
-Sì. Ma non qui e non ora. La tieni al sicuro, io e Saida ti aiuteremo ad uscire da qui, vivo. E poi… potremo riparlarne. Da soli.-, disse.
-Perché? Perché non prendervela?-, chiese Marduk.
-Non siamo stupidi. Chi ha la ragazza diventa un bersaglio, l’hai visto. A noi basta poco. Qualche ora con lei, e le sue conoscenze. Poi potrai averla tu.-, replicò Hawo.
-Come faccio a sapere che posso fidarmi di te e di tua sorella?-, chiese.
-Se avessi voluto ucciderti, ti avrei già sparato, no?-, chiese lei di rimando.
-Supponiamo di sì. Ti aspetti che io ti conduca da lei ora?-, incalzòMarduk.
-Preferisci condurci qualcun altro dopo aver sofferto come un cane?-, chiese Hawo.
Messa così, sapeva, l’aveva portato al limite. Marduk parve pensare, ponderare.
Volendo, la nera avrebbe potuto colpire il braccio armato con un calcio ed estrarre la sua pistola, ma il corso d’azione deciso andava rispettato.
-Siete dell’Unio Africae, vero? Tu e tua sorella.-, dedusse lui. Lei non negò.
-Allora?-, chiese incalzandolo. Gli spari fuori fecero capire a entrambi che il tempo era scaduto. Marduk si mosse. Rapido. Più di quanto lei avesse creduto possibile. Sfruttò la sua distrazione per sferrarle un colpo col calcio della pistola.
Il mondo di Hawo sprofondò nel più cupo nero.

Marduk si chinò sulla nera. Il cuore batteva ancora. L’aveva solo tramortita.
Estrasse un foglietto. Vi scrisse un numero. Il suo, quello del suo secondo palmare. Quello non tracciato. Lo infilò in una tasca della nera, non senza sentire il suo profumo o la soda sensazione della sua carne contro la mano, un ricordo piacevole.
Era Hawo. Doveva esserlo. In un modo che non riusciva a spiegarsi ne era certo.
Si voltò e uscì dai servzi. Trovandoselo davanti.
-Buonasera, Marduk Atbash.-, disse l’uomo.

La sala principale era divenuta un baccanale. Moussa giaceva a terra con due buchi nel petto. Alcuni avventori del locale erano stati centrati dal fuoco incrociato. Gannicus imprecò mentre strappava un caricatore dalla tasca e ricaricava.
Due asiatici erano entrati dalla porta principale. Indocinesi? Chin? Sicuramente servizi di Chin. Avevano abbattuto gente senza curarsi troppo di chi fossero. Lui si era gettato oltre il bancone, mentre la sicurezza del Banatleus tentava di reagire, pur fallendo. Un nero magro e atletico freddò uno dei nuovi arrivati. Poteva essere un nemico, e forse lo era ma in quel momento era la preoccupazione minore. Gannicus vide uno degli agenti di sicurezza puntare l’arma verso di lui. Non esitò: sparò due colpi che trapassarono l’uomo alla mano, e al petto.
“Un sacrificio necessario.”, pensò con dispiacere. L’asiatico rimasto scatenò una raffica che falciò la pista, andando a crivellare morti e morenti, ma anche l’africano che si era esposto al momento sbagliato. Gannicus imprecò, al riparo dietro al bancone.
Si metteva male.

-Pacuvio.-, sibilò Marduk. Ora ricordava! Meglio!
-Giornata pesante, eh?-, chiese lui. Estrasse un pugnale. Arma da fanteria. Da macello.
-Non immagini…-, disse Marduk.
-Ah, le donne. La nera ha fatto un bel servizietto?-, chiese sornione lui. Fintò, Marduk schivò.
Bene. Era nervoso. Più facile da battere, per certi versi, più facile da ingannare.
-Da rimanerci secca.-, replicò lui, asciutto. Si mise in posizione di guardia.
Fu allora che gli allarmi presero a suonare. Erogatori di acqua sprigionarono getti dal soffitto.
-Merda!-, imprecò Pacuvio. Fece l’errore di alzare il capo. Un getto lo centrò in viso.
Marduk agì. Gli entrò nella guardia. Colpì rapido. Pacuvio non se lo aspettava. Cadde a terra, riuscendo forse a tagliare l’avversario, non ne era certo. Rispose a fatica. Marduk gli sferrò un calcio conclusivo. Impatto alla mascella.
K.O istantaneo.

Dolore. Hawo riprese i sensi in un universo di caos.
-Figlio di…-, imprecò alla volta di Marduk. Sfilò la pistola dall’abito.
Oramai non aveva più senso nascondersi. E sentì anche altro in tasca.
Un foglietto. Con dei numeri. Li fissò. Erano un numero di palmare. Un canale di comunicazione. Di Marduk Atbash. Né Moussa né Asmac rispondevano al vox.
Valutò come agire. Saida le aveva detto di agire ma era evidente che Marduk non aveva del tutto escluso la possibilità di un patto. Era sicuramente diretto dalla Ahn.
Certo, lei avrebbe potuto seguirlo, ma era sola, e non sapeva quanti nemici c’erano.
Aveva troppo poche informazioni per procedere così. Valutò eventualmente di chiamare rinforzi, ma ci avrebbero messo troppo.
In fin dei conti, aveva fatto ciò che doveva, no? Marduk era circondato da nemici. Per circospetto che avesse voluto essere, avrebbe apprezzato un alleato. Lei non gli aveva mentito. Saida aveva previsto anche quell’eventualità, in realtà.
Di fatto, non acquisire la Ahn adesso era parte del piano. Il che riduceva le sue alternative a una sola. Hawo uscì dal bagno, pistola in pugno. Superò un uomo disteso a terra, qualche dente sparso in giro e si chinò a raccogliere un pungale licaneo monofilo da 12 cm di lama.
Via la pistola, troppo appariscente, decise. Si diresse all’uscita di servizio. Uscì nella notte. Vide dei corpi. Tre. Era fuori.
Uscì verso la via principale. La vide. Un mezzo quadrigommato, in attesa. Al volante c’era una donna. La moglie di Asmac. No, la vedova di Asmac.
-Asmac? Moussa?-, chiese vedendola. Hawo balzò a bordo.
-Parti! Non possiamo fare niente per loro!-, esclamò.
L’altra eseguì. I suoi singhiozzi scossero l’animo di Hawo.

Il dedalo di corridoi era immane ma Marduk si fece forza. Sparò due colpi a un asiatico che usciva da una porta. Un’arma gli cadde. Una pistola. Evidentemente aveva fatto bene a non fare regali. Anche perché neanche lui era messo bene: aveva un taglio lungo il fianco destro e sanguinava abbastanza.
Entrò nella stanza 285 e la trovò. Minah Ahn, esattamente come l’aveva vista l’ultima volta.
E non sola. Dietro di lei, la pistola puntata alla sua testa, c’era un altro vietnamita, dagli occhi duri. Gli sorrise con scherno.
-Fammi passare, o lei muore!-, sputò in un licaneo appena accettabile. Marduk lo fissò.

Lie Nu imprecò. Aveva abbandonato la sua abitazione per arrivare a una distanza accettabile dal Banatleus, ma non si era aspettata una simile catastrofe: i Praefecti stavano per intervenire. Qualunque parvenza di sotterfugio era andata a farsi fottere.
Così come anche la sua squadra: aveva provato a contattare Pacuvio ma niente.
Imprecò. Questo poteva significare che Marduk era ancora vivo.
E voleva dire che lei avrebbe dovuto metterci una pezza personalmente, ma sul momento non era equipaggiata né preparata per farlo.

Hong Po sorrise. Il licaneo non avrebbe osato sparare. Non con un simile ostaggio.
Però non si muoveva. Il vietnamita lo fissò con rabbia, frammista a un’ombra di vago rispetto.
-Muoviti!-, ingiunse. L’uomo non si mosse. Poi parlò. Pacato. Calmo.
-Pensi davvero che questa stronzata dell’ostaggio funzionerà?-, chiese.
Hong Po scosse il capo. Non capiva come quell’uomo potesse ancora essere tanto profondamente confidente da permettersi di sbarrargli la strada.
Minah Ahn singhiozzò appena. Hong le affondò la canna della pistola nel collo.
-La ammazzo! Giuro che l’ammazzo!-, ringhiò. L’uomo lo fissò, ancora. Senza emozioni.
-Quindi uccideresti la donna per cui sei venuto sin qui? Davvero stupido.-, disse.
Hong scosse il capo. Non gli credeva! Mosse il braccio armato puntando l’arma sull’altro.
E Marduk sparò. Un singolo colpo. Il dolore di Hong durò un istante, forse due.
Poi smise di percepire alcunché e crollò all’indietro.

Marduk scattò in avanti. Afferrò Ahn mentre cadeva in avanti. La abbracciò più per istinto che per reale intenzione. Lei si staccò. Non dedicò un’occhiata ad Hong Po, colpito con precisione all’occhio destro.
-Erano in due…-, disse, preoccupata.
-Ora sono zero.-, rispose Marduk, -Ma fuori da qui è un casino. Non so chi abbia fatto scattare gli allarmi, ma i Praefecti saranno già per strada.-.

Pacuvio imprecò. Era ancora vivo. Marduk non l’aveva ucciso, ma lui era sicuro di averlo tagliato. Problema: non aveva più il pugnale. Né la pistola. L’aveva presa quel bastardo, sicuro. Doveva andarsene da lì e alla svelta.
Prese il palmare. Lie Nu aveva provato a contattarlo. Certo, era naturale, no?
-L’hai ucciso?-, chiese l’asiatica con rabbia malcelata.
-No, ma l’ho ferito. Però qui è un casino. Ci sono alcuni asiatici che sparano ad alzo zero e almeno altri due se non tre servizi, oltre al bersaglio.-, disse lui.
-Trovalo! Uccidilo!-, ringhiò Lie. Pacuvio scosse il capo.
-Non qui. Non ora. Troppo rischioso e inoltre lui è armato e io no. Se mi catturano tu sarai la prossima e lo sai. È meglio se mi defilo. Ci vediamo dove concordato.-, chiuse la chiamata senza neppure stare a sentire la replica della donna.
Doveva muoversi ad andarsene. Con l’emergenza in corso e trattandosi di un locale tutt’altro che freuqentato da poveracci, le autorità di Ruamaillia sarebbero calate in forze sulla zona.
Pacuvio sfondò una porta. Le cucine. Abbandonate. Perfetto. Sfilò un coltello da carne da un tagliere. Non proprio il massimo ma sicuramente meglio che andarsene a mani nude.
Ora doveva solo uscire e pregare di non incrociare neanche per sbaglio altri eventuali nemici.
E poi avrebbe dovuto fare una bella chiaccherata con la sua committente.
C’erano un paio di aspetti da chiarire.

Gannicus Vaian sospirò. Era stato un bel macello. Il suo compagno d’armi, Lavio Scuro si guardò attorno. La sala era ridotta a un mattatoio.
L’asiatico rimasto era quasi morto, quasi perché di fatto Lavio stava sforzandosi di mantenerlo in vita. Gannicus l’aveva colpito due volte alla gamba destra e una all’addome.
Avanzò verso il retro. Forse il bersaglio era ancora in zona. Forse.

Minah Ahn aveva impugnato la pistola del vietnamita morto. Marduk reggeva la sua.
La donna non poté fare a meno di notare la chiazza di sangue sulla veste dell’uomo.
-Sei ferito!-, esclamò.
-Non è niente di che…-, ribatté lui.
-Altroché se lo è: stai sanguinando parecchio.-, replicò la donna.
-Senti, dobbiamo muoverci. Ci sono almeno tre servizi qui a cercarti, e almeno due sono ancora in gioco.-, rispose Marduk. La donna scosse il capo.
-Possiamo correre finché vogliamo, ma… prima o poi, la corsa finisce.-, disse.
-No.Non per te, Minah. Tu devi vivere.-, Marduk si tamponò la ferita con una fascia ricavata da un cuscino, -Devi vivere.-, ripeté.
-Perché? Per le mie conoscenze? Perché vi servo?-, chiese lei.
-Perché non meriti tutto questo.-, ribatté lui, inflessibile.
-Tu non sai niente. Niente!-, sibilò Minah.
-Dannatamente vero. Allora aiutami a capire.-, rispose lui. Stavano arrancando lungo il corridoio. Lei esitò. Non poteva. Non lì. Non così.
Eppure… era una via d’uscita. Forse. O forse… “al diavolo…”, sospirò tra sé e sé.
Era esausta. Oltre ogni umana possibilità di descrizione.
-Senti… io sono a un alloggio qui a Ruamaillia.-, iniziò lui. Lei scosse il capo.
-No. Verrai tu da me. Via Glaviassira 54, a nome di Ferma Pasinia. Ripetilo.-, sibilò lei.
Lui lo fece. Ancora e ancora. Lei sorrise. L’aveva mandato a memoria. Andava bene.
Lei sorrise. Lasciò che lui la superasse. E lo colpì. Un singolo impatto sulla nuca.
Marduk crollò in avanti. Steso.
-Mi spiace.-, disse Minah. Da sola avrebbe avuto maggiori possibilità di cavarsela.

Gannicus Vaian imprecò. Tra i Vigilia Ignis, gli Apotecarii e i Prefecti, la situazione era confusionaria. Ispezionare il retro del Banatleus fu un impresa titanica, oltre a dover spiegare a numerosi ufficiali per chi lui lavorasse. Un vero schifo…
Ma la sua pazienza fu ricompensata.
-Signore?-, chiese contattando Licius, -Ho trovato l’agente Atbash.-.
-È morto?-, chiese il suo superiore con un tono curioso.
-No signore. È tramortito. E ha una ferita di media entità all’addome.-, riferì.
-Capisco. Lo portiamo via, al Sito 21.-, decretò Licius.
Gannicus eseguì. Il suo lavoro non finiva mai.

Minah Ahn fuggì con circospezione, tentando di evitare ogni contatto con chiunque, impresa non facile. Più di un passante la urtò o chiese cosa fosse successo. Lei tacque.
E non guardò sopra di sé.
La figura in nero la guardò fuggire. Tutto era andato come previsto. Quasi, quantomeno.
Perché Marduk Atbash stava venendo portato via da due individui che, a giudicare dall’aspetto parevano dei mercenari. Gente di ascendenze licanee però.
“Licius, perché hai deciso di rendere tutto più difficile?”, si chiese.
Per il resto era andata anche meglio del previsto: i vari contendenti si erano falciati allegramente tra loro. Il suo intervento era stato minimo, e far scattare l’allarme antincendio era stata una mossa che aveva garantito che l’attenzione di tutti si concentrasse all’interno. Aveva anche alterato le dinamiche degli scontri? Probabile. Ciò che importava era che Marduk fosse ancora vivo. Di certo lo era anche quella africana, l’aveva vista fuggire.
Ma andava bene: l’Unio Africae non aveva la benché minima idea di cosa stesse accadendo, e avrebbe continuato a brancolare nel buio finché non fosse stato troppo tardi.
Si diresse a grandi passi verso un mezzo monoposto a due ruote in attesa e contattò Ferelea.

Chien Lie sospirò. Hong Po e i suoi erano stati falciati. Prevedibilmente.
Ma prima di morire, Hong aveva inviato qualcosa. Un messaggio sul fatto che la Ahn avesse alloggiato altrove in città. E in più, Rhade aveva notificato che altri agenti erano presenti al Banatleus. Soprattutto uno che lui aveva riconosciuto.
Marduk Atbash. Chien annuì. Il buon vecchio Marduk si stava rivelando un osso decisamente duro da rompere. Ma andava bene: avrebbe fatto sì che lavorasse per loro.
Contattò alcuni agenti.

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