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Racconti Erotici Etero

Sempre così

By 13 Febbraio 2004Dicembre 16th, 2019No Comments

Se Caino fosse stato femmina non avrebbe atteso a lungo: avrebbe ucciso anche la madre, oltre la sorella.

Perché tanta gente?

Gli bastava solo lei.

A tutto.

Nel modo primitivo, molto semplice e ingenuo, le donne si affermavano in tal modo, senza andare tanto per il sottile: Dedicavano la concorrenza al pasto delle belve e divenivano padrone assolute del campo.

Oggi, crudeltà del genere sono superate. Non si ricorre all’eliminazione fisica, anche perché la sconfitta della rivale deve potersi godere a lungo, ogni volta che la s’incontra, in un continuo rinnovarsi dell’orgasmo mentale, più voluttuoso di ogni altro.

Anche se l’opportunità può suggerire la riservatezza degli interventi, si preferisce leggere negli occhi della sconfitta l’umiliazione, ogni volta che la si incontra, e godere il trionfo, con le narici frementi.

Si comincia presto, quasi senza accorgersene, in modo del tutto spontaneo, connaturato, con piccole calunnie che mettono in cattiva luce chi vogliamo separare dalla persona o dal luogo che ci interessa. (E’ stato lui ‘o lei- a….)

Piccole delazioni: al genitore ‘anche a danno della propria madre-, al maestro, al confessore e, in seguito, agli altri, a coloro che, ingannati, possono determinare la riuscita dei nostri piani.

Qualsiasi manovra, qualsiasi mezzo, pur di apparire superiore agli altri. Quasi sempre all’altra. Contro chiunque ci faccia ombra o, comunque, per conseguire il fine. Qualunque sia.

Sempre così.

Più o meno.

CABINA 21, ORE 10

Era poco più d’un soldo di cacio, una delle più piccoline della sezione A della seconda media, e raccontava alle sue compagne dell’amore travolgente, corrisposto, che la legava a quello studente, alto e bruno, dagli occhi scuri, di diciassette anni, col quale si vedeva spesso. Le famiglie erano amiche, anche se non si frequentavano molto. Con mille scuse, andava a casa di lui e sovente s’incontravano al cine. Beh, meglio sorvolare su certi particolari, diceva alle compagne avide di sapere ogni cosa. No, ancora non avevano fatto quello, ma vi erano andati molto vicini. Aveva lunghe mani deliziose, lui, e lei si era accorta che lo eccitava moltissimo. Quando lo incontrava, trovava mille scuse per fermarlo, per lanciargli lunghe occhiate languide, svenevoli e sdolcinate, scopiazzate dalle pellicole rosa pseudo-sentimentali.
La cosa non era sfuggita a Elda, la giovane insegnante di matematica, che, facendo mostra di correggere i compiti o di leggere un libro, tendeva l’orecchio ai coloriti racconti bisbigliati da quella mocciosetta. Non aveva la presunzione di essere una bellezza sconvolgente, travolgente, ma era certa che una donna a ventiquattro anni poteva offrire, a un giovane, specie se alle prime armi, ben altre prospettive di quelle che poteva attendersi da una bambina implume. La incuriosiva, inoltre, l’insistenza, in quelle storielle più o meno fantasiose, sulla mano deliziosa, sull’eccitamento di lui.

Quella piccola e sgraziata impostora in nuce andava sbugiardata. Quanto meno ridicolizzata.

Era da poco iniziata la proiezione di un documentario. S’abituò presto al buio. Per questo era rimasta alcuni secondi fuori della sala, con gli occhi chiusi. Lui era seduto in un posto d’angolo. Ultima fila della galleria. Avanzò lentamente, come a tentoni, gli fu a fianco, finse di non vederlo, tolse la leggera giacca di lana, sedette, si appoggiò sul bracciolo, incontrò il gomito di lui che lo ritrasse lentamente, voltandosi verso la donna. Elda gli sorrise e, a sua volta, spostò il braccio facendo giacere in grembo la piccola mano delicata.

Quando s’accese la luce, Cesare l’esaminò attentamente, dalla testa ai piedi, con discrezione ma senza infingimento, con interesse più che curiosità. L’aveva riconosciuta, era una professoressa delle medie, l’insegnante di matematica di quella scocciatrice di Violetta, che lui chiamava Minnie, la compagna di topolino. Lei, immobile, fissava lo schermo ben conscia di essere oggetto di un attento e critico giudizio estetico.

Una ‘bonazza’, piccolina ma ben fatta, con un visetto abbastanza regolare, belle tette e, per quel che si poteva vedere, belle gambe. Abbastanza giovane, anche se aveva alcuni anni più di lui. Chissà perché era sola, ed era andata a sedersi accanto a lui, con tanti posti liberi. Un caso o una scelta? E perché? Meglio non montarsi la testa. Una donna di quel genere, già affermata professionalmente, alla sua età, non avrebbe soffermata la sua attenzione su uno studentello come lui.

La luce si spense, cominciava il film.

Ad ogni buon conto, decise di accertarsi, con garbo e cautela, degli spazi che eventualmente gli sarebbero stati concessi.

Occupò l’appoggio in modo che il braccio le sfiorasse il petto. Nessuna reazione. Ancora un lieve movimento, una strusciata impercettibile, quasi fosse involontaria, a titolo di sondaggio. Gli sembrò che lei si accostasse a lui. Lasciò cadere, distrattamente, la lunga mano, curata, finché le dita snelle lambirono la giacca che Elda aveva poggiato sulle ginocchia. La donna ebbe un momento di incertezza. Poi poggiò la sua mano su quella del ragazzo.

Che la vicinanza fosse fortuita o meno, poco importava. Lei, ci stava!

Iniziò come un filarino tra adolescenti. Lei, improvvisamente, era tornata indietro di dieci anni, divenendo la fidanzatina dolce e turbata al suo primo amore. Rapidamente, però, furono presi da una passione sempre più travolgente, che li rendeva incauti, imprudenti.

Elda non aveva mai immaginato che una sia pur meschina affermazione di superiorità nei confronti di una bimba che le stava antipatica, si sarebbe trasformato in un sentimento che la tormentava, soprattutto per il domani. Lo baciava furiosamente, lo stringeva a sé, cercando avida le carezze di quella deliziosa manus voluptatis, preludio di piaceri sconvolgenti.

Violetta, comunque, avrebbe dovuto sapere. Altrimenti a che serviva?

Dove era solita conservare la cartella coi libri, nel suo banco, Violetta trovò un biglietto: ‘Domenica, alle 10, al mare, cabina 21, Cesare’.

Il cuore le batteva, impazzito. Fu pervasa da un dolce tepore, che diveniva sempre più ardente, che la inebriava, le attanagliava le viscere. Era sicura che domenica, alle 10, nella cabina 21, sarebbe divenuta la donna di Cesare.

Quella mattina si preparò per uscire presto. Indugiò sotto la doccia, carezzandosi lentamente, con gli occhi socchiusi, pregustando il suo primo vero incontro con Cesare. Aveva sognato tante volte di stare con lui. Ora, finalmente, era giunto il momento tanto desiderato, e in un certo senso paventato. Come sarebbe stato? Ne aveva parlato tante volte, con le amiche, con millantata ma inesistente esperienza. Ora si sarebbe trovata di fronte alla realtà. Credeva di essere pronta, ma lo era veramente? Aveva letto che in alcuni Paesi del mondo a tredici anni si era già madri. Sì, ma lei viveva qui, e a malapena dimostrava la sua età. Si guardò allo specchio, nuda. Era proprio una bambina, ma con tutti i desideri della femmina.

Disse alla mamma che sarebbe andata alla Messa delle otto e trenta, alla chiesa di Santa Maria del mare, poi, dopo aver consumato qualcosa al bar, si sarebbe fermata un po’ sulla spiaggia. Il cielo era sereno e la temperatura mite.

Mancava almeno mezz’ora all’appuntamento e lei, seminascosta da alcune barche a secco, fissava la cabina 21. Cesare non s’era ancora visto. Il tempo trascorreva con lentezza esasperante, ma del ragazzo nemmeno l’ombra. Forse era già entrato, mentre lei stava in Chiesa, e l’attendeva impaziente. S’avvicinò senza fretta alla porta della cabina, afferrò la maniglia, l’abbassò appena, la porta s’aprì.

Sul piccolo letto della cabina, Cesare era supino, completamente nudo, ed Elda, senza nulla indosso, lo cavalcava freneticamente, con gli occhi chiusi, il capo piegato all’indietro, i capelli sciolti sulle spalle, dalle sue labbra dischiuse sortiva un roco, incalzante gemito che terminò in un urlo soffocato, liberatorio, quando gli si abbandonò sul petto baciandolo voluttuosamente.

Violetta era impietrita, attonita, si voltò e s’allontanò di corsa, lasciando la porta aperta.

ALMENO UN BACIO
Era tornato dal lavoro, un po’ stanco, come al solito. S’era avviato al bagno, per una doccia ristoratrice, mentre Gina, seduta sullo sgabello, lo attendeva, pronta ad aiutarlo ad infilare l’accappatoio. Il bambino dormiva nella culla, con i pugnetti chiusi, il volto sereno, dopo l’abbondante poppata che aveva succhiato avidamente dal florido senO della mamma.

‘Nessuna novità?’

‘Niente di nuovo, cara. Non si vede alcuno spiraglio che indichi una migliore sistemazione. E il bimbo?’

‘Abbastanza tranquillo.’

Si presero per mano e andarono nella camera da letto.

Lei gli aveva preparato la biancheria e gli indumenti per cambiarsi. Gli sciolse la cinta dell’accappatoio, glielo sfilò, lasciandolo cadere sul pavimento. Rimase ad ammirare il suo uomo, con uno sguardo dolce e nel contempo affascinato da quella nudità giovane e prepotente. Gli si avvicinò, si strinse a lui, con le labbra avide cercò quelle di lui, mentre gli scorreva la mano sul petto, sul ventre, più giù, eccitandosi orgogliosa di non essergli indifferente. Un minuto dopo lo accoglieva in sé, fremente, serrandogli le gambe sul dorso, mungendolo fino all’ultima stilla, paradisiacamente beata.

Erano così, voluttuosamente affranti, quando trillò il telefono. Lui si alzò, lentamente, e senza indossare nulla andò nella stanza dov’era l’apparecchio. Parlò brevemente, salutò e tornò dalla moglie che giaceva come l’aveva lasciata, deliziosamente discinta, il seno rigoglioso, gli scuri capezzoli turgidi, il ventre piatto, liscio, la serica ombra del pube, le gambe lievemente divaricate, un sorriso invitante sulle labbra, le nari ancora palpitanti.

Mario si chinò su lei, le lambì la bocca, il seno, si fermò a baciare l’invitante morbidezza del velluto che nascondeva il congiungersi delle gambe, e la sentì sussultare stuzzicante e desiderabile. Si sollevò e la guardò sorridendo.

‘Ciao, fonte d’ogni delizia!’

‘Vieni a dissetarti, tesoro.’

‘Sarà ancora più bello quando la sete aumenterà e il desiderio di ristorarsi sarà maggiore. Ora devo vestirmi e andare da Marta. Ha detto che ci sono delle novità in merito a quel lavoro di cui ci aveva parlato.’

Andò nel bagno e tornò poco dopo, si vestì in fretta.

Gina s’era seduta sul letto, gli porse le labbra.

‘Auguri, caro, e speriamo bene. Se dovessi far tardi, telefonami.’

‘Non credo di far tardi, ciao.’

Uscì chiudendo piano la porta di casa, per non far rumore, per non svegliare il bambino.

La casa di Marta non era lontana. Il grosso portone nero era socchiuso. Non appena Mario entrò nell’androne, da un angolo scuro emerse Marta.

‘Sono qui. Andiamo a casa di Iole.’

‘A casa di Iole?’

‘Si, devo parlarti a lungo, liberamente, e non voglio che mio marito ….’

‘Perché, Giulio non sa che mi aiuti a trovare una sistemazione? Ma non é lui che ti ha detto a chi rivolgerti?’

‘Si, si, é come dici tu, ma preferisco andare a casa di Iole. Giulio sa che sono da Iole.’

Andarono verso la scala di destra, salirono due rampe. Marta aveva la chiave e aprì senza bussare.

‘Vieni, nel salotto staremo benissimo.’

Lo condusse in una stanza, non molto grande, arredata con gusto, e con un comodo divano.

‘Sediamo qui.’

Erano vicinissimi, le loro cosce si toccavano, lui sentiva il calore di lei attraverso la stoffa.

Marta gli prese la mano, lo guardò negli occhi.

‘Credo che ci siamo. Ti attendono a Genova per un colloquio. E’ una pura formalità, il posto c’é, ed é molto interessante.’

‘Di cosa si tratta?’

‘Non lo so con esattezza, ma saresti l’uomo di fiducia della grossa multinazionale di import-export per il mercato al quale sarai assegnato.’

‘Sei sicura che saprò cavarmela?’

‘Più che certa, ti conosco benissimo, da sempre. Non ho alcun dubbio.’

‘Ci sarà un periodo di training, prima della destinazione definitiva. Almeno lo spero.’

‘La politica della Compagnia crede molto nel learnig by doing, imparare facendo. Del resto tu conosci le lingue estere e non incontrerai difficoltà.’

‘Trattamento?’

‘Ottimo, in valuta pregiata e più che sufficiente anche per una vita molto agiata.’

‘Sede?’

‘Una delle più importanti città del Canada.’

‘Canada?’

‘Si, andremo in Canada.’

‘Andremo? Perché vi trasferite in Canada anche tu e Giulio?’

‘Giulio no.’

‘Allora?’

Gli strinse le mani, lo fissò intensamente, la voce divenne quasi un sussurro.

‘Mario, andremo. Noi, tu ed io. Tu lo sai che ti amo da sempre, fin da quando eravamo bambini e io facevo sempre l’infermiera, nei giuochi, perché così potevo curarti, accarezzarti. Non dirmi che non lo sai. Io posso darti quello che nessuna donna potrà mai offrirti, perché nessuna t’amerà più di me, nessuna ti desidera quanto io ti desidero. Cosa ha Gina che io non abbia? Lei vuole solo esibirti, come un diamante prezioso, poter dire é mio! Cerca di legarti a sé simulando passione, amore, ma questo cesserà presto, quando troverà un altro che potrà darle una vita fatta di lusso, di apparenza. Sono certa che, se vuoi, accetterà anche di far vivere con te il bambino, se tu le assicurerai un lauto assegno mensile, e potrai ben farlo con quello che guadagnerai. Tuo figlio sarà anche il mio, sarà il nostro primo bambino, perché io non potrò concepire altra creatura che non sia la tua.’

Lui la guardava senza comprendere se avesse capito bene quanto la donna andava dicendo.

Ora gli baciava le mani, bagnandole con le lacrime. Cercava di attirarlo a sé, cercandone le labbra.

Mario deglutiva a fatica, gli sembrava d’essere ubriaco, che tutto fosse come in un sogno.

Marta, che s’era sempre dimostrata la migliore amica di Giulia, aveva tramato a lungo, per tradire il proprio marito e togliere a Giulia il padre di suo figlio. Tremava, la voce era rotta dai singhiozzi.

‘Voglio vedere il suo volto quando saprà che sei mio.’

Cercava di calmarla, le carezzò il volto, con le dita terse le lacrime che rigavano il volto accaldato.

‘Buona, Marta, buona. Devo riflettere. Anch’io ti voglio bene, ma la mia scelta dev’essere cosciente, ponderata. Ti ringrazio per come e quanto ti sei interessata per me. Ti sono e ti sarò sempre grato per questo. Ma comprendi la mia sorpresa, anche se mi offri uno splendido avvenire con te, splendida fanciulla dei miei sogni d’adolescente. Ora devo andare. Ho bisogno di restare solo, di valutare i miei sentimenti. Domani ti telefonerò.’

S’alzò lentamente e s’avviò verso la porta di casa. Marta lo seguì.

‘Baciami, Mario, baciami, anche se fosse l’ultima cosa che farai per me.’

La baciò a lungo, teneramente. Aprì l’uscio e sparì nel buio delle scale.

JUS PRIMAE NOCTIS

Carla gli telefonò in ufficio, al suo numero diretto.

‘Ciao, mi offri un aperitivo? Ti aspetto quando esco dalla scuola.’

Remo fu sorpreso da quella insolita telefonata, da quella richiesta, ma non fece domande, anche perché stava, con delle persone, esaminando documenti molto importanti.

‘A che ora hai l’ultima lezione?’

‘Ho l’ultima ora in terza C, uscirò alle tredici.

‘Va bene, sarò puntuale.’

‘Non dire niente a Silvia, é una cosa che deve restare tra noi, mia sorella saprà tutto a tempo e luogo.

Remo scosse il capo, abbastanza seccato. Aveva tante cose cui pensare, adesso ci volevano anche i problemi di Carla, certo qualche cosa da nulla. Gli venne in mente il verso ronzio di un’ape dentro un bugno vuoto.

La riunione che presiedeva terminò in tempo per raggiungere Carla. Chiese alla segretaria di chiamargli un taxi.

‘Non vuole farsi accompagnare da un’auto della società?’

‘No, grazie, preferisco non accomunare altri alle mie seccature.’

Dopo qualche minuto fu avvertito che il taxi era in attesa all’uscita principale.

‘Arrivederci, forse farò un po’ tardi, nel pomeriggio, lei, comunque, non mi aspetti.’

Prese l’ascensore, rispose al saluto delle receptionist, salì sul taxi, dette l’indirizzo della scuola dove insegnava Carla.

La donna lo attendeva, guardava dalla parte dalla quale aspettava che giungesse, ma quasi non si accorse del taxi che s’era fermato accanto a lei. Era vestita con la pretesa d’una certa eleganza, ma non eccedeva in buon gusto. Del resto lei prediligeva l’apparenza, si credeva molto ammirata, si reputava una persona colta, molto al di sopra della modesta mediocrità cui apparteneva, e spesso trattava gli altri con una certa sufficienza, con supponenza. Non aveva vere amiche, e non attirava gli uomini.

Remo aprì lo sportello.

‘Carla… vieni, sali.’

Solo allora, lei si accorse che nel taxi c’era Remo.

Salì, lo salutò calorosamente.

‘Come mai in taxi?’

‘Maggior comodità.’

Si rivolse all’autista.

‘Per favore, al Golf.’

‘Perché a Golf, Remo ?’

‘Perché dopo l’aperitivo c’é il pranzo. Hai impegni?’

Lei sorrise vezzosa.

‘Si, con te. Ti volevo dire…’

‘Ne parleremo tra poco, vuoi? Devi avvertire casa che non torni per il pranzo?’

‘No, ho detto che restavo fuori con delle colleghe.’

‘Ah!’

Lei lo guardò, senza parlare.

Il taxi procedeva velocemente, e dopo aver percorso parte della strada per l’aeroporto, era entrato nel piccolo giardino prospiciente l’albergo, arrestandosi sotto la tettoia che riparava l’ingresso. Scesero, lui pagò la corsa, entrarono e andarono direttamente nella sala da pranzo. Remo chiese un tavolo un po’ appartato, da dove si potesse ammirare il verde del prato.

Dall’angolo dov’erano seduti, potevano ammirare il riposante green, col ponticello di legno che arieggiava uno stile quasi giapponese, fino alla linea che congiungeva cielo e terra.

Si avvicinò il maitre, sorridente, coi menu che consegnò ad entrambi e la lista dei vini che dette a Remo.

Remo chiese due aperitivi, poco alcolici, mentre loro avrebbero consultato la carta per scegliere quanto gradivano.

Mentre l’uomo si allontanava, Carla poggiò sul tavolo il menu.

‘Ti prego, Remo, ordina tu anche per me.’

‘Io sarei per qualche ostrica, sogliola alla mugnaia, macedonia di frutta e caff&egrave. Tu?’

‘Perfetto.’

Un cameriere aveva servito gli aperitivi. Remo gli disse cosa avevano scelto.

‘Allora, Carletta, cosa devi dirmi di tanto interessante?’

‘Che a casa mi tormentano con continue pressioni perché mi decida a sposarmi. Dicono che sto divenendo una zitella acida.’

‘Di sicuro credono di fare il tuo bene, ma non credo che si possa dare della zitella a chi non ha nemmeno trent’anni.’

‘Si, ma ci sono vicina, ne mancano solo un paio.’

‘Non credo che sia del zitellaggio che dobbiamo parlare, vero? Aspetta di aver superato la cinquantina. Ma tu, vuoi sposarti?’

Carla rimase alquanto in silenzio, pensierosa, poi lo guardò negli occhi, fissamente.

‘Tu che mi consigli?’

‘Non sono decisioni che possono dipendere dai consigli degli altri. Però voglio modificare la domanda. Eventualmente, perché ti sposeresti? Per amore o per altro?’

‘Per essere sincera, soprattutto perché sono scocciata dell’aria di compatimento con la quale mi guardano le sposate. Io non ho saputo raccattare neppure uno straccio di marito! E poi, perché un passo del genere, prima o poi si finisce col farlo, allora tanto vale la pena non pensarci troppo.’

‘Non vorrei essere nei panni di Guglielmo.’

‘Perché, non ti piaccio?’

Lui ebbe un gesto di fastidio, ma la sua voce restò calmissima.

‘Non devi piacere a me, Carletta, e non é questo il punto. E’ che sarei molto preoccupato se sapessi di sposare una donna con i tuoi principi e i tuoi sentimenti nel riguardo del futuro marito.’

‘Perché, credi che tua moglie ti ami, ti stimi, e non guardi le nubili, ed anche me, con commiserazione?’

‘Sei poco serena e poco obiettiva, molto ingenerosa.’

‘Comunque, non hai risposto.’

Avevano portato delle magnifiche ostriche, su un letto di ghiaccio triturato, e il sommelier aveva versato del delizioso vino ambrato nel bicchiere di Remo, mostrandogli l’etichetta della bottiglia.

Remo assaggiò e assentì col capo. L’uomo servì il vino e pose la bottiglia nel secchiello accanto al tavolo.

‘Adesso é meglio che ci dedichiamo a queste belle ostriche, gustandole il colloquio, forse, può ingentilirsi.’

Carla ne assaporò golosamente la grigia polpa e bevve un sorso di vino.

‘Sono veramente eccellenti, Carlo, io ne vado pazza. Ma devi consentirmi di proseguire sul tema per il quale ti ho pregato di incontrarmi.’

‘Certo, ti ascolto con la massima attenzione.’

‘Guglielmo é persona seria, sulla quale si può fare sicuro affidamento. E’ il tipo ideale del buon padre di famiglia, con principi sani, onesti. Non mi sembra che abbia vizi o difetti di comportamento. E’ quello che può definirsi un buon marito.’

‘E ti pare poco?’

‘No, é moltissimo, ma basta per trascorrere con lui la vita, per andare a letto con lui tutte le sere?’

Le ostriche erano terminate, ora era la volta dei filetti di sogliola.

Remo aveva gli occhi fissi sul piatto.

‘Non é il tuo ideale, vuoi dire?’

‘Mi conosci da ragazza, sai che non posso aver atteso tanto tempo per darmi per la prima volta a un Guglielmo qualunque.’

Remo alzo gli occhi, guardandola, sorpreso, interrogativamente.

‘Si, per la prima volta. Non voglio che sia questo il ricordo che accompagna la prima, vera conoscenza del sesso. Dev’esserci amore, Remo, desiderio di darsi, completamente.’

‘Scusa, Carletta, ma hai mai incontrato il tuo uomo ideale, col quale desideri di condividere la vita e, logicamente, il letto?’

‘Si.’

‘Lo conosco?’

‘Si.’

‘Puoi dirmi chi é?’

‘Si.’

‘Chi é?’

‘Tu!’

Remo lascio cadere la forchetta nel piatto e fece segno al cameriere di portare via.

Carla seguitò a mangiare la sua sogliola, con la massima calma.

‘Ma ti ricordi, Carla, che sono sposato, e con chi sono sposato?’

‘Certo che lo so.’

Aveva finito di mangiare e poggiò ordinatamente le posate nel piatto.

‘E, tanto per parlarne accademicamente, come potrei sposare te?’

‘E chi ti ha detto che devi sposarmi? Io sposerò Guglielmo.’

‘Non riesco a capire…’

Erano giunte le coppe con la macedonia di frutta e Carla l’assaggiò e chiese al cameriere di versarvi un po’ di vino. Seguitò a mangiare, con indifferenza.

‘Ma hai detto che sarei il tuo uomo ideale.’

‘Lo confermo, con la massima convinzione. L’ho sempre saputo. Per questo non sono mai stata con nessun altro, non ho conosciuto uomo. Ma bisogna contentarsi del possibile.’

‘Brava, questo é un sano principio. Il tuo possibile si chiama Guglielmo, vero?’

‘Hai cambiato argomento. Il mio marito possibile si chiama Guglielmo, il mio primo uomo possibile si chiama Remo! Chiaro, adesso?’

‘Forse non del tutto.’

Carla finì la macedonia, pose i gomiti sul tavolo, e poggiò il mento tra le sue mani. Occhi fiammeggianti, labbra tumide, nari frementi, voce tremante.

‘Mettiamola in termini moderni e inequivocabili, usando parole non eleganti ma precise. Tu non puoi sposarmi, chiaro, ma puoi scoparmi, essere l’uomo al quale voglio donare la mia verginità. Altre spiegazioni?’

Il volto di Remo era immobile, inespressivo, solo gli occhi erano divenuti quasi grigi, lo sguardo era distaccato, pur posandosi sulla donna.

‘Ricevuto, Carletta. Ora comprendo alcuni tuoi atteggiamenti, nel passato, nei miei confronti, talune tue frasi, certe mal nascoste cattiverie verso mia moglie. Dopo quanto mi hai detto, il tuo modo di agire può essere condiviso o meno, ma rientra in una ben determinata logica. Non ti nascondo che, pur essendo lusingato, in un certo senso, mi spiace di essere la causa di tale tua concitazione. Hai ben ponderato quello che dovevi dirmi, prima di parlarmi?’

Carla annuì col capo.

‘Sei veramente convinta, sicura di volere quello che mi hai detto? E’ una decisione irreversibile.’

‘Mi rifugio nel linguaggio della mia professione: alea jacta est. Accada quel che deve accadere, dopo ciò venga pure il diluvio.’

‘Quando?’
‘Quando mi vorrai.’

‘Anche adesso?’

‘Magari!’

‘Qui hanno delle accoglienti e discrete suites, che ne dici?’

A Carla brillavano gli occhi, avvampavano le guance.

‘Mi farai tua?’

Remo chiamò con gesto il cameriere e gli sussurrò qualcosa all’orecchio. L’uomo si allontanò e tornò poco dopo con una chiave.

‘Vieni, Carla?’

La prese delicatamente per un braccio e la condusse verso l’ascensore. Su, all’attico, dove il soffice tappeto accolse i loro passi silenziosi. Carla guardava per terra, senza nulla dire. Remo aprì la porta della suite, la fece passare, entrò anche lui, richiuse la porta.

Per mano, come una bambina, la accompagnò alla vasta camera dove troneggiava un moderno, vasto letto. Si avvicinò, lo scoprì in parte.

‘Ora, Carla, tocca a te.’

La donna deglutì con forza.

‘Vado nel bagno, Remo.’

‘Devi spogliarti qui, davanti a me.’

‘Vado nel bagno. Quando torno…’

Si allontanò verso la porta che era di lato, si fermò un attimo per lasciare sulla poltrona il leggerissimo soprabito, solo un velo. Entrò nel bagno. S’udì lo scroscio dell’acqua nel lavandino. Ritornò nella camera.

Remo era seduto sul letto, completamente vestito.

Carla si fermò di fronte a lui.

‘Allora, bimba?’

‘Ma non ho nulla da mettere per andare a letto.’

‘Non devi mettere nulla. Vuoi che ti spogli io?’

‘No, no, faccio da sola.’

‘Vengo sul tuo terreno. Gaudeamus igitur!’

Lei, alquanto impacciata, tolse la giacca, la blusa, la gonna, e rimase in mutandine, reggicalze, reggiseno. Guardò interrogativamente Remo.

‘Sei un bel tocco di figliola, Carla. Prosegui.’

Con un lungo sospiro, la donna tolse quanto le era rimasto indosso.

Restò così. Immobile, con le braccia lungo i fianchi.

‘Ora, cara, raccogli tutto e riponi gli indumenti nell’armadio, togli le scarpe e mettile in quel piccolo ripostiglio, in basso, accanto alla porta.

Lei eseguì come un automa, muovendosi così, offrendo la vista della sua nudità, delle sue natiche ben fatte, mentre lo specchio accoglieva l’ondeggiare del suo procedere e lo donava a Remo. Si chinò, tolse le scarpe, andò a metterle dove lui aveva detto.

Si voltò verso Remo, che le fece cenno di avvicinarsi. Le tese la mano, la fece sedere sulle sue ginocchia, le carezzò il seno, le gambe, si soffermò sulle natiche, s’intrufolò tra esse, risalì sul pube, discese lentamente fino ad incontrare la piccola tumescenza palpitante che sembrava impazzire mentre lui la titillava sapientemente.

Carla gli afferrò il volto, baciandolo focosamente, col ventre in sussulto, fino a quando non le sembrò di sprofondare in un piacere senza fine.

‘Adesso, Remo, adesso. Prendimi.’

La sollevò sulle sue braccia, la depose delicatamente sul letto. Le baciò l’orecchio, le sussurrò che sarebbe tornato subito.

Senza far alcun rumore, uscì dalla camera, riprese l’ascensore, scese nella hall, andò dal portiere.

‘Per favore, mi faccia preparare il conto, subito, la signorina rimane ancora un poco. Quando scende, le consegni la più bella rosa rossa che ha il fioraio e il biglietto che ora le preparo, poi le chiami un taxi e la faccia accompagnare a casa, adesso le do l’indirizzo, paghi lei il taxi.’

Alla cassa saldò il conto e, con la carta di credito, si fece dare un discreta somma che consegnò al portiere unitamente a una busta, indirizzata a Carla, con dentro un biglietto sul quale aveva scritto tempus omnia meditur.

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