Al nostro primo amplesso, ne seguì dopo breve tempo un secondo. Fu altrettanto passionale, Poi l’indomani, all’alba, ci mettemmo all’opera.
L’addestramento iniziava. Ghanima mi spiegò il fondamento della via dei Justicarii.
-Accetta tutto ciò che arriva. Tu non sei le tue sensazioni, e neppure il tuo corpo. Non sei neanche i tuoi pensieri.-, diceva mentre sedevamo l’uno accanto all’altra a occhi semichiusi.
Meditazione. Una pratica che credevo propria dei Monaci Zen-Shura, ma che alla fine si rivelava in realtà appannaggio dei guerrieri in nero da ben prima del Cataclisma.
La pietra d’angolo dell’addestramento, per tutti i guerrieri in nero.
Non fu facile. Le sensazioni erano un esercito. Una legione di minuscoli fastidi che, presi singolarmente o in situazioni di attività, potevo ignorare, ma che nella passiva e silente quiete, erano ingigantiti sino a risultare intollerabili, o quasi.
-Prendi coscienza di ciò che provi, ma senza diventare ciò che provi.-, mi spronava lei.
Era difficile: ero un uomo d’azione. Trovavo più facile agire, che percepire.
Esercizi di allungamento seguirono a quell’immobilità. Poi lunghi istanti in cui eseguivo ellissi con il coltello. Il mio, ma anche il suo. Movimenti e passi. Duellavamo con lame da allenamento che la Justicar aveva recuperato chissà dove. Roba in materiale morbido.
-Devi sentirti a tuo agio con ogni arma.-, spiegò durante una breve pausa.
Quando la prima giornata ebbe termine, ero esausto.
Il pasto serale era insalata e strisce di carne cotte su spiedi.
Poi, dopo poco tempo, a letto. E l’indomani si ricominciava. Passarono tre giorni così. Ci recavamo al villaggio solo per acquistare cibo e acqua e altro.
Una sera, durante il pasto, Ghanima parve notare la mia stanchezza e lo scoramento.
Mi sembrava tutto difficile, più di quanto non fosse stato divenire una guardia delle carovane.
-Non è un percorso facile.-, disse la nera, quasi indovinasse i miei pensieri.
-Voi scegliete i vostri adepti quando sono bambini?-, chiesi.
-Non sempre.-, ammise la guerriera, -Spesso sì, ma nel più dei casi sono orfani, o sopravvissuti. Gli adulti sono rari, spesso sono già… corrotti.-.
-Dal sistema?-, cheisi inarcando un sopracciglio. Scosse il capo.
-Da sé stessi. Dall’illusione della libertà.-, disse. Calò il silenzio.
-Noi Justicarii abbiamo sempre lottato.-, continuò Ghanima, -Sin da prima del Cataclisma, il mondo si divide in due categorie. I ricchi e i poveri, oppressori e oppressi. È così da sempre e realisticamente lo sarà ancora per molto. Il miraggio del potere è… un sogno febbrile. Pochi sembrano resistergli. Il potere assoluto è una chimera che troppi inseguono senza curarsi dei danni collaterali. Ed è qui che entriamo in gioco noi. A noi il potere non interessa. Perché abbiamo fatto una scelta.-.
-La coscienza.-, intuii io, -Non voltare le spalle. Non ignorare la sofferenza.-.
Ghanima annuì. Sorrise. I denti bianchi spiccarono sulla pelle scura.
-Non basta la coscienza a fare di un uomo un Justicar.-, ragionai, -Bisogna anche udire la voce del Vuoto.-. Lei annuì ancora, con il sorriso che non sparì subito.
-Esatto.-, disse, -Molti non lo fanno, non possono. Il Vuoto parla solo a coloro che osano guardare nell’abisso.-.
-E quando guardi l’abisso…-, iniziai, ricordando un antichissimo detto di Licanes, e forse prima. Ghanima annuì. La mia mano trovò la sua. La strinse. Intrecciammo le dita.
-L’abisso guarda te.-, disse.
Rimasi in silenzio. Per un lungo istante. Era stato quello? La strage della carovana? O il mio sguardo nell’abisso era avvenuto prima? Fissai Ghanima.
-Avevo sedici anni. Vivevo in un piccolo villaggio, poco fuori. Ci fu un terremoto. Temetti di morire. Riemersi dalle macerie di casa mia e riuscii, con la forza della disperazione, a salvare la mia sorella adottiva. Lei morì poco dopo.-, raccontò la Justicar.
-Un ora prima giocavamo e ridevamo, un ora dopo lottavamo per la vita.-.
Strinse i pugni e li riaprì. Un movimento lento, quasi solenne. E pregno di qualcosa che mi fece rabbrividire.
-L’universo prende quando vuole.-, disse, -Spesso non puoi neppure scegliere di opporti. Semplicemente accade.-.
-Fu quello? Fu l’abisso?-, chiesi io, rapito. Ghanima non rispose.
Terminò il pasto e si alzò. Raggiunse le scorte che aveva posizionato in una zona a sé della caverna. Acqua e cibo. Ripulì la ciotola. Controllò le scorte d’acqua. Annuì appena tra sé.
Sbadigliai. Mi passai una mano sul viso. Mi sentivo esausto.
-In piedi.-, ordinò la Justicar.
-In piedi?-, chiesi mentre mi alzavo, a fatica.
-Sì.-, rispose lei, lapidaria.
Mi condusse sino a un punto più alto. Uno degli ingressi.
-Cosa devo fare?-, chiesi. Mi mise in mano la lama d’allenamento.
-Impedirmi di oltrepassarti.-, rispose.
-Non possiamo rimandare?-, chiesi. Il suo sguardo duro mi fece capire di no.
-Ascolta. Senti. E cerca di percepire, più che di vedere.-, disse.
Annuii. Ghanima si fuse con le ombre, all’interno della caverna. Io sospirai.
Passò un minuto. Ne passarono cinque. Dieci. Lenti. Uno stillicidio. Il deserto era silenzioso, salvo per il vento. Mi guardai attorno. Nulla. Non potevo dire di sentire nulla, quindi mi sporsi verso l’interno dell’ingresso. Nulla neanche lì. Mossi un passo verso l’interno. Niente.
Svanita. Come in un sogno. O in un incubo.
Mi girai, cercando di sentire. Niente. Solo in vento.
Avanzai verso l’esterno. Cercai di acuire i sensi, di lottare contro la stanchezza. Di…
Poi all’improvviso, un braccio mi strattonò tirandomi all’indietro, cingendomi il collo. L’appoggio al terreno, già compromesso, venne a mancare definitivamente quando una gamba mi costrinse a piegare le ginocchia. E sentii il taglio della lama d’allenamento sul collo e la voce roca di Ghanima Buenariva all’orecchio.
-E ora, se io fossi un nemico, saresti morto.-, disse.
Sospirai alzando le mani. Lei mi fissò, inespressiva.
-Da dove puoi arrivare?-, chiesi. Lei fece un gesto con la mano. Abbracciò l’intero paesaggio.
Messaggio ricevuto: poteva arrivare da qualunque direzione.
-Ci riproveremo. Ancora e ancora e ancora e ancora. Finché non riuscirai a fermarmi…-, le parole successive pesarono, pesarono totalmente, -Non sarai mai un Justicar.-.
-Tutti i tuoi allievi sono stati addestrati così?-, chiesi mentre mi dava la schiena.
Non si fermò. -Sei il primo.-, rispose. Sospirai, non senza un sorrisetto ebete.
Rientrammo nella caverna. Tornammo al nostro giaciglio. Faceva fresco, ma non freddo.
Mi sdraiai. La zona comune dove mangiavamo ospitava anche il nostro giaciglio.
-Ci sono Justicar… che non hanno completato l’addestramento?-, chiesi, forzandomi a domandare qualcosa che fin lì avevo tenuto per me.
-Ci sono. Pochi. Ma ci sono. In molti muoiono durante le prove. Altri… abbandonano. Ma i rinunciatari non possono essere chiamati Justicar. Spesso non hanno le capacità di uno che ha finito il proprio addestramento e, sebbene rimangano sicuramente ottimi combattenti, mancano dell’essenziale.-, spiegò Ghanima dopo qualche istante. SI era tolta la cappa. La veste nera era abbandonata a terra, insieme ai calzoni. Vestiva una sorta di sottoveste di tessuto. Leggera. Si distese, accanto a me.
-Non… non voglio fallire.-, dissi.
-Nessuno lo vuole. Se fallirai avrai fallito e basta. Non pensarci.-, rispose la nera.
-Non ci riesco… L’idea c’è ormai…-, lamentai io. Lei sorrise. Mi accarezzò il petto, scese lungo l’addome, scostò le vesti. Trovò il mio sesso. Non era esattamente a riposo.
Lo accarezzò piano. Mi baciò, con la lingua. La sua invase la mia bocca. Sciolsi i miei timori in quel momento mentre sentivo il mio membro ergersi.
-Ghanima…-, mormorai.
-Qui con te, Alex.-, rispose lei. Sfilò la sottoveste rimanendo nuda. Una statua d’ebano scolpita e sensuale, feroce e belissima. Notai delle cicatrici. Braccio sinistro, gamba destra, natica sinistra. La accarezzai piano, lentamente. Lei sorrise.
-Molti uomini non hanno questa delicatezza.-, disse. Nei suoi occhi c’era qualcosa. Un’ombra di commossa sorpresa. Io sorrisi di rimando. Non volevo dire altro. Non volevo indagare.
Volevo essere lì, con lei. Per lei. La baciai piano. Lei mi spinse la testa verso il suo ventre.
Aprì le gambe e affondai tra le sue cosce. Trovai l’intimo petalo di piacere. Leccai, lento.
I gemiti di Ghanima si fecero ritmati, sempre più fondi, lunghi, modulati e animaleschi.
Continuai la mia opera, piano. La sentii stringermi la testa con le gambe e all’improvviso si mosse. E qualcosa di caldo e umido inghiottì il mio sesso.
La sua lingua ruvida mi stuzzicò il glande. Rischiai di perdere la concentrazione, di esplodere. Se ne rese conto. Strinse un punto tra le mie gambe. Si fermò. Tempo passò. Leccai ancora, non comprendendo se l’avessi offesa con quel mio barcollante controllo.
-Respira… prendi il tempo.-, sussurrò lei. La voce era arrochita dal piacere. La sentivo aprirsi al tocco della mia lingua, stillare miele. La nera gemette ancora, inarcandosi contro di me mentre la sua bocca lenta riprendeva l’opera. Non sarei riuscito a resistere a lungo.
-Ghanima, io…-, iniziai. Lei s’irrigidì arcuando la schiena, strappandosi il mio sesso di bocca e emettendo un urletto primitivo. I suoi fluidi mi bagnarono il viso. Leccai ancora. Non ero ancora sazio di quel piacere, ma lei si tolse. Mi afferrò il membro e s’impalò su di me.
Andò fino in fondo.
-Io…-, inziai. Sentivo l’orgasmo vicino. E stavolta non sarei riuscito a trattenermi.
Ghanima sorrise. Mi fece affondare in sé sino in fondo. Fu troppo: cavalcato da quella nera amazzone, esplosi dentro di lei. Accolse il mio godimento incrementando il ritmo, le pareti del suo sesso che stringevano il mio quasi a volerlo mungere, godendo con me.
Infine, crollammo l’una accanto all’altro.
-Domani ci spostiamo.-, disse lei, a mo’ di conclusione.
Ci spostammo. Ghanima andò a recuperare due cavalcature e facemmo fagotto. Tornammo al villaggio dove barattammo le cavalcature con un passaggio su di un mezzo aereo verso le città di confine della Confederazione.
Lo sguardo di aperto disprezzo da parte del pilota alla vista di Ghanima mi fece ricordare che non tutti vedevano i Justicarii come degli eroi. Lei non parve badarci.
Non parlammo durante il viaggio: io mi assopii e lei scivolò nella quiete di una meditazione.
Mi risvegliai mentre atterravamo a Limitrias Minore. Una città sul confine. Ghanima scese dal mezzo, incurante degli sguardi e del vociare della gente, e così feci anche io.
-Che ci facciamo, qui?-, chiesi. Mi pareva tutto così diverso dal deserto.
-Devi ricordare come muoverti tra la folla, nelle città. Il deserto è ottimo per la concentrazione. La città invece mette alla prova ciò che hai costruito fuori. Comunque non temere: non rimarremo qui a lungo.-. disse lei, incurante dei commenti della folla.
-Un bene! Non vi vogliamo qui!-, esclamò un Praefecto. Donna, bionda, sui trentacinque. Più o meno in forma. Ero pressoché sicuro che non era mai uscita dai confini cittadini, o dall’idea che aveva di sé. Ghanima non sprecò fiato a risponderle e tirò dritto. Io feci lo stesso.
Salimmo su un convoglio per Sebastopolis il giorno seguente, dopo aver brevemente alloggiato presso un ostello.
-Dove siamo diretti?-, chiesi mentre prendevamo posto nel nostro scomparto. Eravamo gli unici occupanti. Nessuno voleva la compagnia di una Justicar.
-Oltre Sebastopolis c’è l’imbarco per le isole di Rus. Una di esse è disabitata, o almeno lo era. È lì che andiamo.-, rispose Ghanima.
-Meno male. Il deserto era bello ma non era il massimo.-, ammisi. Lei sorrise appena.
-In confronto a ciò che ti aspetta, ti sembrerà una pacchia.-, disse.
Quell’ultima frase mi spaventò.
Arrivammo alle isole il giorno seguente. Ghanima non aveva parlato e io avevo tentato di mantenermi attento e consapevole. Eravamo giunti all’isola che aveva detto tramite il passaggio di un privato che era parso tutt’altro che regolare. Non feci domande. Non sarebbero servite.
L’isola era piacevole. C’era della vegetazione. Biomi europei. Foreste temperate, colli, scogliere. Spiagge. Piacevole, appunto. Quasi troppo per essere disabitata.
-Come sai che non c’è nessuno?-, chiesi. Ghanima sorrise.
-Su quest’isola si sono addestrate tre generazioni di Justicarii. Difficile che qualcuno decida di rischiare di adirare tutto il nostro Ordine solo per una bravata.-, disse.
Aveva senso: sapevo di luoghi in cui il passaggio di un Justicar segnava una sorta di taboo che perdurava per diverso tempo. La loro cattiva nomea era anche un vantaggio in tal senso.
-Medita qui, sullo scoglio.-, disse Ghanima, -Io mi assicuro che tutto sia apposto.-.
Eseguii. Il suono del mare era un disturbo, inizialmente. Poi col tempo parve sfumare.
Pace. Lentamente, un senso di pace prese piede. Forse fu l’ambiente, ma quando riaprii gli occhi mi sentii sereno. Mi alzai. Stirai la schiena, alzai le braccia al cielo. Sorrisi. Libero.
Ghanima mi raggiunse. Camminava con aria apparentemente lieta, ma notavo che non era né distratta né paranoica. Era vigile.
-È molto tranquillo.-, dissi.
-Deve esserlo. Molti Justicarii addestrano i loro pupilli in luoghi simili. È un ottimo modo per forgiare il corpo e la mente. Per svuotarti di tutta la lordura accumulata. Il deserto funzionava altrettanto bene, ma per molte delle cose che dobbiamo fare, non era così adatto.-, spiegò la nera. Si sedette sullo scoglio, fissando il mare.
-A che pensi?-, chiesi.
-Ascolto il mare. Non lo senti?-, chiese lei in risposta. Io annuì.
Restammo in silenzio mentre il sole arrivato al suo apice, lento scendeva.
-Dovremo cenare. E credo che dovremmo lavarci.-, dissi.
-Cenare non è un problema. Quanto al lavarci…-, la Justicar tolse la cappa e si spogliò con una rapidità che mi sorprese, -Il mare è qui per questo.-. Con disinvolutra, poggiò le vesti e le armi sullo scoglio e procedette verso il mare, immergendovisi senza timore.
Spogliatomi la seguii nell’acqua tiepida. C’immergemmo. Ghanima nuotò per un buon tratto, e io feci il mio meglio per seguirla. Tornammo a riva, sedendoci sugli scogli, vicini e nudi.
La sua vicinanza mi eccitava. C’era qualcosa in lei che svegliava una parte selvaggia in me.
E allo stesso tempo, sapevo che considerarla anche solo per un istante come una donna facile, come una sottomessa, sarebbe stato letale.
-Sei eccitato.-, notò lei. Il mio sesso era eretto, a metà, non del tutto. Mi sentii quasi in colpa.
-Io… scusa… tu…-, farfugliai. La nera sorrise appena. Il suo sorriso mi eccitò ancor di più.
-È naturale.-, minimizzò lei. Tornò seria in un istante, -Ciò che non devi fare è lasciare che ti distragga. Basta così poco. Un istante e…-, la mano di lei fece un movimento di taglio lungo la sua gola. Eloquente oltre ogni dire. Annuii.
-È che… mi sembra difficile.-, ammise. Ghanima annuì. Scosse il capo, i capelli bagnati frustarono l’aria mentre si alzava.
-Ed è per questo che siamo qui. Il principio è lo stesso della meditazione. Ed è infinitamente più complesso da sviluppare nell’attività, eppure è ciò su cui dovrai lavorare.-, disse.
-Oggi?-, chiesi. Lei scosse il capo mentre si rivestiva.
Camminavamo nel boschetto. Sino a una sorta di casolare in legno. Ghanima fece gli onori di casa. Aprì la porta, andò a cucinare, preparò uno stufato di verdure. Avevo notato un orto quindi le verdure potevano essere state coltivate lì. Da chi? Non chiesi. Non subito.
I letti non c’erano. Ce n’era uno solo che lei sostenne sarebbe bastato.
Non era quella la questione che mi premeva.
-Come stabilirai… che sono pronto?-, chiesi. Non l’avevo chiesto. La Justicar mandò giù una cucchiaiata di stufato mentre mi allungava un bicchiere d’acqua.
-Lo farò a tempo dovuto, non temere.-, disse.
-E a quel punto… dovrò lasciarti?-, chiesi.
-Sì.-, rispose lei. Secca, diretta, -Ma non mi preoccuperei di questo.-.
-Quindi di cosa?-, chiesi. Ero abbastanza seccato dai suoi misteri.
-Gustati lo stufato. Non pensare sempre a tutto.-, rispose la nera.
Mugugnai un assenso mentre cercavo di obbedire. Mangiammo in silenzio.
-Sei perso in una serie di domande che non hanno risposta.-, disse lei all’improvviso.
-Non mi hai detto molto.-, puntualizzai.
-Esatto. E questo dovrebbe farti capire che devi lavorare con ciò che hai, concentrarti su ciò che può dipendere da te, non inseguire risposte che non otterrai.-, disse lei. Mi fissò, dura.
-Non era ciò che mi aspettavo.-, ammisi.
-Non lo sarà. Ma è anche vero, che nessuno ti obbliga a restare. Se vuoi andartene puoi farlo, ma non potrai mai più tornare qui, o cercarmi.-, disse Ghanima.
Accusai il colpo. Restare voleva dire abdicare a ogni certezza. Andarsene voleva dire voltare le spalle all’unica occasione che avevo di diventare un Justicar.
-Io…-, iniziai. Era una domanda potente. Era la chiave di volta del mio destino.
-Decidi.-, incalzò lei, -Ma fallo senza riserve, senza tentennamenti. O resti o te ne vai.-.
Mi fisssava con occhi che parevano capaci di bucare l’acciaio.
-Io…-, iniziai. Restare voleva dire addestrarmi, certo, ma anche il rischio di fallire. D’altra parte, andarmene avrebbe significato perdere tutto quanto. Lei inclusa.
Ma Ghanima era più che una bella femmina o una guida. Era colei che mi avrebbe forgiato.
E una lama non geme forse sotto i colpi del fabbro? Non era forse il cambiamento generato dalla sofferenza? Non avrei dovuto vederla così?
D’altro canto, andandomene sarei stato libero. Di fare cosa? Avevo bruciato i ponti dietro di me. Tutto ciò che avevo era lì. Lasciando quell’isola, avrei buttato al vento l’ultima occasione di… Cosa? Di essere un Justicar? Di essere fiero di me? Di creare qualcosa che non fosse solo egoisticamente mio? Mi guardai dentro, in profondità.
E mi accorsi di una cosa: nessuno mi obbligava ad accettare, ma neppure a rifiutare. Avevo già deciso che del giudizio degli altri non m’importava. Quindi…
Quindi perché essere un Justicar? E la risposta mi sovvenne con un soffio di vento.
Perché avevo udito la voce del Vuoto. Perché una linea di separazione era giunta a dividere tutto ciò che ero stato prima di un dato momento e dopo di esso, per sempre.
Se anche avessi voltato le spalle a Ghanima, ai Justicarii, non avrei potuto voltare le spalle a questo. E lei possedeva le chiavi, sapeva parlare con il Vuoto. Haragei, così l’aveva chiamata.
Scienza del limite. Arte dell’essenziale. Vita e morte, e molto altro.
Ma non era neppure quello il motivo che mi spingeva ad accettare. C’era solo una cosa.
Che mi spinse a fissarla senza paura. Ghanima attendeva. Fatto salvo per il respiro, pareva una statua.
-Io resto.-, dissi, -E accetto di sottomettermi ai tuoi insegnamenti.-.
-Non ti sottometti proprio a niente.-, ribatté lei, -Non sei obbligato. Io t’insegno e tu apprendi. Ma accolgo la tua scelta. Ora pulisci la tua ciotola.-.
Mi alzai. Arrivai alla riserva d’acqua desalinizzata. Ripulii la ciotola. Lentamente.
Ghanima la fissò. Scosse il capo.
-Ancora.-, disse. La ripulii. Lei ci versò dello stufato. Mangiò. Me la ridiede. -Ancora.-.
La ripulii. Lei la sporcò di nuovo. -Ancora.-, disse.
Io la fissai. Stizzito. E lei mi fissò. Impassibile. Toccai la ciotola, piano. Sentii i bordi in legno, la superficie porosa, la crepa nel bordo, l’esterno abbozzato da mani abituate a maneggiare il legno e a inciderlo, ma senza strumenti di precisione meccanica.
Immersi la ciotola sotto il getto d’acqua. Passai lo straccio. Lento. Il tessuto sulla pelle pareva diverso. La sensazione della ciotola sotto di esso, dello sporco che veniva lavato. Tutto passò.
E tutto fu. La diedi a Ghanima. Senza essere affettato, ma con una solennità intrinseca.
-Bene.-, annuì la nera. Io fissai la ciotola che mi aveva ridato.
Era la stessa. Ma io? Io cos’ero? Chi ero? Quello che lavava la ciotola e quello che titubava erano lo stesso me?
Improvvisamente vissi un dubbio. Totale. Ghanima mi sorrise, irradiava fiducia.
-Andiamo a letto. Domani sveglia all’alba.-.
All’alba correvamo. Una corsa campestre di un chilometro.
Ci fermammo sulla spiaggia. Sin lì non avevo visto animali, o altri segni di civiltà.
-E ora?-, chiesi.
-Ora mi descrivi quello che senti.-, disse lei.
-La sabbia sotto i piedi…-, dissi, -La risacca, il vento… Insomma… quello che senti tu.-.
-No. Solo tu lo senti. Nessuno può sentirlo a tuo modo, neppure io.-, spiegò la nera.
-Quindi… ognuno di noi ha una veduta unica delle cose?-, chiesi.
-Sì. Mille occhi che guardano la stessa cosa daranno mille diverse prospettive. Ma l’oggetto cambia?-, chiese lei di rimando. Annuii. Capivo. Forse.
Lei mi porse la lama d’allenamento. La impugnai. Fece lo stesso. Ci mettemmo in guardia. Iniziammo a girare. Passai la lama da una mano all’altra, un trucchetto per distrarre. Non solo non funzionò: Ghanima attaccò mentre riprendevo la lama con la sinistra, la mia mano debole. Mi obbligò a difendermi in posizione di svantaggio. Mi proiettò a terra entrandomi nella guardia e mi puntò la lama al viso.
-Dove hai sbagliato?-, chiese.
-Sono stato distratto. Dal mio stesso trucco.-, ammisi. Lei annuì. Le trecce che formavano i suoi capelli parevano serpenti. Mi aiutò ad alzarmi.
-Trucchi simili funzionano su chi non ha autocontrollo. Ma richiedono tempo e coordinazione. È bastato capire il tempismo e ho avuto a disposizione una breccia.-. spiegò.
Mi rimisi in guardia. Lei fece lo stesso. Attaccò. Schivai. Era una finta, parai, o ci provai. E fallii.
La sua lama d’allenamento mi toccò il petto.
-La tua difesa era imperfetta.-, disse. Posò la lama da allenamento sulla sabbia. Si mise in guardia. Senz’armi. Inarcai un sopracciglio, perplesso.
-Su, attacca.-, disse lei.
-Io… Sei disarmata!-, esclamai.
-Non lo sono mai.-, rispose la nera. Sospirai. Attaccai, con tecnica.
Il mio affondo trovò il vuoto: Ghanima si mosse attorno a esso, prendendomi il braccio e applicando una leva articolare. Mi sfilò l’arma mentre cadevo a terra.
-Di nuovo.-, disse.
Mi rialzai. Attaccai con furia, con dei fendenti. Ne schivò due prima di intercettare il terzo e proiettarmi. Caddi sul bagnasciuga. Lei annuì. -Di nuovo.-, ordinò.
Mi rialzai. Attaccai ancora. E ancora. E ancora. E tutte le volte mi abbatté a terra.
Non l’avevo toccata. Non una volta. Imprecai sommossamente. Mi fissò. E si chinò accanto a me. Si sedette sulla sabbia, guardandomi.
-Capisci perché fallisci?-, chiese. No. Non capivo. Avevo impiegato di tutto. Tecniche e capactà erano state sfruttate metodicamente e alla lettera. Eppure…
-Dove sbaglio?-, chiesi. La nera mi sorrise appena.
-Ascolta.-, disse.
-Non… sento nulla. Salvo… quel che ti ho detto.-, dissi.
-Appunto.-, ribatté la Justicar, -Non senti nulla salvo questo. Non senti il Vuoto.-.
-Non capisco…-, dissi, -Nel deserto… l’ho sentito.-.
-Sì. E ora no. Perché?-, chiese Ghanima, diretta.
-Non lo so!-, esclamai. Come potevo. Lei scosse il capo.
-Non lo sai? Io credo tu lo sappia. Ma capisco quando è difficile ammettere qualcosa. Capisco anche che magari vorresti che fossi io a dirlo, ma non potrei, perché ti eviterei il confronto.-, disse la nera, -Devi arrivarci. Da solo.-.
-Come?-, chiesi.
-Questo lo dovrai scoprire. Intanto…-, la Justicar mi allungò qualcosa. Una canna da pesca rudimentale, -Procuraci un pranzo.-.
La pesca prese gran parte della mattinata. E ovviamente non fu né rapida né emozionante.
Ci misi due ore a vedere un pesce abboccare e tornai alla nostra abitazione con un magro trofeo. Ghanima nel frattempo aveva preparato il resto del pasto.
Verdura, pane azzimo e pesce alla griglia. La sola bevanda era l’acqua.
-Cos’hai imparato pescando?-, chiese lei.
Tacqui. Nulla, avrei detto di primo acchito.
Ma non era proprio così. Pescando ero rimasto in silenzio. A lungo.
-La mente mormora.-, dissi infine.
-È nella sua natura.-, replicò lei.
-Non riesco a farla tacere.-, ammisi.
-Pensi che io mi sforzi di farlo?-, chiese la nera mentre addentava un trancio di pesce.
Rimasi zitto. Mi ero immaginato molte cose nell’addestramento dei Justicarii, ma si stava rivelando totalmente diverso da come avevo creduto.
-Non… non mi pare.-, ammisi. Lei sorrise. Continuò a mangiare.
Avevo commesso un ennesimo errore di valutazione e affogai la cosa nel pasto.
Dopo il pasto, altri allenamenti. D’altro tipo.
Ghanima mi mise a guardia del nostro alloggio. Provai a stare più attento, più concentrato, ma i rumori di fondo erano semplicemente troppo. La Justicar mi arrivò addosso dal lato.
-Sei molto distratto.-, disse.
-Cerco di non esserlo.-, dissi io. Lei scosse il capo.
-Non funziona così. Il tuo errore è molto semplice: tenti di acquietare l’acqua in un bicchiere agitato e così ottieni l’effetto opposto.-, disse.
-Come dovrei fare? Insomma, mi chiedi di… non fare nulla per concentrarmi?-, chiesi, esasperato.
-Esattamente.-, rispose la nera con un sorriso. Io la fissai, decisamente spiazzato.
-È una cosa strana, la mente umana. Ottima a elaborare dati, quasi troppo. Non sta mai zitta. Per farla tacere non buttare altro carbone nella fornace, ma lasciare che il fuoco si estingua.-, spiegò mentre arrivavamo alla spiaggia.
-Quindi dovrei solo… attendere che si plachi da sé?-, chiesi.
-Sì. Però devi prima cambiare il tuo modo di vederla. Devi dimenticare ciò che credi di sapere.-, disse la Justicar.
-E come?-, chiesi. Silenzio. Mi indicò una roccia, quella su cui eravamo rimasti ad asciugarci il giorno prima.
-Non facendo nulla. Assolutamente nulla.-, disse Ghanima, -I miei insegnanti lo chiamavano Zazen, ma in realtà non credo abbia un nome. È una pratica antica.-.
-Hai frequentato monaci Zen-Shura?-, chiesi. Sapevo che lo Zazen era una loro pratica.
-Anche. Tutti i Justicarii conoscono qualche forma di meditazione.-, ammise lei.
-Serve a… permettere alla mente di calmarsi?-, chiesi.
-Serve a permettere alla vita di toccarti.-, rispose la nera. Altra risposta che mi lasciò basito.
-La vita mi tocca di continuo!-, esclamai.
-E tu ti ritrai.-, disse lei, -Spogliati.-, ordinò. Eseguii. Totalmente nudo le stavo davanti.
-Ora stai qui, seduto. Senza fare nulla.-, ordinò ancora lei.
Io mi sedetti. Sulla pietra il contatto con la pelle trasmetteva mille sensazioni.
-Percepisci. E basta.-, disse la nera, -Percepisci senza vedere. Senza ascoltare. Senti.-.
La sua voce aveva una cadenza calma, pacata. Autorevole ma senza essere irruenta o impositiva. Annuii. Sentivo il terreno sotto di me, i punti in cui il mio corpo toccava il suolo, il refolo di vento sulla pelle nuda, la risacca. Un sacco di roba.
Cercai di lasciarla essere com’era, senza alcun ostacolo. La mente si lanciò in una sequela di pensieri, roba insignificante, tentai di non castigarmi per quella distrazione.
Pensieri tutt’altro che casti riempirono lo spazio della mia mente, portarono il mio sesso a un inizio di erezione. Cercai di prenderne coscienza. Di non giudicarmi.
Immagini di Ghanima nuda mi bombardavano la mente. Cercai di non rinnegarle.
Erano temporanee. Se ne sarebbero andate. Dovevo solo attendere e osservare, distaccato.
Imperversarono fantasie erotiche, idee mai realizzate, pensieri che mi avevano sfiorato giorni o settimane prima, ricordi.
La mia postura doleva. Le gambe formicolavano per l’immobilità. Accolsi anche quello.
O meglio, ci provai: il fastidio (che era quasi più dolore), mi sembrava un esercito di formiche intento a marciare su e giù lungo gli arti.
Cambiai posizione, sedendo sulle ginocchia. Meglio. Raddrizzai la postura.
I pensieri si rifecero sotto. Disfattismo e altro. Li lasciai scorrere. Quanto era passato?
La domanda fu un lampo nella mente, come mille altre cose.
Ricordi. Burius, Leatus, altri ancora. Il corpo di Madea sopra il mio.
A quell’immagine, il mio sesso ebbe un guizzo. Presi consapevolezza.
Lasciar passare. Lasciar passare. E improvvisamente, sentii un soffio caldo sul membro.
Lasciar pass… Il mio pene fu improvvisamente avvolto da una caverna rovente, umida. Una lingua mi solleticò il sesso. M’irrigidii. La mia tranquillità parve disintegrarsi.
La bocca si staccò. -Impara a lasciar passare tutto.-, ordinò la voce di Ghanima.
Quand’era arrivata? Da quanto mi aveva tenuto sott’occhio?
Cercai di quietarmi, poi ci rinunciai. Non era quello che dovevo fare, ma l’idea di non lottare per riguadagnare la quiete era semplicemente troppo contraddittoria.
Mi sforzai di respirare. Percepii appena un movimento. Ghanima? Sicuro. Veniva dalla mia destra.
-Il controllo di sé nasce dalla consapevolezza, anche delle proprie ombre.-, disse la voce della nera. Un refolo di vento passò, mi accarezzò la pelle.
-Un Justicar mantiene la consapevolezza. Non cessa di essere presente, neanche nel momento in cui tale presenza è fonte di dolore. Sii presente.-, disse la guerriera.
Sentii un suo dito sul petto, scendermi sull’addome, sul pube, sfiorare il sesso, e poi scendere tra le mie gambe, toccare i testicoli e fermarsi al perineo.
Ero duro come acciaio. Dovetti fare uno sforzo per non aprire gli occhi o supplicare.
-Il controllo di sé non è sinonimo di castigarsi. Un Justicar però non deve dipendere dall’esterno se può evitarlo.-, disse Ghanima, -E deve saper evitare di cedere alla tentazione della distrazione, anche quando è piacevole.-.
-Consapevole di tutto. Distratto da niente.-, concluse lei. La sua mano mi strinse il sesso.
Prese a masturbarmi piano. Mi sforzai di non focalizzarmi su di esso. Ero teso e lo sapevo.
Si fermò, andando a premere con decisione tra le mie gambe, dietro l’attaccatura dello scroto, sul perineo. Premette con tre dita, bloccando il canale dell’uretra.
Il mio sesso parve scaricarsi dell’energia accomulata, verso l’interno. Provai un senso di… pienezza, di svuotamento poi, come se l’orgasmo fosse avvenuto anche senza venire.
-Questa è un’altra tecnica. Il sesso è una distrazione potentissima. Il controllo su di sesso vuol dire aver raggiunto un alto grado di consapevolezza. Per i Justicarii maschi è un punto importante, ma anche per le donne rappresenta una sfida. Il piacere è la distrazione più intrigante. Ti chiama, ora. Accetta che ti chiami, ma non cedervi.-, disse la nera.
Mi sforzai di lasciar passare tutto, anche la tensione che sentivo. Ghanima annuì. Si mosse.
Dietro di me. Le sue mani mi accarezzarono le spalle, la schiena, scesero sino alle natiche.
Il mio sesso era duro, il mio cuore batteva forte, il respiro pareva un ansimare.
In tutto ciò, dov’era la quiete? Come potevo trovarla? Cercai di regolare il respiro.
-Non tentare di controllare le cose con la volontà cosciente.-, ammonì la Justicar.
Cercai di obbedire. Di lasciar cadere. Sentii le dita di lei serrarmi il sesso alla radice.
E poi la sua bocca. Si muoveva piano sul mio membro. Sentivo la sua lingua ruvida sul glande.
Il suo seno era contro di me, contro il mio fianco. Doveva essere sdraiata sulla roccia.
L’immagine e le stimolazioni mi stavano portando a cedere. Il mio sesso pulsava. Agognava al rilascio dell’orgasmo. Lei me lo strinse alla base.
-Devi imparare il controllo.-, disse, -E devi imparare che non è una forzatura. Apri gli occhi.-.
LI aprii. La foresta dell’isola interna fu la prima cosa che vidi, la seconda fu la spiaggia, la terza, il viso di Ghanima, a pochi centimetri dal mio sesso eretto.
Portava la sua cappa di pelle, ma sotto era nuda. L’incarnato scuro e la cappa nera collidevano con la mia pelle.
-Controllo.-, disse. Si alzò.
-Per te è facile…-, dissi io, -Sei donna…-.
-Non quanto credi. Il sesso per me è un richiamo potente. Una donna, a volte anche un uomo, può avvalersene. Non credere che io sia meno umana di te, in tal senso.-, disse la nera.
Mi prese una mano. La posò sul suo sesso. Aperto. Rorido. Le mie dita accarezzarono. Ghanima gemette. Strusciò la mia mano contro il clitoride. La penetrai piano, con un dito, fino alla fine della prima falange. Mi fissò negli occhi. Si mosse piano, lasciando che il dito entrasse e uscisse, ancora e ancora. Mi stava sfidando. Un verso di libidine inarticolato mi emerse dalla gola. Merda… quella vista era troppo!
Ghanima maneggiava il mio dito e la mia mano senza smettere di fissarmi. Non emetteva che brevissimi respiri. Non pareva quasi interessata alle stimolazioni che riceveva, ma il suo corpo non era indifferente, tutt’altro. E io non sarei riuscito a trattenermi ancora: quella visione era di un erotismo notevole e il mio sesso tornò carico di tutta la vitalità di poc’anzi.
Girai il dito nell’intimità della nera. Lei non smise di fissarmi. La sua bocca cambiò espressione. Le piaceva. Allungò una mano. Mi sfiorò. Mi accarezzò il pene.
Fu troppo: venni con un gemito, spargendo il mio seme sulla mano della nera, sulle rocce e sulla sabbia. Ghanima si tolse il mio dito dal sesso, con apparente noncuranza per la fine di quella eccitante situazione.
-Vedi? Controllo.-, disse. Aveva la voce arrochita. Si tolse la cappa buttandosi in mare.
La seguii. Avevo la testa leggera.
-Il controllo.-, ripetei mentre eravamo seduti sulla roccia dopo aver fatto il bagno tra le onde.
Ghanima annuì. Pareva perfettamente a suo agio.
-Sì. Ma non ti ci croficiggere. Ci arriverai.-, disse lei. Nuda era un esemplare di donna magnifico, e letale, dovevo ricordarlo a me stesso.
-Ghanima… hai messo una certa enfasi sul controllo… Mi stai dicendo che tu non ti rilassi mai?-, chiesi.
-Rilassarsi può essere una forma di controllo.-, rispose la Justicar. Cambiò posizione. Tra le cosce brune fece capolino la vulva. Il mio sguardo si spostò di conseguenza. E due dita di Ghanima mi sfiorarono il collo. Non eravamo lontani. Era stata rapida, aveva sfruttato la mia prevedibile distrazione.
-Visto?-, chiese. Il suo braccio non era teso, non era stato un gesto di forza.
Provai a spostare quel braccio, ma fu come cercare di muovere una trave d’acciaio.
-Come?-, chiesi.
-Controllo. E la sua antitesi. La rigidità è propria delle cose morte.-, rispose lei.
-Il mio sesso si sta irrigidendo. Non lo definirei “morto”.-, puntualizzai.
-E infatti può condurre alla tua, di morte.-, ribatté la nera. Si gettò i capelli dietro la schiena con una mano, un gesto noncurante che parve stupendo.
-Quindi anche durante l’intimità con qualcuno devo mantenere l’attenzione?-, chiesi.
-Sempre.-, sussurrò Ghanima -Per quanto possa essere piacevole una distrazione, dovrai imparare a non indulgervi totalmente.-.
-Sembra quasi che voi Justicarii vi aspettiate sempre di essere attaccati, in ogni momento.-, ammisi, dando voce a un pensiero che non mi aveva lasciato sin dalle nostre conversazioni nel deserto. La Justicar parve prendersi un istante per pensare.
-Ricordo un giorno. Un uomo che avevo conosciuto. Era tre anni fa. Fu una notte stupenda: facemmo sesso più volte. E io mi distrassi, un istante.-, disse. Si voltò verso di me, esponendo il fianco sinistro. C’era una cicatrice, -Mi distrassi un istante di troppo.-, concluse.
Non replicai. Avevo capito. Era sufficiente.
-L’uomo era stato pagato per eliminarmi. Ci andò vicino.-, disse la nera.
-I suoi mandanti…-, iniziai.
-Morti. Avrebbero dovuto mandare qualcuno di più capace.-, rispose Ghanima.
-Immagino che quella dei Justicar sia una vita solitaria.-, dissi.
-Non sempre. Ma sì, alla fine si è soli.-, riconobbe la nera. Si alzò. Non provava vergogna per essere nuda davanti a me, e neppure io.
-Quindi… io cosa sono?-, chiesi.
-Un apprendista, un maestro e un amante.-, rispose lei, -Ora preparati.-.
Non potei dire di essere preparato. I giorni successivi furono devastanti.
All’alba, Ghanima mi attaccò. A mani nude o con armi. Andò avanti per gran parte del giorno, lasciandomi un margine di tregua al tramonto. Pugnali, armi lunghe, armi da tiro, tutto.
Era come guerriglia: ci separavamo all’alba e lei veniva a cercarmi, a darmi la caccia.
Fortunatamente non faceva sul serio, almeno credo perché in due casi mi mancò quasi di misura. Attaccava in ogni momento, persino quando andavo al bagno.
Altri due giorni così mi ridussero lo spettro di me stesso, ma acuirono i miei sensi.
Al quarto giorno, ero semplicemente incapace di distrarmi.
Ero sulla spiaggia, con una spada in legno che avevo fabbricato. Le strida dei gabbiani e la risacca erano gli unici suoni. L’odore della spiaggia e dell’aria salmastra il solo profumo.
Inspirai. Espirai. E sentii qualcosa. Un suono appena accennato.
Mi volsi, arma pronta. Deviai l’attacco di misura. Ghanima, un’arma uguale alla mia, mi fronteggiava. Niente cappa da Justicar, in quel caso: era venuta con indosso solo il giustacuore e i calzoni, a piedi nudi.
Attaccò rapidamente. Mi portai fuori dal suo attacco con una passo.
Scansai la sua arma. Attaccai. Lei non si difese, schivò. E afferrò l’impugnatura della mia arma. Eseguii una torsione. Mollò la presa, fendetti trovando il vuoto. La nera era più distante.
Attaccò con due fendenti. Ascendente destro, discendente sinistro.
Parai e deviai. Trafissi il nulla. Mi sferrò un fendente orizzontale che evitai di misura.
I nostri piedi disegnavano ghirigori sul bagnasciuga. I respiri erano come mantici.
Lo sguardo abbracciava tutto, e niente. E all’improvviso, un senso di elettricità mi spinse a scansarmi da un attacco. Ghanima aveva scagliato un coltello. Un bastone intagliato in realtà. Arma da lancio occasionale. Perfetta per la simulazione, ma comunque validissima. Non l’avevo vista prenderlo. Annuii appena. Sfruttò il momento e attaccò chiudendo la distanza. Parai l’attacco, attaccai a mia volta, evitò. Evitai il suo, parò il mio. Infine…
Un respiro. Uno solo. Colpimmo, entrambi.
E le lame, entrambe, si trovarono puntate ai rispettivi colli. Il mio lambito dalla sua, il suo lambito dalla mia. Passò un istante che parve eterno.
Solo a quel punto, Ghanima Buenariva annuì. Avevo superato una prova. Una.
I giorni successivi furono allenamenti continui. Armi e tecniche, forme ed equipaggiamento.
Ghanima mi spiegò tutto per poi obbligarmi a rimettere in discussione quanto detto.
Voleva che trovassi il mio modo di essere un Justicar.
-Non ci sono due Justicarii identici. Semplicemente non possono esistere.-, disse.
Non si aspettava che giungessi a qualche certezza tramite il suo intervento, piuttosto a dispetto di esso. E dovevo ammettere che non era facile. Per nulla.
Le lezioni teoriche, in tal senso erano più conversazioni tra noi. Intervallate da pratica, di tutti i tipi. Sopravvivenza inclusa. Imparai ad accendere un fuoco (o meglio, rinfrescai basi che già avevo), a sopravvivere all’aperto, a farlo con poco e niente.
Ma non erano quelle le prove che mi spaventavano. Mi spaventava ben altro. Come ad esempio quando mi chiese di duellare con lame vere.
-So già duellare con lame vere.-, ribattei, piccato. In realtà avevo paura. Di ferirla.
-Devi imparare a controllare i colpi. Un duello con le armi bianche non è quasi mai risolto grazie alla forza. Nel deserto lo hai visto.-, spiegò la nera prima di farmi cenno di tacere.
Era vero. La osservai. Si muoveva tra gli alberi come una pantera, quasi fosse stata parte dell’ambiente. Eravamo a caccia. Alzò l’arco composito, incoccando la freccia e mirando. L’animale a cui puntava era un cinghiale, comune. Scoccò. Centro. Secco. Preciso al cure. Una morte netta.
-Nessuna crudeltà inutile. Nessuno spreco e nessuna esitazione.-, disse mentre recuperavano quella che sarebbe divenuta la cena.
-Hai paura.-, mi disse mentre mangiavamo. Cinghiale allo spiedo insaporito con miele e noci.
-Ce l’ho. Di ferirti.-, dissi, -Che succede se sei incinta?-.
-Non lo sono. È passato un po’ di tempo, ormai. E comunque, è un rischio che devi correre.-, ribatté la Justicar. Era avvolta dalla sua cappa, illuminata dal fuoco da campo acceso.
-Non ci sono altri modi?-, chiesi.
-No.-, rispose lei, -Domani cominciamo.-, tagliò corto.
Mi coricai sapendo che avrei dormito male.
L’indomani si cominciò con una corsa, poi diversi esercizi per sciogliere i muscoli. Infine venne il momento. Lame. Coltelli lunghi, armi affilate, vere. Capaci di menomare e uccidere.
Ne presi uno, stringendolo.
-Pronto?-, chiese lei stringendo il suo. Non esitava. Mi spaventò.
-No.-, ammisi, -Ma immagino non cambi le cose.-.
-Infatti non le cambia. Attaccami.-, ordinò la nera aprendo la guardia. Lo feci. Poco convinto. Se ne accorse. Mi puntò la lama al petto.
-Attacca seriamente.-, disse. Ci riprovai. E fallii. Ero bloccato.
-Non… ci riesco! Ghanima, per l’amor degli dei!-, esclamai.
-Devi imparare a colpire. A farlo senza mettere una forza eccessiva.-, disse la guerriera.
-Ma non cosÌ! Non c’è altro modo?-, chiesi. Lei parve pensarci. Poi sospirò.
-Per ora. Poi dovrai affrontare anche questo timore.-, disse.
Mi fece esercitare sui dei tronchi prima e tranci di carne poi.
-Devi sapere esattamente quanta pressione fare e come. Non basta saper colpire, devi sapere quando fermarti.-, disse. “Controllo”, pensai, “Moderazione in tutte le cose.”.
Continuammo sino a mezzogiorno e oltre. Ci fermammo per mangiare e poi, Ghanima mi sorprese.
-Presto ripartiremo.-, disse. Io annuii. Mi piaceva la nostra vita spartana, per quanto fosse stancante riservava anche momenti di serenità che avevo imparato ad apprezzare con tutto me stesso, ma capivo le sue motivazioni.
-Città?-, chiesi. Lei annuì.
-Donomurum, sul confine.-, disse. La conoscevo. Un posto… tranquillo. Più o meno.
-Ti confesso che non so cos’aspettarmi.-, dissi, -Insomma, la vita qui è… dura. Ma piacevole. Semplice. Più che laggiù.-, aggiunsi. La Justicar annuì appena.
-È necessario. Noi Justicarii non possiamo legarci a nessun luogo.-, disse.
-E a nessuna persona.-, dissi io. Lei annuì. Forse sul suo viso passò l’ombra del dispiacere, forse no. Fu un dubbio che mi avrebbe tormentato a lungo.
Finii di mangiare e lavai il piatto. Nel pomeriggio ci allenammo ancora, meditammo.
La sera, ero di guardia. Stavolta la mia concentrazione era assoluta. Totale. Osservavo ogni cosa, cercavo di percepire. Soprattutto, di non dare per scontato che nel silenzio non si muovesse nulla.
Strinsi la lama da allenamento. Il boschetto attorno a me pareva respirare, una marea di rumori di fondo. Mi sforzai di ascoltare, di più, ancora di più.
Sino a percepire qualcosa. Un rumore. Mi volsi verso di esso. Silenzio.
Feci due incerti passi, poi un secondo rumore, più secco e rapido. Mi voltai.
No! Era un’esca! Lo realizzai senza che il mio cervello ci pensasse, fu puro istinto. Mi voltai di nuovo verso la direzione precedente. Silenzio.
Il mio cuore batteva forte, ma ascoltavo, o almeno mi sforzavo di farlo.
Una folata di vento leggera sollevò appena le foglie.
Mi volsi quando sentii un rumore. Intravidi un’ombra in nero, sfuggente.
-Vista!-, esclamai. L’ombra lanciò qualcosa. Lo lasciò cadere a terra.
Qualcosa scoppiò in una nube grigiastra. Tossendo, mi gettai fuori dalla mefitica coltre.
-Dannazione!-, imprecai sforzandomi di vedere nonostante le lacrime.
La coltre si dissolse dopo pochi minuti. Niente ombre, niente Ghanima. Solo gli alberi.
Il sole stava terminando di tramontare. La luce stava abbandonando il mondo.
Alzai lo sguardo, e un ombra mi cadde addosso dal più alto dei cieli.
Alzai l’arma per un movimento istintivo di difesa. Ghanima impattò contro di me con forza sufficiente a buttarmi a terra. Non riuscii ad avere coscienza dei miei movimenti, né dei suoi.
Sentii una lama d’allenamento sul collo.
-Molto bravo.-, disse lei. Aprii gli occhi. La nera era sopra di me, a cavalcioni. Ero sdraiato a terra. Nella collutazione frenetica ero caduto a terra.
La sua arma era al mio collo. E la mia era puntata al suo petto, o meglio, all’altezza della terza costola, nell’incavo tra le due coste. Un punto letale. Il che significava un pareggio.
“Ce l’ho fatta!”, pensai per un istante.
Di scatto, Ghanima incollò le sue labbra alle mie, una mossa così repentina che non riuscii a pensare. Aprii le labbra, sentendo il suo corpo contro il mio, la sua lingua della bella nera sulla mia, nella mia bocca. Un bacio sensuale e appassionato. La mia presa sulla lama si allentò.
Subito dopo, il sentore del filo smussato della lama da allenamento che mi fendeva il collo mise fine a qualunque prospettiva di intrattenimento erotico.
“Merda.”, pensai soltanto. Mi ero fatto fregare. Ghanima mi gratificò di un sorrisetto.
-La tua debolezza non è dovuta all’osservazione carente. Sei stato abile.-, disse.
-Ho fallito.-, risposi, -Mi hai ucciso.-.
-Hai pensato di avere vinto. Avevo ancora una carta da giocare.-, rispose lei alzandosi e porgendomi una mano. Ero dolorante. L’impatto col suo era stato tutt’altro che piacevole.
-Sai, credo che questa sarà l’unica distrazione a cui non riuscirò davvero a resistere.-, dissi mentre mi alzavo. Lo sguardo della nera fu lapidario, serissimo.
-Farai bene a imparare a farlo, in qualche modo.-, ribatté. Sospirai.
-Credo che sia il problema di ogni uomo-, dissi infine. La Justicar annuì appena.
-DI molti. Non di tutti. Ma imparerai. Me ne assicurerò personalmente.-, rispose.
-E come?-, chiesi, sinceramente scettico. Lei mi fissò, per un istante con un emozione simile all’irritazione, forse. Poi sorrise, un ghigno che mi fece rabbrividire.
-Ci sono modi. Le Justicar quando devono affrontare questo problema impiegano due metodi.-, spiegò. Il tono della voce era calmo, quasi freddo.
-Il primo è l’estinzione. Più di una del nostro Ordine ha fatto sì che il suo pupillo esaurisse la propria brama sessuale nello sfogarla tanto a fondo da non riuscire a concepirla nuovamente.-, disse. Io notai di avere un erezione. L’idea che Ghanima si accoppiasse con me sino a eradicare il mio desiderio era… perversa. Le fantasie della mia mente galopparono a briglia sciolta. Immaginai atti con lei che mi fecero desiderare di possederla, subito.
E quasi subito capii quanto sarebbe stata una pessima idea provarci.
-Immagino che tu prediliga la seconda possibilità.-, dissi. Lei annuì.
Notai che si era accorta del mio stato. Provai vergogna, ma la guerriera continuò.
-La seconda è l’ascesa. L’energia sessuale può essere guidata verso i centri superiori. È una sapienza antica. Richiede grande volontà. Ma apre le porte al controllo. Quello definitivo.-, chiarì la nera. Io la fissai, scettico in ogni caso.
-In che senso?-, chiesi.
-Sei abituato ad associare il godimento sessuale all’eiaculazione ma se tu guardassi oltre, ti si aprirebbero porte che moltissimi uomini ignorarono.-, disse Ghanima.
-Mi stai dicendo che non devo vedere l’eiaculazione come il culmine del piacere?-, chiesi.
-Ti sto dicendo che ti limiti, vedendola in questo modo.-, rispose lei.
-Quindi cosa dovrei fare? Sento questo impulso, lo sai. Voglio… esplodere.-, dissi io.
-Sì. Se tu riuscissi a ridirigere questa energia altrove…-, mormorò la Justicar.
-L’hai già condivisa con altri, questa via?-, chiesi.
-Mi fu insegnata. Da un Justicar. Uno che giungeva dalle steppe dell’Asia.-, disse Ghanima.
Io annuii. Una via antica… Non ne avevo mai sentito parlare. Era pur vero che le mie esperienze con le donne erano sempre state viste solo in un’ottica. Quella che consideravo la norma. E ora, Ghanima andava a rivoluzionare persino un ambito del genere!
-Vieni.-, disse lei. Ci addentrammo nel cuore dell’isola, sino a una collina. All’interno c’era una grotta. Una sorgiva sotterranea. L’acqua era cristallina. Immersi un dito della mano per poi assaggiarla. Non era salata.
-Non è da qui che prendiamo l’acqua.-, notai. Ricordavo che a volte l’avevamo presa dal mare per poi estrarre il sale nel processo di filtraggio. La nera annuì appena.
-Questa è… una sorgente che preferisco destinare a un uso diverso. L’acqua salata può rovinare la pelle. Questa non lo farà.-, disse.
Mi spogliai, mentre anche lei si liberava delle vesti. L’acqua era fresca, ma non spiacevole.
Entrai nella pozza trovando un appoggio sul terreno roccioso e fangoso.
-Mi parlavi di queste due vie.-, dissi mentre sentivo l’eccitazione aumentare di nuovo.
Ghanima si avvicinò, immergendosi a sua volta nell’acqua.
-Sono entrambe fattibili. La prima è rapida, ma brucia totalmente. Alcuni che l’hanno battuta smettono di provare desiderio per il sesso.-, disse. Sbirciai i suoi seni. Impossibile dire se quel discorso, la nostra vicinanza o un mix delle due cose la stessero eccitando.
-A te non piace come idea, vero?-, chiesi.
-La seconda è più lenta, richiede disciplina, ma garantisce un’esperienza semplicemente inconcepibile ai più.-, continuò la nera, ignorando la mia domanda.
-Ossia?-, chiesi. Lei mi fissò, serissima.
-Non te lo dirò. Lo dovrai scoprire. Se sceglierai questa via, s’intende.-, disse.
-Mi stai dicendo che… accetterai qualunque cosa io scelga?-, chiesi.
-Alexander.-, disse lei fissandomi con una serietà che pareva quasi minacciosa, -Tu sei un ottimo amante, e nella mia vita ne ho trovati pochi come te. La tua decisione di sottoporti a questo addestramento mi ha dato modo di capire la serietà dei tuoi propositi. Hai superato prove, praticato e agito con impegno. A questo fine, ogni mezzo è lecito per renderti un Justicar. Ogni mezzo.-, disse lei, -Anche il mio corpo. Se questa è la tua volontà tuttavia, ti avviso, sappi che esigerò da te tutto ciò che potrai darmi. Si chiama l’estinzione perché è come un fuoco che arde implacabile. Estinguerlo ti potrebbe sfinire. Dopo che il fuoco sarà spento, ti dedicherai alla pratica, sino in fondo. Ci lasceremo alla fine del tuo addestramento, per non rivederci per molto tempo. Forse per sempre.-.
-E se scelgo l’altra via?-, chiesi.
-In tal caso la tua fiamma non si spegnerà, ma alimenterà la tempra della tua volontà. Puoi scegliere. Ed è ben più di quanto molti abbiano.-, disse la Justicar.
-Ma… non so niente dell’altra via.-, esitai.
-E sai tutto della prima. Oh, so cosa pensi ora: stai domandandoti se scegliendo la seconda perderai la prima. La risposta è sì, e no.-, disse la nera. S’immerse fino alle spalle per poi uscire dall’acqua con le onde che le accarezzavano piano i seni.
-Come…-, iniziai. La guerriera scosse il capo.
-Non chiedere. Ti chiedo di scegliere.-, disse lei.
-E io ti chiedo tempo.-, ribattei. La Justicar annuì. Uscì dall’acqua. Piano. Solenne. Si rivestì dopo essersi asciugata accanto ad un fuoco che aveva acceso appena fuori dalla grotta.
-Lo comprendo. Io devo andare a Sebastopoli. Ho alcune faccende da sbrigare. Ti è proibito accompagnarmi. Usa il tempo della mia assenza per riflettere.-, disse.
-E se non torni?-, chiesi.
-Qualcuno verrà. Qualcuno ti prenderà con sé.-, ribatté lei, -Tu diverrai un Justicar.-.
Io la guardai allontanarsi. Non la seguii. Rimasi da solo, con i miei pensieri.
L’indomani ci separammo. Il giorno successivo lo passai meditando e allenandomi, quello dopo fu ancora così. Il terzo giorno mi dedicai a ripulire gli spazi che aveva occupato.
Ero pensieroso. C’erano molte cose su cui avevo dubbi, non da ultimo molte domande su dove Ghanima prendesse cibo e armi, ma comprendevo che avesse il suo modo per arrangiarsi. E poi c’era quella proposta…
L’idea del sesso con lei, privo da ogni vincolo, mi tentava. In un modo quasi irresistibile. Eppure sentivo che non era giusto. Che non era corretto verso di lei. Il fatto che fosse disposta ad assecondarmi non cambiava le cose. L’altra via, invece…
Mi pareva tremendamente falsa. Ero scettico su di essa e non era certamente incomprensibile. Per un istante, pensai a noi, avvinghiati in una serie di amplessi, uno più estremo dell’altro, ancora e ancora. Perché non avrei dovuto desiderare di bruciarmi?
Solo per una ragione: ero migliore di così.
Ghanima mi aveva offerto sé stessa, la sua vulnerabilità, la sua conoscenza e ora anche il suo stesso corpo. Aveva messo tutto quanto sul piatto di una scommessa col fato: io sarei dovuto divenire un Justicar. Lei intendeva far sì che accadesse, a ogni costo. E io le credevo, nessun dubbio su questo, ma il come lo sarei divenuto, e il come sarebbe stato il nostro rapporto dopo, quelle erano ben altre questioni.
Se avessi scelto la prima strada, avrei avuto il corpo di Ghanima, una meravigliosa scultura d’ebano brunito che mi avrebbe succhiato via sino all’ultima goccia di erotismo, lo potevo immaginare. E poi? Poi Ghanima avrebbe finito di addestrarmi, e se ne sarebbe andata. Via.
Saremmo stati pari, Justicarii. Io e lei allo stesso livello, ma null’altro. Quello sfrenato ardere avrebbe divorato anche qualcos’altro. Qualcosa di più sottile. Quello che si stava creando tra noi non era un legame esclusivamente basato sul sesso, non era neppure un vincolo tra maestra e apprendista, era molto altro. Molto di più.
Almeno, da parte mia si stava creando ciò. Forse era un illusione?
Cercai di meditare. I pensieri e le immagini mentali montarono come una marea. Continuarono impietosi, sino a sera, sino a che non andai a letto.
L’indomani i miei interrogativi continuarono. Eseguii i miei allenamenti in modo meccanico, senza quasi una reale concentrazone.
Il secondo metodo… Cos’era davvero? Una forma di visualizzazione? Uno sforzo strenuo volto ad alterare i normali processi corporei? Una sostanza di qualche tipo? No, scartai l’ultima ipotesi: non era ciò che mi sarei aspettato da una Justicar.
Il desiderio rimaneva. Ghanima era pur sempre una bellissima donna e questo non sarebbe mai cambiato. Osservai il sentimento, tentando di non aggiungerci sopra immagini mentali.
Inutile cercare di cambiare la situazione. Espirai, frustrato.
Ero migliore di così, e lo sapevo. Ed ecco che ricadevo nel solito vecchio schema.
Mi irritavo e soffrivo per delle cose assurdamente ininfluenti come i miei pensieri.
Ripresi ad allenarmi. Passò un altro giorno. Esplorai l’isola. In realtà non c’era molto altro: il bosco era temperato, la sorgiva d’acqua dolce, la spiaggia…
Era probabile che quell’isola si fosse staccata dalla terraferma all’epoca del Cataclisma senza mai però maturare un proprio bioma, rimanendo legata alla morfologia del continente originario. Sicuramente ciò la rendeva un luogo interessante.
Tornai alla sorgente. M’immersi. Chiusi gli occhi. Era piacevole. Avevo acqua e cibo ancora per diversi giorni. E poi, avevo intravisto degli animali. Pochi. I cinghiali erano una vista rara. Se ne stavano appartati. La biodiversità dell’isola era limitata, e veniva da credere che qualcuno avesse introdotto quelle specie piuttosto che dar credito all’idea che fossero native del luogo.
Probabilmente era opera dei Justicarii. Avevano voluto creare un luogo loro, in cui anche il solo sopravvivere avrebbe potuto costituire una lezione.
Il pensiero mi ricondusse a Ghanima. Stava bene? Era ancora viva? Non avevo modo di contattarla ed ero bloccato lì, su quell’isola. Mi fidavo di lei, ma la sua assenza mi rendeva dolorosamente consapevole del legame che si era creato tra noi.
O forse dell’aspettativa che quello stesso legame aveva portato a crearsi.
Avrei dovuto essere libero da un simile legame, no? No. Non lo ero.
Per certi versi la cosa mi consolava: se fossi stato così insensibile, avrei smarrito la mia umanità. Eppure, con questa consolazione giungeva sofferenza.
Sprofondai nella pozza immergendomici, per poi riaffiorare dall’acqua.
La frescura spazzò via i pensieri, per un istante. Mi permise di vedere le cose così com’erano.
E annuii. Ero lì, semidisteso in una pozza. Ghanima non c’era. Ero solo.
Perché avrebbe dovuto essere un male? In fin dei conti la mia vita era cambiata radicalmente grazie a lei, ma non era scritto da nessuna parte che avessi dovuto starle attaccato.
Ecco, era proprio questo il punto. Mi soffermai a pensarci.
Mi ero attaccato a Ghanima, a un immagine che avevo di lei, o meglio all’immagine che mi ero abituato ad avere di lei. E questo distorceva la mia visione delle cose. Ghanima non era solo quello. Era molto più di ciò che percepivo.
Se ero davvero così attaccato a lei, la soluzione era semplice: bruciare. Ardere.
E sapere che così facendo avrei messo fine a tutto quanto, una volta finito l’addestramento.
Espirai di nuovo. No. Non era una soluzione. Se qualcosa ci fa soffrire e ce ne allontaniamo, non impareremo mai a tollerare la sofferenza. Io l’avevo tollerata, quella fisica. Non ero mai stato preparato a quella emotiva. Bastava guardare al tradimento di Leatus…
Ero stato cieco: avevo creduto che certi valori non si potessero mai corrompere e mi era stata data prova del contrario, e ora stavo facendo l’errore all’inverso, scegliendo un radicale cinismo per non soffrire un distacco che sapevo, in una forma o nell’altra, sarebbe avvenuto.
Riaprii gli occhi. La quiete era assoluta. E mi ci immersi.
Passarono altri due giorni. Furono lunghi. E mi diedero modo di capire molto su me stesso.
Ghanima fece ritorno durante un tramonto. La vidi dalla spiaggia, una piccola barca la depositò sul litorale. La guardai scendere e procedere verso di me, senza voltarsi.
Si fermò, poco distante da me. Ero vestito con abiti dappoco e non avevo che un coltello con me. Lei invece vestiva la sua cappa e gli abiti da Justicar.
Aveva con sé una borsa. Bella voluminosa. Stimai che contenesse anche cibo.
-Hai deciso?-, chiese. Io annuii.
-Ho fatto la mia scelta.-, dissi. Era vero. Non c’erano più finzioni o mezze misure.
Gli occhi di Ghanima parvero frugarmi l’animo. La fissai in rimando.
Nessuna esitazione. Non chiesi cosa ne pensasse o se avesse paura. Il vento passò su di noi.
-Andiamo a cenare.-, disse lei con un sorriso che me la rese solo più irresistibile ricordandomi con perfidia dolorosa quanto avevo aspettato il suo ritorno.
Tornati che fummo al nostro riparo, Ghanima si mise a cucinare.
Notai che il suo abito non presentava macchie di sangue o di lordura, casomai tracce di riparazioni. Non aveva combattuto, dedussi, piuttosto si era rifornita, aveva fatto riparare l’equipaggiamento. Un Justicar doveva fare anche quello, evidentemente.
Dalla borsa estrasse infine una bottiglia, un contenitore verticale in vetro che pareva riempito di un liquido simile a latte bovino. Lo versò in una ciotola. Non chiesi cosa fosse.
Si dedicò a preparare il resto. Intuii che sarebbe stata una cena vegetariana.
Poco dopo eravamo davanti a due ciotole di zuppa. Mangiai con calma, senza fretta.
-Hai passato dei giorni lieti?-, chiese.
-Abbastanza. Ero quasi preoccupato, ma vedo che non rechi segni di scontri. Oppure li hai solo rimossi prima di tornare.-, dissi. Ghanima scosse il capo, con un sorriso.
-No. Nessuno scontro. Dovevo preparare il terreno, ma visti i tempi che corrono non potevo escludere che non ci sarebbero stati problemi. I Praefectii si rivelano ogni giorno più pedanti.-, disse. Io annuii. Non erano buone nuove.
-Stai dicendo che potrebbero interdirci il transito?-, chiesi.
-Non proprio, ma concretamente danno noie. Potrebbero arrivare a diventare ostacoli.-, ribatté la nera, -Se così fosse, dovremmo scegliere cosa ci è più caro tra la giustizia o la misericordia.-.
-Temi un conflitto aperto?-, chiesi. L’ipotesi era semplicemente orribile.
-Alcuni lo cercano attivamente. Non ti verrò a mentire: c’è la possibilità concreta che lo ottengano.-, ammise Ghanima, -Per questo è importante che continui ad addestrarti.-.
Dal tono, capii che si aspettava ancora la mia risposta.
La fissai. Lei pareva in attesa, priva di qualunque pressione, di qualunque aspettativa.
-Se mi limitassi a dirti che la mia scelta è una o l’altra, sento che sbaglierei. Quindi, se permetti, ti dirò ciò che sento e ciò che ho scelto.-, esordii.
La nera mi fissò, senza interrompere.
-Sai, ho provato l’amore, in vita mia. Non è mai andata bene. Quel che c’è con te, però… Non è amore e non è solo… attrazione. È qualcosa a metà strada. È come un filo di perle nella notte…-, dissi. Non ero certo di star usando le parole giuste. Non ero neppure certo di starci facendo una buona figura, ma sapevo di dover andare sino in fondo. Ghanima ascoltava.
-Non te lo nego, l’idea di perderti mi fa male, l’idea di separarci mi fa soffrire, ma questo… questo è un sentimento così puro che anche l’idea di soffocarlo nel sesso, anche solo per finire il mio addestramento, mi è intollerabile. Da qui, penso tu possa immaginare la mia scelta.-.
Silenzio. Avvolse le mie parole. Poi, lentamente, Ghanima si alzò. Lo fece senza aiutarsi con le braccia nonostante il lungo tempo passato seduta. Si avvicinò a me e mi baciò. Un bacio lento, passionalmente intenso, tanto da farmi sfiorare l’erezione.
-Apprezzo che tu non abbia scelto la strada più facile.-, sussurrò staccandosi.
-Non sarebbe stata quella giusta.-, risposi, convinto.
-Molti altri avrebbero detto di sì.-, riconobbe la nera.
-Molti altri non sono me.-, ribattei con un sorriso.
-È vero. Ora…-, disse lei.
Eravamo di nuovo nella foresta. Ero solo. Avevo sfruttato il tempo per conoscere la foresta, per conoscere me stesso. Non temevo quel momento.
Ghanima mi aveva ordinato di guardare la fonte. Di fare la guardia. Di impedirle di arrivarci.
Avevo con me l’equipaggiamento di un Justicar, come il suo. Era questo che era andata a prendere. Non vestivo la cappa in cuoio nero, ma per il resto ero abbigliato come una delle leggende a tutti gli effetti, avvolto da un giustacuore in cuoio nero. Avevo una lama, vera, delle bolas (arma che conoscevo e avevo visto utilizzata) e tutta una serie di altre tasche alla cintura, vuote. Notai che tutto il cinturone era fatto come la mia vecchia cintura da guardia della carovana. Ghanima era stata attenta.
I rumori della foresta non mi turbavano, scorrevano come un fiume sotterraneo, una serie di suoni di sottofondo, filtrati dalla mia attenzione. Un movimento alla mia destra catturò il mio sguardo. Bestia a due zampe. Gli diedi giusto un’occhiata con la coda dell’occhio destro.
Girai verso sinistra, nulla. Un colpo, roccia su roccia. Una diversione? Gettai appena un secondo rapido sguardo verso sinistra. Niente. Fulmineo, girai lo sguardo, niente.
Ero teso, ma non intendevo ostacolare quella tensione. Il mio cervello rettile stava filtrando le minacce, scremando i segnali, considerando la situazione a un livello totalmente diverso dall’usuale. Improvvisamente, percepii come una scarica elettrica. Mi voltai, mani tese davanti a me. Sferzai l’aria con la sinistra, deviando un coltello da lancio. La figura di Ghanima, lontana tra gli alberi svanì in una capriola quando lanciai uno dei miei.
Mossi due incerti passi verso di lei, poi mi fermai. A che pro cercarla? Era ciò che voleva.
Fruscio, a destra. Il bosco? Poteva essere. Quanto poteva correre veloce quella donna?
Girai appena un occhio verso la direzione. Ombre. Due. Quadrupedi. Bestie.
Cinghiali? In fuga? Sì. Questo voleva dire che Ghanima li aveva spaventati.
Senza pensarci frugai il bosco con lo sguardo. Niente. Svanita. Tornai verso la sorgiva. Mi girai fulmineo a dare un occhio dietro di me. Nulla. Non ha provato ad aggirarmi?
“Quanto tempo è passato? Minuti? Secondi? Ne avrebbe avuto il tempo?”
Espirai. Il fiato mi sfuggì in sibili. Poi mi voltai a destra. Istinto, ancora.
L’ombra mi balzò addosso, materializzata dagli incubi. Ero lontano, trenta metri dalla sorgente. Brandiva la sua lama. Attaccò senza darmi tregua, mi avrebbe travolto se fossi rimasto fermo. Schivai, uscendo dall’attacco. Sguainai la lama. Lei sorrise.
Fendette, evitai, contrattacccai. Realizzai che stavamo usando lame vere.
L’informazione fu cancellata dalla mia mente quando un suo fendente disegnò un taglio sulla manica del giustacuore. Eseguii una giravolta attorno a lei, per uscire dal suo attacco. E lei si lanciò in avanti. Verso la sorgente. Reagii senza pensare: estrassi i bolas.
Li roteai sopra la testa, due giri. Scagliai. Le due sfere rotarono nel vento, fino a trovare un appiglio a cui avvolgersi, spinte dal moto cinetico.
Le gambe di Ghanima. La Justicar cadde a terra. A dieci metri dalla fonte. Strisciò verso l’ingresso. La tirai indietro per un piede, scagliandola indietro mentre si ribelava dai legacci dei bolas. La bloccai a terra.
-È finita.-, dissi con un sorriso. Il respiro era appena affannato. Le stavo puntando la lama alla gola. Lei non mi guardava, fissava un punto distante. Mi baciò. Labbra su labbra.
Ancora una volta sentii il suo corpo contro il mio, la mia lingua con la sua…
“Resta concentrato!”, urlò una parte della mia mente.
La lingua di Ghanima mi vorticò in bocca. Una sua mano scese ad accarezzarmi l’addome.
“Resta concentrato!”, implorò la mia mente. Il mio sesso recepiva il messaggio.
Ero eccitato. Improvvisamente la sentii contro di me, il suo pube contro il mio sesso, poi il suo sesso contro il mio coperto dai tessuti. Caldo anche attraverso essi.
Mi voleva, almeno quanto io volevo lei.
Stava strusciandosi contro di me. La mia mano non era più quasi mia, non ricordavo dove fosse, la mia lama era persa nella mente. Ma DOVEVA RESTARE SALDA!
Crollai sulla Justicar. Lei mi avvinghiò. Si staccò con un risolino.
La mia lama era rimasta salda, al suo collo.
Ma la nera mi giocò: mi abbattè a terra, riuscendo a imporsi grazie a una proiezione di anche e bacino coadiuvate dalla spinta delle braccia. Si alzò, rapida. Corse verso la fonte.
O almeno ci provò: la mia mano destra le afferrò la caviglia. Tirai verso di me. Lei cercò di sferrarmi un calcio sfruttando la tirata. Fallì, ma mi costrinse a lasciarla. Mi buttai verso di lei, deviando la sua lama con la mia.
La Justicar mi bloccò il polso armato in una morsa. Eseguì una torsione.
Dolore. Dovetti lasciare il pungale. Crollai in ginocchio, davanti a lei. E li vidi.
Coltelli in legno. Da lancio. Fulmineo ne estrassi uno, proprio mentre Ghanima chiudeva la leva articolare. Stallo.
Ci fermammo, perfettamente immobili, io in leva, lei con una punta di legno all’altezza del collo. Silenzio. Stasimo. Un minuto. Due. Tre.
-Posso spezzarti il braccio.-, sibilò la giovane. Non aveva nulla dell’amante in quel momento.
-E io posso aprirti la gola.-, ribattei. La tensione sul braccio si acuì. La fissai.
“Va avanti. Fallo. Tanto sai che ho ragione.”, mi permisi di pensare. Poi il dolore diminuì.
Ghanima mi aiutò a rialzarmi. E all’improvviso, mi tirò una testata. Il mondo divenne per un istante confuso mentre le cartilagini del naso gemevano.
-Merda!-, imprecai. La nera si mosse verso la fonte. Due metri, uno…
La afferrai per i capelli, tirando le trecce. Non fu gentile, ma d’altro canto, anche lei mi aveva fatto male. E dov’era scritto che non dovevo renderle pan per focaccia?
-Mai tenere i capelli lunghi in una rissa!-, esclamai mentre emetteva un verso di dolore.
Si girò e mi sferrò un pungo, deviai. Ora stavamo a tutti gli effetti battendoci.
E questo, realizzai, significava che il test era entrato nella fase finale.
Una ginocchiata all’inguine fu sventata da un movimento che feci istintivamente. Sferrai un jab ascendente. Ghanima indietreggiò, scuotendo il capo come una lottatrice stordita.
Emise un verso di rabbia. Si lanciò in avanti. Intercettai l’attacco proiettandola mentre cadevo a terra, mossa nota come Il Sacrificio: cadere per proiettare l’avversario con una spinta a piedi uniti. La Justicar rotolò a terra. Io mi ralzai. Avevo dolori ovunque, respiravo affannosamente e sentivo una stanchezza non indifferente che montava.
Non mi sarei mosso. La fissai. Lei sogghignò. Aveva un livido sul mento. Io avevo il naso che sanguinava. Eravamo messi male, dementi guerrieri alla fine della lotta, eppure incapaci di finirla. Scoppiai a ridacchiare, senza preavviso. Alzai la mano, invitandola ad attaccare.
Scagliò un coltello da lancio. Mi scansai. Balzò in avanti. Mi sferrò un calcio a gamba tesa, bloccai il colpo, ma sferrai a mia volta due attacchi che lei deviò.
-Non vincerai!- ruggii. Lei mi sgambettò. La trascinai giù con me. Cademmo a terra, di nuovo. Mi bloccò sotto di sé. Mi contorsi sino a costringerla ad abbassarsi. Le sue mani cercarono i coltelli da lancio. Li trovarono, o meglio, trovarono l’ultimo. Prese a spingere verso di me. Deviai il colpo. La lama in legno affondò nel terriccio. Non le diedi modo di svellarlo: le sferrai due colpi corti. Petto e addome.
Ghanima incassò. La proiettai a terra. Troneggiai su di lei. Rotolavamo sul terreno senza accennare a riuscire ad alzarci o a prevalere.
Lei riguadagnò la posizione superiore ma io le avvinghiai le gambe con la mia, bloccandola contro di me con le braccia. Eravamo inchiodati. Nessuno di noi avrebbe vinto.
In quel momento, quantomeno. Ghanima si arcuò contro di me. Pareva quasi il preludio a un amplesso e per molti versi poteva anche esserlo, ma in quel momento, persino il desiderio che provavo era secondario, relegato in un angolo della mente.
La Justicar ringhiò. Cercò di colpirmi con la nuca, ma sbatté la testa. Emise un gemito dolente.
Portai la mia bocca dietro al suo orecchio.
-Da qui, posso ancora morderti il collo.-, le feci notare. Silenzio. Ancora.
Un minuto, due, tre, sei. Ghanima continuò a contorcersi contro di me, cercando di svincolarsi. La tenni più forte, più stretta. Non avrei ceduto. Infine, la sentii rilassarsi.
Il mio sesso era a contatto con il suo sedere, il mio braccio destro le circondava il petto schiacciando il seno. Ero eccitato. Ed esausto.
-Merda…-, mormorò la nera. Cercò di sferrare colpi con le braccia ma non ci riuscì.
-Ti arrendi?-, chiesi. Lei sospirò.
-Guarda che posso restare qui tutta la notte.-, incalzai.
Era un bluff: ero esausto. Se fosse riuscita a svincolarsi, probabilmente sarei crollato.
Infine, la mano destra di Ghanima Buenariva si alzò. Batté il terreno. Due volte. Resa.
Avevo vinto. Ero a pezzi ma avevo vinto. La lasciai. Lei si alzò. Mi aiutò ad alzarmi.
Infine mi fissò. La fissai. Eravamo sporchi di terra, di sangue e sudati da far schifo. Eravamo a tutti gli effetti martoriati: lei aveva un livido sul mento e io avevo il naso che sanguinava.
Sentivo dolori. Costole, petto, gamba destra, braccio sinistro… Mi aveva colpito un po’ di volte. E neanche lei pareva il massimo: aveva i capelli in un disordine caotico tale da far apparire l’antica Medusa portatrice di una capigliatura ordinata e morigerata, il viso era sporco di mota, aveva un piccolo graffio dappoco lungo il collo e le vesti sporche.
-Hai superato la prova. L’ultima. Combattere contro di me. E hai vinto.-, disse.
Sul suo viso sbocciò un sorriso bellissimo che mi fece sorridere di rimando.
-Sei uno di noi ora, un Justicar a pieno titolo.-, disse.
-Ho… usato una lama vera.-, dissi.
-Sì. E non mi hai uccisa.-, ribatté lei. Il sorriso non accennava a spegnersi.
-Io… grazie, Ghanima.-, dissi con un inchino. Mi girava la testa. Dovevo lottare per restare eretto. Era stato un combattimento brutalmente feroce. Forse non il mio più lungo, sicuramente il più dannatamente intenso. La nera mi sorrise mentre si bendava un’escoriazione a un braccio.
-Vediamo di darci una ripulita.-.
L’acqua della fonte ci avvolgeva. Mi tastai appena i tamponi di tessuto che avevo infilato nel naso. Ghanima mi osservò, severa.
-Non toccarli. Sennò non guarisci più.-, disse.
-Sì, mammina…-, ridacchiai io. Lei scoppiò a ridere. Per un istante, le nostre risate furono il solo suono che sentimmo. Avevamo messo ripulito l’equipaggiamento, rassettato le armi, bendato le ferite e contato le ossa rotte. La Justicar seguì con un dito il profilo del mento, lungo il livido che le avevo lasciato.
-Era un po’ che non le prendevo così.-, ammise infine.
-Mi spiace…-, mormorai. Era vero: ce le eravamo date di sacrosanta ragione, in un modo talmente sconsiderato che solo in quel momento capivo quanto fossimo stati vicini a farci veramente del male. Socchiusi gli occhi rivedendo l’intera sequenza di combattimento nella memoria. Ogni colpo dato o preso. Fu qualcosa d’impressionante rivedendolo come un ricordo.
Avevo già combattuto, più volte, in molti luoghi, mai così. Mai contro qualcuno così.
Ghanima mi aveva portato oltre un limite che non credevo di poter superare.
-Non ti ho uccisa.-, sospirai appoggiato al bordo della pozza ad occhi chiusi.
-No.-, disse la sua voce. Era vicinissima. Aprii gli occhi. Era al mio fianco. Mi fissava.
Sorrideva, anche nonostante il livido, -Siamo vivi. Entrambi.-.
-Ti ho massacrata…-, mormorai accarezzandole il viso. Scesi sul mento, lungo il livido. Ghanima mi accarezzò il viso, evitò di toccare il naso. Sembrava sapere che mi avrebbe fatto male. La desideravo, ma ero così stanco…
-Ci siamo massacrati.-, corresse la nera. Avevamo altre ferite. Graffi e botti sulla pelle.
-Queste sofferenze sono medaglie. Una consacrazione non avrebbe senso se non ci fosse la consapevolezza del suo prezzo. Un titolo dato non dimostra nulla di chi lo possiede.-.
La fissai. Ero incerto. Avrei voluto possederla lì, in quel momento, ma mi sentivo così stanco.
-Presto.-, disse lei con un sorriso sbirciando il mio sesso eretto.
-Mi spiace…-, mormorai. Mi sentivo quasi deficitario, nei suoi confronti.
-E di cosa? Farlo adesso con tutta la stanchezza addosso sarebbe solo uno spreco.-, rispose la nera con uno sguardo obliquo ch sapeva di sincera perplessità.
-Non so… vorrei farlo, sai… per… per te. Per farti stare meglio…-, dissi infine.
-Lo stai già facendo.-, rispose Ghanima, -Sei qui con me.-. Si mosse nell’acqua, adagiandosi su di me, piano. Il suo pube pesava leggero sul mio sesso. Mi baciò. Piano. Castamente.
Avremmo avuto tutto il tempo per farlo, ma aveva ragione, in quel momento non serviva quello. Serviva questo. Un momento di comunanza, senza parole o azioni.
Dopo un po’ ci alzammo e rivestimmo. Crollammo a letto.
L’indomani ci svegliammo abbracciati. Non parlammo. Mangiammo, bevemmo, infine Ghanima me lo disse.
-Oggi è di riposo. Prenditi il tempo per guarire. Non allenarti se senti di non essere pronto a farlo. Domani partiremo.-, dichiarò. Io annuii.
-Se oggi hai domande, dubbi o altro, ti ascolterò.-, aggiunse.
Passammo la giornata in modo diverso: parlammo.
La cosa curiosa era che il nostro rapporto non era schematico. Non c’erano ritualismi o salamelecchi, procedure fisse o posizioni gerarchiche.
Ghanima mi trattava come un suo pari, da quando l’avevo conosciuta, non aveva fatto altro che tributarmi lo stesso rispetto che esigeva per sé da altri.
Mentre camminavamo lungo la spiaggia, mi sovvennero numerose domande.
-Ghanima… i Justicarii quanti sono, attualmente?-, chiesi.
-I nostri numeri sono pochi, appena un migliaio, forse meno. Onestamente, non ho un numero preciso per risponderti, e non è così importante. L’Ordine potrebbe estinguersi domani, o perdurare in eterno. Già te lo dissi, cosa ci rende Justicarii.-, rispose.
-Capisco. Ma come fate a comunicare e organizzarvi?-, chiesi.
-Ci sono poche occasioni. Ogni Justicar è un nomade. Alcuni hanno tentato, prima del Cataclisma, vite sedentarie. Con il mutare del mondo e il crollo della civiltà non c’è più stata una simile possibilità.-, disse.
-Avevate un Tempio, però.-, notai ricordando i miti dell’Impero.
-Avevamo. Hai detto bene. Troppi di noi radunati in un solo posto fornivano un bersaglio ideale. Fu un errore. Gravissimo. Compiuto in buona fede. Pagammo per quell’errore. Da allora non c’è più stato alcun Tempio, e nessun’adunanza di Justicarii.-, spiegò la nera.
Il vento passò su di noi, trascinando con sé il respiro dei secoli.
-La battaglia in cui intervenimmo a favore di Aristarda Nera, fu l’ultima grande adunanza.-, concluse mentre camminavamo lungo la costa. Le onde lambivano i nostri piedi.
Eravamo vestiti di vesti leggere. Persino Ghanima aveva smesso il giustacuore in pelle preferendo vesti più leggere. Era bellissima e mi scoprii a sorridere.
-Quindi… da allora siete vissuti da nomadi.-, dedussi.
-Una vita dura. Moltissimi la sognano, moltissimi la cercano, e moltissimi finiscono con il rimpiangere di averla scelta. Per noi non è così. L’attaccamento a un luogo o a delle persone ci è proibito, semplicemente a causa della vita che abbiamo scelto. A te pare crudele?-, chiese la bella guerriera. Mi presi il tempo per riflettere.
-È severa. Sicuro. Una vita dura, hai detto. Impietosa e solitaria. E se muori…-, iniziai.
-Se muori, muori. Poi possono anche farti un monumento grande come il Faro di Prissua-Agripatus, ma non servirà a nulla. Un Justicar non ambisce a riconoscimenti, né in vita né in morte. Agiamo come agiamo per coscienza, facendo ciò che altri non osano fare per timore o per inerzia. Non siamo benvoluti perché spesso distruggiamo un quiete malata, esponiamo verità scomode, sconvolgiamo lo status quo.-, spiegò Ghanima.
-È per questo che i sacerdoti e i Praefectii vedono male i Justicarii.-, dedussi.
-Sì. Anche. È molto più facile per loro demonizzarci che riconoscere la verità nel nostro agire. Molti di essi perderebbero potere e privilegi riconoscendola.-, annuì la nera.
-Immagino che non sia semplice per due Justicarii incontrarsi.-, dissi. Stavo volontariamente dando voce alla consapevolezza che l’avrei persa. Che non c’era nulla da fare.
-Spesso e volentieri non è programmato. Un Justicar ne può incontrare un altro per puro caso. A me è capitato per tre volte, nel corso di nove anni.-, disse.
-E non è mai accaduto che due Justicarii… combattessero?-, chiesi, esitando a sollevare un tema che sentivo essere intrinsecamente sbagliato.
-Non accade tra Justicarii. Ma i Rinunciatarii, coloro che abbandonano la via volontariamente, o peggio ancora, i Justicarii rinnegati, non si fanno scrupolo ad attaccare i membri dell’Ordine.-, rispose infine Ghanima, -Molto spesso non prevalgono, ma sono avversari tenaci, capaci, istruiti come noi. Sono uno specchio oscuro del nostro essere, una rifrazione che non dovrebbe essere. Una piaga.-. Serrò i pugni per un istante, rilassandosi piano.
-Perdonami.-, dissi, -Ti ho turbata.-.
-No.-, rispose lei, sul suo viso c’era qualcosa. Un senso di sofferenza che formava espressioni dure, -È solo… io ho affrontato uno di questi rinnegati. Duellammo per quasi tre ore. Ci scontrammo tra le rovine di Foria Pila, in Hiberia. Mi ferì alla gamba destra e mi piantò una pallottola in una spalla. E non vinse ugualmente.-. Non c’era gioia nel suo racconto.
-Dev’essere stato terribile.-, dissi.
-Terribile fu la perdita. Se non fosse stato sviato dal miraggio dell’avidità, dal richiamo della ricchezza ad ogni costo, sarebbe divenuto certamente un eroe, un campione. Un Justicar degno dei suoi predecessori. Il peggio è che costoro spesso nascondono la loro passata appartenenza all’Ordine, e dunque non pssono essere braccati attivamente. Molti di loro, credo vedano noialtri come cacciatori e prede. Un gioco letale di cui non riescono a far senza.-, rispose la nera. Il suo viso si rasserenò, fissava il mare.
-Nell’Ordine ci sono cariche?-, chiesi, preferendo cambiare argomento.
-No. Nessuno comanda. L’Ordine ha avuto un fondatore, ma non ha, e non avrà mai, capi. Non ci sono mai stati. Non ci dovranno mai essere. Ogni Justicar è unico, ha i propri metodi. Condividiamo scopi, vesti e conoscenze di base, ma siamo semplicemente troppo diversi per poter essere uniformati oltre. Ed è giusto così. Il lato negativo è che non c’è controllo su eventuali rinnegati, ma è un rischio che accettiamo di correre.-, spiegò la guerriera.
Il vento ci avvolse. I lembi delle nostre vesti svolazzarono. Le gambe di Ghanima erano avvolte dalla veste e per un istante furono delineate con precisione fiabesca.
-Quindi… se un Justicar volesse chiedere aiuto…-, iniziai.
-Ci sono alcuni modi. Ma variano molto. Abbiamo un linguaggio scritto che è un codice comprensibile, ma diversi non lo conoscono. Spesso e volentieri, l’aiuto è casuale. Pochi Justicarii mantengono contatti con altri, contatti stabili e voluti. SI evita così che, se qualcuno ci dovesse dare la caccia attivamente, possa prendere due piccioni con una fava.-, rispose lei ricorrendo a un antichissimo adagio pre-Cataclisma.
-Ma questo vuol dire che ogni Justicar è isolato.-, conclusi io.
-Sì. Come ho detto, le adunanze sono roba del passato. Con i tempi che corrono, sarebbero la mossa perfetta per innescare un conflitto.-, confermò la Justicar. Annuii. Capivo.
-Per i tempi che verranno, sarà sempre peggio.-, dissi, pensando ad alta voce. E per la prima volta, il sorriso di Ghanima non fu né sensuale né gioioso. Fu in qualche modo feroce.
O forse fu solo un rictus isterico, innescato da qualcosa che aleggiava sullo sfondo della sua percezione, magari un pensiero così terribile che esprimerlo sarebbe stato semplicemente un tradimento verso quel momento, verso quella pace, verso la comunione di quel tempo con me. Ciononostante, o forse proprio per questo, parlò.
-Oh, Alex.-, disse scuotendo il capo, -Peggiorerà, ma non come credi. Questa pace porta dentro di sé le metastasi di un nuovo stravolgimento. Per quanto noi possiamo tentare di arginarlo, prima o poi ci colpirà.-.
-Ghanima…-, improvvisamente sentii gelo sulla pelle, la temperatura si era abbassata a picco e mi sentii come se le mie stesse interiora fossero state annodate, -Cosa sai?-, chiesi.
Haragei… percezione oltre la percezione. La soglia del Vuoto.
-So ciò che sai tu. Che l’uomo non impara. Che noi non possiamo far altro che continuare.-, gli occhi di Ghanima incrociarono i miei. Fu uno sguardo lungo, penetrante. Occhi negli occhi, baratri allo specchio. Il Vuoto passò su di noi come un’onda. Ci legò per un istante.
Gli occhi della nera parevano biglie di ossidiana, abissi di tenebra.
-L’uomo non può far altro che continuare. Ha sempre avuto la scelta. Ma l’ha sempre ignorata. Nel tempo sono giunti altri uomini. Filosofi, sapienti, mistici. Hanno tutti cercato di elevare, di redimere, di innalzare l’umana coscienza. Hanno trovato solo ciecità e infantile brama.-, mormorò Ghanima. La sua voce sibilava. Come se stesse parlando sottovoce, nel timore di farsi sentire da qualcuno. O forse, per timore di riconoscere una verità che non osava ammettere con sé stessa.
-Nel tempo, ogni uomo ha fatto la sua scelta. Molti, troppi, hanno fatto quella sbagliata.-, mormorai. Capivo. Sentivo. Il Vuoto inghiottì le mie parole. I miei pensieri, gli istanti.
-Ora verrà un tempo da lungo atteso.-, dissi, -Non so quando. Ma giungerà. E noi dovremo affrontarlo. Dovremo affrontare l’ultima verità. Quella finale.-.
Ghanima annuì. Solenne. Su di noi, il vento parve intensificare il freddo che sentivamo dentro.
-Non riposano in pace.-, sussurrò. Io annuì. Fu con timore che la strinsi, chiudendo la distanza. E lei rispose alla stretta, con forza, come a temere di perdermi, o di perdersi.
Per un istante, un lungo istante, non fummo altro che un uomo e una donna avvinghiati, avvinti dalla speranza di poter condividere un calore flebile per difenderci dal gelo, un gelo assoluto, totale. Poi, il momento passò, com’era venuto.
Ci staccammo, piano. In silenzio.
-Giungerà.-, dissi. Era scritto.
-Saremo pronti. Non giungerà oggi.-, disse Ghanima. La sua mano strinse la mia.
Riprendemmo a camminare.
Non parlammo molto: quella nostra premonzione aveva gravato sulla nostra serenità e ci vollero ore per liberarci del senso di opprimente condanna che essa aveva portato.
Quando infine ci sedemmo a pescare, non osai proferire altre parole.
L’indomani saremmo partiti, verso una delle città di confine dell’Impero, per il nostro addio.
Donomurum ci aspettava, e con lei, la fine del mio addestramento.
E oltre, si spalanacavano per me le porte di una vita da Justicar.
Arrivare a Sebastopoli non richiese molto e sulla nave, quasi nessuno ci rivolse la parola. Notai diversi sguardi ostili, o apertamente diffidenti. Non me ne curai.
Avevamo abbandonato l’isola con l’intendo di lasciarla pronta a nuovi visitatori. Avevamo sistemato tutto ciò che si era potuto, controllato che le coltivazioni fossero pronte e Ghanima aveva preso atto del fatto che ci fossero ancora dei cinghiali sul territorio.
-Chi se ne occuperà, mentre non ci saremo?-, chiesi accennando all’orto.
-Gente fidata.-, rispose la nera, -Non tutti ci odiano al punto da non voler avere a che fare con noi.-, aggiunse mentre riempiva uno zaino. Me ne porse uno. Riempii a mia volta di materiali, bende e lenitivi, un piatta pietra da mola, un vox universale programmabile…
Sulla nave occupavamo i ponti inferiori. Molti degli altri passeggeri ci evitavano apertamente, altri ci sussurravano insulti appena udibili.
-Due uccellacci!-, esclamò un ragazzo.
-Guardali! Lo stronzo e la puttana!-, sbottò un quarantenne che pareva avvinizzato.
-E li han pure presi a bordo! Io non li avrei fatti salire!-, esclamò una donna.
-Non guardarli, figliolo. Portano sfortuna!-, disse una giovane madre prendendo in braccio il pargolo di quattro anni circa intento a osservarci.
“Non reagire.”, mi dissi mentre passavamo tra due ali di folla tutt’altro che amichevole.
“Sii consapevole. Solo consapevole.”, pensai mentre osservavo attorno a me. Non c’erano lame, ma non voleva dir nulla. Si poteva ferire e uccidere con molto meno.
Arrivammo senza incidenti alla nostra cabina e mi sedetti dopo aver posato lo zaino.
-Andare a cibarci sembra quasi un impresa.-, dissi. Ghanima, seduta come me sui talloni, annuì appena. Sprofondò in una quiete meditativa. La imitai.
Il viaggio non sarebbe durato molto, ma a Sebastopoli sarebbe stato anche peggio.
Infatti in città le occhiate della gente si mischiavano al silente disprezzo dei Praefectii.
-Non fate casini, eh?-, si raccomandò un ufficiale con folti baffi e un viso che parlava di ascendenze della steppa.
-Non ne faremo.-, promisi.
-Vedremo.-, replicò la sua aiutante, una donna dal viso volgare e biondiccia.
Ghanima non parlò e anche io preferii tacere. Non c’era nulla da dire.
Prendemmo alloggio nel vicino Tempio degli Zen-Shura. I monaci ci accolsero con cordialità e senza l’ostilità degli abitanti. Poi, la notte stessa, uscimmo.
I bassifondi erano uno slum miserevole, una periferia degradata. Ci muovevamo silenziosamente, come fantasmi redividi dal regno dell’Ade per trascinarvi i colpevoli.
Ghanima fece appena un cenno col capo. Seguii. Vidi. Un uomo, due, tre, se la prendevano con un poveraccio. Lo menavano. Quello si difendeva alla bell’e meglio, ma una volta a terra, poté solo rannicchiarsi e cercare di evitare colpi al capo o al viso.
Ghanima fece un passo indietro: toccava a me. Annuii. La mano corse alla cintola. Trovò le lame da lancio. Lanciai, senza quasi pensare. Uno dei tre, un tizio muscoloso e tatuato, si beccò la lama in un bicipite. Due secondi dopo, il biondo del gruppo, un tizio dai capelli unti e stopposi, alzò lo sguardo, in tempo per vedere l’altra mia lama trapassargli la spalla attraverso la veste e l’ultimo invece riportò un graffio sul viso.
Calai su di loro, lama in pugno. Era la mia vecchia lama, il mio coltello, quello che mi aveva accompagnato per tutto quel viaggio.
-Justicar!-, esclamò uno dei tre estraendo un coltello a serramanico.
-Ora ti facciamo il culo, uccellaccio!-, sbraitò il tatuato.
-E ce n’è un altro!-, esclamò il biondo puntando il dito verso Ghanima.
-Non guardare là. Guarda qui.-, dissi. Mi avvicinai, lama in presa convenzionale.
-Due scelte.-, dissi, -Andare e vivere, o restare e morire.-.
Il tizio a terra tossiva, sforzandosi di respirare.
-Tu a noi non ci dici cosa fare!-, ringhiò il tizio col serramanico. Era un pelato dal viso brutale.
E brutale era anche la sua tecnica: si avventò. Nessuna concezione del pericolo, nessuna tecnica, pura rabbia. Io lo fissai. Evitai l’attacco uscendo e fendendo. La mia lama entrò e uscì. Secondi, neanche. Due passi dopo, il pelato si tenne il collo leso e cadde in avanti.
-Cazzo…-, mormorò uno dei due rimasti.
-L’offerta è ancora valida. Ultima possibilità.-, dissi.
I due si dileguarono talmente in fretta da far pensare fossero atleti centometristi.
-Tutto bene?-, chiesi avvicinandomi all’uomo.
-Me la caverò… Tutto per una partita a dadi andata troppo bene…-, sorrise lui nonostante il labbro rotto e due denti in meno, -Grazie.-.
-Non ringraziarmi. È il mio lavoro.-, dissi io. Svanii verso la strada.
Ghanima mi fissò, senza emozione.
-Li hai lasciati andare.-, notò.
-Voglio credere abbiano capito.-, dissi.
-Non condivido. Ma capisco. Io non avrei avuto una simile compassione.-, rispose lei.
-Lo so. Forse sbaglio.-, ammisi.
-Forse.-, disse lei, -Ma la scelta resta tua. Hai agito bene.-.
Continuammo il nostro giro nei bassifondi, ma ormai non c’era più molto da vedere: la voce si era diffusa e la gente aveva capito che i Justicarii erano arrivati.
-Justicarii! Morite!-, ringhiò un tizio armato emergendo dalla folla impugnando qualcosa. Pistola! Spinsi Ghanima fuori dalla linea di fuoco.
La detonazione ci superò, lambendomi il viso. Fu eguagliata da uno sparo. La nera aveva estratto e sparato riposizionandosi ad arte. Il tizio armato crollò all’indietro. Colpito al petto.
-Non è letale, ma lo diventerà.-, disse la nera calciando via l’arma del tizio, un uomo caucasico dai capelli grigi e lo sguardo folle.
-No, se chiamiamo gli Hospitalierii.-, dissi. Estrassi il vox e composi la frequenza. Diedi le indicazioni del caso.
-A parti invertite…-, rantolò il tizio mentre Ghanima estraeva una benda e fasciava, -Vi lascerei crepare.-. Mi chinai su di lui, fissandolo negli occhi.
-Ed è questo che ci differenzia. Ora… chi ti paga?-, chiesi. L’uomo ghignò rosso.
-Non serve venir pagati per fare un favore al mondo. Siete dei pazzoidi, degli assassini. Dovete solo morire.-, sibilò lui. Il colorito cianotico indicava che a morire di lì a poco sarebbe stato lui. I passi in arrivo indicavano la venuta degli Hospitalierii. Ci scansammo.
Tornati che fummo al monastero che ci ospitava, parlai.
-Così tanto odio…-, mormorai. Posai le armi e ripulii il coltello. Ghanima non rispose.
-Ci odiava talmente tanto da preferire la morte…-, continuai. Finii di pulire la lama.
-Ci…-, la mano di Ghanima si posò sulla mia, piano. In silenzio.
-Lascia stare.-, disse la nera fissandomi, -Lascia stare, non cercare di capire. Non fare questo a te stesso: non ci sono risposte, né facili né giuste. C’è solo il loro punto di vista, o il nostro. Ci odiano perché sono figli di tempi in cui non sembriamo necessari.-.
-Ma dovrebbero capire…-, mormorai.
-Non lo vogliono. Credimi. È inutile provare.-, disse la nera. Sprofondai nel silenzio.
-Ti avevo avvertito.-, mormorò lei. Annuii. Sentii il suo braccio sulle mie spalle. La abbracciai.
La mia bocca cercò la sua, la trovò. Ci scambiammo un bacio, l’uno nelle braccia dell’altra.
Non era il preludio al sesso, solo un momento, un istante di tregua, una comunione.
Anime sole sul margine del vuoto.
Lasciammo la città l’indomani con le maledizioni dei Praefectii per il morto e il ferito. Non ci fermarono, ma era evidente che eravamo persone non grate.
Avevo la netta sensazione che sarebbe stato sempre peggio. Sempre più. Sino a che…
Sino a che qualcuno non avesse trovato il modo di innescare il conflitto che temevamo.
Donomurum ci accolse tre giorni di viaggio dopo. Ghanima mercanteggiò con un taverniere che pareva conoscerla. Dopo qualche minuto, avevamo una stanza.
-Sembri conoscere quel tizio.-, dissi.
-Sì. Gli ho salvato la vita e ho evitato che lo rapinassero. Diciamo che si sente in debito.-, rispose la nera mentre ci sistemavano. La stanza era bella grande, più di altre, sicuramente.
Il viso di Ghanima pareva esprimere un’emozione sottesa. Gli occhi parevano più luminosi.
-Penso che siamo arrivati al momento che aspettavamo.-, sussurrò appena la giovane.
-Oh…-, dissi io. Ero… sorpreso. E timoroso di deluderla. Lei sorrise.
-Non è un test, non temere. Vedilo più come… un gioco. Da fare insieme.-, suggerì.
-Adoro giocare…-, momorai baciandola mentre rideva. La desideravo.
La sua lingua cercò la mia. La trovò. La strinsi tra le mie braccia, ciondolando in piedi, nel bel mezzo della stanza, per un lunghissimo minuto. Poi lei si staccò, sorridendo.
-Dovremmo prepararci a dovere. È un momento speciale.-, disse.
Sorrisi a mia volta, pur non comprendendo esattamente cosa intendesse con “prepararci”.
Criptica, Ghanima estrasse un po’ di cibarie dallo zaino. Le approntò sul tavolino della saletta. Erano principalmente formaggi e pane. C’era anche una ciotola. Liquido biancastro. Mi pareva di averlo già visto…
-Un dono del locandiere?-, chiesi accennando ai cibi.
-Non solo.-, ammise lei. Mi porse del pane. Mangiammo. Piano, lentamente.
Pareva volesse ci prendessimo tutto il tempo del mondo, e a me l’idea non dispiaceva.
Finimmo di mangiare con calma. Poi ci alzammo.
-E ora?-, chiesi.
-Ci prepariamo. Tu andrai a farti una doccia. Io preparerò il letto. Poi andrò io a lavarmi e poi potremo cominciare.-, rispose la nera. Sorrisi. Capivo. Voleva che quella notte fosse speciale.
Era un dono che mi faceva, e che io avrei reciprocamente fatto a lei.
Andai a lavarmi e riemersi dal bagno dopo pochi minuti con un asciugamano attorno alle reni, che non celava peraltro la mia crescente eccitazione. Ghanima entrò nel bagno e io attesi.
Notai che sul tavolino ora c’era solo la ciotola con quel liquido bianco, e sul letto c’era un anello di materiale gommoso. Lo toccai appena. Pareva da mettere al dito, ma potevo immaginare che servisse ad altri scopi, sebbene non l’avessi mai usato prima.
L’attesa non fu moltissima, dopo una decina di minuti, che comunque passarono lenti come ore, la nera uscì dal bagno con un asciugamano bianco avvolto attorno al corpo scuro.
Un brivido di desiderio scese lungo la mia schiena. M’irrigidì pensando stupidamente che sarei venuto come un ragazzino alla prima esperienza…
-Rilassati. Respira.-, disse Ghanima con un sorriso, -Io non ho fretta. Non averne.-.
Aveva ragione: non era un incontro clandestino pagato e a tempo, né una sveltina tra due turni in carovana, e neppure il coronamento di un flirt prima di ripartire. Avevamo tempo.
Lentamente, Ghanima mi tolse l’asciugamano sciogliendo il nodo e io feci lo stesso con lei.
Non ci curammo di appoggiare i teli da qualche parte. Li lasciammo cadere. E rimasi a bocca aperta. Nonostante il corpo della bella nera non fosse certo un segreto, rivederlo era sempre un emozione e in quel caso, pareva essersi data da fare perché lo fosse anche più del solito.
A parte il fisico longilineo e magro, nonostante i muscoli che aveva (che non erano comunque tanto pronunciati da abbruttire la sua bellezza naturale) mi colpirono i capelli. Le trecce erano, lo notai ora, impreziosite con piccoli filamenti argentei. Il livido che le avevo causato si era riassorbito e anche io avevo infine potuto riprendere a respirare dal naso.
Mi colpì anche un’altra cosa: profumo, un’essenza floreale che si mischiava armoniosamente con l’odore naturale della pelle di Ghanima. Meravigliosa. Non aveva un pelo e la sua pelle pareva rilucere appena, come legno d’ebano oliato.
-Ti desidero.-, mormorai. Avevo quasi paura a parlare, per timore di spezzare la magia del momento. La nera sorrise, i denti bianchi sul viso bruno.
-Anche io. Desidero insegnarti qualcosa di raro, di prezioso…-, mormorò.
Fece un cenno verso la ciotola. La presi. Odorai. Pareva latte, forse con qualcosa di erbaceo dentro. Sicuramente sembrava un prodotto naturale, nulla di chimico.
-Cos’è?-, chiesi. Ghanima sorrise.
-Una tonico. Serve a garantire che tu sia fertile e a sostenere la tua virilità.-, gettò un occhio verso il mio bassoventre, e verso il mio sesso in erezione, -Anche se per la virilità non mi sembra ci siano problemi di sorta.-.
-Quindi è oggi…-, dissi. Parte del nostro patto includeva un figlio, e io volevo darglielo.
-Sì.-, rispose lei, -È oggi. Ho avuto il mio periodo e so di essere pronta.-.
-Le cose tra noi non cambieranno?-, chiesi temendo improvvisamente la risposta.
-Tutto cambia.-, rispose Ghanima, -Nulla perdura. E lo sai anche tu.-.
Annuii. Stavo comportandomi da idiota e lo sapevo: quella titubanza era dovuta alla paura di perdere il mio rapporto con lei, un rapporto che comunque non dipendeva interamente da me e non era in ogni caso destinato a durare per tutta la vita.
La verità era che tutte le cose, anche quelle che riteniamo importanti e imprescindibili sono solo temporanee. Dovevo far mia quella verità o la mia vita come Justicar sarebbe stata un vero inferno, anche senza i rischi da essa connessi.
Bevvi portando la ciotola alla bocca. Un sapore di latte ed erbe, acidulo ma non spiacevole. Ghanima intanto aveva estratto qualcosa dalla bisaccia. Una bottiglia più piccola, con all’interno un liquido arancione chiaro.
-Questo è per dopo.-, disse alla mia espressione interrogativa prima di baciarmi. Un bacio a fior di labbra, che cancellò ogni altra domanda.
Il nostro bacio ci portò ad avvicinarci, finché il mio sesso non fu a stretto contatto con la sua pelle, e la sentì rovente. Le nostre lingue si cercavano. Ghanima agitò appena il bacino, come a provocarmi. Le strinsi le natiche, stringendola contro di me. La sentivo rilassata.
-Sei l’unico con cui sono così.-, mormorò, -L’unico con cui posso abbassare le difese.-.
-Ghanima…-, momorai. Lei sorrise. Mi cercò di nuovo con la sua bocca, mi baciò il collo, mi baciò il petto. Le baciai il collo, le carezzai i seni, sentendo i capezzoli reagire, sfiorandola piano mentre anche le sue mani mi accarezzavano il petto e la schiena.
Tornai a cercare le sue labbra mentre le mie mani si affacendavano verso il suo ventre ma senza osare raggiungere il suo sesso, solo carezzando, paventando ciò che sarebbe venuto.
La nera faceva lo stesso, intenta a riscoprire il mio corpo in ogni carezza e ogni bacio.
Risalii piano lungo la sua schiena, accarezzandola con dita frementi, sfiorando le sue trecce.
Lei scese con una mano, verso il mio sesso, fermandosi sul pube.
Il solo contatto mi provocò un gemito e temetti di non riuscire a trattenermi.
-Controllo.-, mi sussurrò lei, -Respira. Chiudi gli occhi. Immagina di poter spingere in su ciò che senti in basso e poi poterlo far ridiscendere. Stringi i denti e i muscoli, immagina il tuo seme che viene aspirato verso la testa,e poi, una volta lì, tocca il palato con la punta della lingua e lascialo ridiscendere piano. Io aspetterò. Abbiamo tempo.-.
Chiusi gli occhi. Strinsi i pugni, i denti, irrigidii le natiche e immaginai proprio questo. Percepii la mia eccitazione diminuire mentre la sensazione fu che un fiotto di energia mi salisse lungo la colonna vertebrale sino a arrivare alla testa, dove si fermò lasciandomi un senso di… pienezza. Gemetti. La sensazione era di starmi svuotando, ma dentro di me, un orgasmo interno, contrapposto all’eiaculazione che conoscevo così bene.
-Quando inspiri l’energia sale, e il respiro scende. Quando espiri, l’energia scende e il respiro sale. Ora, falla scendere. Metti la punta della lingua a contatto col palato, chiudi la bocca e immagina l’energia scendere, guidala. Se non riesci, immaginala fondersi con la saliva, e poi inghiotti. Portala giù. Sino a qui.-, disse Ghanima toccando con un dito un punto sotto il mio ombelico.
Eseguii. Sentii qualcosa scendere insieme alla saliva. Quando la discesa giunse al punto indicato, avvertii un senso di pienezza. Sorrisi, aprendo gli occhi. Ghanima, bella come una dea e sorridente come così di rado l’avevo vista, annuì.
-Questa è la circolazione celeste.-, disse solenne.
-Wow…-. Non riuscii a dire altro. Lei mi baciò, di nuovo. Piano e poi con la lingua. Le mie mani la cercarono. Le sue mi carezzarono piano il sesso, scendendo sino al perineo.
-Questo punto è dove si fa la differenza. Se senti di non poterti trattenere, chiudi questo punto, blocca i dotti che portano il seme. E poi usa la tecnica che ho detto.-, spiegò.
Rimasi attonito. In tutto ciò, la mia eccitazione era presente, ma fisicamente parlando il mio sesso era a riposo, in lenta ripresa, come se avessi effettivamente versato il mio seme.
-È incredibile…-, mormorai baciandole i seni. Leccai i capezzoli provocandole gemiti di piacere. Lei mi accarezzò il sesso. Prese a masturbarmi piano. La mia mano scese sino al pube, accarezzò l’interno coscia, risalì sino al clito. Ci masturbammo per un minuto, gemendo appena. Il mio sesso tornò dritto e duro grazie ai suoi tocchi.
-Questo è quello che si sono persi quelli che hanno scelto di bruciare?-, chiesi.
-Sì. È una tecnica antica, lo era già quando giunse il Cataclisma. Il Fondatore la fece propria. La insegnò sostenendo che così facendo l’energia maschile e quella femminile vengono condivise e amplificate. Tu, con questa tecnica, potresti soddisfarmi dieci volte e non versare il tuo seme.-, la nera si scansò, baciandomi il petto, l’addome.
-Gli antichi ritenevano che questa fosse la strada per la longevità. La coltivazione dell’energia interiore.-, disse. Poi, le sue labbra baciarono il mio glande. La sua lingua prese a carezzarmi il frenulo. Era uno stimolo stupendo ma rischiavo di godere. Emisi un verso strozzato.
Si tolse, subito. Obbediente. Ripetei il processo. Fu più difficile, ma ci riuscii.
Lo ripetei più volte, fancendo circolare l’energia a più riprese, sino a sentirla dissiparsi di nuovo. Ghanima, inghinocchiata davanti a me, annuì piano. Poi riprese a suggermi il sesso.
-Ghany…-, mormorai usando una versione vezzeggiativa del suo nome, -Così non vale…-.
Si fermò, estraendo il mio sesso semirigido dalla sua bocca rovente.
-Come?-, chiese, sinceramente confusa.
-Stai lavorando solo tu.-, sorrisi io. Lei rise, un riso gaio e cristallino.
-Allora vieni!-, esclamò prendendomi per mano verso il letto.
Cademmo tra le coltri baciandoci. Scesi lungo il corpo della nera senza risparmiare un singolo centimetro della sua pelle dei miei baci. Mi piazzai tra le sue gambe. La sua vulva mi aspettava. Scesi a onorarla. La mia lingua costeggiò le grandi labbra, il solco tra esse, scivolò sul clitoride eretto.
Ghanima gemette forte. Ansimò.
-Così… sì… così!-, esclamò, -Bevimi, amore.-.
Amore. Una parola quasi proibita per noi, ormai. Un dono.
I suoi succhi mi inebriavano. Ebbi la percezione della sua bocca sul mio sesso. Eravamo sdraiati su un fianco, a darci mutuo piacere. La sentii rabbrividire. Il mio membro entrava e usciva da un baratro rovente, assediato da una lingua che pareva instancabile.
-Ferma…-, dissi, o mormorai. Mi sentì. Si staccò. Mi staccai. Respirai.
Ripetei il ciclo, portando l’energia verso la testa e facendola ridiscendere. Mi sentivo… bene.
Meglio di come mi sarei sentito venendo. Potevo andare avanti tutta la notte.
Mi ridistesi con lei, a gioire della danza del sesso.
Andammo avanti. A lungo. La mia lingua portò Ghanima a un’orgasmo che lei espresse in un fremito e un lungo gemito modulato. La sua bocca mi portò più volte a chiedere tempo.
Il sesso di Ghanima era bello aperto: il rosato dell’interno ben visibile e rorido, pronto al mio ingresso e l’incarnato eburneo attorno madido di succhi, miei e suoi.
Mi fermai, ritraendomi da lei. La nera mi fissò, sdraiata su un fianco, toccandosi appena.
-Esiste una versione… della circolazione, per voi? Per le donne?-, chiesi.
-Può esistere. Ma non serve. Noi riceviamo. Quando verrai dentro di me, mi darai la tua energia, i tuoi succhi conterranno la vita futura e quella presente. È per questo che non voglio che tu sprechi il tuo seme nella mia bocca o sul mio corpo.-, disse.
-Credo di capire… Ma ammetto che mi sfugge una cosa. Non è che quando verrò… il mio seme sarà… poco? Troppo poco per fecondarti?-, chiesi.
-Non sarà così. In primis per l’elisir che hai bevuto e secondariamente, perché il tuo seme è talmente concentrato ora che, a detta degli antichi, è più puro che mai. E questo è un bene. Nostra figlia sarà forte, agile, intelligente, più di molti altri, grazie al tuo controllo.-, spiegò Ghanima. Mi chinai a baciarla, piano. Mi ridistesi accanto a lei, il mio sesso abbandonato sulla sua coscia.
-Amore…-, sussurrai. Ecco. L’avevo detto. Ed era bellissimo. Rimasi in silenzio, ad ascoltare il riverbero di quel suono tra i nostri respiri, tra i nostri baci.
-Amore.-, sussurrò lei. Mi prese il sesso, piano, quasi con riverenza. Mi distesi sotto di lei.
Lei si mise sopra. Lasciò che la gravità facesse il resto. Sprofondai in lei. Lì risistere era infinitamente più difficile: le intimità di Ghanima mi accoglievano mentre la nera dettava piano il ritmo. Si fermò quando la mia espressione mostrò che stavo perdendo il controllo.
Si tolse, attendendo che respirassi, che mi centrassi, che alzassi l’energia. Poi sorrise.
-Se riesci a farlo senza uscire, hai raggiunto la mestria.-, disse.
-M’impegnerò al massimo.-, promisi. La nera annuì, spostandosi una ciocca di capelli dal viso. Eravamo entrambi scamagliati e quella maratona erotica prometteva di durare ancora.
-E io, ti faciliterò il compito.-, disse. Si sdraiò aprendo le gambe.
-Prendimi.-, m’invitò. Si toccò appena tra le cosce. Lasciva, offerta.
-Pensavo non ti piacesse.-, dissi.
-Mi piace con te. E voglio che questo nostro momento generi un figlio. In questa posizione, il tuo seme non sfuggirà, anzi, avrà più rapido accesso.-.
Mi posizionai. Mi reintrodussi in lei, percependo tutto il suo calore. Ghanima mi strinse con le gambe, mi avvinghiò con passione. Stabilii il ritmo.
-Oh… sì…-, mormorò. La sentii stringersi sul mio sesso, quasi che la sua vulva collassasse.
Continuai. Ero vicino al limite.
-Ghany…-, momorai fermandomi. Ignorare il suo calore era impossibile.
-Vuoi concludere?-, chiese lei. Scossi il capo. No. Non ancora. Mi sfilai. Mi concentrai.
Riuscire a portare l’energia in su fu un’autentica impresa. Lo dovetti ripetere più volte, finché non la sentii effettivamente diminuire, delocalizzarsi, e infine assecondare la mia volontà.
Ghanima sorrise. Si alzò a sedere. Mi baciò.
-Mi stai regalando una notte magica… qualcosa che ho aspettato per tutta una vita.-, disse.
-Sei tu a starmi donando la più grande delle gioie.-, mormorai accarezzandole il viso.
-Toglimi una curiosità… questo insegnamento… chi te l’ha dato?-, chiesi.
-Un altro membro del nostro ordine. Purtroppo nel suo caso lui si stava contenendo. Era convinto che eiaculare lo avrebbe portato a invecchiare precocemente… Ma mi regalò una notte piacevolissima.-, disse Ghanima.
Gettai un occhio al tavolo con il pane, il formaggio e una brocca d’acqua.
-Sete?-, chiese la nera, indovinando i miei pensieri.
-Tu?-, chiesi io. Lei annuì. Bevemmo entrambi. Poi ci baciammo. Non saremmo riusciti a restare lontano dal letto a lungo in ogni caso. Ricademmo tra le coltri.
Ci stringemmo fianco a fianco, limitandoci a quel contatto mentre, piano, il piacere tornava a salire. Ghanima si lasciò baciare e leccare mentre si abbandonava a un ennesimo picco di piacere. Contemplai la sua estasi consapevole di essere comunque vicino al limite. Presto sarei venuto. Volevo venire. Era stata una notte magica, sin lì, ma qualcosa mi diceva di non eccedere con il controllo. Sentivo nel ventre come una palla rovente.
Mi rimisi in posizione. Ghanima mi accolse nuovamente. Le sue pieghe roventi si spalancarono al mio passaggio. Ancora e ancora.
I nostri gemiti divennero il solo suono.
-Non trattenerti…-, sussurrò lei, ansimante, -Sono pronta.-.
E perché no? Mi ero contenuto, avevo goduto di quell’estasi per un tempo lunghissimo. Potevo accettare di concludere. Affondai ulteriormente in lei. Colpi rapidi e poi più lenti e profondi, fino in fondo, finché i nostri bacini non collisero. Uscì quasi interamente e rientrai. Ancora.
A ogni affondo, Ghanima si inarcava verso di me.
-Ora…-, momorai. La nera si avvinghiò a me, le cosce che mi strinsero a sé. Mi distesi su di lei, le sue braccia che mi avvolsero come viticci di una pianta carnivora. Ero ben lieto di esser preda, in quel momento. Affondai ancora, sfrutttando tutto lo slancio del bacino.
Sentii l’orgasmo prossimo. E anche lei era prossima a godere.
Mi ritrassi e affondai, sforzandomi di arrivare sino in fondo prima che le pulsazioni del mio sesso giungessero ad annunciare la mia venuta.
-Oh ca…-, iniziai. Ghanima mi strinse a sé con le braccia, mi affondò le unghie nella schiena, spinse il bacino contro il mio, mi morse il collo, mentre il mio seme eruttava in una serie di scariche folgoranti. Una, due, tre, quattro, cinque vampate. A ognuna, sentii la nera inarcarsi contro di me, quasi che volesse riceverle meglio. Fu un orgasmo talmente devastante da strapparmi al pensiero cosciente.
-Tutto… tutto…-, ansimò Ghanima, stringendomi forte mentre mi svuotavo dentro di lei.
Ci abbattemmo sul letto, fulminati, l’uno nelle braccia dell’altra, respirando a fatica, i cuori impazziti. Solo dopo un tempo che non seppi quantificare, mi mossi, rotolando via da Ghanima, al suo fianco.
-È stato… incredibile.-, mormorò la nera fissandomi con occhi che conseravano l’eco dell’appagamento.
-Tu sei stata incredibile.-, dissi io accarezzandola. Lei si portò la mano al ventre, la mia destra.
-Sono sicura che il tuo seme germoglierà nel mio giardino.-, sussurrò. La baciai.
Ci addormentammo così.
L’indomani facemmo colazione con ciò che lei aveva portato.
Sapevo che era giunto il momento della separazione. Il mio apprendistato era completo.
Ora era giusto che prendessimo strade diverse.
-Se sarai ancora vivo tra un anno, vieni sull’isola.-, disse Ghanima abbracciandomi un’ultima volta, -Mi troverai lì.-.
-Non mancherò.-, promisi. Lei mi diede un’ultimo involto di tessuto.
-Questo è per te.-, disse. Un Tantō, il suo. Capivo. Il ruolo di Ghanima Buenariva era cambiato. Era una madre. Non poteva più combattere, per ora.
L’avrei dovuto fare io per lei. Affinché nostra figlia vedesse la luce, e apprendesse come camminare sulla via dei Justicarii. Lo infilai alla cintura. Ero pronto.
-Ci rivedremo. Che gli déi ti proteggano.-, dissi.
-E che proteggano te.-, rispose Ghanima con un sorriso. Un ultimo bacio e si voltò, verso la locanda. Io volsi le spalle.
Abbandonai la città. Sapevo dove sarei andato. Verso il deserto.
grammaticalmente pessimo........
Ciao Ruben, sei un mito! Hai un modo di scrivere che mi fa eccitare! La penso esattamente come te. Se…
Ti ringrazio, sono felice che ti piacciano. Vedremo cosa penserai dei prossimi episodi, quando si chiuderà anche la sottotrama di…
Davvero molto bello. Piacevole come gli altri e decisamente pregno di sentimenti espressi senza risultare melensi o ripetitivi. D'impatto leggiadro,…
Come ti ho detto, in pochi e poche sanno sa scrivere in maniera così eccitante sia dare un senso ad…