In quel periodo dell’anno fa notte presto.
Era quasi buio. La pioggerellina metteva un senso di tristezza. La gente, vociante, si aggirava come se avesse fretta. In effetti, non aveva fretta nessuno.
Con l’ombrello aperto, o incuranti dell’acqua che scivolava sull’ impermeabile, i più si soffermavano, curiosi, davanti alle vetrine piene di dolciumi e di regali. Si guardava, si commentava la qualità, il prezzo. I più anziani sottolineavano che “i dolci fatti in casa, però…”, ma intanto andavano addò Caflish, per un “Santarosa”, che solo Carraturo poteva mettersi a paragone.
Non era ancora l’ora di entrare a farsi una pizza, ma per una “fritta” mangiata “in piedi in piedi” ogni momento era buono.
Sotto la galleria, gli zampognari anticipavano la festa. In un angolo, alcuni ragazzi, con scetavajasse e putipù, ballavano, cantando “llero, llero, nun é ‘o vero, o’ zampugnaro ha ‘cciso ‘a mugliera…”
Il venditore sotto l’ombrellone, offriva cantilenando “sciuscelle e susamielle” imbiancati dalla luce dell’acetilene.
Le due carrozzelle erano giunte all’altezza del Carmine. Il cocchiere della prima, con una tela cerata sulle gambe per ripararsi dalla pioggia, si voltò per dire che là, al sedici di luglio, alla festa della Madonna, andavano tutte le carrozzelle della città, per ricevere la benedizione.
Attraversata la strada, entrarono nel varco e si avviarono al molo.
C’era molta confusione. Autocarri, carri tirati da cavalli, carrettini a mano, vagoni ferroviari che si muovevano disinvoltamente in quell’andirivieni caotico, con distratti deviatori che agitavano la lanterna rossa senza troppa convinzione.
Una spira di fumo, appesantita dalla pioggia e appena mossa dal vento, usciva da una delle ciminiere del piroscafo, accompagnata, di quando in quando, da uno sbuffo di vapore. Gli argani sollevavano, dai vagoni e da terra, i carichi che venivano ingoiati dalle stive.
La nave era illuminata come un albero di Natale. Aveva un aspetto pulito, quasi nuovo. In alcuni punti, lontani dalle zone di carico, erano affacciati uomini in divisa che s’illudevano d’essere uditi dai parenti sul molo. Si vedevano muovere le bocche, qualcuno portava la mano all’orecchio sperando di poter individuare la voce cara tra quello sferragliare e lo sbuffare del vapore. Era tutto un agitarsi di braccia, di caschi di sughero, color coloniale, che facevano parte della divisa caki; così strana in quella pioggia decembrina.
Le carrozzelle avevano scaricato persone e bagagli. Ultimi abbracci e raccomandazioni.
“Fateci sapere subito come siete arrivati…, tornate presto…, chissà che non veniamo anche noi…, voi, ragazzi, state attenti a bordo…, non prendete troppo sole…”
La raccomandazione sul sole poteva sembrare ironica a chi non avesse conosciuto la rotta della nave.
Ai piedi della scaletta, un gruppo di persone in divisa. Anche un prete era in divisa, coi gradi di capitano. Battute di tacchi, scattanti saluti romani e, malgrado il foglio d’ordini le avesse dichiarate residui di tradizioni borghesi, vigorose strette di mano.
L’altoparlante avvisò: “Tutti a bordo!”
Qualcuno si affrettò a salire.
Un altro fischio di sirena, e la scaletta fu ritirata.
A terra avevano tolto le gomene dalle bitte, e da bordo le stavano issando e le arrotolavano. A prua c’era il rimorchiatore. Il pilota del porto era al suo posto.
Quasi insensibilmente, la nave andava staccandosi dalla banchina. Ormai era notte fonda. La pioggia era cessata. L’acqua, a poppa, ribolliva sempre più a mano a mano che la nave si allontanava. A bordo giungevano sempre meno distinti i rumori e le voci da terra, mentre si faceva sempre più chiaro il pulsare delle eliche, il battito del cuore della nave che li avrebbe accompagnati per giorni e giorni. Molti erano rientrati nel salone, altri erano andati in cabina a disfare i bagagli al seguito e a prepararsi per il pranzo. I viaggiatori di terza classe, in genere militari e operai, restavano affacciati a veder la terra allontanarsi lentamente. Nelle altre classi, a seconda del grado, sottufficiali, impiegati, ufficiali, dirigenti, e molte famiglie che ritornavano nei territori d’oltremare, o raggiungevano il capofamiglia per la prima volta.
* * *
Paolo e Luciana andavano di nuovo in Africa coi genitori. Questa volta la destinazione era Addis Abeba, nuova sede di lavoro del padre, Sergio Rolli, ingegnere civile, e Capo di un importante Servizio tecnico dell’Impero.
Prima erano stati, per alcuni anni, all’Asmara.
Ada, moglie di Sergio, insegnante di lettere al liceo, era stata trasferita nella capitale dell’Impero.
La sistemazione era discreta, cabine centrali ed esterne, ma vi era qualche difficoltà d’ordine pratico. Anche questa volta, i ragazzi dovevano occupare la stessa cabina, come avevano fatto tre anni prima. Solo che ora erano grandicelli.
Nel viaggio di ritorno in Italia problemi non s’erano posti perché erano partiti prima Ada e Luciana, e il mese successivo Sergio col figlio.
Adesso, Paolo aveva superato i diciotto anni e Luciana stava per raggiungere i sedici. Ad Ada, però, non sorrideva l’idea di restare lontana da Sergio, la notte, per quasi due settimane. Il marito le sussurrò qualcosa in un orecchio e lei sorrise con maliziosa complicità e decise di condividere la cabina con Luciana. Sergio e Paolo si sarebbero sistemati nell’altra.
Al tavolo del Comandante, oltre i soliti ufficiali di bordo, sedeva la “gerarchia”: Gavino Sanna, il Federale; Mario Salgati, Colonnello delle truppe coloniali; Don Aniello Santini, il Cappellano Capo.
A metà della “Sala Ristorante”, vicino a una finestra, a sinistra, a un tavolo per sei v’era anche un seggiolone di legno naturale, come le altre sedie.
Quando Sergio chiese quale tavolo fosse assegnato alla sua famiglia, il Maitre fece un lungo e sconclusionato discorso per dire che il tavolo era uno dei migliori, centrale e quindi meno soggetto ai movimenti della nave, ed era certo che i Signori Rolli avrebbero gradito la presenza della Signora Russo, che andava a raggiungere il marito, medico all’Ospedale della Consolata di Addis Abeba, unitamente alla bambina di due anni.
Laura Russo era giovane e bella. Elegante, cordiale, allegra. Portata a fare subito conoscenza, anche amicizia. Fiorenza, la bimba, era biondissima, più della madre. Occhi azzurri, sempre sorridente, socievole. Le piaceva giocare con tutti, come fossero vecchi amici.
Sergio avrebbe voluto che le signore sedessero una alla sua destra e l’altra a sinistra, ma Laura, pur ringraziando, pregò per una diversa disposizione, così avrebbe potuto aiutare Fiorenza a mangiare.
“Vede, ingegnere” -disse con cadenza fiorentina- “è meglio che io sieda dall’altra parte del tavolo e avere Fiorenza alla mia sinistra, per imboccarla. Lei potrà stare tra la sua signora e la sua figliola.”
Fiorenza era buonissima. Voleva fare tutto da sola, ed era tutta intenta a mangiare la minestra, col cucchiaio storto che aveva portato da casa. La maggior parte, però, le cadeva sul bavaglino di tela cerata o ritornava nel piatto. La mamma raccoglieva di nuovo la pastina e la imboccava, con piena approvazione e soddisfazione della bambina. Per il cibo a pezzetti, invece, le manine facevano a perfezione il loro servizio.
Paolo si rivolse a Laura:
“E’ contenta di andare in Etiopia?”
“Senti, perché mi tratti come una vecchia? Quanti anni hai tu?”
“Vado verso i diciannove.”
“Io ne compirò ventidue tra un mese. Non credi che ci si possa dare tranquillamente del tu, che ne dici? Anche tu, signorina bella, trattami come una sorella maggiore o, se non ti piace, almeno come una cugina, ma non troppo vecchia. Per rispondere alla tua domanda, mio caro, devo essere sincera. Sono contenta di raggiungere mio marito, che sia in Etiopia o in capo al mondo non importa. Lo sai che non ci si vede da quasi due anni? E che sono lunghi? E che non si riguadagnano più una volta perduti? Io mi sono sposata che non avevo diciotto anni, ed era per stare col mio uomo, non per saperlo a miglia e miglia di distanza.”
“Laura ha perfettamente ragione.” -intervenne Ada- “E in tutto. Io, da parte mia, per dare il buon esempio e per non sentirmi vecchia, anche se ho i figli grandi e mi sembra d’essere la nonna di Fiorenza, darò del tu a Laura, a condizione, però, che lei me lo ricambi.”
“Grazie” -disse Laura- “anch’io darò del tu ad Ada, del resto ho una sorella di trentadue anni…”
“Si, altro che trentadue” -interruppe sorridendo Ada- “ne devi aggiungere quasi dieci.”
E su questo tema, età, lontananza dal marito, come sarà mai Addis Abeba, che all’Asmara si stava bene, del villino al Gagirèt, e così via, Ada parlò a lungo, senza annoiare e senza monopolizzare la conversazione.
Chi stava zitto era Paolo che non riusciva più a rivolgersi a Laura, dovendole dare il tu. Ogni tanto la guardava per dire qualche cosa, ma restava zitto, e ammirava quella gran massa di capelli, più rossi che biondi, lucidi, con riflessi di rame, e le labbra, naturalmente vermiglie. Gli venne alla mente “occhialona”, quella di Storia dell’arte, quando spiegava i colori del Tiziano, mostrando le riproduzioni di Amor Sacro e profano, Offerta a Venere, Bacco e Arianna, o parlava di Rembrandt, senza troppo soffermarsi, però, sulle donne che lui dipingeva.
Andarono a sedere sui comodi divani del salone. Un angolino tutto per loro. Quattro chiacchiere per conoscersi meglio.
Sergio si considerava un vecchio africano. Dopo qualche esperienza in Italia, era stato inviato in Libia, poi in Somalia e successivamente in Eritrea. Sempre con la moglie. I ragazzi, però, erano nati tutti e due a Roma. La moglie aveva insegnato al ginnasio di Asmara, e non appena le cose erano entrate, come sosteneva il Governo centrale, nell’ordinaria amministrazione ebbe l’assegnazione ad Addis Abeba. Paolo era un po’ in anticipo negli studi, a diciassette anni e mezzo aveva conseguito la maturità classica, ed ora era iscritto a Scienze Coloniali, a Napoli. Luciana doveva sostenere gli esami di quinto ginnasio la prossima estate, forse ad Asmara, se non facevano una sessione speciale ad Addis Abeba.
Nei sei mesi trascorsi in Italia i ragazzi avevano sempre studiato. Paolo era stato a Napoli, dall’ottobre, dai parenti di Ada. Forse Laura li aveva visti sotto bordo, usciti dalle carrozzelle lucide di pioggia.
“Di me” -disse Laura- “non c’è gran che da dire. I miei sono mercanti d’arte, a Firenze, e con loro lavora anche mia sorella, e mio cognato ch’è critico d’arte al giornale. Mio fratello, che é medico da un anno, quando faceva pratica all’ospedale conobbe un dottorino napoletano che ci venne per casa, ed ora sono sua moglie. Ho fatto appena in tempo a divenir maestra. Intanto lui, il mio sposo, specializzato in medicina tropicale a Napoli, ha accettato di trasferirsi in Africa. Ha passato sei mesi a Massaua, che mi ha detto essere un inferno, come clima, poi é andato all’Asmara e di lì ad Addis Abeba, dove assicura di stare benissimo. Una volta stabilitosi nella capitale, ha chiamato me e la bambina. Non vi dico le raccomandazioni che mi ha scritto. Un romanzo a puntate. Devo stare attenta a tutto, guardarmi da tutti, specie durante il lungo viaggio in nave. Otello, a paragone di mio marito, é un sangue freddo. Ora, Fiorenza ed io, si va a vedere questo nuovo fiore, ma io spero che gli passi presto la fissa per l’Africa e che si torni a Firenze. Tutto qui.”
I giovani ufficiali che parlottavano dall’altra parte del salone, avevano notato “la rossa”, come l’avevano battezzata, e già pensavano di eleggerla “reginetta della traversata”, la sera che si attraccava a Massaia, porto dove la nave avrebbe fatto scalo per tre giorni prima di ripartire per Gibuti..
“Ma pensate sempre le stesse cose.”
Era il Cappellano, che aveva ascoltato i discorsi di quei giovani.
“Caro Cappellano” -disse il Federale- “non é alle cose che pensano questi baldi ragazzi, ma alla cosa. E voi sapete bene che in materia non si bada al colore. Come a dire che rouge e noir si equivalgono.”
E si allontanò canticchiando questa o quella…
“Per Fiorenza é ora di andare a letto, e dato che sono stanca, andrò a riposare anch’io, sperando di poter dormire, con questo dondolio e questo rumore. Buona notte.”
Laura s’alzò, prese Fiorenza in braccio e fece per avviarsi.
“Paolo” -disse Ada- “prendi tu la bambina e accompagna Laura. Buonanotte Laura, e buon riposo.”
La costa era quasi invisibile. Il cielo nero, senza luna e senza stelle. Le luci della nave schiarivano la scia di poppa.
II
“Sapete” -disse Luciana- “a bordo ci sono anche i Francacci, ho incontrato Frieda. Ieri sera non sono venuti in sala, per questo non li abbiamo visti. Hanno preferito farsi portare solo un latte caldo e dei biscotti in cabina. Sono stati trasferiti anche loro ad Addis Abeba. Sei contento, Paolo?”
“Completamente indifferente.”
Rispose Paolo, ma era divenuto rosso e aveva gettato lo sguardo verso Laura che stava dando da bere a Fiorenza.
S’avvicinò una ragazza. Abbastanza alta, snella, capelli biondo-scuri sciolti sulle spalle, gonna di panno e blusa di lana, d’un celeste pallido che ben s’intonava col colore dei capelli.
“Buon giorno, e felice di fare il viaggio con voi.”
“Ciao Frieda” -rispose Ada- “Luciana ha detto che ti aveva incontrata. Non sapevo che al ritorno sareste andati anche voi ad Addis Abeba.”
“Si” -rispose la ragazza- “papà dovrà interessarsi dei servizi telegrafici e telefonici di tutta l’Etiopia. Lei, allora, sarà ancora la mia professoressa, vero?”
“Credo di si, cara. Appena le cose saranno regolari. Ma ne sei sinceramente contenta?”
“Si e molto. Con voi si sta bene, s’impara con facilità, e avete un’affettuosa pazienza che a volte non hanno neppure le mamme.”
(Nel parlare si passava spesso dal ‘lei’, quasi sempre usato nelle conversazioni familiari e con amici, al ‘voi’ imposto dal Ministro della Cultura Popolare, il minculpop. E viceversa.)
Luciana s’intromise.
“Beata chi la conosce solo come insegnante!”
Ada sorrise e domandò ancora, rivolgendosi a Frieda.
“Darai gli esami di licenza ginnasiale ad Addis Abeba?”
“Spero di si, perché non vorremmo dover tornare in Italia per questo. Alla peggio andrò all’Asmara. Paolo, invece, deve andare a Napoli per i suoi esami, vero?”
E senza attendere risposta si voltò verso Paolo.
“Ciao, peccato che faccia freddo fuori, altrimenti avremmo potuto fare una passeggiata. Che ne diresti di una partita a dama?”
“Ciao Frieda” -rispose Paolo- “sono lieto di rivederti. La partita, però, la dobbiamo rinviare perché questo mare mi provoca un po’ di nausea. Grazie, vedremo nel pomeriggio.”
“Laura” -disse Anna- “questa é Frieda, una cara e brava ragazza, figlia di nostri amici e mia allieva. E’ compagna di classe di Luciana e spesso viene a trovarci. E’ figlia unica.”
Rivolgendosi alla ragazza:
“Frieda, la signora Laura Russo va a raggiungere il marito, che é medico ad Addis Abeba. Quella splendida e buonissima bambina é Fiorenza, la sua figliolina.”
Frieda sorrise a Laura. Poi, con Luciana, andò a sedere sulle sedie a sdraio della passeggiata coperta. Ada disse che si sarebbe fermata a leggere nella sala, dove Sergio giocava a carte con altri conoscenti.
Laura si rivolse a Paolo.
“Se non hai altro da fare e non ti annoi, resta un po’ con me. Ho saputo che conosci bene l’inglese, così puoi darmi qualche lezione. Ti va?”
Sedettero sul divano, in un angolo. Fiorenza, sul tappeto, cullava la bambola.
“E’ bella Frieda. E’ la tua ragazza?”
Gli chiese guardandolo fisso.
“No”
Rispose Paolo con gli occhi fissi al pavimento.
“Ma una ragazza ce l’hai, vero?”
“No”
“Puoi guardarmi, sai? Ancora non sono riuscita a stabilire bene il colore dei tuoi occhi. Guardami!”
E gli spostò il volto con la mano bianca, curatissima, dal tocco delicato.
“Sono decisamente neri, nerissimi. I miei, invece, sono scialbi. Guarda.”
Lui la guardò intensamente.
“Vedo. Sono azzurri e profondi come il cielo e il mare nei giorni di sole. Bellissimi.”
“Bravo, sei anche galante. E non dirmi che non hai una ragazza. Se sai fare questi complimenti, a chi li rivolgi?”
‘Non so. E’ la prima volta che dico una cosa così. M’é venuta spontanea. E poi é vero. Ho detto la verità. I tuoi occhi sono splendidi.”
“Grazie, trovi proprio le parole giuste per far sentire importante una donna. Non é da tutti, sai? C’é gente che dice cose grossolane, prive di dolcezza. Frasi comuni, senza sentimento, che invece di farti piacere ti irritano.”
Rimasero seduti, in silenzio.
“Se vuoi andare dalla ragazze, invece di annoiarti con me, va pure, non fare complimenti.”
“Non mi annoio. Mi piace stare qui, vedere Fiorenza che gioca, soprattutto sedere vicino a te, col mare che ci dondola come se andassimo dolcemente in altalena.”
“Sei sempre così romantico e galante?”
“La sai la poesia dell’altalena? The swing. E’ d’un poeta inglese. Non ricordo le esatte parole, ma dice più o meno:
… dondolavi, sognante, in altalena,
e l’erba verde ti vedeva andare
in alto, in cielo, e poi tornare.
… T’ho spinta. Le mie mani, sui tuoi fianchi,
volevano soltanto trattenerti
per non lasciarti andare. Mi dicesti:
Lei guardava fuori, il mare cosparso di mille biancori di schiuma, e cominciò a muovere il capo, come sull’altalena.
Lui proseguì.
Vieni di fronte a me, o mio diletto,
voglio sentire le tue mani forti,
voglio vedere la tua bocca, gli occhi.
Voglia di vederti, voglia di sentirti.
“E’ molto bella” -disse Laura- “ma come t’é venuta in mente? Anch’io l’ho letta, quando avevo ancora in mente di frequentare la facoltà di lingue. Poi ho scelto quella di moglie e di madre.
Senti, devo pensare a Fiorenza. Devo farle il bagno. Aiutami a portarla in cabina. Questo dondolio mi fa girare un po’ la testa. Basta che tu la porti fino alla porta della cabina. Come ieri sera. Vuoi?”
Fiorenza, sentendo fare il suo nome, s’era messa a guardare la madre e Paolo.
Paolo le tese le braccia e lei corse, a piccoli passi, ad abbracciarlo.
Si avviarono verso il grande scalone che conduceva alle cabine. In piedi, il dondolio fece barcollare Laura.
“Scusa, Paolo, ma devo appoggiarmi a te. La testa mi gira sempre più.”
Passò una mano sotto il braccio di Paolo, lo stesso sul quale era seduta Fiorenza. Con l’altra s’afferrò al mancorrente, e cominciò a scendere.
“Apri tu, per favore.”
E dette a Paolo la chiave della cabina.
Appena il giovane aprì la porta, Laura andò a gettarsi sul letto. Con gli occhi chiusi. Pallida.
Fiorenza s’era addormentata. Paolo la depose dolcemente sull’altro lettino e la coprì col lembo della coperta. Chiuse, piano, la porta, e s’avvicinò a Laura.
Respirava con difficoltà, le labbra semiaperte. Sempre più pallida e con gli occhi chiusi. Deglutì. Con le dita cercò di allargare il colletto che le serrava la gola, ma non ci riuscì. Paolo l’aiutò, delicatamente. Sbottonò la blusa di lana, ma non fu facile districarsi con i piccoli bottoni ricoperti di stoffa che tenevano chiusa la camicetta di seta. Sotto, Laura indossava il solo reggiseno, rosa, sul candore serico della pelle, e tentava di strapparlo, come se l’opprimesse.
Paolo non sapeva cosa fare. Sul tavolino, bordato perché gli oggetti non cadessero a causa dei movimenti della nave, c’era una piccola forbice. La prese. Sollevò leggermente la striscia centrale che univa le due coppe, e tagliò. Laura respirò profondamente. Il seno esplose in tutto il suo meraviglioso candore. Bellissimo, di squisita fattura, coi capezzoli rossi messi lì, dalla natura, a impreziosire quello splendido capolavoro.
La donna aprì gli occhi.
Paolo le mise un altro cuscino sotto la testa e le aggiustò la gonna, un po’ sollevata.
Lei s’era accorta del suo abbigliamento, e chiese a Paolo di porgerle un asciugamano. Lo mise sul petto.
“Scusa Paolo. Non so cosa mi sia successo. Non m’era mai accaduto di perdere i sensi. Sentivo di sprofondare, di non poter respirare. Credo che se tu non mi avessi aiutata sarei morta. Scusami, ti sto dando un mucchio di fastidi.”
Scorse Fiorenza placidamente addormentata.
“Meno male che la bambina riposa. Chissà come si sarebbe spaventata e quanto avrebbe pianto a vedere così la sua mammina. Ma adesso va pure, Paolo, non preoccuparti.”
“No, non me ne vado” -rispose il ragazzo- “se vuoi ti chiamo il medico di bordo, la mamma…”
Lei abbozzò un sorriso.
“Sicché sei già stanco di farmi da infermiere. Aspetta, non chiamare nessuno, voglio vedere se posso stare in piedi. Forse mi farà bene lavarmi il viso.”
Si mise a sedere sul letto, stringendo l’asciugamano al seno. Si alzò lentamente. Sorretta da Paolo, andò nel bagno, e vi si chiuse dentro.
Dopo qualche minuto ne uscì in accappatoio.
“Non ci crederai, ma mi é passato quasi tutto, anche il capogiro. Va pure, caro, non preoccuparti. Mi vesto, aspetto che Fiorenza si svegli, le faccio il bagno, poi torniamo in salone.”
“No” -disse Paolo- “Ti vesti adesso. Puoi andare nel bagno, o vestirti qui e nel bagno ci vado io. A scelta.”
C’é anche una terza via: mi vesto qui e tu resti qui. Scherzo, Paolo. Sono veramente mortificata per quanto é accaduto e reagisco così per superare il disagio di essere stata seminuda di fronte a te. Resta qui, vado a vestirmi di là. Ci metterò un po’. Mi farà bene un bagno tiepido.”
Prese della biancheria da un cassetto, un vestito dall’armadio, e tornò in bagno.
Dopo un po’, Fiorenza aprì gli occhi. Si guardò intorno.
“Mamma…” -fissò Paolo- “mamma…” Piagnucolava.
Paolo la prese in braccio e la portò presso la porta del bagno.
“La tua mammina sta qui, chiamala.”
La bimba si pencolò verso la maniglia, tentando di aprire. Paolo le disse che la porta non si apriva e per dimostrarlo abbassò la maniglia, sicuro che Laura avesse messo il fermo internamente. La porta, aiutata dal dondolio della nave, si spalancò di colpo, Laura era nella vasca.
“Ecco mamma…” Gridò Fiorenza, indicando la madre col ditino e protendendosi verso la donna.
Laura era assorta, sprofondata in chissà quali pensieri, con l’acqua che le sfiorava il seno, il capo lievemente riverso e i capelli sparsi come una nuvola di fili d’oro e di rame che le aleggiava intorno.
Guardò Paolo: sorpresa, sconsolata, rassegnata.
“Ti prego, spogliala, portala qui, le faccio fare il bagno con me.”
Paolo spogliò rapidamente la bambina che aveva capito cosa l’attendeva, ed era impaziente di raggiungere la madre. Alzò Fiorenza, guardandola fissamente, e la porse alla madre.
Laura era candida. Una ‘dolce collina di panna’, pensò Paolo, ma d’improvviso restò colpito e abbagliato dalla medusa fiammeggiante che le ondeggiava tra le gambe.
“Grazie, Paolo, non ti faremo attendere troppo. Faremo presto.”
Lui tornò nella cabina e sedette sulla sedia, a fianco del tavolo.
Laura rientrò: indossava di nuovo l’accappatoio e teneva Fiorenza avvolta in un telo di spugna. La sistemò sul letto. Senza voltarsi, chiese a Paolo di passarle il borotalco che era sul tavolino.
“Nel primo cassetto ci sono maglietta, mutandine e calzine della bambina. Per favore, prendile.”
Incipriò Fiorenza, le fece indossare gli indumenti che Paolo le aveva dato.
Paolo tornò a sedere accanto al tavolino tra i due letti, sotto l’oblò. Laura era china sulla bimba, con l’accappatoio semiaperto.
“Adesso sta ferma un momento che prendo il resto per finire di prepararti.”
La bimba aspettava in ginocchio.
In breve fu pronta. Appena la madre la mise sul pavimento, Fiorenza tese la mano a Paolo e lo tirò verso la porta: “‘ndamo?”
Laura era ancora coi capelli avvolti nell’asciugamano. Si volse a Paolo:
“Forse é meglio che la porti su, altrimenti questa ci darà del filo da torcere. Vi raggiungerò presto. Il tempo di vestirmi.”
Lui prese in braccio Fiorenza e tornò nel salone. Nello stesso angolo di prima.
* * *
Dopo il caffè al Bar, a fine pasto, molti si ritiravano in cabina. Si riposava, si leggeva, si cercava di passare il tempo. Del resto, le condizioni atmosferiche non consentivano di uscire all’aperto. I pochi che sfidavano il vento freddo del Mediterraneo, tornavano subito dentro. Si era solo al secondo giorno di navigazione, e già qualcuno si domandava come avrebbe fatto a trascorrere il resto del viaggio senza far niente.
Ada aveva detto a Luciana che andava nella cabina degli uomini per mettere un po’ d’ordine nelle loro cose.
Luciana s’era sdraiata in letto, per leggere, aveva affermato, ma in effetti era curiosa di sentire cosa accadeva nella cabina dove entrambi i genitori s’erano ritirati per fare un po’ d’ordine. Accostò l’orecchio al divisorio. Il rumore delle macchine non permetteva di distinguere chiaramente i rumori. Senti, o immaginò, un certo gemito che andava crescendo, come un lamento fioco e lungo.
Dopo un certo tempo, sentì aprirsi e richiudersi l’uscio accanto. Socchiuse la porta per sbirciare. Era il padre che si allontanava lungo il corridoio. Lui il suo’ disordine’ lo aveva sistemato. Ada, un po’ accaldata (certo per aver sistemato le cose del marito) e con un’aria un po’ incantata, ritornò nella sua cabina.
Sergio aveva chiesto al Direttore di macchina di visitare le caldaie. Non era molto competente in quel genere di impianti che, però, lo interessavano molto. Fu lo stesso Direttore ad accompagnarlo. Gli spiegò che la nave non era modernissima ma si difendeva bene. Poteva classificarsi “a coperta di manovra”, la tipica nave mista, per trasporto di passeggeri e merci. La struttura era robusta fino al ponte principale e leggera dal principale a quello superiore. Le eliche erano a quattro pale, di profilo e diametro accuratamente studiati, con la massima possibile immersione e distanza dalla carena per evitare, o almeno limitare, la cavitazione. Le caldaie erano tre, due principali e una sussidiaria. Tutte alimentate a carbone. I criteri costruttivi fondavano sul principio delle “caldaie Cornovaglia modificate a tubi di fumo”, ma vi erano stati anche dei successivi interventi per poter aumentare il più rapidamente possibile il vapore prodotto.
Sergio prestò molta attenzione alle spiegazioni, chiese alcuni chiarimenti e, soddisfatto per la minuziosa visita, ringraziò caldamente il Direttore.
* * *
Paolo sedeva nella poltrona rivolta verso la veranda. Guardava la linea dell’orizzonte che s’alzava e abbassava lentamente, ora al disopra, ora al di sotto del parapetto. Al giungere di Laura voleva cederle il posto, ma lei gli disse che non poteva guardare il mare. Si fece aiutare per avvicinare un’altra poltrona e sedette di fronte a lui.
“Fiorenza?” chiese Paolo.
“Dorme tranquilla. Ho alzato la rete di protezione, e per almeno un’ora riposerà beata. Ne profitto per fare quattro chiacchiere con te, anche se mi riesce difficile parlare di certe cose.
Quello che é accaduto mi fa sentire ridicola, ne provo un profondo senso di disagio, anzi di vergogna. Mi sono sentita così sola, perduta, indifesa, che ho pensato quant’era meglio se fossi rimasta a casa. Ma forse non é giusto dire indifesa, ti mostrerei ingratitudine. Quel malore, Paolo, qual risvegliarmi seminuda. E pensare che era solo il principio. Stavo nel bagno, sovrappensiero, quando d’un tratto sei comparso tu, con Fiorenza. E questo perché non avevo messo il fermo alla porta. Un estraneo di fronte a me, mentre ero nella vasca. Altro che la seminudità di prima, ora ero completamente nuda. E tu che mi guardavi, con mia figlia in braccio! Via Paolo, una scena così neppure in un racconto di fantasia l’avresti creduta. Immagina se la raccontassimo agli altri. Se crederebbero al susseguirsi di avvenimenti casuali. Avrei voluto nascondermi, fuggire. Ma come? Dove? Ho sentito cascarmi le braccia, mi sono sentita vinta, incapace di reagire. Come l’animale in gabbia rinuncia a una lotta inutile, impossibile, senza speranza, ho agito anch’io nello stesso modo. Ho creduto che avere Fiorenza da me mi avrebbe protetta. Ma protetta da chi? Questo ho pensato nello stesso istante. Tu mi avevi sorretto, aiutata, assistita. Ti eri preoccupato per me, volevi chiamare il medico, la tua mamma. Io, di fronte a tutto ciò, davo importanza al fatto che mi avevi liberata dal reggiseno che m’opprimeva, e mi avevi intravista nella vasca. Ero io che stavo sporcando tutto. Sento di doverti chiedere scusa per quello che ho pensato, e di doverti ringraziare. Sono stata scioccamente maliziosa, senza riflettere che la causa di tutto sono stata io.
Mi avevi visto nuda. E cosa sarà mai. Chissà quante ragazze avrai visto così, e certamente più giovani e più belle di me. Ma come ho potuto immaginare che avresti guardato con particolare interesse una donna come me, e per di più con una bambina!”
Aldo la interruppe. Si chinò verso di lei ..Le parlò sottovoce.
“Vorrei non prendere seriamente quanto stai dicendo, ma tu hai un aspetto e un tono solenne. Le tue guance sono rosse, i tuoi occhi splendenti, le tue labbra tremano. Sei bellissima. E non ti accorgi che stai contraddicendoti. Hai voluto che ti dessi del tu perché non sei vecchia e ora dici che non potrei guardarti con particolare interesse. Se hai parlato seriamente, devo risponderti nello stesso modo.
Ti sei sentita male, hai avuto bisogno di aiuto. Cosa mai avrei dovuto fare, se non aiutarti? Ho compreso bene che eri turbata, indifesa, impaurita, nella vasca. Cosa avrei dovuto fare se non rassicurarti mostrandomi freddo e distaccato? Questo non vuol dire indifferenza, perché non si può essere indifferenti di fronte alla tua bellezza. Come si può non avere il desiderio, l’istinto, di baciarti, di carezzarti? Ma sarebbe stato meschino approfittare del tuo stato, della tua debolezza, del tuo malore, del tuo sentirti chiusa in gabbia e senza scampo. A una mia carezza desidero la risposta d’una carezza, a un bacio la risposta d’un bacio.
E che vuol dire se io abbia visto o meno altre donne nude. Nessuna può reggere, in ogni caso, al tuo paragone.
E poi, che tu ci creda o meno, tutta la notte ho sognato te, in tutto il tuo splendore, seducente, affascinante.
Scusami.”
Si alzò e s’avviò verso lo scalone.
Frieda stava scendendo i primi gradini. Si voltò, vide Paolo:
“Vieni al cinema con me? proiettano…”
Non fu necessario dire il titolo del film, Paolo la prese per il braccio e quasi la trascinò lungo lo scalone, nella sala sottostante.
* * *
C’era poca gente, sparsa qua e là.
Paolo indicò l’ultima fila, le poltrone esterne di destra. Appena si spense la luce, le passò il braccio intorno alle spalle. Un gesto che la ragazza non s’aspettava, anche se, per la verità, era la prima volta che stavano insieme al cinema.
Paolo era il ragazzo che ammirava, che sentiva di amare pazzamente, ma lui non aveva mai dato segno di accorgersi di ciò.
Le aveva infilato l’altra mano sotto il pullover, sbottonata la blusa e s’era intrufolato sotto la leggera maglietta, carezzandole il piccolo seno. Sodo, ben modellato, col capezzolo che la faceva rabbrividire quando lui lo stringeva dolcemente tra le dita.
Gli appoggiò la testa sulla spalla, sfiorandogli il volto coi capelli, fini, lunghi. Quando lui ritirò la mano, trattenne il respiro. Pensò di aver fatto qualcosa di sbagliato, che lo aveva irritato, lo guardò negli occhi come a chiedergli scusa.
Sentì quella mano cercare la cinta della gonna, allentarla, arrivare ai piccoli ganci, in vita, aprirli, entrare, carezzarle il grembo sulla sottana di rayon, sollevarla lentamente, salire all’elastico delle mutandine, scostarle, entrare e scendere, col palmo aperto, verso il pube, più giù. La mano aveva incontrato un piccolo prato di seta sulla pelle vellutata, il medio s’aprì la strada nel tepore caldo umido che l’accolse fremente.
Frieda chiuse gli occhi, sussurrò:
“Piano… piano… dolcemente… così… sì… così…”
Spinse avanti il bacino, dischiuse appena le gambe.
“Così… così… più svelto… più svelto…”
S’agitò senza curarsi di quanto la circondava, sussultava, mise una mano tra le gambe di Paolo e strinse forte. Si contrasse, chiudendo di scatto le gambe e tirandosi improvvisamente indietro. Portò le mani sul volto e restò così, mentre due grosse lacrime le scendevano sulle guance.
Paolo andava ritirando la mano, lentamente. D’un tratto, afferrò un ciuffo di quei fili di seta e li strappò con forza. Frieda sobbalzò. Lui tirò fuori la mano, la mise in tasca, e conservò qualcosa.
Lei tornò ad appoggiare la testa sulla spalla di lui. e rimase così fino alla fine dello spettacolo.
* * *
Erano piccoli fili color dell’oro antico, appena un po’ più grossi dei capelli, quelli che Paolo conservò nella bustina bianca che ripose nella sua borsa.
* * *
A tavola ci fu il brio di sempre. Paolo, però, partecipava meno del solito. Aveva scambiato solo poche parole. Fiorenza s’era addormentata con la testolina sulla tavoletta del seggiolone. Paolo la prese dolcemente in braccio e disse a Laura di dargli la chiave della cabina, vi avrebbe portato la bambina.
“Vengo anch’io” -rispose Laura- “così la metto a letto. Tanto per adesso non si sveglia.”
Nella cabina, Paolo depose Fiorenza sulla letto e, serio e sostenuto, s’avviò per uscire. Laura mise la sua mano su quella di lui, sulla maniglia della porta, guardandolo sorridendo.
“Allora” -disse- “pace?”
E gli sfiorò le labbra con un bacio.
Lui l’afferrò per i capelli, forte, come a volerle far male.
“Pace!”
Rispose, e la baciò con veemenza.
Laura lo fissò, senza staccarsi. Sorpresa, spaventata, contenta.
“Va su, metto a letto Fiorenza, vi raggiungo subito.”
III
Erano attraccati a Port Said. Era sera inoltrata.
Sotto bordo, un pullulare di imbarcazioni cariche delle più svariate cianfrusaglie. Gli uomini delle barche gridavano, decantavano sigarette, accendisigari, torce a pile, ma soprattutto “scandalusa”, una raccolta di sbiadite fotografie di implumi adolescenti in squallide pose che avrebbero dovuto essere erotiche. Lanciavano ai militari e agli operai affacciati dai ponti inferiori una cordicella al cui centro era attaccata una borsa di paglia contenente la mercanzia offerta, e loro ne tenevano l’altro capo. Il cliente tirava la fune, controllava la merce, se d’accordo la tratteneva e metteva la somma pattuita nella sporta che il venditore faceva tornare a sé.
Un altoparlante invitava a visitare il Bazar di Simon Artz, sempre aperto, giorno e notte.
I viaggiatori della terza classe non potevano scendere a terra. La “gerarchia” diceva che preferiva restare a bordo. Ma forse era prudenza.
Paolo non era mai sceso a Port Said, ma ora, sentendosi adulto, voleva farlo. Andò dalla madre.
“Mamma, vorrei scendere a terra, che ne dici se vengono anche Luciana, Frieda e Laura?”
“Hai chiesto il permesso a tuo padre?”
“Lui é d’accordo se lo sei anche tu. Mi ha detto di noleggiare una di quelle carrozzelle che sono in attesa. Al varco d’uscita la guardia ritirerà i permessi di sbarco e annoterà il numero della vettura. Farei il giro della parte centrale della città, visiterei, forse, il Bazar, e tornerei con la stessa carrozzella. Al varco annoteranno il ritorno e mi restituiranno il permesso. Allora, mamma?”
“Paolo, se proprio ci tieni, ma le ragazze no, lasciale a bordo.”
“Non può venire neppure Laura?”
Laura intervenne.
“Ma io ho Fiorenza, altrimenti mi piacerebbe scendere, toccare la terra d’Africa per la prima volta, vedere cose che non ho mai visto…”
Paolo non la lasciò terminare.
“Per il poco tempo che si potrà restare a terra ci penserà la mamma a Fiorenza. Hai visto come vanno d’accordo? Vero mamma, che Fiorenza può restare con te?”
Ada guardò il figlio stringendo le labbra, ci pensò un po’, poi alzò le spalle.
“Certo, certo, se per Laura il solo impedimento é questo, non c’é problema. Baderò io a Fiorenza. Ma voi badate a voi. E tu Laura, porta uno scialle, é umido.”
Sergio dette delle monete a Paolo, spiegandogli:
“Questi li darai alla guardia, al varco, unitamente ai permessi di sbarco. Questi sono per la carrozza, metà glieli dai subito e gli mostri l’altra metà facendogli capire che l’avrà al ritorno. E questi sono per comprare qualcosa. Testa a posto e buon divertimento.”
A terra, vicino alla scaletta, c’era molta gente. Un marinaio della nave chiese se desiderasse una carrozza. Fece un segno d’assenso al poliziotto egiziano che, a sua volta, scelse una vettura. Il marinaio disse che era una delle migliori. Rifiutò, ringraziando, le monete che Paolo voleva dargli e augurò buona serata. Salirono su un trabiccolo un po’ sgangherato. Il vetturino fece un ampio saluto col capo, dicendo “salàm taliàn”, e s’avviò senza fretta.
Il primo tratto di strada era abbastanza buio.
Laura s’accostò a Paolo e gli si mise sottobraccio.
“Adesso posso spiegarti perché ho detto vi raggiungo subito. Avevamo lasciato il gruppo e dovevamo rientrare nel gruppo. Sento che é meglio così. Non é bene, e lo dico per me, stare troppo spesso in disparte solo con te e Fiorenza. Non voglio alimentare la maldicenza….”
Il vento gettava sul volto di Paolo i capelli di Laura. Lui le aveva preso la mano, l’aveva baciata nel palmo e ora la teneva tra le sue dita, mentre col dorso le sfiorava il grembo. I capelli di Laura gli erano sulle labbra. La donna tolse la mano di Paolo dalle sue gambe, la tenne per un attimo sospesa, poi la strinse leggermente al seno.
Paolo era teso.
“Ma chi vuoi che maligni se parli con un bambino. In fondo é così che mi consideri.”
“Smettila” -interruppe Laura- “adesso il bambino lo fai veramente. Certo che la gente maligna se mi vede sempre con un pupo alto e grosso come te e tutt’altro che brutto. Capito?”
Erano arrivati a un largo. La carrozza si fermò e il vetturino fece cenno di scendere e andare a vedere le mercanzie dei piccoli negozi tutt’intorno. Lui li avrebbe attesi. Paolo scese. Laura s’alzò e resto in piedi, guardando in giro. Paolo le cinse le gambe, la sollevò e la depose delicatamente a terra. La sua bocca premette sul grembo di lei. Gli sembrò di sentire un profumo inebriante, un calore che stordiva; aprì le labbra e alitò forte, ricambiando quel calore. Lei gli poggiò le mani sulle spalle, scivolò lentamente fino a toccare terra, lo guardò scrollando il capo.
Al chiarore del petromax il vecchio barbuto stava rifinendo il bracciale di filigrana d’argento, appena terminato, con al centro una figura femminile. Quando vide i due giovani, porse il bracciale a Paolo.
“Nefertiti…” -e indicava Laura- “bella…”
Paolo ne chiese il prezzo, ma il vecchio aprì le braccia facendo intendere che non capiva.
Paolo gli dette alcune monete e per gli inchini e gli shukra che ricevette pensò di non essere stato avaro.
Laura s’affrettò a salire per prima sulla carrozzella. Paolo le prese il braccio e le cinse il polso col bracciale acquistato dal vecchio.
“Nefertiti bella” -disse guardandola negli occhi- “come ha riconosciuto anche quel vecchio che somiglia a Mosè. E spero che non seguiterai a scuotere la testa.”
Laura prese la mano di Paolo e la portò alle labbra. Gli baciò la punta delle dita, teneramente, come se temesse di fargli male. Poi prese a mordicchiarle, coi piccoli e candidi denti che stringevano sempre più mentre lo scrutava in volto, per coglierne le reazioni. Si staccò.
“Attento” -disse- “Nefertiti lascia il segno.”
Riprese a baciarlo sulla mano, sul polso. Si avvicinò al suo orecchio, gli soffiò piano “uuuuh… sono Nefertiti…” strinse il lobo tra i denti, lo lambì con la lingua, lo succhiò. D’improvviso andò a rincantucciarsi nel lato opposto.
“Basta, torniamo a bordo, ti prego, Paolo. Riportami a bordo, ti prego, Paolo…”
Lui la prese tra le braccia, cullandola, carezzandole i capelli.
“Alì” -disse al vetturino- “alla nave… to the ship… al porto… to the harbour…”
Appena superata la scaletta, Laura gli disse che doveva scendere un momento in cabina, poi lo avrebbe raggiunto di sopra.
Ada giocava con Fiorenza, le faceva fare faceva “cavallucci” sulle ginocchia. Vide il figlio.
“Già di ritorno? Qualcosa non é andata bene?”
“Voi mamme siete tutte uguali. Laura non ha fatto che pensare a Fiorenza e al fastidio che poteva arrecarti. A saperlo, sarei andato da solo.”
“Forse non sarebbe stato proprio la stessa cosa.”
Osservò Ada, e riprese a giocare con la bambina.
* * *
Quando salirono per la prima colazione la nave sembrava ferma. Procedeva pianissimo, tra le sponde sabbiose del Canale che aveva imboccato da alcune ore. L’aria era ancora fresca, ma il sole cominciava a scaldarla. Pioggia e freddo erano state lasciate nel Mediterraneo. Molti passeggeri erano affacciati lungo la passeggiata, quasi tutti sul lato Africa dove una strada correva parallela al canale. Era il lato all’ombra.
In fondo alla strada, a poppa, apparve un’auto scoperta che andava avvicinandosi rapidamente, sollevando nuvole di sabbia, fino a raggiungere la nave. Le si affiancò, procedendo alla stessa velocità. Una giovane donna, con la gonna nera e la camicetta bianca, s’alzò sventolando una bandiera tricolore. Sul ponte di comando era presente tutta la “gerarchia”, in tenuta coloniale, e rispondeva al saluto della donna alzando il braccio destro con la mano tesa. Dai ponti inferiori, i militari si sbracciavano agitavano i pesanti caschi di sughero. La donna rispondeva gettando baci, gridando qualcosa. I militari non distinguevano quello che la donna diceva, ma urlavano “viva l’Italia”, “viva il Duce”, “alalà”.
Il vecchio meccanico, sudato e unto, che passava alle spalle dei passeggeri, bofonchiò: “belìn, sempre la stessa menata…”
Laura chiese a Paolo chi fosse quella giovane in auto.
“E’ la Maria Mela, una pagata dal mangia per far credere che anche gli Egiziani ci fanno le feste…”
E Maria sembrava proprio un cane che fa le feste al padrone. Correva avanti con l’auto, poi si fermava ad attendere la nave e riprendeva a sventolare la bandiera e a vociare.
Laura disse che voleva andare a poppa, da dove avrebbero potuto vedere entrambe le sponde: Africa e Asia.
“Andiamo” -rispose Paolo- “forse scorgeremo qualche Ebreo in ritardo, sulla strada della Terra Promessa.”
“Blasfemo” lo redarguì Laura, avviandosi, tenendo per mano Fiorenza, seguita da Luciana.
* * *
Frieda dette la mano a Paolo, come a chiedergli d’essere guidata, protetta.
Dal pomeriggio del cinema non erano più stati soli. Per lei, Laura era abbastanza anziana, e non capiva tutte le eccessive premure di Paolo. Ma cosa ci trovava in quella tettona bianca bianca che già metteva sul viso la crema, e diceva che era per non scottarsi col sole? Mah! Quello che era accaduto al cinema la faceva ancora pensare. Paolo era stato sempre carino, con lei, ma niente di più. Quando avevano ballato, la sera precedente, era stata lei a stringersi forte a lui.
“E’ Plegaria” -aveva detto- “un tango, dobbiamo ballarlo come in Argentina.”
Cosa aveva voluto dirle, Paolo, con quelle carezze? che la voleva? Sarebbe stato bello farlo, anche per lei, ma non aveva ancora diciassette anni. Non era troppo presto? Era vero che Makàl, la ragazza di colore che aiutava in casa, a quell’età aveva già due marmocchi, ma per loro era tutta un’altra cosa. Fare l’amore. Ci pensava spesso, con desiderio e a volte con smania. Le dita di Paolo, che la frugavano voluttuosamente, sentiva che dovevano essere solo uno scialbo surrogato del vero e meraviglioso amore. Comunque doveva decidersi sul da farsi. Ne poteva dipendere il suo futuro
* * *
Erano le dieci della sera quando la nave si fermò al largo di Suez.
Li cominciava il Mar Rosso. Dopo mille miglia sarebbero giunti a Massaua. Una lunga sosta li attendeva in quel porto. Sbarco di militari, di molti passeggeri civili, della maggior parte del carico. Anche i “gerarchi” sarebbero sbarcati a Massaua. Dopo tre giorni la nave sarebbe salpata alla volta di Gibuti.
Sergio pensava che, in quei tre giorni di sosta, avrebbero potuto fare una gita all’Asmara, dove molti amici sarebbero stati felici di ospitarli. Senza importunare nessuno, senza chiede un’auto per il viaggio, avrebbero preso la littorina che s’inerpicava dal mare ai 2400 metri del Capoluogo eritreo.
Mar Rosso. Le sponde d’Africa e d’Asia s’allontanavano sempre più.
Cominciava a far caldo fin dal primo mattino.
A qualcuno sembrava già d’essere a destinazione e cominciava a preparare il bagaglio, per sbarcare.
Dagli oblò spuntavano i manicotti, alla ricerca d’un po’ d’aria nelle cabine.
Stare all’aperto significava prendere tutto il vento che spesso portava della sabbia. A poppa, poi, si raccoglieva anche la cenere dei fumaioli.
L’abbigliamento era decisamente leggero. Ci si avviava rapidamente ad attraversare il tropico.
Laura aveva indossato un gran cappello di paglia, ma un colpo di vento glielo strappò. Un breve volo e la paglia di Firenze finì in mare.
“Meglio un fazzoletto chiaro” -disse Paolo- “ben stretto, e ancor meglio l’ombra della passeggiata.”
Le era alle spalle. Raccolse i lunghi capelli di lei, scompigliati dal vento, li tenne stretti dietro alla nuca, e tirandoli un po’ le fece alzare la nuca.
“Ti ricorda niente?” e tirò ancora.
“Si, molto. Troppo.” Rispose Laura, guardandolo.
Le sdraie erano tutte occupate. Si leggeva, si dormicchiava, si guardava la costa lontana.
Salirono al ponte barche. Era deserto. Il vento era abbastanza forte. Tra due scialuppe, un piccolo tratto di parapetto offrì loro riparo. Laura andò ad affacciarsi. Paolo l’abbracciò alle spalle, le strinse il seno con le mani, il vento gli gettava i biondi capelli di lei in bocca, la premette forte contro il corrimano di legno.
Lei restò immobile, per qualche istante, sentiva mancarle le forze di fronte alla prepotenza di quella spinta che percepiva quasi penetrarle nella carne, che restituì istintivamente. Si voltò con difficoltà, tra le braccia di lui. Ora gli era di fronte, con le gambe leggermente divaricate che accoglievano il vibrare dell’eccitazione del giovane. Lo attirò a sé, baciandolo sulla bocca, dischiudendogli le labbra per sentire la lingua di lui, per suggerla golosamente. Lo desiderava, allora, in quel momento. Ebbra di voluttà e di languore. Lo desiderava. Avrebbe voluto che l’inutile intralcio dei vestiti si volatilizzasse d’incanto. Pur così vicino, le era troppo lontano. Le sembrò venir meno. Vibrava d’un piacere delizioso, in un incredibile e mai provato orgasmo.
Riaprì gli occhi e quasi si sorprese d’essere tra le braccia di Paolo, che le carezzava i capelli, le baciava gli occhi, la bocca, la gola.
“Non deve accadere, Paolo” -ansimò- “non deve, aiutami.”
Ma il suo ventre sembrava volerlo divorare.
IV
COMUNICATO DI BORDO
Mercoledì, 23 dicembre
Arrivo a Massaua, ore 21.
Attracco completato, ore 21,30.
Operazioni di scarico e carico mezzi e merci: inizio immediato.
Sbarco dei passeggeri civili destinati a Massaua: dalle ore 22,30 alle 24.00
Sbarco dei militari: inizio ore 01.00 del 24 c.m.
Passeggeri che proseguono il viaggio
facoltà di scendere a terra: inizio sbarco ore 22.00 termine 22.20 di questa sera
(o dalle 08.00 di domattina)
dovranno essere a bordo entro le ore 22.00 del 24 c.m.
Partenza anticipata alle ore 22.30 del 24 c.m.
N.B.La nave farà scalo a Hodeida
Arrivo a Gibuti invariato
Il Comandante
“Quindi” -disse Sergio leggendo il Comunicato- “la gita all’Asmara va a farsi benedire. Non vedremo le scimmiette curiose guardare la littorina che arranca faticosamente sui tornanti tra Ghinda e Nefasit. Comunque, questa sera potremmo scendere e fare un salto al Circolo della Marina.”
“E se facessimo scendere i ragazzi e noi… riordinassimo la cabina?”
Gli sussurrò nell’orecchio, Ada, con voce vellutata.
“Non chiedo di meglio.”
Concluse Sergio.
* * *
Chissà perché lo scalo di Hodeida.
Il cambio di programma non destò troppa curiosità.
A Paolo non interessava andare all’Asmara e sperava che gli avessero consentito di restare a bordo. Quella mattina, il giorno 23, durante la colazione aveva trovato il modo di carezzare furtivamente la coscia di Laura, calda sotto la leggera gonna.
Lei aveva stretto le gambe, trattenendogli la mano, che quasi se ne faceva accorgere agli altri.
Fiorenza era divenuta la mascotte di bordo. Sorrideva con tutti, faceva ciao a tutti. Voleva far rimpiattino con tutti.
Terminata la colazione Laura pregò Luciana di badare a Fiorenza mentre lei sarebbe andata in cabina a prendere delle cose dal valigione che aveva fatto mettere sull’armadio, fermato con resistenti cinghie.
“Anzi” -chiese a Paolo- “perché non mi dai una mano a tirarlo giù, e poi a rimetterlo a posto, così non dovrò attendere il cameriere?”
Si avviarono verso lo scalone.
La cabina era stata rifatta prestissimo, come Laura aveva chiesto.
Entrati, Paolo si accorse che sull’armadio non poteva esserci alcun valigione perché il mobile toccava il soffitto. Guardò interrogativamente Laura.
“Un momento”, disse la donna, e entrò nel bagno, chiudendo la porta.
Paolo scrollò le spalle e andò verso l’oblò dal quale entrava un vento umido e caldo.
Laura uscì dal bagno, indossando una corta vestaglia bianca, aperta davanti. Sotto era nuda. I capelli, sciolti, ricadevano sulle spalle. S’accostò a Paolo, che dava le spalle all’oblò, e fece cadere la vestaglia sul pavimento. Braccia, scollatura e gambe appena dorate dal sole, in contrasto col candore delle cosce, del seno turgido, arabescato da mille venuzze azzurrognole, sul quale s’ergevano i capezzoli vermigli come fragole mature. Il triangolo del pube era una serica foresta, rossa come certe foglie in autunno.
Paolo la guardò sbalordito, affascinato.
Lo baciò golosamente mentre gli slacciava la cinta dei pantaloncini. Li fece scivolare a terra, subito seguiti dalle mutandine. Sbottonò la camiciola di cotone. Gli mise le mani sul petto, lo carezzò lentamente, scendendo lungo il corpo. Incontrò la violenta erezione del ragazzo. Si sollevò sulla punta dei piedi mentre lui piegava leggermente le ginocchia. Incrociò le sue mani dietro la nuca di lui e cominciò a sollevarsi. Aprì le gambe. Lui, inesperto, sentiva di volerla penetrare ma non ci riusciva. Laura restò attaccata al collo di Paolo con una mano e con l’altra lo guidò. Non appena lo sentì entrare in sé, gli incrociò le gambe dietro la schiena e s’abbassò lentamente, per accoglierlo completamente, tutto, in un delizioso tepore che sussultava fremente. Con le mani dietro alla nuca del ragazzo, le braccia tese, la testa rovesciata, i capelli scompigliati dal vento che entrava dall’oblò, cominciò una voluttuosa cavalcata che le scuoteva furiosamente il petto.
Con le mani sotto i glutei della donna, Paolo ne accompagnò il ritmo. La bocca dischiusa, la lingua lambì i capezzoli che ogni volta che venivano stretti tra le labbra provocavano un fremito nel grembo di lei.
La lunga continenza di Laura, l’eccitazione e il desiderio represso di quei giorni, l’abbandono di ogni inibizione, la condussero a un godimento nuovo, al di là dell’umano, dell’immaginabile, in un orgasmo che la travolse più e più volte, facendole trascurare il compagno che le procurava quelle sensazioni. Voleva egoisticamente godere, per sé, per tutto il tempo che aveva atteso un momento simile. Quando lo sentì esplodere in lei, si strinse ancor più a lui, vibrando come una corda tesa.
Lentamente, molto lentamente, stava cominciando ad allentare la stretta delle gambe, ma lui la tenne ferma, con le mani. Così com’erano, la portò sul letto, sul bianco lenzuolo. E questa volta era lui a muoversi con un ardore e una passione che la sorpresero piacevolmente. Un pestello infuocato che non dava tregua. E lei lo stringeva, lo tratteneva come se avesse voluto ingoiarlo in sé, estrarne il nettare della felicità immortale. Le sembrava che tutto stesse fondendo, in lei. Una nuova tiepida invasione del balsamo delizioso che attendeva, la fece rabbrividire di voluttà. Restò immobile, con lui sopra. Sazia, ansante. Lui le scivolò fuori pian piano, cadde a sedere sul pavimento, con la testa tra le gambe di lei.
Fecero il bagno insieme. Lui l’avvolse nel lenzuolino e la depose sul letto. L’asciugò con delicatezza. La carezzò a lungo, lentamente, come lo scultore che rileva i contorni d’un capolavoro per imprimerli, indelebili, nella mente. Si soffermò su quello splendido roseto senza spine. Lo baciò immergendo la lingua nel cespuglio scarlatto. Lo carezzò ancora. Ne strappò con prepotenza un ciuffo.
* * *
Paolo uscì per primo, dalla cabina di Laura, e andò nella sua. Cercò un libro e andò a camminare sulla passeggiata, fingendo di leggere, come se ciò facesse da molto.
Laura andò a sdraiarsi vicino ad Ada.
La mamma del ragazzo la guardò con una strana espressione di ironica e compiaciuta ammirazione.
“Più bella che mai, Laura, un aspetto incantevole e incantato. Fa effetto sapere che ci si avvicina al marito, vero? Ti comprendo benissimo. Dopo tanto tempo! Immagino con quanta impazienza attendi il prossimo incontro col tuo uomo. Lo si legge nei tuoi occhi, nel tuo volto, così bello e sognante, pieno di soddisfatta gioia, come se tu avessi già… brindato all’amore. Diciamo così.
E sorrise sarcastica.
“Effetto tropico” -rispose Laura, freddamente- “ti dà una sorta di piacere in tutto, anche nel riordinare le cabine…”
“Più che altro” -proseguì Ada- “effetto cabina!”
* * *
La nave s’era fermata al largo di Massaua, mentre le tenebre andavano rapidamente scacciando la luce. Arrivò la barca col pilota. L’uomo s’arrampicò agilmente sulla scaletta di corda che gli avevano calato. Era un Eritreo di mezza età, allegro e cordiale. Salì in plancia, ma dovette attendere alquanto prima di iniziare il suo lavoro. La nave riprese a muoversi, lentamente. Le eliche giravano piano, quasi non se ne sentiva il rumore. Si stava per entrare in rada, ci si stava avviando al molo destinato all’attracco.
Come al solito in questi casi, la gente era affacciata dai vari ponti.
Ada era sola, nel gran salone, sfogliando una vecchia rivista. Sergio scambiava quattro chiacchiere con la “gerarchia.”
Laura aveva appena finito di dare la pappa a Fiorenza.
Nella prima classe, quelli che scendevano a Massaua avevano deciso di cenare a terra, chi proseguiva aveva pregato il Maitre di ritardare la cena al momento che la nave fosse ferma in porto. Il Maitre e il personale, tanto di cucina che di sala, non avevano sollevato difficoltà, anche perché si avvicinava il momento delle mance. Il Commissario di bordo non aveva trovato nulla da eccepire.
I passeggeri di seconda e di terza avevano cenato come al solito.
In un angolo del salone Luciana e Frieda stavano tormentando Paolo, chiedendogli cosa mai gli fosse capitato. Per Frieda lui aveva l’aria di chi “ha rubato la marmellata”. Luciana riteneva che avesse “fumato di nascosto.”
“Smettetela” -disse Paolo- “non ho rubato la marmellata e non ho fumato di nascosto…”
“Ma se hai ancora la bocca sporca di marmellata e il fiato che sa di…”
Uno schianto violento squarciò l’aria.
Il pavimento del salone si sollevò e ricadde di colpo. I pesanti tavoli vennero divelti dai loro fermi e gettati lontano. Le credenze spalancarono gli sportelli, e fu una fragorosa cascata oggetti. La luce si spense. Qualcuno dalle passeggiate fu scaraventato in mare. S’udiva uno scricchiolio lugubre, spaventoso, terrificante, come qualcosa che stesse per spezzarsi. Le eliche erano ferme. Silenzio profondo per qualche istante. Poi lo scroscio d’un torrente che cerca d’aprirsi strada. La nave andava piegandosi su un fianco. Urla di terrore, grida imploranti aiuto. Qualche comando secco che non si capì bene. Gente che correva.
La nave si piegava sempre più, era difficile restare in piedi. Adesso era ben distinguibile lo scroscio dell’acqua che invadeva la nave. Apparve qualche torcia elettrica. Da terra le fotoelettriche e i fari delle navi in porto illuminarono alla meglio il piroscafo ferito a morte.
Laura e Fiorenza, che si trovavano in una zona quasi esclusa dalle conseguenze dell’esplosione, furono tra i primi a essere fatti scendere nelle scialuppe che era stato possibile calare, e che andavano allontanandosi dallo scafo temendo che si capovolgesse da un momento all’altro.
Paolo riuscì ad avvicinarsi a Luciana e Frieda. Sembravano illese. Le afferrò per le braccia e le condusse fuori, sostenendole, appoggiandosi dove poteva per non scivolare e rotolare sul pavimento inclinato. Un marinaio le prese in consegna e le condusse a una scaletta di corda che pendeva sulle barche.
Nel buio, sembrava scorgersi qualche pinna che cominciava a girare intorno a quel caos di grida, di richiami.
Sergio era stato gettato contro la parete, nell’urto s’era prodotto una piccola ferita alla testa, ma poteva muoversi. Raggiunse, a fatica, il salone, chiamò un marinaio con la torcia, che passava correndo, cominciò a esplorare il vano. In un angolo, sotto il pesante tavolo presso il quale era intenta a leggere il giornale, Ada giaceva priva di sensi.
* * *
L’Ospedale di Massaua, logicamente, era impreparato ad accogliere la fiumana ininterrotta di feriti che ambulanze e autocarri portavano continuamente.
Avevano messo brande dovunque, materassini per terra. C’erano feriti gravi, ustionati rossi come gamberi.
Medici, infermieri, suore, non avevano un attimo di respiro. Erano giunti altri medici e infermieri dalle navi in porto, militari e civili. In altri edifici erano stati accolti coloro che erano illesi.
Laura, seduta in terra, guardava intorno, smarrita, con Fiorenza addormentata tra le braccia. Scorse Luciana e Frieda, sole. Fece un gesto con la mano. Le ragazze la raggiunsero e s’abbracciarono piangendo.
“Dove sono gli altri? Ma cosa é successo?”
Chiese Laura.
“Non sappiamo niente” -rispose Frieda- “Paolo era con noi. Sta bene, ci ha aiutato a uscire dai resti del salone. Degli altri, dei miei genitori e di quelli di Luciana non abbiamo notizia. Dobbiamo cercarli, guardare nell’altro capannone, dovunque.”
* * *
Paolo era in cerca della madre, del padre. Girava, con grande pericolo, tra gli oggetti che rotolavano per la sempre maggior pendenza dello scafo che s’andava rapidamente inclinando. Mantenendosi con entrambe le mani discese a fatica lo scalone che portava alle cabine. Molte porte erano scardinate. Poggiandosi alla parete del corridoio riuscì a raggiungere la cabina della madre: vuota. Così quella che occupavano lui e il padre. Gli venne in mente la grossa borsa dove Anna conservava i suoi gioielli, il denaro. Rientrò nella prima cabina. Riuscì ad aprire l’anta dell’armadio: la borsa era lì. Non poteva portarla per il manico, gli servivano entrambe le mani per sorreggersi. Attorcigliò un asciugamano, lo fece passare nel manico della borsa e attraverso la cintura dei pantaloni. Carponi, riuscì a raggiungere il salone. Un Ufficiale di bordo lo vide, lo consegnò a un marinaio, malgrado le proteste del giovane, ordinandogli di abbandonare immediatamente la nave.
Una volta a terra, salì su un autocarro pieno di feriti. Giunse all’ospedale. Percorse le corsie tra gente che soffriva, gemeva, moriva. Nel secondo padiglione una tenda riparava delle persone. La scostò. Su una branda c’era Ada. Pallida, col volto segnato dalla sofferenza. Il padre, seduto su una cassetta vuota, aveva un vistoso cerotto sulla testa, la camicia sporca di sangue. Ada ebbe la forza di sorridere al figlio, con un cenno del capo, appena percettibile, gli disse di avvicinarsi. Con un filo di voce, gli chiese:
“Paolo, figlio mio, come stai? Dov’é Luciana?”
Le prese la mano e la baciò con tenerezza.
“Sto bene, mamma, e anche Luciana sta bene, era con Frieda, le ho fatte scendere subito dalla nave, adesso non so dove siano. Ma tu, piuttosto, come ti senti?”
“Devo aver urtato con la schiena in qualche posto, ma appena passeranno questi dolori starò benissimo. Non dovete preoccuparvi per me.”
Alla luce del giorno si tentava di ricostruire l’accaduto, di fare un censimento dei feriti, degli scampati. Chi era in grado di parlare aveva fornito le proprie generalità. Degli altri, qualcuno era stato identificato da parenti, amici, conoscenti. Se vi fossero dispersi, e quanti, nessuno poteva ancora dirlo. Il Commissario di bordo era riuscito a salvare gli elenchi dei passeggeri e dell’equipaggio e ne aveva consegnato una copia ai Carabinieri.
La Direzione dell’ospedale cercava di mettere ordine tra le carte, aveva fatto ciclostilare numerose schede cliniche di fortuna, riproducendo il cliché che conservavano, e su di esse si registrava lo stato di chi aveva avuto bisogno delle loro cure. Da parte loro, i Carabinieri spuntavano chi non aveva riportato alcuna lesione.
I reparti militari andavano riformandosi, pur se con sensibili vuoti.
Paolo girava dappertutto, nelle corsie regolari, in quelle di fortuna, sotto le tettoie dei magazzini militari, al Comando della Regia Marina, dovunque gli dicevano che c’era gente della nave. E la sua ricognizione riuscì a radunare vicino alla madre, Luciana, Frieda e i suoi genitori, Laura e Fiorenza.
Quando Luciana apparve oltre la tenda divisoria, Ada era assopita. Sergio balzò in piedi e l’abbraccio strettamente:
“Mamma sta bene, Lucianina, sta riposando, ora. Ha battuto forte la schiena ma non dovrebbe essere nulla di grave. Sarà felice di vederti, quando si sveglierà. Ha chiesto tanto di te. E’ preoccupata, anche se Paolo le ha assicurato che eri illesa.”
Gli altri erano restati al di là della tenda. Ugo e Inge , genitori di Frieda, davano la mano alla figlia come a una piccola bimba.
Laura era scoppiata a piangere quando Paolo l’aveva trovata, e gli si era gettata tra le braccia, singhiozzando, con Fiorenza stretta al cuore. Ora era con gli altri. Fiorenza guardava tutti con curiosità, ma non spaventata.
Sergio e Ugo si abbracciarono.
“Dicono che sia stato lo scoppio di una caldaia.”
Informò Ugo.
“Non so cosa dire” -rispose Sergio- “non sono in grado di esprimere un parere, ma non credo che lo scoppio di una caldaia moderna, cosa assai rara, possa causare un danno simile. Eravamo arrivati, la pressione delle caldaie, quindi, doveva essere molto modesta. Per la mia esperienza, devo dirti che mi é sembrato di sentire subito un acre odore di esplosivo.”
Apparve un giovane Ufficiale medico, accompagnato da due barellieri.
“Ingegner Rolli?”
“Si” rispose Sergio.
“Dobbiamo trasferire all’ospedale di Asmara sua moglie e il resto della famiglia.”
“Quella signora” -rispose Sergio indicando Fiorenza- “viaggia con noi…”
“Va bene” -disse il medico- “sull’ambulanza c’é posto anche per lei.”
Ugo domandò che fine avrebbero fatto gli altri, aggiungendo che se lui avesse potuto raggiungere Asmara non ci sarebbero stati problemi, potendo contare sull’ospitalità dei molti amici che aveva in quella città.
L’Ufficiale rispose che tutti i trasportabili sarebbero stati trasferiti all’Asmara, con i mezzi che già erano giunti, allo scopo, dal capoluogo. Poi dette una camiciola pulita a Sergio:
“E’ meglio che si cambi, ingegnere.”
* * *
La lunga fila di ambulanze, cariche di sofferenze e di speranze, si arrampicava lentamente verso Asmara. Andava piano, cercando di evitare scossoni, rallentando ancor più nei lunghi tratti costituiti da ininterrotte serie di curve.
L’ospedale, su una delle ambe che circondano la città, era moderno. Un edificio centrale, a un solo piano, con molti reparti, e numerosi padiglioni, in legno verniciato, disseminati in un vasto giardino, tenuto con molta cura.
Erano tutti in attesa dell’autocolonna. Medici, infermieri, suore. Tutte le crocerossine volontarie erano state mobilitate. Il Governatore dell’Eritrea giunse appena le ambulanze cominciarono a entrare nel vasto piazzale antistante la Direzione. Il Federale, che aveva viaggiato con la stessa nave, era rimasto illeso e aveva raggiunto Asmara appena a terra, con l’auto che l’attendeva al porto. Fece sapere che non poteva muoversi per ordine dei medici, date le sue condizioni fisiche. In effetti, attendeva disposizioni da Roma in merito alla versione da dare sullo scoppio.
Radio e stampa italiane non avevano dato alcuna notizia.
Una trasmittente di Aden, nella emissione destinata all’Etiopia, aveva detto, in amarico, che i patrioti dello Scioa avevano sabotato il carico d’armi e munizioni che stava per essere sbarcato a Massaua, da una nave italiana, destinato a proseguire la distruzione del popolo etiope.
Il Governatore era sinceramente e profondamente commosso. Salutò tutti, con parole di affettuosa comprensione e di augurio per una rapida e completa guarigione. A Sergio, che conosceva bene, una cordiale stretta di mano.
Quando Sergio gli chiese la causa dell’esplosione, scosse la testa senza rispondere.
Ada fu portata direttamente in radiologia.
Gli altri componenti della famiglia Rolli, nonché Laura e Fiorenza, furono condotti a una costruzione di legno, poggiata su una piattaforma di cemento, verniciata in verde scuro, con finestre pulite e ornate di fresche tendine.
“Erano i nostri uffici” -disse la prosperosa e matura capo delle crocerossine, che li aveva accompagnati- “una costruzione solida e ben isolata, con servizi e acqua corrente. In una delle stanze c’é un telefono collegato al centralino. Sono, in effetti, due piccoli appartamenti, ognuno composto di due vani e un bagno. Senza cucina, però, perché si va tutti in mensa. Come vede sono intercomunicanti, ma ognuno ha un’entrata indipendente, sui lati opposti. In ogni stanza abbiamo messo due letti, e tra essi un comodino. Un tavolo e due sedie, un armadio. Accomodatevi come meglio credete.
Sono certa che desiderate un po’ di calma, rassettare le vostre idee. Per questo ho detto alle cucine di portare qui il pasto della sera, delle bottiglie d’acqua minerale e due termos con caffè caldo.
Quanto é accaduto ci aveva suggerito di annullare quello che avevamo preparato per il Natale, ma il Cappellano ha insistito perché nulla sia modificato. Saremo, in ogni caso, tutti insieme spiritualmente, pregheremo il Signore perché ci dia la forza di superare le sventure, di sopportare i dolori, e di donarci la rassegnazione che ci serve per accettare la sua volontà.”
Salirono i due gradini che conducevano a una delle porte della baracca. Un corridoio abbastanza largo (per consentire alle barelle di entrare nelle stanze) con una porta per ogni lato, a destra e sinistra, che portava nelle camere di degenza, con i letti già preparati. In fondo, un bagno con tutti i servizi igienici e il lucernaio che faceva anche da presa d’aria. Un passaggio, al centro del corridoio, custodito da una grossa porta, conduceva nell’altra metà dell’edificio. Sergio, seguito dagli altri, andò a visitarla. Era la copia perfetta della prima.
Sergio si guardò intorno, poi si rivolse al gruppo.
“Credo che questa zona sia la più silenziosa, perché la più lontana dal vialetto. Ada sarà più tranquilla, qui, e dal letto potrà vedere gli alberi del vialetto. Speriamo che ci debba restare molto poco e che presto possa ristabilirsi completamente e riprendere le sue attività. Ecco, la mamma la mettiamo qui. Il letto riceve luce da sinistra, così se vorrà leggere lo potrà fare più agevolmente. Io cercherò di riposare su quell’altro lettino. Qui, poi, c’é anche il telefono. Laura, Luciana e Fiorenza potranno occupare la camera di fronte. Paolo potrà andare nell’altra parte dell’edificio. Chiederemo una culla, per Fiorenza, e se non ne hanno porteremo da voi uno dei lettini che avanzano di là. Tanto i vani sono ampi e c’entra benissimo.”
Si presentò un uomo di colore, in camice blu, con due grossi pacchi.
Fece più volte, con la testa, un cenno di saluto. Entrò nella stanza dove stavano ancora tutti a parlare di ciò che si doveva fare, e deposi i pacchi sul tavolo.
“Buona sera” -il suo Italiano era ottimo- “sono Dachen, addetto a questo settore. Questa é biancheria per bagno e per cambio. Tutto nuovo e buono. Se serve qualche cosa, chiamate il centralino e dite che volete Dachen alla casa numero otto. Buona sera.”
E prima che qualcuno potesse rivolgergli qualche domanda, uscì allontanandosi rapidamente.
Laura aprì i pacchi. Asciugamani di diversa grandezza, pigiami, scarpe bianche da ginnastica, calze, pantaloncini, camiciole, gonne, blusette, mutandine, due vestitini per la bambina, e altre cose.
“Dobbiamo chiedere del sapone, se possibile qualche spazzolino da denti…”
Disse Laura.
“C’è tutto nei bagni” -interruppe Paolo- “ci manca solo di sapere come sta la mamma. Papà, perché non le vai incontro e chiedi cosa abbia? Al resto possiamo pensare Laura, Luciana ed io.”
Sergio fece si con la testa e s’avviò verso il reparto radiologia.
Andarono in quella che sarebbe stata la camera di Laura e di Luciana. Fiorenza guardò i due lettini e rivolgendosi alla madre chiese:
“E io?”
“Adesso viene il tuo lettino, tesoro.”
Rispose Laura.
Lei e Luciana suddivisero gli asciugamani nei bagni ed il resto negli armadi. Fu necessario dare qualcosa a Fiorenza perché anche lei voleva aiutare.
Sul vialetto s’era fermata l’ambulanza. Ne discese Sergio. Poi l’autista, che aprì il portello posteriore. L’infermiere che era nell’interno gli fece cenno di tirare la barella. Scese anche lui, e con molta attenzione la sollevarono e la portarono nella camera che Sergio aveva indicato. Poggiarono la barella sul pavimento, arrotolarono a piedi la coperta e il lenzuolo del lettino. Sollevarono cautamente Ada, con tutto il lenzuolo, e la deposero sul letto. Pian piano le sfilarono il lenzuolo della barella. La ricoprirono, accomodarono i cuscini cercando di evitare posizioni scomode per la testa. Chiusero la barella, e quello che aveva guidato disse che se non serviva niente altro loro andavano via.
“Per ora, non posso dirvi altro che vi sono grato.”
Rispose Sergio.
Nella camera c’erano tutti. Fiorenza dava la manina alla mamma.
Ada era molto pallida, con gli occhi aperti. Quando vide che tutti le erano intorno, strinse le labbra e mormorò:
“Scusate, ma mi hanno un po’ strapazzata. Hanno dovuto farlo, capisco, ma mi hanno provocato qualche doloretto, come se non bastassero quelli dovuti alla contusione. Forse dovrei riposare un po’. Mi sento confusa. Forse é a causa dell’iniezione che mi hanno fatto.”
Uscirono tutti, rimase solo Sergio.
Un triciclo stava portando il pasto della sera e quanto aveva detto la crocerossina.
Paolo fece mettere tutto sul tavolo di quella che sarebbe rimasta la stanza vuota.
Dopo un po’, Sergio li raggiunse nel piccolo slargo, tra il vialetto e la baracca. Un semicerchio, che serviva di sosta ai veicoli, con due sedili di ferro.
Sedette su una panchina e tutti gli furono intorno. Fiorenza gli andò vicino e gli pose una manina sul ginocchio, guardandolo fisso.
“Vi sono delle fratture” -cominciò Sergio- “per fortuna senza spostamento delle ossa, ma comunque dovranno ingessarla. Le radiografie non mostrano nulla di particolare, internamente, ma il radiologo ha detto che i tessuti molli non sono facilmente esplorabili con i raggi. Se dovessero sospettare qualcosa di significante, farebbero un’esplorazione diretta. Né lui né il chirurgo credono che ci siano emorragie interne o lesioni di organi interni. Il cardiologo ha prescritto un cardiotonico. Ha sentito un cuore che ha definito “stanco”, come se fosse di una persona anziana. Mi ha chiesto se Ada avesse avuto, in passato, disturbi cardiocircolatori. A me non sembra che abbia mai accusato qualcosa del genere.”
“Ma guarirà completamente?” -chiese Paolo- “Voglio dire, camminerà bene?”
“L’ho chiesto anch’io” -rispose Sergio- “e mi é stato detto che la natura delle fratture non dovrebbe avere come conseguenza una limitazione della deambulazione, ma che in ogni caso si dovrà attendere che sia tolta l’ingessatura. Intanto interverranno con una terapia medica per aiutare la calcificazione.”
Senza che loro se ne accorgessero, era giunta, silenziosamente, una giovane donna in bicicletta.
Sergio le andò incontro.
“Sono Aisha, infermiera specializzata. Mio padre é il dottor Romano, che lei, ingegnere, conosce bene. Sono qui per aiutare la signora a mangiare qualcosa. Deve farlo, e bisogna profittare del calmante che le é stato iniettato. Poi la preparerò per la notte. Lei non chiuda a chiave le porte, perché passerò ogni due ore. Se dovesse aver bisogno, mi chiami attraverso il centralino.”
Chiese dove avessero messo i portavivande con la cena. Entrò decisa. In un piatto versò qualche cucchiaiata di minestrina, in un altro mise un po’ di frutta cotta, prese tutto e si avviò verso la camera dove stava Ada.
“Per favore” -chiese a Laura- “porti un tovagliolo. Lei é la figlia, vero?”
“No” -rispose Laura, raggiungendola col tovagliolo- “sono un’amica e compagna di viaggio. Sono la moglie del dottor Russo che é stato anche qui e ora é ad Addis Abeba.”
Aisha si voltò a guardarla attentamente.
“Bellissima moglie per un bel marito. Quella é la sua bambina? Come si chiama? No, lasci che mi ricordi. Si, si chiama Fiorenza, e lei é Laura. Suo marito parlava sempre di voi. Per favore, venga qui, mi aiuti a sistemare i cuscini.”
Ada mandò giù un cucchiaio di minestra. Si vedeva che ce la metteva tutta per essere un’ammalata docile, ma non riusciva a nascondere la sua sofferenza. Bevve un po’ di latte.
“Per ora va bene così” -le sorrise Aisha- “domattina la mia collega le darà una bella spremuta d’agrumi, dopo aver pensato alla sua igiene personale. Buona notte.”
Uscì, riprese la bicicletta che frugava nel buio con la fioca luce del fanalino, sparì dietro la curva.
* * *
Era notte fonda, e tutt’intorno silenzio.
Paolo non riusciva a chiudere occhio, ripercorreva gli avvenimenti come se assistesse alla proiezione d’un documentario. Uno spettatore che rivedeva sé stesso sullo schermo: la nave, l’esplosione, il mare, le pinne dei pescecani, l’ospedale, l’ambulanza, un altro ospedale…
La porta si aprì lentamente. Entrò un’ombra e rinchiuse l’uscio, si avvicinò al lettino, sollevò la leggera coperta, vi entrò. In silenzio, senza parlare.
Lo carezzò, lo baciò bagnandogli il volto con le sue lacrime, cercando di asciugarle coi lunghi capelli. Lo abbracciò, lo cullò. Avrebbe voluto potergli dare qualsiasi ricchezza, pur di scacciare la tristezza dal suo cuore. Ma non aveva nulla, poteva donargli solo sé stessa, tutta sé stessa, con tutta l’anima, per sempre. Gli sussurrò che era sua, solamente sua, che lo amava, gli voleva bene, che non voleva lasciarlo più. Lo accolse in sé, dolcemente, teneramente. Sentì di condurlo a irraggiungibili vette, fino ad allora inviolate, e da lì volò con lui nell’ infinito del piacere, guidandolo e lasciandosi guidare. In un labirinto meraviglioso dal quale non avrebbe più voluto uscire. E sapeva che mai più avrebbe dato e ricevuto più deliziosa voluttà.
Poco prima dell’alba si svincolò lentamente dal forte abbraccio di lui che dormiva profondamente col capo sul suo seno, lo carezzò ancora, con appassionata tenerezza, e tornò, piangendo per l’estasi e il tormento che l’invadevano, nel freddo lettino della sua camera.
V
Il dottor Carmine Russo aveva saputo, dai suoi colleghi di Asmara, che Laura e Fiorenza stavano benissimo e si trovavano, con alcuni compagni di viaggio, presso quell’ospedale.
Il dottor Romano, vecchio coloniale che aveva sposato una splendida Eritrea, si affrettò ad andare a salutare Sergio Rolli, suo vecchio amico, anche per rassicurarlo sulle condizioni di Ada, e a portare a Laura i saluti del marito, che aveva sentito per radio.
Romano era stato a Massaua fino a poche ore prima. Uno spettacolo doloroso e desolante. Chi si trovava nella parte inferiore della nave, nella zona vicina all’esplosione, poteva dirsi miracolato se s’era salvato.
“E’ bene che la signora riposi un poco, prima dell’ingessatura. Deve star ferma, certo, ma é meglio così. L’ingessatura é sempre un trauma.”
Disse Romano a Sergio, aggiungendo:
“Venga a casa mia, ingegnere, lei, i ragazzi, Laura Russo e la figlia. Starete meglio di qua, sicuramente, e potrete venire in ospedale tutti i giorni e fermarvi con la signora quanto vorrete. Sua moglie sarà curata amorevolmente. Assegneremo un’infermiera tutta per lei.”
Sergio ringraziò, ma disse che lui e i ragazzi sarebbero rimasti lì, con Ada, e avrebbero lasciato l’ospedale con Ada. Se Laura voleva, poteva accettare lei, con la bambina, l’ospitalità così affettuosamente offerta.
Laura ringraziò a sua volta, ma disse di sentirsi parte della famiglia Rolli e di condividere la decisione del capofamiglia.
* * *
L’ingessatura era fissata per lunedì, 28 dicembre, alle nove.
Sergio si svegliò molto presto. uscì dalla camera badando a non fare il minimo rumore. Portò i vestiti nel bagno. Si lavò, indossò i pantaloni di tela e la camiciola di cotone, calzò le scarpe da ginnastica e uscì, sempre piano, fuori della baracca. S’avviò verso la sala mensa, sperando di prendere un buon caffè. Ne aveva proprio bisogno.
Aisha aveva iniziato il turno da poco. Lo salutò e disse che sarebbe andata a svegliare Ada e a prepararla per l’ingessatura. Purtroppo la signora doveva restare digiuna, meglio non farle ingerire nulla prima dell’anestesia.
Il “Corriere” di quella mattina recava una breve notizia. Quarta pagina, prima colonna, in basso.
“Nel porto di Massaua, nei giorni scorsi, una nave in arrivo dall’Italia, causa un’improvvisa avaria del timone, ha incontrato delle difficoltà in fase di attracco al molo. A bordo vi sono stati alcuni contusi.”
Sergio scosse sconsolatamente la testa, si avvicinò al bancone dov’era in caldo il caffè, e ne sorseggiò lentamente una tazzina, così com’era, amaro. Uscì dal locale mensa e riprese la strada per la baracca.
Subito dopo la curva gli apparve la verde costruzione. Aisha era ferma sul viottolo che conduceva all’entrata posteriore. Dal viale grande giungevano due medici in bicicletta. Si fermarono a salutare Sergio. Aisha li raggiunse e fece un impercettibile cenno agli uomini in camice bianco.
“Ingegnere” -disse il medico più anziano- “andiamo dalla signora, non si sente molto bene. Venga.”
Entrarono nella camera.
Ada era sempre col volto verso la parete, come quando Sergio l’aveva lasciata uscendo piano per non svegliarla. Aisha restò sulla porta. I tre uomini s’avvicinarono al letto. Ada era terribilmente pallida, il volto sereno, disteso, un lieve sorriso sulle labbra.
Non si sarebbe svegliata mai più.
* * *
Asmara si fermò, quella mattina.
I funerali di Ada Rolli testimoniarono la solidarietà non solo degli amici, ma di tutti gli Italiani della città. E fu commovente la partecipazione affettuosa della popolazione indigena che voleva ringraziare, in tal modo, la donna che avevano visto dovunque c’era stato bisogno d’aiuto.
La signora Romano, la moglie del medico, ripeteva, in tigrino e in italiano, che Ada aveva scelto di restare per sempre nella terra che aveva amato e che l’aveva amata.
* * *
Quella sera in casa Romano c’era molta gente: i Rolli, Laura e la bambina, Frieda coi genitori, altri amici.
“Non ho le idee molto chiare” -disse Sergio- “ma non si può rinviare all’infinito una decisione. Bisogna stabilire se dobbiamo rientrare in Italia o proseguire per Addis Abeba, posto che li ci siano le condizioni per abitarvi coi ragazzi. Credo che seguirò l’esempio di Ugo. Farò come lui. Andrò, solo, ad Addis Abeba e mi guarderò in giro, per vedere come arrangiare le cose. Questo, logicamente, se Romano sopporterà ancora i miei ragazzi, nonché Laura e Fiorenza, anche perché non é il caso di imbarcarli sui trabiccoli dell’Ala Littoria. Eventualmente, sarà meglio riprendere il viaggio via Gibuti. Peccato che il marito di Laura sia bloccato ad Addis Abeba per ragioni di servizio. Bisogna dire che debbono essere motivi gravissimi se non gli hanno consentito di raggiungere moglie e figlia in un frangente simile. Ma questa é la vita dei dottori, vero Romano?”
Romano abbassò più volte il capo.
“Vuol dire” -riprese Sergio- “che se la decisione di Russo sarà quella di farsi raggiungere dalla famiglia, e io credo che sarà questa, Laura potrà unirsi a noi, qualora anche noi restassimo in Africa. O si stabilirà cos’altro fare. Ad Addis Abeba vedrò il dottor Russo e ne parleremo.”
Laura ebbe bisogno di schiarirsi la voce, prima di poter parlare.
“Ingegnere, se per voi, per voi tutti, può significare qualcosa, sappia che dovrete considerarmi parte della vostra famiglia, e per sempre.”
“Grazie Laura” -rispose Sergio- “le sono veramente grato, perché questa sua offerta, generosa e affettuosa, può essere determinante ai fini di una decisione. Allora, Ugo ed io partiremo in aereo, domattina alle sette.”
Romano intervenne.
“Vorrei fare una prepotenza, ma certo non uno sgarbo, ai comuni amici che ospitano i Francacci. Per cercare di sollevare gli animi, e Dio sa quanto ve ne sia bisogno, sarebbe bene che Inge e Frieda vengano qui. Avete visto che in questa casa sono più le stanze inutilizzate che quelle occupate. Allora, da questa sera tutti qui, d’accordo?”
“In effetti é vero” -osservò Sergio- “sarebbe bene essere tutti insieme, come spesso lo saremo se andremo tutti ad Addis Abeba. Chi ti ospita sarà certamente comprensivo, Ugo, e se per tua moglie e Frieda non costituisce disagio sarebbe opportuno che si trasferiscano qui.”
Ugo guardò la moglie e la figlia, prima di rispondere.
“Certamente nessun disagio. Anzi un piacere per Inge e Frieda che potranno stare insieme ai vecchi e nuovi amici. Trasferirsi qui é una cosa semplice e rapida. Il bagaglio consiste in poca biancheria e i vestiti che abbiamo comprato nei giorni scorsi.”
Miriam Romano era stata in silenzio, ascoltando tutti, guardando attentamente chi parlava. Aveva poco più di quindici anni quando aveva sposato il suo akìm. Ora Aisha ne aveva ventidue, e sembravano due sorelle. Alzò la sua mano, curatissima, come a chiedere il permesso d’intervenire.
“Ringrazio il mio akìm” -disse- “per l’invito che vi ha rivolto, e ringrazio voi che l’avete accettato. La nostra modesta casa sarà onorata per la vostra presenza. Credo che le camere coi letti grandi potranno ospitare una Laura e Fiorenza e l’altra Inge e Ugo, quelle a due letti singoli potranno accogliere, rispettivamente, Luciana e Frieda, Sergio e Paolo. Se volete diversamente, dovete solo dirlo.
Le camere sono tutte al primo piano, a sinistra. Dall’altra parte siamo noi: l’akìm. io e Aisha.”
Nessuno ebbe da obiettare. Miriam sorrise e ringraziò e disse che l’auto era a disposizione dei Berti per andare a prendere le loro cose.
* * *
Laura non riusciva a distogliere lo sguardo da Paolo. Il giovane aveva gli occhi rossi, le mascelle strette. Non aveva versato una lacrima. Non parlava con nessuno, cercava di stare solo il più possibile, e dormiva solo, perché Sergio era partito con Ugo, nella vasta camera che divideva col padre.
Laura gli si sedeva vicino, gli prendeva la mano. Lo invitava a passeggiare in giardino. Lui accettava tutto senza parlare. Lei gli si metteva sotto braccio, stringeva la mano di lui al suo seno, lo sfiorava con baci sfuggenti. Non sapeva come comportarsi, non comprendeva se queste attenzioni gli fossero o meno gradite.
Fiorenza era spesso con loro. Sembrava comprendere che non doveva dare fastidio. Se ne stava a giocare, in silenzio, con le bamboline che le aveva regalato Aisha, una bianca e una nera. Lei le aveva battezzate “mamma” e “mirià”.
* * *
Paolo era sul dondolo, nel giardino.
“Posso?”, gli chiese Laura.
Lui tese la mano, la invitò a sedergli accanto, immobile, senza volgere la testa.
“Laura, sono solo!”
“No, amore mio, non sei solo. Hai tuo padre, hai tua sorella. Se tu lo vuoi hai me. Maledico di essere vecchia, sposata, con una bambina. Forse bestemmio, ma darei volentieri tutto per poter stare con te, per poter dire a tutti che voglio restare con te, amarti, accudirti, non lasciarti mai. Cosa posso fare per te, Paolo, per non vederti cosi?”
Paolo scosse la testa.
“Non lo so, Laura, ma stammi vicina. Stammi vicina anche se non ti parlo, anche se ti sembro scostante, anche se sono sgarbato con te. Voglio sentirti vicina. Non ho nessuno, sono solo, sono diventato adulto all’improvviso, come se tutto fosse precipitato sulle mie spalle. Eppure non é, non deve essere così. C’é mio padre. Ma io vorrei poter fuggire. E vorrei fuggire con te, Laura. Essere abbracciato da te, cullato, allattato da te come un bambino piccolo, più piccolo di Fiorenza. Come avevi ragione quando mi hai chiamato bambino.”
Laura aveva gli occhi pieni di pianto, le labbra tremanti.
“Viene in braccio a me, tesoro mio, fatti cullare, dissetati al mio seno, riposa sul mio cuore. Ti veglierò fino a quando tu vorrai, fino a quando non ti risveglierai. Non m’importa di niente e di nessuno. Voglio che tu ti senta al sicuro con me, tra le mie braccia, in me. Vieni…”
E lui si fece cullare, abbracciandola, col capo sulla spalla.
Dalla finestra del soggiorno Frieda vedeva il lento oscillare del dondolo. Appariva e scompariva ritmicamente dietro la pianta che lo nascondeva.
Col suo carico di tenerezza e d’amore.
* * *
Nel profondo silenzio della notte, aveva udito provenire dal corridoio un fruscìo, un passo cauto, furtivo. Tese l’orecchio, ma non riuscì a percepire nulla. Si alzò, scalza, senza fare il minimo rumore, facendo attenzione anche al muoversi della leggera coperta, si avvicinò alla porta, origliò. Niente. Silenzio assoluto. Nella camera, solo il respiro regolare di Luciana, pesantemente addormentata. Andò ad accostare l’orecchio sul muro che la divideva dalla camera di Laura e Fiorenza. Le sembrò di sentire un corto e sommesso respiro. Uno solo. Non poteva essere Laura, quel respiro era troppo leggero. I suoi sospetti divenivano certezza. Ma li avrebbe smascherati. Senza chiasso, senza scenate. Del resto, con quale diritto avrebbe potuto intromettersi nella vita di Paolo? E cosa avrebbe potuto dire a Laura? Dopo quella notte, però, ogni suo sguardo a quella donna sarebbe stato un chiaro messaggio di disprezzo. Lei, Laura, una donna sposata, comportarsi così con un ragazzo!
Aprì la porta con lentezza esasperante. La richiuse accompagnando la maniglia in modo che non si udisse lo scatto dello scrocco, e ponendo una mano tra i battenti per farli riaccostare silenziosamente.
Il corridoio era vuoto. Dalla finestra, posta in fondo, entrava il debolissimo chiarore della fioca illuminazione del giardino. Paolo dormiva nell’ultima camera, verso quella finestra. Lei sapeva che non l’avrebbe trovato solo.
E se si fossero chiusi a chiave?
Camminava scalza sul ruvido tappeto. Quasi senza calpestarlo.
Con la stessa tecnica usata in precedenza, abbassò la maniglia. L’uscio s’aprì. Scivolò dentro, richiuse la porta con spasmodica attenzione. Nella penombra scorse il lettino dove dormiva Paolo. L’altro era vuoto. Vi si avvicinò pian piano. Paolo era supino, verso il muro, le braccia un po’ discoste dal corpo, le gambe appena divaricate. Indossava solo i pantaloncini del pigiama. Il cuscino era per terra. Dormiva profondamente.
Frieda lo guardò con gioia, felice che tutto quello che aveva immaginato era infondato. Si, Paolo era solo.
Salì sul letto con leggerezza felina quasi senza gravare sul materasso. Avvicinò il suo volto a quello di lui, ne bevve il respiro, ne sentiva il tepore. Lo sfiorò con un bacio, gli passò la lingua sulle labbra, sul collo, inebriandosi al sapore della pelle.
Paolo non si mosse, seguitava a dormire.
Gli si sdraiò a fianco, a pancia sotto, con parte del corpo fuori dal letto. Gli poggiò la mano sul petto, sentì i battiti forti e regolari del cuore. Ritirò la mano senza quasi sfiorarlo, delicatamente, come lui aveva fatto al cinema, quella volta, e la infilò nell’apertura dei pantaloni. Mosse le dita sul vello cresposo con la leggerezza d’una farfalla. Scese in basso fino a incontrarne il sesso. Lo avvolse teneramente nella sua manina stringendolo appena, con un trionfante sorriso di possesso.
Si addormentò così.
grammaticalmente pessimo........
Ciao Ruben, sei un mito! Hai un modo di scrivere che mi fa eccitare! La penso esattamente come te. Se…
Ti ringrazio, sono felice che ti piacciano. Vedremo cosa penserai dei prossimi episodi, quando si chiuderà anche la sottotrama di…
Davvero molto bello. Piacevole come gli altri e decisamente pregno di sentimenti espressi senza risultare melensi o ripetitivi. D'impatto leggiadro,…
Come ti ho detto, in pochi e poche sanno sa scrivere in maniera così eccitante sia dare un senso ad…