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Nota per i lettori: il seguente racconto si rifà alla Caduta, è ambientato in un futuro distopico.
Ci sono scene relativamente prive di sesso, ma la pazienza viene sempre ricompensata.

Erano passati trecento anni da allora. Trecento anni da quando Aristarda Nera e Amsio Calus avevano insieme sancito la fine dell’Impero di Licanes, dando vita alla Confederatio Licanea. Ormai era storia da mito.
La pace aveva ripreso a regnare sulla terra, e la meravigliosa tecnologia dell’Impero ora era comune ai quattro angoli del globo. In tutto questo, la legittima domanda che sorgeva alla mente era: “c’era ancora bisogno di soldati?”.
Le Legiones Imperialis e i loro auxiliarii, tra cui le leggendarie Virageae erano state ridimensionate in unità più piccole e specialistiche, nessuna veramente caratteristica. La Guardia Victrix dell’Imperator era stata abolita, una logica conseguenza della fine dell’Impero.
Non era stato tutto privo di contrasti: c’era stata una breve ma sanguinosa guerra civile tra Trivulsio Emio, Governatore di Sarmatia e Hinadrio Sejurio, delle Insulae Japonicae. Giunto al termine quel conflitto, la Pax Licanea, il benessere e la prosperità avevano abbracciato il globo, salvo poche regioni che avevano volutamente scelto di non aderirvi.
Pace. I nostri avi avrebbero pianto al pensiero di ciò che ora si stagliava davanti ai miei occhi.
Avrebbero capito?, mi chiesi mentre osservavo la città e le sue splendenti luci.
Forse no: erano uomini e donne nati in un tempo in cui ancora era stato forte il richiamo della gloria e della conquista.
Molti di loro, al proclama di Calus e di Aristarda, non si erano arresi. Avevano imbracciato le armi e insanguinato l’Impero con un conflitto di altri due anni, una purga che infine era giunta alla sua conclusione.
Al termine di quella purga, la pace. Ambasciatori avevano sparso la parola della nuova era, prodigi tecnologici erano stati portati in dono a popoli estranei e barbari, i quali, affascinati, avevano fatto lieto atto di alleanza.
Quel che la spada non poté conquistare in millenni, fu la conoscenza a ottenerlo. E qui, si pose un ulteriore problema.
I Justicarii. L’ordine di guerrieri erranti, giustizieri e materia di leggende, era ormai inutile?
L’ordine non aveva sede: i suoi membri vagavano tra le lande del mondo, mettendo le loro lame al servizio di chi non aveva difesa, punendo i malvagi laddove era impossibile che la giustizia giungesse se non per divina intercessione.
Ma ora, con l’intero, vasto mondo avvolto da una pace come neppure prima del Cataclisma era stato posssibile, molti vedevano i Justicarii con paura, a volte con sospetto. A cosa potevano servire uomini e donne simili?
La giustizia era amministrata dai Tribunalia, sancita da diritto di Licanes e ulteriormente rinforzata dal duro braccio della legge: i Prefectii. In tutto ciò, i Justicarii erano una vista poco gradita, un incognita che sfuggiva al controllo.
Un incognita che pareva ammantata da fuensti presagi. Non ci volle molto perché in molti cittadini ma anche governatori di città e prelati, vedessero nei Justicarii i messi della catastrofe.
Osservai la città, di nuovo. Ero lontano, su una delle alture strategicamente lasciate alla vegetazione.
Il mondo stesso stava riprendendo a fiorire. La città fremeva di vita. Era… bella.
La pace, aveva portato i suoi frutti, ma, per quanto piacesse a tutti credere che quei frutti fossero eterni, io ero sin troppo conscio che non fosse così. Passi in avvicinamento mi distrassero dalla contemplazione. Mi voltai.
-Justicar!-, ringhiò una voce da sinistra. Emerse dalle ombre e dai cespugli, -Justicar!-.
Non ero un fantasma. Qualcuno mi aveva visto in città, o poco distante e forse, lo stesso qualcuno aveva deciso di rivolgersi alle autorità, sincerarsi che io non causassi guai.
-Sono qui.-, risposi, tediato, -E ho un nome, come te, Prefecto.-. La cappa nera in sintopelle mi avvolgeva, celava l’impugnatura della lama ibrida che avevo alla cinta e nascondeva le mie dimensioni. Di contro, la corazza bianco-blu del mio interlocutore era totalmente intesa a non celare nulla: torace ampio avvolto dalla corazza in polimeri, fiancale per le cosce, manganello e storditore elettrico, arma a proiettili solidi alla cintola, scudo energetico personale alla cintura. Viso massiccio e sudaticcio. Poco avvezzo all’esercizio fisico, avrei detto, anche a dispetto del tono muscolare.
-Non puoi stare qua fuori. L’altura 231 è territorio botanico preservato ad eternam memorandum dall…-, il Prefecto iniziò una lunga sequela di accuse, lemmi e altro. Salamelecchi giuridici che potevano essere riassunti in: “Non hai alcun diritto a stare qui né altrove.”. Lo fissai. Non era un uomo malvagio, lo vedevo. Stava facendo quello che pensava essere il suo dovere, paradossalmente convinto che io rappresentassi chissà quale occulta minaccia quando in realtà…
In realtà le minacce, io lo sentivo, lo sapevo a un livello quasi istintivo, erano altre.
-…Dunque spicciati a levarti di qui, oppure…-, continuò il Prefecto.
-Oppure…-, ripetei io. Ero allibito. Ero l’erede di una tradizione di guerrieri che avevano combattuto ed erano morti per quel mondo pacifico. A migliaia non avevano ricevuto che una tomba anonima, una buca senza altro riconoscimento che la propria lama infissa nella nuda terra, per difendere quell’ideale. E ora…
Ora i figli del tempo per cui i miei predecessori avevano lottato venivano a cacciarmi, a minacciarmi…
-Oppure dovrò fare ricorso a…-, s’interruppe. Forse improvvisamente capì che da solo avrebbe avuto qualche problema a tradurre in pratica le sue minacce. Ero già mezzo in tensione. Non volevo uno scontro con un Prefecto, ci sarebbe mancato solo questo per rendere me, e gli altri Justicarii, dei ribelli da braccare. Era pur vero che non c’eravamo lontani.
-Il prelato Strabonio ha nuovamente parlato dell’inutilità e del pericolo che rappresentiamo, vero?-, chiesi. Silenzio.
Sì. L’aveva fatto. Mi chinai. Raccolsi una manciata di terra secca tra le dita. Non pioveva da parecchio.
-I miei predecessori hanno dato tutto, affinché quest’era giungesse, Prefecto. Io, coloro che verranno dopo di me e di te, tutto ciò che seguirà questo momento, sarà modellato dalle mie parole e dalle tue azioni. I Justicarii possono sicuramente essere di minore utilità ora, ma non sarà sempre così.-, dissi lasciando che la terra scivolasse via dalle dita.
-Vuoi un’altra guerra, vero? Un bel massacro in cui coprirti di gloria, vero?-, sibilò il Prefecto.
-Voglio solo che tu capisca che non sono tuo nemico.-, ribattei. Lasciai ricadere le mani sui fianchi, sopra la cappa.
-Te ne devi andare. Quelli come te sono una maledizione di cui non c’é più bisogno. Siete il passato.-, rispose l’uomo.
Aveva la mano sul manganello, ma non lo stringeva. Posizione puramente accademica, minaccia studiata.
-Confido che mi concederai asilo presso la città di Camunodunom solo per questa notte, Prefecto. Dopodiché sarò lieto di lasciarvi, alle prime luci dell’alba.-, dissi voltandomi verso il sentiero. Per me, il dialogo era finito.
-Se sarai ancora in città dopo il sorgere del sole…-, minacciò a vuoto lui. Continuai a camminare.

Camonodunom era una città relativamente nuova. Costruita sulle rovine dell’antica catastrofe scatenata durante la Guerra Civile che aveva messo fine all’Impero, sprizzava di nuova vita, di possibilità. I veicoli a-grav sfrecciavano nel cielo, pochi mezzi per ricchi. I poveri e i diseredati, andavano a piedi, o sulle vecturae a sospensione se ne possedevano.
Gli edifici svettavano. Solo i templi degli déi erano bassi, un modo studiato per ricordare all’uomo l’umiltà nei confronti del divino. La folla mi si apriva davanti, mi fissavano con timore e odio.
-Justicar… maledetti corvacci!-, esclamò qualcuno. Non mi voltai. Qualcuno sputò. Ignorai.
“Non reagire.”, mi dissi, “Non puoi farlo.”. Qualcuno ingiuriò. Il fatto che non reagivo diede coraggio a uno di loro di pararmisi davanti. Un giovane di almeno dieci anni in meno di me. Puzzava di vino da due soldi.
-Vattene via, bastardo in nero! Non sei il benvenuto qui!-, biascicò spintonandomi col solo risultato di incespicare.
Si preparò a tornare alla carica. Evasi con un passo, scivolando oltre la spinta. Lo sentii cadere a terra lamentandosi.
-Bastardo! Va via!-, mi urlò l’ubriaco. Altri ripresero il grido. Mi fermai. Improvvisamente tutti loro tacquero.
Ora avevano paura. Paura di aver esagerato. Paura di me.
-Sto già andandomene.-, dissi, a voce tanto calma da apparire surreale. Dentro di me ero esausto.
Era così da quando avevo finito il mio addestramento. La mia maestra, Monica Alba Prisca, mi aveva insegnato il valore della sopportazione, mi aveva detto che al mondo non servivano eroi. Non più. Ma io… ero uno sciocco idealista.
Due mesi di vagabondaggio e un combattimento contro alcuni banditi in procinto di stuprare una viandante dopo, il mio idealismo era sprofondato in un pozzo nero. Al mondo non servivano eroi. Nessuno li voleva.
Superai la via, ignorando la folla. Altri si scansarono dal mio cammino. Giunsi alla destinazione. Un piccolo santuario, inghiottito dalla metropoli. Sull’insegna, un cerchio dipinto a inchiostro e una dicitura in caratteri non licanei.
Giunsi le mani al petto. Gasshō, saluto universale, ancestrale. Attesi. Il cancello si aprì. Un monaco mi guardò. Avvolto nelle vesti blu dei monaci Zen-Shura, il cranio rasato, aveva almeno cinquant’anni, stimai.
-Pace, nobile monaco. Chiedo asilo.-, dissi con un inchino.
-Pace, nobile viandante. Asilo ti sia dato. Seguimi.-, disse mentre entravo. La corte interna, un cortile con diversi alberi e fiori, trasmetteva un senso di serena pace. Monaci meditavano in posizione seduta in una sala visibile dalle finestre aperte per difendersi dal caldo estivo.
-Il Monaco Hetsamine ti condurrà agli alloggi.-, disse il monaco indicando un novizio di diciannove anni.
-Vi ringrazio.-, dissi con un saluto gasshō rivolto al giovane che rispose subito.
-Seguitemi.-, disse lui. Lo seguii. Arrivammo alla stanza. Spartana era dir poco: una stuoia per dormire e null’altro.
-Desiderate del cibo?-, chiese il giovane. Aveva un viso attento. Per lui dovevo essere una gradita novità dalla routine.
O forse era proprio il fatto che io fossi il primo Justicar su cui posava gli occhi.
-No, ti ringrazio.-, dissi, -Desidererei sapere se in città va tutto bene.-.
-Oh, i Prefectii hanno arrestato alcuni trafficati di droga, è stato detto. Madia Lusilla, la moglie del Governatore, ha inaugurato il Parco delle Espreiadi, lo potrete visitare, e sembra sia stata sventata una rapina a un aurofactor.-, disse il giovane. Io sorrisi, nonostante capissi che questo significava riprendere a vagare all’indomani.
-Sei molto informato.-, dissi.
-I miei maestri mi richiedono di fare alcune commissioni fuori dal tempio. Voi… siete un Justicar, vero?-, chiese.
Pronunciò il nome come se fosse stato magico, una parola di potere.
-Lo sono.-, dissi. Lui sorrise.
-Chissà quante avventure avete visto! Non voglio tediarvi, ma sicuramente la vostra vita è…-, lo interruppi con un cenno, garbato ma fermo.
-Ho visto… molto. Ma molto di ciò che ho visto non è adatto a parlarne. E non vorrei che i tuoi maestri o la gente si facessero pessime idee. Il mio ordine ha già una reputazione malsana.-, dissi.
-Malsana?-, chiese il novizio, sgomento, -Come? Voi siete degli eroi.-.
-Forse lo fummo.-, risposi io mesto, -Forse lo fummo.-.
Ora cosa eravamo?

Uscii di nuovo, portandomi la borsa. Inutile dire che la folla non era lieta di vedermi.
-Justicar! Sparisci! Qualcuno chiami i prefectii!-, esclamò una donna.
-Non temere, nobile signora.-, dissi fissandola. Non era brutta, ma le mani piene di calli e la postura gobba facevano intuire che non fosse riccca, -I prefectii già sanno. Domani all’alba me ne andrò.-. Stavo per oltrepassarla quando lo vidi. Un uomo, correva. Spinse la donna mentre con un gesto fulmineo le strappava la borsa a tracolla.
Agii senza pensare: mi lanciai all’inseguimento. L’uomo era veloce e conosceva la città. La mia mano corse alla cintura.
Afferrai le bolas. Impressi il movimento rotatorio mentre la folla si apriva e qualcuno invocava i Prefectii.
Lanciai. Le sfere colpirono l’uomo alle caviglie, avvinghiandosi alle gambe. Cadde. Io lo raggiunsi.
Era un ragazzo macilento, povero in canna e vestito di stracci.
-Maledetto!-, sibilò sputando e mancandomi mentre gli toglievo la borsa di mano.
-Sì, me l’hanno detto.-, dissi io mentre recuperavo le bolas. Erano un’arma atipica ma funzionale. Idonea quando uccidere non serviva. A parte il dolore e le mani spellate dalla caduta, il giovane stava bene. Gli gettai una moneta.
-Fila via. I Prefectii non saranno così indulgenti.-, gli ingiunsi. Non se lo fece ripetere.
Alla fine, anche quel ragazzo era una vittima. Certo, la moneta che gli avevo dato era la mia… Soldi in meno per me.
Riportai la borsa alla donna mentre i Prefectii, due, giungevano.
-La situazione è sotto controllo.-, dissi mentre la donna controllava la borsa.
-C’é tutto?-, chiese uno dei due senza togliermi gli occhi ostili di dosso.
-Sì.-, disse lei. Mi fissò con un mix di stupore e disprezzo solo mitigato, quasi avesse temuto che io avessi potuto tenermi la borsa.
-Il nostro intervento allora è terminato.-, disse uno dei due Prefectii. Una donna, bionda e muscolosa.
Nessuno dei due mi toglieva gli occhi di dosso. Non avevano nulla per accusarmi, ma avrebbero voluto poterlo fare.
Io mi limitai a passare oltre.

Il quartiere di Solaris era a tutti gli effetti il lato oscuro di Camonudonum.
Era un quartiere che poteva essere definito come dedito alle pratiche più licenziose. Berci da ubriachi emergevano da una taverna, dadi rotolavano sui tavoli, soldi passavano di mano tra imprecazioni, scongiuri e giubilo.
Qualcuno mi notò ma, una volta tanto, non ci fece troppo caso. Erano tutti troppo presi nei loro vizi.
Approdai a una taverna. Una mezza dozzina di clienti sorbivano sbobbe varie.
Mi appoggiai al bancone.
-Justicar.-, disse l’oste. Ostile al minimo, se non altro.
-Sì.-, non negai. Poggiai tre monete con l’effige di Amsio Calus sul bancone. Erano una delle due valute mondiali, la seconda era criptata e informatica, astratta ma una sola unità di quelle valeva venti monete comuni. Le prese.
-Cibo.-, disse l’oste. Pareva un po’ lento. Aveva la faccia di uno che non s’interessava a parlare. Sparì nel retro. Tornò con una ciotola fumante e un bicchiere. Li presi. Mi feci largo fino a un tavolo in ombra.
Presi a bere la zuppa. Era composta di vegetali sintetici, roba dozzinale. L’acqua sapeva di ferro.
Il trambusto improvviso che scoppiò fu un turbine: un uomo grassoccio litigava con una donna alta dalla carnagione caramello in vesti di seta. Riconobbi il tipo: lei era una prostituta. Ufficialmente la prostituzione era legale nei territori imperiali, e Camunodunom ne faceva parte. Lui pareva il classico pappone, o forse un cliente. Risuonò un ceffone. La donna ora giaceva per terra e l’uomo la ingiuriava.
-O ci vai, oppure domani sei in mezzo alla strada, chiaro?!-, sbraitava.
-Chiedo scusa.-, dissi poggiandogli una mano sulla spalla. L’uomo si voltò. Sbiancò. La mia mano era sul coltello.
Stavolta, non era una minaccia. Odiavo la violenza sulle donne.
-Stanne fuori, Justicar! La troia lavora per me!-, riuscì a esclamare lui.
-Lavora? Quindi ha scelta?-, chiesi. Fissai la ragazza. Capelli scuri con zone bionde le scendevano sulla schiena.
Aveva un tatuaggio sulla coscia. Notevolmente ampio, ma non volgare.
-Se non lavora non mangia! Funziona così.-, rispose l’uomo mentre la giovane singhiozzava.
-La prego…-, mugulò. Io la fissai. Annuii. Sguainai il Tantō. Lama in acciaio da 15 centimetri, curva in senso opposto all’impugnatura munita di anello alla fine. Arma ibrida, ma ancora temibile. Il grasso se la trovò alla gola.
-Vattene. Ora. Lei viene con me.-, sibilai.
-Ti faccio scannare, Justicar!-, ringhiò lui. Stava tremando.
-Non fare promesse che non puoi onorare.-, dissi io. Lo spinsi via. Aiutai la giovane ad alzarsi.
-Non finisce qui!-, esclamò l’uomo mentre si dileguava sotto lo sguardo dei pochi passanti interessati. Lo ignorai.
La ragazza mi fissò. Occhi neri e viso piacevole. Era bella. Aveva più o meno la mia età, circa trentatré anni dunque. Era poco più alta di me, ma poteva essere per via dei tacchi che indossava.
-Come ti chiami?-, chiesi mentre mi ringraziava.
-Nyomi.-, disse,-Grazie… io… grazie!-.
-Nyomi?-, chiesi, -Non è un nome licaneo.-.
-Non lo sono. Vengo dalle Insulae di Merak.-, disse. Annuii. Erano terre lontanissime note solo come luoghi mitici. Solo di recente gli ambasciatori di Licanes avevano portato la prosperità e la conoscenza in quei luoghi remoti. La giovane era bella, ma parlava con un accento sfuggente che rendeva le sue parole dolci e musicali.
-Hai un posto per la notte?-, chiesi. Lei scosse il capo. Io sospirai.
-Dovevo andare… a tener compagnia ad alcuni affaristi… -, disse.
Annuii. Nulla di preoccupante. Ma d’altro canto.
-Non ci volevi andare.-, dissi. Lei mi fissò.
-Uno di loro… È uno sfregiato. Discutono di vendere donne e uomini…-, mormorò. Gli occhi espressivi e grandi, le si stavano nuovamente riempiendo di lacrime. Annuii. Capivo. E decisi.
-Fai strada.-, dissi.

Lo scantinato era un luogo abbietto, il sottoscala di un complesso abitativo popolato da miserevoli e drogati. Nyomi mi guidò sino alla porta illuminata. Bussai.
-Vattene, accattone!-, ringhiò qualcuno da dentro, -Qui non c’è niente per te.-.
Estrassi il grimaldello. La serratura cedette. Impugnai il Tantō, impugnatura riversa, indice nell’anello di coda. Entrai trovandomi davanti un mucchio di monete su un tavolo, attorno a cui il terzetto sembrava intento a parlare. Si erano alzati all’unisono.
-Chi diavolo sei?-, chiese uno di loro estraendo una lama a serramanico. Anche gli altri estrassero.
-Il vostro incubo peggiore.-, risposi. Mi lanciai sul primo evitando l’attacco. Il mio fendente giunse a bersaglio. Il secondo cercò di sfruttare il momento ma gli andò malissimo e si trovò la mia lama nel petto. L’ultimo riuscì a sferrare il suo fendente. Mollai la lama scansando la sua con un colpo della mano, devidando il fendente e applicando una leva imprevista. Torsi il braccio verso l’interno, assecondando il suo impeto ma ridirigendolo.
L’ultimo malvivente, lo sfregiato menzionato da Nyomi, osservò stupefatto la sua stessa lama conficcata nel suo petto, ancora stretta nella sua mano. Cadde a terra. Nyomi osò affacciarsi sulla soglia. -Sono…?-, chiese.
-Morti.-, risposi, -Non ti faranno del male. Non faranno più del male a nessuno.-.
-Quanti soldi…-, sussurrò lei fissando il mucchio di monete. Erano moltissimi Calus, almeno ottocento monete del valore da 5 Calus l’una. 4000 Calus totali.
-Prendi una delle loro borse. Io ne prenderò solo duecento. Mi basteranno per tirare avanti.-, dissi. Lei sorrise. Praticamente in un colpo solo la sua vita era svoltata, totalmente.
-Sei sicuro?-, chiese. Io la fissai.
-Sì, Nyomi. Noi Justicar non abbiamo bisogno di molto.-, dissi.
-Justicar? Pensavo foste… morti.-, disse lei. Io sospirai.
-Molti lo credono. Molti altri lo vorrebbero.-, ammisi.
-Cosa farai, ora?-, chiese lei. Si era seduta sul divano, attenta a non pestare le macchie di sangue o i corpi e contava i soldi a mano a mano che li trasferiva in una borsa.
-Lascerò Camunodonum.-, risposi, -E forse troverò un posto dove la mia lama possa essere di aiuto come lo è stata a te.-. Lei annuì, solenne. Uscimmo, ci ritrovammo sulla strada. Presto qualcuno avrebbe ritrovato i corpi, i Prefectii avrebbero indagato. Lei si fiondò in una taverna. Pagò una stanza, trascinandomi con sé. La seguii fino alla stanza, piccola e senza troppe pretese. Si avvicinò a me, con la sua veste che lasciava scoperte le cosce e le braccia. Bellissima. Io intuii. Non ero nuovo al sesso, ma era passato molto dall’ultima volta.
-Nyomi, non devi per forza farlo. Non voglio che tu ti senta in dovere di ripagarmi col sesso.-.
Lei sorrise, guardando i miei calzoni da cui si evidenziava la protuberanza del mio membro eretto. Mi fissò.
-Non lo faccio perché devo. Non mi stai obbligando. Lo faccio perché voglio. Tutti gli altri se ne sarebbero fregati di me. Una puttana in più o in meno… cosa importa? Ma tu hai scelto diversamente. Quelli come te sono pericolosi, credo. Ricordano alla gente che la pace non è sinonimo di giustizia.-, disse. Poi mi aprì i calzoni, estrasse il sesso impugnandolo.
-Nyomi, io…-, lei mi fece cenno di tacere. Io sentii il suo fiato caldo e poi la bocca rovente che mi avvolgeva. Fu devastante. Dopo mesi di astinenza, l’idea del sesso tornò con tale prepotenza da vanificare il controllo, finanche il più rigido che potessi avere.
-Mmmmh-, fece la giovane mentre s’infilava l’interezza del mio sesso in bocca. Con una mano mi prese un polso, posandosi la mia destra sulla testa. Un invito.
-Aahh…-, esalai io. Controllo, avrei voluto avere più controllo, poter prolungare quell’idillio.
Ma non ci riuscivo: il mio corpo rivendicava la propria superiorità e il proprio diritto al piacere.
E anche Nyomi non aiutava: sospinta dalla mia mano che dettava un ritmo incostante, assaliva il mio sesso come la risacca di un oceano rovente e dolcissimo, sfruttando la lingua per giungere ai punti più sensibili, con l’altra mano andando a massaggiare piano i testicoli.
-Nyomi…-, rantolai, -Io…-, non riuscii a continuare: la sentii spingersi ancora sino in fondo e poi la pulsazione del mio sesso preannunciò il mio orgasmo. Le godetti in bocca con un gemito gutturale, liberatorio. Lei sorrise e, dopo aver leccato e ripulito il pene sino in fondo, ingoiò alzandosi mentre mi ricomponevo. Mi sentivo leggermente dispiaciuto.
-Era troppo tempo…-, mormorai in tono di scuse.
-Va bene così, dopo quello che hai fatto oggi per me, potresti restare per almeno sei giorni in mia compagnia.-, disse lei con un sorriso, -Se tornerai a Camunodonum avrai sempre un letto, e me dentro ad aspettarti.-.
-Nyomi…-, dissi, -Io… non so se farò ritorno.-.
-Allora dovresti considerare di fermarti con me.-, disse lei. Si tolse l’abito. I capezzoli e i seni furono lesti a emergere, erano grossi capezzoli scuri su seni piacevolissimi e rotondi. Mi prese la mano, portandola sul seno destro. Mio malgrado ero stupefatto da tanta bellezza.
-Non sei sempre stata una prostituta.-, dissi mentre il vestito calava rivelando l’addome definito e dei tatuaggi di cui ignoravo il significato.
-No. Nel mio paese, Cubha, ero una delle Danzatrici. Onoravamo le divinità ballando. Poi… Poi il nostro sovrano decretò che l’accordo con gli eredi di Licanes fosse suggellato da matrimoni, tra cui il mio. Fui sposata a un vecchio per due anni. Mi portò qui, e morì. Nessun’altro mi volle come moglie ma come amante sì e il resto… l’hai visto.-, disse.
La veste intanto le era caduta attorno alle caviglie. Notai la vulva rasata, non esattamente indifferente alla prospettiva del piacere. Nyomi sorrise. Si staccò un attimo per scomparire nell’attiguo locale bagno e farsi una doccia. Io mi spogliai e la feci a mia volta.
Mentre l’acqua mi scorreva addosso ripensai a tutte le parole di Nyomi e a quanto accaduto.
Pax. Era quella la Pace? Era quello il futuro ideale? No. Non ci credevo proprio.
L’assenza di guerra non significava il trionfo della concordia e della pace.
La verità era che la pace aveva semplicemente permesso a nuovi tipi di oppressioni di manifestarsi. Forti della protezione dei potenti, si muovevano senza indugio.
-Vieni…-, mi chiamò la sua voce. Terminai di lavarmi. Rientrai nella sala, vedendola sul letto, distesa su un fianco. Una magnifica bestia da sesso, ma soprattutto, una donna che aveva sopportato un trattamento terribile, un matrimonio iniquo e ora quella condizione in nome… di cosa? Era pace? No. Era il trionfo ultimo dell’ipocrisia. Mi avvicinai sentendo il sesso che rivendicava nuovamente una consistenza. Lei sorrise. Io sorrisi a mia volta. La baciai sulle labbra, lasciando che la mia lingua giocasse con la sua.
Non sentii il mio sapore. Si era ripulita durante la breve sosta.
Ma mentre la accarezzavo, facendola gemere piano mentre la mia lingua vezzeggiava i seni e scendeva lungo l’addome sino alla vulva, pensai che non riuscivo a trovare risposta. E che i Justicar erano necessari in quel momento più che mai.
Le baciai la vulva piano, trovando la preziosa perla del clitoride sino a strapparle un urletto di godimento. La sentii inumidirsi e aprirsi.
-Ti voglio sentire dentro…-, sussurrò lei, sognante, mentre dirigeva la mia testa verso di sé.
Mi tolsi. Anche io ero pronto. Il mio sesso era eretto. Lo guidai con la mano e affondai in Nyomi che gemette piano a sentirmi dentro sé. Mi strinse a sé mentre andavo e venivo, ancora e ancora. Ci scambiammo boccate di saliva e sussurri, parole appena mormorate.
Era un estasi stupenda: affondavo avanti e indietro nel sesso di Nyomi che pareva rimpiangere la mia momentanea assenza tanto da contrarsi. Baciavo la sua bocca, il suo collo, i suoi seni superbi e lei mi mormorava parole e frasi smozzicate mentre la possedevo.
La sentii contrarsi nel suo orgasmo, uno spasmo che strinse il mio sesso con forza insospettabile, tanto quanto lei strinse me a sé mentre gemeva godendo.
Il suo orgasmo rischiò di scatenare il mio. Lei lo sentì e mi mormorò di non venirle dentro.
Naturalmente, non voleva un figlio, non uno che non potesse mantenere degnamente. Mi sfilai. Nyomi mi prese rapacemente il sesso e si dispose in modo che la sua bocca fosse invasa dal suo membro mentre la mia lingua si affacendava sulla sua vulva.
Godetti nuovamente sentendola gemere per un secondo o forse un terzo orgasmo.
Tornato al tempio dopo essermi lavato, potei addormentarmi, ma prima mi permisi di considerare la situazione. Nyomi aveva detto il vero, la Pax… non era pace. Era apatia.
E come tutti i sistemi apatici, prima o poi sarebbe andata in pezzi. Tutto ciò che avevo visto confermava quell’ipotesi. Respirai piano, meditando secondo gli insegnamenti dell’ordine.
Per allora, sarei stato pronto. Andai a dormire. L’indomani lasciai Camunodonum con il ricordo di Nyomi nel cuore e la consapevolezza del mio ruolo scolpita nel mio animo.
Mi sarei diretto verso le altre città dell’Impero.

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